Ricordo come fosse ieri quando, più o meno una quindicina di anni fa, lavorando tra i tavoli di uno dei ristoranti più cool dell’epoca a Pozzuoli, La Fattoria del Campiglione, non di rado mi capitava di aprire signore bottiglie, a volte in una sequenza e con una costanza che avrebbero fatto imbarazzo anche alla migliore “cantina” d’Italia.
Tra i vini più gettonati vi erano immancabili alcuni tra i nomi già allora storici dell’enologia italiana e gli immancabili SuperTuscan che vivevano, forse, il loro momento top: Sassicaia, Ornellaia, Solaia e i vari figli di un “aia” superiore sembravano lanciatissimi in un’ascesa inarrestabile, e con i vari Gaja e Biondi Santi – come se l’uno e l’altro producessero un solo unico vino di inestimabile valore – sembravano assurgere a pane vino quotidiano, la bottiglia da non far mancare sulla tavola, lo status symbol da sbattere in faccia ad amici enogastrofanatici o come talvolta accadeva, più semplicemente un classico e banale sciovinismo di ignoranti enosboroni alla ricerca di alcol e tannini per allungare la bottiglia di coca-cola da un litro.
Nel mezzo di tutto questo marasma enoico, tra il dire fantastico ed il mio illibato diletto da provetto sommeliericchio, ci capitavano di tanto in tanto una o due bocce di tal Quintarelli Giuseppe o del suo mite ma ambizioso allievo Romano Dal Forno: erano quelli, momenti di gran confusione frammisti però alla tangibile percezione di stare maneggiando nettare ieratico a cui mai avevo avuto accesso prima di allora, e non sapevo, puntualmente, dove andare a parare per avere un riferimento utile degustativo per meglio comprendere l’intensità, l’opulenza e la profondità che questi vini erano capaci di scatenare, al naso come al palato; poi, nel tempo, capii che non ne esistevano, probabilmente erano proprio quelli dei nuovi a cui guardare.
Di Romano Dal Forno e del suo maestro Quintarelli non oso nemmeno scrivere due righe, ma solo perchè nonostante le belle esperienze sensoriali successive agli esordi appena descritti, maturate tra l’altro con una coscienza sempre più ferrata in materia, non ho avuto ancora l’onore di toccare con mano le loro realtà, pertanto, speranzoso di camminare nuovamente quelle terre per finalmente colmare questo vuoto, vi rimando a questo bellissimo ed esaustivo pezzo di Roberto Giuliani che trovate su LaVINIum, leggerlo vi aprirà la mente su una storia, quella di Dal Forno, che oggi è sì leggenda, ma che ha origini ancora più suggestive.
Dove invece ci metto volentieri la bocca è su questo straordinario vino, il Valpolicella Superiore Monte Lodoletta 2004, quest’anno assaggiato, tra i tanti, in più di una occasione; sorpresa delle sorprese, l’altra sera con gli Amici di Bevute, radiografandone a puntino tutte le possibili sfumature l’abbiamo consacrato a pieni voti a… “Mamma che vino!”. Il Colore ha una carica impressionante, è puro inchiostro, cristallino, impenetrabile e vivacissimo, pare ancora sobbollire nei tini; il primo naso offre uno spin up incredibilmente coinvolgente: frutta macerata, polpa di frutti neri in confettura, cioccolato, cuoio, cipria. In bocca ha un attacco deciso, infonde immediatamente una gran voluttà, ha muscoli tonici e non vuole certo nasconderli ma, come forse solo in pochi, non tende all’ostentazione, piuttosto scivola via setoso, fresco, pulito, in profondo equilibrio, lasciando il palato imbrigliato tra il frutto decisamente croccante ed una sostanza glicerica sostenuta eppure mai stancante, di estrema finezza ed eleganza: proprio un gran bel vino, che vale tutti i novantacinque/cento euro che vi chiederanno in una onesta e fornita enoteca.
Ecco, credo proprio che puoi rischiare di lasciarci il naso in un bicchiere del genere, pensare di farla finita una volta per tutte con i cosiddetti vini facili (ma quali sono poi?), eppure penso che sono proprio grandi vini come questo che ti lasciano apprezzare quanto possiamo ritenerci fortunati in Italia ad avere terre e vigne così profondamente dissonanti ed uomini e vini così marcatamente diversi tra loro, a volte più unici che rari, con buona pace dell’effimera, stupida omologazione che, non ultimo vedi il caso Cirò, non si smette ancora oggi, di rincorrere.
Tag: angelo di costanzo, biondi santi, fattoria del campiglione, gaja, giuseppe quintarelli, illasi, monte lodoletta, ornellaia, pozzuoli, romano dal forno, sassicaia, solaia, valpolicella superiore, verona, veronese, vini
26 settembre 2010 alle 08:12 |
Ti ringrazio per la citazione, Angelo, quella però è una pagina vecchia, dovresti linkare questa:
http://www.lavinium.com/italiano/dalforno.shtml
Ciao e a future bevute insieme!
Roberto
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26 settembre 2010 alle 09:14 |
Fatto! A presto…
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26 settembre 2010 alle 16:48 |
certi vini dovrebbero per legge essere banditi, certe concentrazioni alcoliche così al di sopra della legge (e di quelle dichiarate in etichette) possono nuocere gravemente alla salute. in più voi gli fate pure pubblicità!
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26 settembre 2010 alle 21:30 |
Voglio sperare che non si tratti di un commento che nasce dalla pura avversità al produttore, non riuscirei nemmeno a capirne il senso: semmai ci fossero i presupposti, ci avrebbero già pensato quelli dell’Utif competente.
In merito alla salvaguardia della salute, la ringrazio per l’intervento, ma ad ognuna la sua, a me (noi) bere una paio di dita di questo vino ha fatto piuttosto bene.
Suvvia, un po di tolleranza…
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21 ottobre 2010 alle 20:17 |
Un piccolo Amarone, che trova equilibrio e le risorse necessarie per non sembrare stucchevole. 😉
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