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Emergenza risorse umane, cominciamo a parlarne con considerazione e rispetto

1 novembre 2022

Viviamo in un contesto storico davvero particolare, dove parole come ‘’considerazione’’ e “rispetto”, quale che sia il posto di lavoro in cui le persone si trovino a vivere, vieppiù in ambito di un settore nevralgico come l’accoglienza turistico-alberghiera, assumono connotazioni particolarmente importanti.

Ma che cosa vuol dire lavorare con considerazione e rispetto? Ci sono sicuramente molti modi per affrontare la questione, e tutti potenzialmente validi. L’aspetto economico? Sì, resta un principio fondamentale, per quel che mi riguarda però, occupandomi io di risorse umane in maniera approfondita da circa 10 anni, vorrei porre attenzione su un concetto spesso trascurato poichè ritenuto secondario e che invece resta prioritario, manifestato (anche) attraverso le parole di tutti i giorni.

Si, perchè le parole che diciamo sul posto di lavoro, ai nostri collaboratori, le parole con le quali accogliamo i nostri clienti, le parole con le quali, giorno dopo giorno, svolgiamo le nostre interazioni con il mondo intorno a noi possono assumere peso e significati specifici ma debbono avere sempre un minimo comune denominatore che le contraddistingua: considerazione e rispetto.

E’ necessario considerare con estrema attenzione il contesto in cui ci muoviamo, lo stato d’animo con cui agiamo, quello delle persone con le quali ci confrontiamo, chi ha responsabilità di gestione non può concedersi sfoghi inappropriati, un leader lo è sempre, nel bello e cattivo tempo.

Usare, per così dire, maniere forti, toni decisi, fermezza non sono da escludersi se lo si fa con rispetto, chiarezza e secondo coscienza, solo così, partendo dal presupposto che la situazione emotiva e chimica delle persone con le quali entriamo in contatto è certamente delicata e sempre unica si riescono ad ottenere ottimi risultati dal team. Il vero lusso di questi tempi resta infatti l’interazione.

Un ambiente di lavoro sereno e sano, far star bene le persone con le quali si lavora, rendergli considerazione e rispetto è l’imperativo più urgente che le comunità si debbono imporre. E per farlo si possono, si devono utilizzare ogni giorno le parole giuste, una piena consapevolezza emotiva che ci porti a trattare gli altri con garbo e comprensione, la conoscenza delle dinamiche ambientali, psicologiche e comportamentali che letteralmente trasformano la percezione della realtà delle persone che ne entrano in contatto.

Ricordiamoci sempre che quando dei collaboratori ci lasciano, il più delle volte non lasciano il posto di lavoro, lasciano le persone con cui lavorano.

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Leo Cubans, l’aglianico di Giovanni Carlo Vesce che conquista al primo sorso!

5 luglio 2022

Aglianico, che magia! Proviamo a guardare a questo straordinario vitigno campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Questo non è il (breve) racconto della solita novità sul mercato, l’azienda agricola di Giovanni Carlo Vesce non nasce oggi, anzi, coltiva uva e produce vini da molte generazioni anche se per il solo consumo di famiglia. Fino alla metà del ‘900, infatti, i vigneti della famiglia Vesce sono stati coltivati da famiglie di contadini residenti sui diversi fondi, secondo gli usi e i costumi regolati dalla mezzadria e che non riguardava solo uva e vini, ma al tempo anche grano e tabacco risultavano attività molto fiorenti in questo areale collocato tra il Sannio, il Beneventano e la vicina Puglia. Due secoli dopo, la miseria, l’emigrazione e i danni provocati dalle grandi guerre, insieme alla caduta della mezzadria, hanno naturalmente cambiato radicalmente il sistema agricolo e sociale, senza disperdere però le radici e il valore della tradizione.

Si arriva quindi ai tempi d’oggi, proprio qui davanti a questo splendido aglianico Leo Cubans ventiventi, un’Irpinia doc Campi Taurasini proveniente da una vecchia vigna dell’antico cru della famiglia Vesce sito in contrada Cuorno, a Venticano, terreni vocatissimi perlopiù argillosi, sabbiosi, con sedimenti e coperture piroclastiche. Le uve sono state raccolte verso la fine di ottobre, spingendosi sin quasi a novembre, diraspate e immediatamente avviate alla fermentazione e alla sosta sulle bucce per circa 20 giorni. Tutto è finito poi prima in acciaio, quindi in bottiglia, senza alcuna filtrazione o altra ingerenza, niente legno. A questo giro ne sono venute fuori poco più di 2500 bottiglie di straordinaria suggestione.

Curiosa l’origine del nome di questa etichetta; le uve di questo rosso provengono sostanzialmente da quella che storicamente è conosciuta come ”piana del Cubante”, una terra che per molte generazioni ha fornito aglianico e coda di volpe di buonissima qualità sopravvissute alla devastante infestazione di filossera dell’800, proprio lungo la via Appia Antica che da Benevento conduceva a Brindisi. Cubante è una frazione del Comune di Calvi, in provincia di (BN), da qui il nome Leo Cubans, letteralmente ”leone che giace”, un toponimo antichissimo e suggestivo in quanto origina dal ritrovamento di un leone sdraiato, proprio lungo quel tratto della via Appia Antica teatro della battaglia fra Tiberio Sempronio Gracco ed il generale Annone (214 a.C.). Un’interpretazione di tale inspiegabile avvistamento ipotizza che il felino fosse sfuggito ai suoi trasportatori durante un trasferimento di fiere catturate in Africa verso il Circo Massimo o altro serraglio romano.

Ciò detto, siamo di fronte ad un rosso dalla forte identità territoriale, è un aglianico di 14,5 gradi di poderosa personalità ma al contempo di spiccata freschezza, un rosso avvenente, pieno di frutto, corposo, dal bellissimo colore rubino intenso, con numerose e piacevoli sensazioni odorose giustamente proporzionate, con sentori di viola e piccoli frutti neri sino a spezie, tabacco e liquirizia. Il sorso avvolge senza coprire, coinvolge senza strafare, regala una beva franca e accorta, soprattutto se si ha l’intelligenza di giocare (bene) con la temperatura di servizio, rinfrescandolo prima intorno ai 14 gradi poi via via un po’ più sbottonato sui 16 gradi, capace così di regalare un finale di bocca asciutto, lungo e persistente. Di quei vini assolutamente contemporanei di cui ti puoi innamorare al primo sorso!

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Ambizione o arrivismo?

22 ottobre 2021

Abbiamo necessità di riappropriarci della “scoperta di sé”, quella cioè di individuare in se stessi i propri desideri e i propri principi autentici, liberi dalle influenze e dalle aspettative della società e dell’ambiente in cui viviamo che, pur con le migliori intenzioni, talvolta possono condurre fuori strada, o meglio, fuori dalla propria strada.

Ciascuno ha un proprio bagaglio di talenti, specialità, desideri, sogni, valori che lo rendono unico. Nutrire questa ambizione è doveroso, forse più che un diritto. E nulla va lasciato per strada, intentato. Attenzione però, ambizione non è arrivismo!

Se la persona porrà attenzione alla propria unicità, ricercando intenzionalmente ciò che la contraddistingue dagli altri, coglierà senz’altro ciò che ha bisogno di fare o di non fare per essere felice, vocato, si sentirà spinto in quella direzione, chiamato a compiere determinate scelte e a mettere in atto determinati comportamenti per riuscire nell’ambizione, per non restare ingabbiato nella propria comfort zone.

Ciò detto, la parola vocazione potrebbe apparire un concetto ridondante, magari lontano dalla vita quotidiana, dalla vita reale di ognuno, eppure, lasciando stare questioni filosofiche o astratte sarebbe bene precisare che la la vocazione riguarda il fare, quel qualcosa di estremamente utile e pratico funzionale a migliorarsi, crescere, andare avanti, per non lasciare nulla per strada, intentato. Ma attenzione, l’ambizione non sia arrivismo!

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Radda in Chianti, Casa Porciatti

13 ottobre 2021

E’ un riferimento assoluto la famiglia Porciatti nel Chianti, dal 1965 Luciano Porciatti e la sorella Anna, insieme a tutta la famiglia, propongono nella loro tradizionale bottega di Radda in Chianti, la migliore varietà di salumi chiantigiani lavorati con le tecniche e i segreti di una volta.

L’arte del norcino chiantigiano, Luciano Porciatti l’ha appresa dal babbo Gigi, che nei freddi inverni del secolo scorso passava da una fattoria all’altra radunando intorno a sé intere famiglie nel rito contadino più importante: la lavorazione del maiale.

La scelta, la preparazione dei pezzi e infine la stagionatura delle carni sono tutte fasi rigorosamente eseguite in casa, ciò garantisce prodotti unici che solo in questi luoghi si possono ancora trovare: soprassata, buristo, sbriciolona, capocollo, salame, prosciutto e i famosi “tonno di Radda” , oppure il “lardone di Radda” e la mitica “Porciatella” ovvero la mortadella del Chianti Classico di casa Porciatti.

Qui nei banchi della gastronomia e della macelleria ci sono inoltre tutti i giorni le tradizionali preparazioni toscane già cotte oppure pronte per essere cucinate, con le ricette di una volta; è possibile portarsi via, tra le varie specialità, la porchetta, i crostini toscani, il pollo arrosto, il roast-beef, le lasagne al sugo, l’arista al forno, il ragù toscano, il polpettone, gli spiedini, l’anatra in porchetta, lo stracotto al Chianti e tante altre specialità affiancate da una fornitissima enoteca che a qualche metro di distanza, sotto al camminamento medievale di Radda, si fa anche Osteria e Wine Bar, con una proposta di vini molto vasta con tante annate storiche chiantigiane e più di una sorpresa da portarsi via.

Casa Porciatti, piazza Quattro Novembre, 1 – Tel. +39 0577 738 055 – Enoteca Porciatti, Camminamento Medievale – 53017 Radda in Chianti, Siena – Toscana Tel. +39 0577 738234 – mail info@casaporciatti.ithttp://www.casaporciatti.it

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E’ già una pietra miliare il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2010

10 ottobre 2021

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Testimonianze preziose come questa rara bottiglia di Quintodecimo sono fondamentali per ribadire il principio che vado affermando da anni: il Taurasi è un grande vino che nulla ha da invidiare ai grandi rossi italiani e internazionali! Peraltro qui espresso con una chiave di lettura del terroir irpino antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario vino, tratteggiato da autentica territorialità, eleganza e finezza, alcuni tratti distintivi dei suoi vini irrinunciabili per Luigi Moio.

Fu quella un’annata abbastanza eterogenea in Irpinia, per alcuni produttori una delle loro migliori vendemmie anche per una variabile decisiva: le piogge abbondanti concentrate nella parte centrale di ottobre, per cui riuscirono a portare in cantina le migliori uve quelle aziende che riuscirono a raccogliere prima delle piogge, all’inizio di ottobre entro la metà del mese come in questo caso, oppure chi poté attendere la seconda metà di novembre; più in generale si è comunque trattato di un millesimo dall’impronta decisamente fresca. Vigna Quintodecimo proviene dalla vigna omonima della tenuta, la prima ad essere piantata nel 2001 dove il suolo è costituito perlopiù da rocce argillose, molto ricche in calcare, posta a circa 420 metri di altitudine con piena esposizione nord/ovest.

Un Taurasi duemiladieci questo, a più di dieci anni dalla vendemmia, appena avviato sulla sua strada della maturità, incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino, netto, vivido e luminoso, appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso si apre subito come un ventaglio dapprima balsamico ed intrigante, poi intenso, fine e complesso; si va da piccoli frutti rossi e neri, a riconoscimenti di fiori passiti, spezie fini, cuoio, radici e sottobosco, in un insieme persuasivo e convincente al tempo stesso; il sorso fresco e teso fa il resto, pieno di vigore fruttato e infine ancora balsamico, regala una bevuta dal nerbo misurato e appagante. Una vera pietra miliare!

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Felicia e… per sempre con noi!

6 ottobre 2021

La gente continuerà a percorre con te quella vigna, guardando il Massico, ascoltando il racconto di una storia che parte dai poeti latini e arriva sino alla fatica contadina, per essere oggi dimostrazione che c’è del buono, del sano, del vero a Caserta, in una terra così unica qual è l’Ager Falernus; amavi ripetere a te stessa, e ripeterci, che vi è un così profondo pudore nel doversi confrontare con un passato così tanto nobile e fragoroso, che c’è la necessità di doversi reinventare oggi e non “campare di allori antichi”. Perché siamo fortunati. E bravi, ma è più importante essere felici.

Poi restano quelle scale. Il ricordo di quelle scale di marmo dai morbidi profili della tua casa che fu di tua nonna, di cui lei era la colona. Quella in cui hai vissuto e in cui ci resterai per sempre. Avevi paura e meraviglia nello stesso tempo ogni qual volta ci mettevi piedi su quelle scale, erano quelle ”emozioni che ti attraversavano dentro come vere e proprie stilettate”, lo dicevi salendo con noi quei gradini di pietra lisce. E quella stanza delle bambole intoccabili, con gli occhi di vetro. L’odore forte del pane le domeniche mattina, di olio, di alloro affumicato per spazzare via la cenere dal forno, la luce accecante contro il buio della cantina di tufo e le scale rotte “che non dovevi scendere altrimenti saresti rotolata giù!”, e quel sentore di umido e la fragranza del sasso gocciolante.

”Mai scesa fin lì” dicevi, poi quando il tuo sogno si è realizzato, quando Masseria Felicia è diventata finalmente realtà ci sei finita a farle un giorno sì e un altro pure per mettere mano ai tuoi splendidi vini, ritagli e ricami di una terra straordinaria, la tua, che vedrai Felicia, non ti dimenticherà mai, come noi. Cosa ci hai lasciato Maria Felicia, per sempre con noi l’abitudine che non c’era e il desiderio di goderne, per sempre.

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Attention Chenin Méchant 2020

25 agosto 2021

Sembra effettivamente quasi un monito quel nome messo là così in etichetta oppure, più semplicemente, un consiglio molto appassionato (e ben gradito!).

Di quel tanto così che riconosco a mani basse ai cugini d’oltralpe c’è spazio anzitutto per la loro profonda avversione all’approssimazione, anche per quei vini cosiddetti ‘’minori’’ infatti non esistono mezze misure o passi incompiuti; il risultato è tutto in questa bottiglia, stupefacente: fuori dal solito giro (internazionale) l’Anjou blanc, pur sovrastata in Loira da appellation un po’ più gettonate dai più come ad esempio Vouvray, Savennières e Saumur è capace di sprigionare lampi di luce folgoranti come questo delizioso bianco loirenne.

‘’Attention Chenin Méchant’’ 2020 di Nicolas Reau, viticoltore, ex pianista di jazz, proviene dalle vigne del Clos des Treilles, allevate su terreni fortemente caratterizzati da calcari e argilla dove i suoli sono ricchi di silicio e di fossili, ceppi coltivati secondo pratiche della biodinamica più tradizionale che, ben inteso, mai come in questo caso vuol dire – udite udite gente, ndr – niente vini puzzolenti o controversi da buttare giù turandosi il naso, tutt’altro!

Da queste terre, con questi gesti e da questi grappoli di Chenin blanc infatti viene fuori un bianco dal colore luminosissimo, di un giallo paglierino pieno di fascino con bellissime sfumature dorate e un naso pieno di fascino, intriso di rimandi agrumati e di frutta a polpa bianca, vi si riconoscono immediatamente lime e pera matura con anche sentori di miele millefiori e cenni minerali. Il sorso è subito piacevolissimo, d’un colpo verticale, di buona morbidezza ben supportata da freschezza e spiccata sapidità. Un bianco a dir poco significativo, con ogni probabilità il bianco dell’estate venti/ventuno!

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Il 25 agosto appuntamento alla Scuola di Alta Formazione In Cibum

5 agosto 2021

Migliaia di parole al minuto vengono spese durante i corsi e sulla rete relativamente all’abbinamento dei cibi con i vini. Le più ascoltate e lette ci ricordano che le sensazioni del vino e del cibo si fondono per concordanza o per contrapposizione creando un insieme che deve risultare armonico, sarà proprio così?

Invero l’arte dell’abbinamento sta proprio nel mettere in piedi un effetto per il quale un certo tipo di vino valorizza un certo piatto e ne viene a sua volta valorizzato, talvolta anche fuori dagli schemi. Ne parliamo il prossimo 25 agosto alla Scuola di Alta Formazione In Cibum di Pontecagnano Faiano, a Salerno.

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La partita a scacchi di Luigi Moio

25 Maggio 2021

È una partita a scacchi quella di Luigi Moio, giocata senza la ricerca di avversari e con obiettivi ben precisi; l’accompagnano il tempo, questi primi 20 anni di Quintodecimo e un territorio straordinario caratterizzato da panorami e vigne rigogliose coltivate lungo crinali e colline circondati da boschi e ulivi secolari nelle aree di maggiore vocazione del territorio irpino.

É infatti una partita a scacchi anzitutto tra l’uomo Luigi e l’accademico Moio, giocata colpo su colpo con le visioni e le esperienze del primo e gli strumenti e le certezze del secondo, l’intuito e il pragmatismo dello scugnizzo volato in Francia a farsi le ossa e il Professore irreprensibile che gira in lungo e in largo vivendo però intensamente il suo centro di gravità permanente tra le vigne di Aglianico e Falanghina, Fiano e Greco distribuite tra Mirabella Eclano, Lapio e Tufo.

Quella del drammaturgo Giuseppe Giacosa si giocava invece in un castello del XIV secolo tra il bel paggio Fernando e Iolanda, figlia del nobile Renato e abilissima nel gioco degli scacchi, ignara della scommessa stretta tra il proprio padre e il giovane Fernando: se vincesse questi, lei gli andrà in sposa, mentre se vincesse la giovane, lui dovrà morire. Durante la partita però Iolanda s’innamora del paggio tanto da lasciarlo vincere, ottenendolo così per marito, per la gioia del proprio padre pentitosi nel frattempo dell’eccessiva posta in gioco nel caso fosse stato Fernando a perdere.

Il simbolo più evidente (sui bianchi) di questa partita è questa Grande Cuvée Luigi Moio duemiladiciotto, si compie infatti con questo vino un viaggio nella memoria del tempo, attraverso il bellissimo Dominio di Quintodecimo oggi costituito da trenta ettari distribuiti nei tre nuclei di Mirabella Eclano, Tufo e Lapio. Territori e terreni diversi tra loro, interamente coltivati in biologico che qui Moio prova a raccogliere e raccontare a suo modo, dopo questi primi 20 anni, con la stessa gioia ed ambizione di chi ci ha creduto sin dal primo momento, da questa o da quella parte del palcoscenico.

Il vino esce come Irpinia bianco doc, è composto per il 40% da Greco di Tufo che vi partecipa con la sua impronta tannica e la sua elevata acidità, ma anche corpo e struttura capaci di donare longevità al vino. La Falanghina, per il 20%, partecipa con vivacità e leggerezza, tensione e bevibilità, mentre il restante 40% è Fiano di Avellino, il varietale dell’eleganza, dell’intensità e complessità olfattiva, quota che infonde finezza e giusta progressione gustativa. La Grande Cuvée Luigi Moio viene lasciata fermentare per il 60% in barriques nuove di rovere francese e per la restante parte in acciaio, successivamente alla lunga sosta sui lieviti, almeno 8 mesi (di cui 6 già assemblata) è messa in bottiglia dove matura per almeno due anni prima dell’uscita in commercio.

E’ un bianco sontuoso, dal colore paglierino oro luminoso, il primo naso è finissimo, avvenente e persuasivo, manifesto di fiori gialli e frutta polposa dolcissima, vieppiù sentori di macchia mediterranea, anche melliflui, con note balsamiche a tratteggiare complessità e persistenza olfattiva; il sorso è secco, pieno e sapido, lungo e gratificante, intessuto di quella opulenza mai ostentata che solo i grandi vini sanno regalare. E’ questo il vino bianco campano che prova a dare Scacco matto al Re!, sfidare cioè senza più remore ne timori reverenziali i grandi bianchi francesi!

Poscritto: ricordo come fosse ieri quella prima bottiglia di bianco uscita dal cilindro di Mirabella Eclano di Laura e Luigi, quell’Exultet duemilasei anticipava i tempi, forse anche troppo repentinamente, molti infatti si ritennero spiazzati, taluni nemmeno vollero metterci il naso, pur mettendoci volentieri bocca, a sproposito. Quel vino però consegnava già tanto agli occhi e al palato (dei più attenti) di cosa sarebbe diventata di lì a poco quest’azienda, per il panorama campano e per il vino italiano e cosa ci avrebbe regalato Moio negli anni a seguire con le sue letture, certe esecuzioni magistrali sino al compimento, con questa Grande Cuvée – non a caso reca in etichetta il suo nome -, della comunione tra Greco di Tufo, Falanghina e Fiano di Avellino.

P.S.: Una partita a scacchi, opera teatrale del narratore e drammaturgo G. Giacosa (1847-1906) di un atto, composta nel 1871 e rappresentata a Napoli il 30 aprile 1873, è tratta da un episodio “grivois” del cantare cavalleresco Huon de Bordeaux (sec. XIII), scambiato dal Giacosa per una romanza provenzale.

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Torniamo a lavorare per il nostro futuro!

31 dicembre 2020

A vent’anni il lavoro non lo scegli, lo fai e basta. Ne senti il bisogno, come l’acqua, per nutrire tutti i tuoi desideri.

Non ci pensi alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno. Ti fai bastare quello che hai perché è quello che ti serve.

Per quelli come me, per quelli della mia generazione, per tutti quelli cresciuti nel mio quartiere, il Rione Toiano a Pozzuoli, tra gli anni ’80 e ’90, il lavoro ha rappresentato una conquista preziosa che ha salvato in molti, ha reso possibile a molti lasciarsi alle spalle un’infanzia difficile e un’adolescenza a dir poco complessa, tra insidie e sbandate pericolose; certo io mi sono salvato molto prima, anzitutto grazie all’esempio di mio padre e alla mia famiglia: non c’è un giorno che comincia in cui non ho un pensiero di gratitudine per tutti loro!

Il mondo in cui vivi, soprattutto fuori dalla famiglia, ti porta facilmente a guardare ogni volta con occhi diversi la vita davanti. Gli anni passano, i tempi cambiano, mutano gli scenari, continui a non pensare alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno, assumono però via via peso e significati sempre più consistenti: dopo l’amore, quello della vita, arrivano magari i figli, nuovi progetti, ambizioni, sfide, sconfitte, fallimenti; aumentano talvolta le distanze, il vuoto, la solitudine, i silenzi e i sacrifici diventano significativi e le responsabilità superano di gran lunga i desideri. Ecco, capita che a trent’anni il lavoro che fai, quello che magari manco pensi di aver scelto, ti è entrato dentro, ha preso possesso della tua vita ed è pronto a farne quello che vuole.

E’ proprio in questo momento che si cresce, che si sposta avanti con forza il tempo, si abbattono barriere, si superano ostacoli solo apparentemente insormontabili, è qui che bisogna metterci tutta l’energia possibile per crescere, migliorarsi, senza porsi limiti, perché alzare l’asticella costa ma mai quanto restare fermi e impassibili davanti alla vita che scorre senza mai afferrarla, senza nemmeno provare a portarla dalla tua parte. Ed è il lavoro a permetterti tutto questo, di andare avanti, perché se non ci pensi più alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai tanti momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno, è perché tutto ritorna, in un modo o in un altro tutto ritorna, perché tutto arriva a chi sa aspettare.

Voglio salutare quest’anno e tutti i miei e i nostri carissimi amici con solo questo auspicio, che presto possiamo tutti riprenderci le nostre vite ma soprattutto il nostro posto nel mondo grazie al nostro lavoro!

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Torano, Trebbiano d’Abruzzo 2017 Emidio Pepe

20 novembre 2020

Che terra straordinaria l’Abruzzo, e che vini autentici quelli qui prodotti, come il Trebbiano, un vino bianco antico, dal sapore ancestrale, che si produce in molte zone d’Italia ma che proprio qui sembra ravvivarsi di caratteristiche uniche.

Trebbiano d'Abruzzo 2017 Emidio Pepe - foto A. Di Costanzo

Non scopriamo certo oggi Emidio Pepe, facciamo ogni anno tesoro delle splendide bottiglie che vengono fuori dalla cantina di Torano, bottiglie che segnano il tempo senza subirlo minimamente, tanto quando si tratta del Montepulciano d’Abruzzo che quando si assapora il loro Trebbiano.

Sono questi vini provenienti da un territorio molto particolare, dove la natura incontaminata gode di un microclima distintivo, con la terra argillosa e calcarea che si avvantaggia dell’influenza del mare e delle fredde correnti del vicino Gran Sasso; vini che nascono da vigne vecchie condotte con i più rigidi principi della biodinamica, senza alcun utilizzo di prodotti chimici, anche nelle annate più difficili.

Le uve sono raccolte a mano, pigiate ancora con i piedi, un metodo di produzione assolutamente artigianale, per quanto originale e, se vogliamo, anacronistico. Cui s’aggiunge, per il Trebbiano d’Abruzzo in particolare, la vinificazione “in bianco”, cioè senza bucce, con affinamento esclusivamente in vetro. Una caratteristica, quella di far maturare il prodotto direttamente nelle bottiglie, che resta una prerogativa irrinunciabile per Emidio Pepe, ancora dopo oltre cinquant’anni di vendemmie.

La duemiladiciassette si è rivelata annata assai ostica da queste parti, non sono mancati disastri qua e là in regione, certo non qui a Torano, dove si fa, come detto, un grande lavoro in vigna prima che in cantina, riuscendo a tirare fuori, evidentemente, un vino bianco di spessore e grande armonia.

Ci arriva infatti nel calice un vino dal bellissimo colore paglia, con tenui riflessi dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il naso ha bisogno di un po’ di tempo prima di rivelarsi del tutto, è certamente coinvolgente e fine, vi si colgono note di fiori e frutta molto invitanti e seducenti, con sentori di bergamotto e albicocca, finanche foglia di tè e fieno. Il sorso è asciutto e vibrante, assai fresco e sapido, è questa una di quelle bottiglie capaci di regalare una bevuta rassicurante, da conservare nella memoria prima che in cantina.

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Il ritorno al futuro del Vinum Caecubum

17 novembre 2020

E’ Monti Cecubi a riportare in auge il Vino Cecubo, il vino dell’Impero Romano famoso in tutto il mondo antico. L’azienda è rinata nel 1990 per volontà della famiglia Schettino, originaria di Santa Maria Capua Vetere, e conta oggi ben 150 ettari di cui almeno sei di uliveto e venti di vigneto, collocati in larga parte tra Itri e Fondi, in provincia di Latina.

Ne abbiamo raccontato qualche mese fa, dopo una nostra visita la scorsa estate presso questa splendida realtà itrana immersa nel verde dei Monti Aurunci laziali. Qui in vigna si coltivano diversi varietali, alcuni introdotti proprio nel ’90, per provarne il potenziale colturale, come ad esempio Montepulciano, Vermentino, Fiano e Falanghina, altri già presenti in queste terre con vigne vecchie e impianti risalenti al secondo dopoguerra; ceppi con i quali, in alcuni casi, si è provveduto a selezioni clonali mirate, come nel caso di alcune varietà autoctone come l’Uva Serpe e l’Abbuoto, uve a bacca nera già anticamente protagoniste del ”Vinum Caecubum” prodotto in quest’area sin dall’epoca Romana.

Ci siamo tornati su con il loro vino di punta, quello che qui a Monti Cecubi, guidati in cantina dall’ottima enologa Chiara Fabietti, considerano la rinascita del Vino Cecubo, il vino rosso molto pregiato già apprezzato al tempo dei Romani, vino che secondo il racconto di Plinio si produceva con le uve provenienti da queste terre dell’areale pontino – “Caecubae vites in Pomptinis Paludes madent…“ […] “… supra Forum Appii” -, proprio qui nel territorio dell’attuale Formia, fino a Fondi e Terracina.

Vinum Caecubum duemilasedici di Monti Cecubi rinasce grazie ad una selezione dei migliori grappoli di Abbuoto e Uva Serpe delle vigne di San Raffaele di Fondi, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre anche in questo caso un vino intenso, dal colore ricco e vivace, di grande complessità e tensione gustativa, un vino davvero molto originale, che riporta in etichetta l’indicazione geografica tipica Rosso Lazio.

E’ un rosso dal colore rubino, pieno ed esuberante, dal profumo floreale e fruttato intenso, con sentori di viola e melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di polvere di caffè e grue di cacao, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, nonostante il 14% in volume di alcol in etichetta, risulta molto ben misurato anche il passaggio di 1 anno in tonneaux, che consegna al palato un vino rosso dal tannino vellutato, senza spigolature, con tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso.

Leggi anche Itri, l’Abbuoto Filari di San Raffaele di Monti Cecubi Qui

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Segnalazioni| Campania bianco Donna Lucrezia 2019 AgriBeeo

14 novembre 2020

La Catalanesca è stata ufficialmente aggiunta all’elenco delle uve da vino nel 2006, l’uva arrivò sul Vesuvio importata dalla Catalogna, per volontà di Alfonso I d’Aragona nel XV secolo, impiantata perlopiù sulle pendici del Monte Somma, fra Somma Vesuviana e Terzigno.

Proprio qui, su questi terreni così fertili, di natura spiccatamente vulcanica, l’uva fu ben presto molto apprezzata e coltivata in maniera intensiva per la vinificazione in grandi quantità dai contadini vesuviani per il loro commercio di vini sfusi che da queste parti è sempre stato molto fiorente, tra l’altro, grazie alla sua spiccata dolcezza le quantità eccedenti erano spesso commercializzate come uva da tavola.

Sappiamo che oggi la sua presenza è riscontrabile nei dintorni dei comuni di Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, Ottaviano e in alcuni altri comuni vesuviani. La Catalanesca è una varietà a bacca bianca particolarmente apprezzata, molto caratteristica e resistente, tant’è che la vendemmia può spingersi generalmente sino a fine ottobre e agli inizi di novembre: un tempo vi era la consuetudine di lasciare sulla pianta i grappoli più belli, lasciandoli surmaturare addirittura fino al periodo natalizio. Il grappolo è di sovente rado, gli acini acquisiscono così un tipico colore dorato conservando però una polpa carnosa, croccante e dolce, ricca di vinaccioli.

L’uva e il vino nel progetto di valorizzazione del territorio di Vito Graniglia è solo una tessera di un puzzle assai più ricco di suggestioni tipicamente territoriali, qui in AgriBeeo si produce infatti anzitutto miele, albicocche della varietà Pellecchiella e pomodori del Vesuvio, tutti certificati Bio, dai quali si ricavano tra gli altri conserve e prodotti assolutamente unici, provenienti da una terra meravigliosa.

Questa bottiglia, la n. 1 di nemmeno un migliaio dell’annata duemiladiciannove, racchiude il lavoro di anni di cura e recupero di questo mezzo ettaro di vigne vecchie allevate con sistemi assolutamente ancestrali, legate a pali di sostegno, collocati a circa 350 mt s.l.m.; viene fuori da una vendemmia tardiva, come da tradizione, con il vino che ha fatto passaggi solo in acciaio, dove è restato per 8 lunghi mesi, prima di 4 mesi ancora in bottiglia.

Ci troviamo davanti a un vino bianco vestito di un bel giallo paglia con profondi e luminosi riflessi dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; è delicato il profumo di fiori e agrumi, sa di ginestra e limoni, più incisivo il sentore di albicocca matura. Il sorso è morbido e asciutto, abbastanza fresco, manca forse di profondità ma la beva, piacevolissima e appagante, non da nemmeno il tempo di accorgersene.

AgriBeeo
Località Ventarielli 
Somma Vesuviana (Na) Italia
+39 347 2804242
agribeeo@agribeeo.it

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Segnalazioni| Nebbiolo d’Alba Spumante Rosè Prêt-à-Porter Gianluca Viberti

7 novembre 2020

E’ una pennellata rosa glitterato nel cuore di una delle denominazioni di origine controllata più importante d’Italia, proviene infatti da uve Nebbiolo coltivate nella parte più alta del comune di Barolo, tra i 420 e i 500 metri s.l.m..

E’ uno spumante brut rosè prodotto con rifermentazione e presa di spuma in autoclave con il Metodo Martinotti, con una permanenza sui lieviti sino a 12 mesi e un periodo di affinamento in bottiglia ancora di 6/12 mesi prima della messa in commercio. Ne viene fuori una interpretazione sbarazzina molto indovinata, uno spumante fresco, dal colore rosa antico e dal profumo assai fragrante, vivacissimo, con bolle fini e dal sorso stuzzicante e saporito, vibrante e piacevolissimo.

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Quel che ho imparato, ancora una volta

30 ottobre 2020

Il mondo corre veloce, va avanti, tutto quello che ci gira intorno ci sembra inarrestabile, la società, le tecnologie, il lavoro tutto intorno a noi evolve e si trasforma continuamente. Non di meno chi lavora nel food&beverage sa molto bene cosa significa stare al passo coi tempi, chi sta in sala e in cucina, dietro a un banco, alla porta si nutre ogni giorno di nuove esperienze ed ha l’obbligo professionale di essere sempre all’altezza, per ciò non può restare fermo a guardare, perché altrimenti si resta indietro o peggio ancora, esclusi. La dimostrazione pratica è che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare, o qualche conoscenza da migliorare o aggiornare.

Ecco perché negli ultimi mesi ho ripreso a studiare forte, ho ripreso con ferma volontà tutto il percorso fatto sino ad oggi, riletto voracemente libri consumati nel tempo dalla passione, convinto di trovarvi dentro risposte ed insegnamenti preziosi; ho rispolverato vecchi appunti di viaggio e nuovi scritti, i diari, i manuali e gli standards, mi sono cimentato con eventi formativi, webinar, corsi on line, qualcuno anche parecchio impegnativo, diciamo capace di schiarire certe idee: si evolve, anzitutto per noi stessi, non solo perché capita, talvolta, di avere la sensazione di “quel qualcosa” che ci manca, ma perché serve competenza, oggi più che mai è necessario fare la differenza, quale che sia il ruolo nel mondo food&beverage.

Se c’è un insegnamento che emerge perentorio in questo momento storico così particolare, che ha sostanzialmente messo un po’ tutti in riga più o meno sulla stessa linea di partenza, in particolar modo in ambito professionale, è proprio che è la competenza a fare la differenza!

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Comfort Wines, Barbera D’Asti Garitta 2017 Cascina Garitina

1 ottobre 2020

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, appaganti, vini come questo di Gianluca Morino che una volta scoperti ti restano ben impressi nella memoria, perfetti in certe carte dei vini di Osterie, Wine Bar, Ristoranti che mirano al successo di vendite soprattutto al calice.

Ne abbiamo scritto ampiamente e ci torniamo spesso e volentieri su, tra questi ci sono vini generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, anche certe bottiglie che riescono, anno dopo anno, a conquistarsi uno spazio importante nella bevuta quotidiana degli appassionati lasciando sempre buoni segnali, piacevoli ricordi.

La provenienza di questo sorprendente rosso è quella vocata dell’areale di Castel Boglione, poco a sud di Nizza Monferrato in provincia di Asti, in Piemonte, patria e luogo d’elezione di questo rinomato vitigno italiano. Cascina Garitina qui possiede ben 26 ettari vitati dai quali vengono fuori ogni anno all’incirca 130.000 bottiglie. Gianluca Morino, vigneron colto e intraprendente, continua il lavoro cominciato dal nonno e proseguito poi dal padre, qui dove si coltivano solo uve a bacca rossa tradizionali per l’areale, tra le quali anzitutto Barbera, che oggi costituisce l’85% dei vigneti.

Garitta duemiladiciassette è una vera bomba! Ha potenza e grande equilibrio, eleganza e lunga persistenza. Non è un vino banale, anzi, è un vino da scoprire e riprovare, e chissà quante ne ha da dire anno dopo anno. Se non sorprende il colore, un bellissimo rubino carico e vivace, con nuance violacee sull’unghia del vino nel bicchiere, al naso primeggiano con i classici sentori fruttati varietali delle finissime sensazioni speziate e di sottobosco molto gradevoli, avvenenti e coinvolgenti. Il sorso è intenso, avvolgente, equilibrato e pieno, con tanta materia fruttata che resta in bocca e gratifica il palato. Certo il 15% in volume di alcol in etichetta non è da trascurare, ma tutto sembra ben armonizzato per regalare una bevuta tra amici pienamente raccomandata. ⇒ La bottiglia ha chiusura con tappo a vite, la qual cosa ci piace molto.

Leggi anche Comfort Wine, most unwanted! Qui.

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E venne il giorno della prima verticale storica del Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella di Cantine Astroni

28 settembre 2020

E’ una verticale storica questa, che segna il tempo trascorso provando a contare e raccontare i passi fatti in tre lustri nei Campi Flegrei da Cantine Astroni e Gerardo Vernazzaro, senza dubbio tra i più dinamici produttori e interpreti del panorama enoico di questo pezzo di territorio della provincia napoletana.

La famiglia napoletana Varchetta da oltre quattro generazioni è impegnata ad affiancare al florido commercio di uve e vini puntuali e lodevoli investimenti in un territorio dove piantare una vigna spesso può rivelarsi impresa difficile quasi quanto programmare il lancio di una sonda esplorativa nello spazio.

Così, all’incirca vent’anni fa, è nato il progetto Cantine Astroni, un cambio di passo decisivo per la famiglia ma anche, soprattutto, un nuovo modo di guardare al territorio non più in maniera passiva bensì diventandone tra i protagonisti più attivi, convertendo e piantando vigne oggi tra le più suggestive intorno a Napoli e mettendo su una cantina bella e funzionale, tecnologicamente all’avanguardia, proprio a due passi dal centro città e dalla riserva naturale del Cratere degli Astroni¤, là dove oggi è possibile per chiunque andare e toccare con mano uno spirito nuovo fuori dai soliti luoghi comuni di una periferia altrimenti assediata dal cemento.

Sono oltre dieci anni che proviamo a consegnare a queste pagine, con una certa regolarità, le impressioni su tutti i vini di Gerardo, il racconto della sua significativa sensibilità nell’approcciarsi al Piedirosso e alla Falanghina dei Campi Flegrei, a partire proprio dal Colle Rotondella¤ – tra i primi ad essere qui recensito con l’annata duemilanove, nel 2011 – sino al Riserva Tenuta Camaldoli¤, seguito dai bianchi Colle Imperatrice¤ e Vigna Astroni¤ passando da Strione¤ al Tenuta Jossa¤.

Ebbene, pur senza allungarci troppo in una sterile adulazione o innescare inutile piaggeria possiamo dire con una certa ragionevolezza che ognuna di queste referenze hanno raggiunto oggi grande equilibrio e piena espressività, risultato figlio di un lavoro duro e faticoso che ha richiesto anni di impegno, investimenti, studio, confronto, umiltà, provando a destreggiarsi tra insidie, errori, opinioni talvolta date senza avere piena conoscenza diretta dei fatti ma soprattutto con tanta intelligenza, indispensabile per non adagiarsi, nemmeno dopo i primi successi arrivati e, ne siamo certi, dopo quelli prossimi che non mancheranno a tardare!

Proprio dalle vigne del circondario flegreo più prossimo a Napoli, in areale delle colline dei Camaldoli, da un vigneto di circa tre ettari di Piedirosso dei Campi Flegrei, provengono le uve di questo rosso, il Colle Rotondella, che fa solo acciaio e bottiglia e che pare riassumere tutto quello che un vino di questo territorio deve saper garantire in tutta la sua sfrontata consistenza: un colore avvenente, profumi seducenti, finanche ruffiani, una beva scorrevole e furba, non priva però del giusto carattere. Ma cosa succede poi negli anni? C’è da aspettarsi altro, qualcosa in più?

E’ così che l’enologo si è spogliato di quanto non più strettamente necessario e si è fatto nel frattempo viticoltore tout court, rimanendoci in vigna tutto il tempo necessario per comprendere e agire, seguendo e assecondando la natura, con attenzione alla tutela del suo equilibrio e dell’ambiente che lo circonda, mirando al mantenimento della fertilità del suolo attraverso la promozione di processi naturali biologici e sistemi chiusi favorendo quindi la coltivazione di uve sane, ricche, pregevoli. 

Aspetto, quello agronomico, assolutamente non secondario nel cogliere appieno il valore del risultato finale nel bicchiere che, soprattutto nella terza e ultima parte della batteria in degustazione, quella che va dalla ‘sedici all’ultima ‘diciannove, con delle prime avvisaglie già nella ‘tredici e ‘quindici, contribuisce in maniera decisiva a tratteggiare un vino dalla chiarissima impronta vulcanica, assolutamente originale, dal respiro moderno e dal sapore contemporaneo, con un naso seducente e un sorso coinvolgente, pieno e gratificante nei suoi primi anni di bottiglia ma che non ha assolutamente nulla da temere dallo scorrere del tempo, restando in grande spolvero almeno per un lustro.

***** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2019. E’ un rosso che regala un piacevolissimo gioco dei sensi a chi si avvicina alla tipologia per la prima volta, con quel colore rubino dalle vivaci sfumature quasi porpora; possiede un ventaglio olfattivo estremamente varietale, è vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. Un corredo aromatico arricchito da lievi sfumature officinali e da una fresca tessitura gustativa, abilmente tenute assieme dal manico di Gerardo Vernazzaro, proprio grazie alla sua lunga esperienza di studio del territorio e del varietale. Il sorso è secco e morbido, infonde piacere di beva, una sorsata ne richiama subito un’altra, una beva sfrontata, agile, calda, salata e avvolgente. 12% di alcol in volume in etichetta.

**** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2018. E’ un rosso tremendamente contemporaneo, decisamente didattico, dal colore rubino con vivaci sfumature quasi porpora sull’unghia del vino nel bicchiere, con un naso estremamente varietale, vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. L’anima più tradizionale del Piedirosso flegreo qui è sorretta anche da un frutto dalle piacevolissime sfumature speziate ed una fresca tessitura gustativa abilmente intrecciate. Il sorso è secco e morbido, dona piacere di beva che grazia il palato e un sorso ne richiama subito un altro. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

****/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2017. Fu quella un’annata complessa e complicata, sin dal colore rubino carico se ne coglie la pienezza del frutto, ha un naso estremamente varietale, ancora vinoso, ampio, floreale e fruttato, balsamico. Si avvantaggia di una maggiore percezione ”calorica” in bocca, il sorso è secco e morbido, assai piacevole, scorrevole, con un finale di bocca sapido ma appena amaricante in chiusura. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

**** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2016. Bottiglia nuova, di ispirazione francese, con le etichette necessariamente riviste e adattate. Resta una piacevole sorpresa, lo beviamo nuovamente a distanza di nemmeno una settimana. Ha un colore tipicamente ”borgognone”, pienamente rubino, luminoso e trasparente, appena più accentuato sull’unghia del vino nel bicchiere; Il naso è anzitutto balsamico e floreale, rimanda poi a piccoli frutti rossi e neri maturi, appena un sottofondo di sottobosco, cenere e polvere di cacao. Il sorso è sottile, dal gusto secco e di finissima tessitura gustativa, magro ma non privo di vigore ed energia, chiusura di bocca salina. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

***/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2015. Segna uno spartiacque, è questa l’ultima uscita ancora in bottiglia bordolese. Ha colore rubino maturo, nemmeno tanto trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere; conserva un’impronta varietale particolarmente interessante, vi si colgono sentori di rosa, melograno e altri piccoli frutti neri maturi a cui s’aggiungono piacevolissime tonalità speziate e balsamiche. Il sorso è asciutto, abbastanza morbido, molto piacevole la beva, con un finale di bocca caldo e abbastanza lungo. 12% di alcol in volume in etichetta.

***/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2013. Annata altalenante, particolarmente ”allenante” la definisce Gerardo Vernazzaro, di quelle che non puoi perdere di vista nemmeno un giorno e che ti costringono a stare sul pezzo sino all’ultimo, non a caso tra le prime ad essere portata in cantina solo a fine ottobre, raccogliendo i primi frutti del lungo lavoro di valorizzazione del patrimonio vitivinicolo di proprietà. Il colore rubino ha tenuto benissimo, conservando invidiabile integrità varietale, il naso è floreale e fruttato, in particolare di rosa passita e arancia sanguinella. Il sorso è secco, caldo e morbido, con una buona progressione gustativa e una sapidità marcata. 12% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2012. L’ultima vestita di nero, con etichette trendy per l’epoca, un nuovo taglio scelto qualche anno prima per provare a far prendere il largo dalla casa madre quei vini provenienti dalle vigne di proprietà, proprio come il Colle Rotondella. Il colore è marcato da un tono scuro, granato con note aranciate/brune sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è terragno, conserva buona pulizia olfattiva ma vi si riconoscono soprattutto note di terra bagnata, sottobosco, frutta secca più che altro, con il sorso asciutto e snello, con ancora buona intensità. 12% di alcol in volume in etichetta.

**/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2011. Annata calda, perfino torrida in alcuni frangenti, anche in questo caso il colore è maturo, granato/aranciato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso, tuttavia, è molto interessante: verticale e balsamico, dai tratti maturi, vi si coglie confettura di ciliegia, sciroppo di melograno, cenere, carrube, sottobosco. Il sorso è lineare, snello, con ancora una buona corsa. E’ questo il millesimo con il quale uscirà poi sul mercato, un paio d’anni dopo, per la prima volta, la Riserva Tenuta Camaldoli¤. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2010. Sono questi gli anni in cui si comincia a lavorare con una certa continuità in vigna con un approccio più consapevole. Oggi ne viene fuori un vino dal colore marcato da toni scuri, granato con note aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere. Ha naso empireumatico, severo, conserva buona pulizia olfattiva restando però concentrico (terra, radici, polveri) consegnando tuttavia un sorso asciutto, agile con una marcata connotazione salina. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2007. Annata calda e asciutta, si direbbe di frutto più che di terroir, a quel tempo capace di tirare fuori vini di grande godibilità un po’ ovunque in Campania, pieni e insolitamente carnosi soprattutto per il varietale flegreo. Ne resta un vino dal colore granato con note aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso ha bisogno di qualche minuto per liberarsi da un po’ di riduzione, lasciando poi spazio a sentori di prugna e amarena sotto spirito, sentori di sottobosco e humus, frutta secca, chiodi di garofano, erbe medicinali. Non male per una bottiglia che certamente non aveva alcuna velleità di arrivare ad oggi! Il sorso è asciutto e abbastanza fresco, anche caldo seppur non lunghissimo. 13% di alcol in volume in etichetta.

Leggi anche Il naso, i napoletani e l’apologia del Piedirosso #1 Qui.

Leggi anche Il naso, i napoletani e l’apologia del Piedirosso #2 Qui.

Leggi anche Piedirosso Campi Felegrei Colle Rotondella 2009 Qui.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre 

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L’abbiamo scampata bella!

11 settembre 2020

C’è già da un po’ di anni grande entusiasmo intorno ai vini campani, certi bianchi in particolare, un rinnovato e straordinario entusiasmo che fa della Falanghina, del Fiano e del Greco (ma anche del Pallagrello, per dire) vini molto ricercati ed apprezzati, come mai prima, e non solo dagli appassionati ”locali” ma finalmente da tutto il mondo.

Una lunga scia di grandi successi non ha tuttavia mancato di generare di tanto in tanto un po’ di confusione, un’ascesa che ha spinto alcuni produttori nel seguire, quasi come un mantra, alcuni modelli interpretativi sballati e in certi casi superati dal tempo pur di compiacere questo o quel winemaker di grido o, peggio, l’enostrippato di turno.

Alcuni vini, certi Greco di Tufo ad esempio, che cito non a caso, risultavano spesso sovraestratti, talvolta pesanti, addirittura ostici da berli a tavola, violentando il varietale e sacrificandone le peculiarità e l’originalità nel nome di chissà cosa, quale trip vinnaturale o bioqualchecosa; insomma, con l’dea di spostare di qualche centimetro in là l’asticella, che pur ci sembra del tutto legittima, non si è pensato alle conseguenze della poca esperienza, al pericolo di incappare in una banale omologazione, un copia incolla scontato e sicuramente lontano dagli obiettivi di qualità che meritano invece un territorio straordinario pur nella sua eterogeneità e una denominazione di prestigio come quella del Greco di Tufo Docg.

Ne raccontammo proprio Qui, ve lo ricordate? Bene, a distanza di qualche anno, a quanto pare, possiamo dire che l’abbiamo scampata bella, almeno a ”sentire” i tantissimi assaggi fatti di recente delle vendemmie ultime in bottiglia, evviva!

Per fortuna non c’è stata quella deriva stilistica che sapevamo non avrebbe condotto da nessuna parte. Tufo, per restare sul vino che più ci sta a cuore, non è Loreto Aprutino, o Oslavia, e per quanto nobile potesse risultare l’accostamento a certi vini e per quanto evocativi potessero essere certi frugali assaggi di una moltitudine di vini fatti più o meno seguendo lo stesso protocollo, con le stesse tecniche con cui si fanno certi Trebbiano in Abruzzo e Ribolla nel Collio, il risultato ci appariva sempre troppo uguale tra loro stessi, con poco o nulla di ancestrale, vini dal sorso fluido, appesantito, con poco o niente riconoscibilità varietale per non parlare di quale territorialità, liquidi talvolta opachi, altri sovraestratti più per imperizia che altro, più vicini alla tradizione brassicola che a quella enoica. Perchè di vino, in fondo, si sta parlando.

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Segnalazioni| La crisi reclama nuove idee

8 settembre 2020

Riprendiamo e pubblichiamo la lettera aperta di Angelo Gaja apparsa su Seminario Veronelli¤; il grande produttore di Barbaresco, di cui spesso e ben volentieri su L’Arcante abbiamo lasciato traccia dei suoi straordinari vini e raccontato il suo modo di vedere il mondo del vino da un’angolatura certamente particolare con, tra l’altro, alcune Chiacchiere Distintive – leggi Qui – che hanno fatto decisamente la storia di queste pagine.

di Angelo Gaja

Nei mercati internazionali il futuro prossimo del vino è tutt’altro che roseo, avendo le aziende vitivinicole d’ogni continente enormi giacenze di prodotto. Che fare? In attesa di tornare alla normalità, occorrono idee nuove: utilizzare solo ed esclusivamente gli strumenti del passato non sarà di grande giovamento. E se fosse il 2021 la continuazione dell’anno orribile del vino italiano? Le premesse non mancano.

In Italia si suonano le trombe per la vendemmia 2020 che promette di essere la più ricca di uva al mondo. Non è un primato invidiabile in presenza di una crisi dei consumi senza precedenti che si abbatte su tutti i mercati e coinvolge tutte le cantine del mondo gonfiandone le giacenze. Per fronteggiare la quale la ministra Bellanova aveva stanziato misure di distruzione dell’uva e del vino (distillazione) finanziabili con 150 milioni di euro di denaro pubblico, giunti però in ritardo e utilizzati appena per un terzo. 

L’errore non è affatto della Bellanova, bensì dei suggeritori esterni che fanno capo ad associazioni varie e presenziano alle tavole di concertazione. Quelli che dapprima non volevano sentire parlare di distillazione, per poi concederla ai soli vini da tavola, mentre ad averne necessità sono i vini IGP e DOP. Quelli che preferivano misure in favore dello stoccaggio, incoraggiando ad accumulare scorte in cantina confidando nella rapida fine della crisi e pronta ripresa dei consumi, che invece non ci saranno e si prolungherà l’agonia. Quelli che avanzavano mille riserve, rallentando e rendendo intempestiva l’entrata in vigore delle misure di intervento pubblico facendole perdere di efficacia. 

Il comparto del vino conoscerà una crisi più lunga legato com’è all’Ho.Re.Ca e al turismo. Fino ad ora è stata una pioggia di numeri reali-stimati-probabili-farlocchi, anche da fonti autorevoli, a commentare il procedere della crisi. Solo a fine anno si conosceranno le giacenze totali di vino nelle cantine italiane e si attendono pessime notizie in merito. 

Sempre a fine anno, a fronte del preoccupante calo in volume, si registrerà il più drammatico e vistoso calo in valore dell’export del vino italiano. A piangere saranno i fatturati. Quando nella primavera 2021 verranno resi pubblici i bilanci delle mega cantine italiane e verranno svelati i numeri veri, si evidenzierà che per molte di esse le perdite di fatturato rispetto al 2019 supereranno il 20%. 

A perdere di più, però, saranno i viticoltori venditori di uva e le cantine artigianali dalle dimensioni piccole e medio piccole, il settore più numeroso e fragile. È a questi che la ministra Bellanova deve pretendere di destinare maggiori risorse durante il confronto che condurrà con i suggeritori esterni. 

In questo momento di grave emergenza occorrono misure straordinarie. La prima preoccupazione deve essere quella di cercare di riequilibrare il mercato dando la priorità a un ampio-e-mai-visto-prima progetto di distillazione che includa anche i vini IGP e DOP, da avviare subito per consentire il recupero già entro il 2020 dei quasi 100 milioni non spesi nella misura precedente, per poi concluderlo nel 2021. Prendendo ispirazione da quanto saggiamente aveva già fatto prima di noi la Francia. 

Sarebbe utile inoltre introdurre in Italia per i prossimi due-tre anni il divieto di impiego del Mosto Concentrato Rettificato, che costituisce per chi ne fa uso l’incentivo per eccellenza a produrre maggiori volumi di uva in vigneto.

Bene la richiesta di maggiori finanziamenti per la promozione consentendone l’accesso anche ai progetti di investimento contenuto. Non scordando che, nei prossimi due-tre anni, sarà baraonda sui mercati internazionali perché le cantine di tutto il mondo avranno il vino che uscirà loro dalle orecchie e saranno sui mercati per cercare di collocarlo. Occorrono idee nuove, pensare di utilizzare solamente gli strumenti del passato non sarà di grande giovamento prima del ritorno alla normalità. 

© Angelo Gaja, tratto da Seminario Permanente Luigi Veronelli¤.

Leggi anche Uno straordinario Barbaresco Sorì Tildìn 1990 di Gaja Qui.

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Falanghina Campi Flegrei Vigna del Pino 2017 di Agnanum, il piccolo capolavoro di Raffaele Moccia

20 agosto 2020

E’ un bianco suggestivo e coinvolgente nonostante l’annata sia stata difficile da queste parti, con un andamento altalenante, finanche siccitosa e avara di frutti, che ben rappresenta però tutto lo straordinario potenziale espressivo ed evolutivo del vitigno ma anche, soprattutto, i tratti caratteriali di un territorio unico ed eccezionale che Raffaele Moccia, autentico vignaiolo flegreo, sembra rappresentare al meglio!

Ne scrivemmo appena qualche mese fa, in aprile, l’etichetta non era ancora in commercio, ne avevamo parlato a lungo con Raffaele qualche settimana prima durante l’ultima visita ad Agnanum, rimanendone particolarmente colpiti, Vigna del Pino rimane il suo piccolo capolavoro, un cru di Falanghina prodotto in appena un migliaio di bottiglie.

Un bianco buono a bersi subito, dicemmo allora, celebrazione di un varietale presente in molti territori in Campania e al sud ma che proprio qui, nei Campi Flegrei, in questi scorci metropolitani dove la terra è matrigna e ardente, e si avvantaggia della vicinanza del mare, regala vini che sembrano conquistare significativa complessità, ampiezza e profondità gustativa particolarmente distintive, oggi nel bicchiere, ancora più marcate e coinvolgenti.

Un vino dal colore giallo paglia luminoso, fitto al naso, largo in bocca. Un vino ricco di frutto, pieno di maturità espressiva, vi si colgono anzitutto profumo di gelsi e albicocca matura ma anche sensazioni più sottili di macchia mediterranea, zenzero e pietra focaia. Il sorso è deciso, potremmo definirlo ora, a distanza di mesi, pienamente compiuto, riconoscibile e gratificante, fresco e piuttosto sapido.

Non scriviamo spesso dello stesso vino della stessa annata più volte su queste pagine, vieppiù in un arco temporale così breve, a meno che non si tratti di un riassaggio rimarchevole come questo straordinario bianco flegreo, capace quest’oggi, ancora una volta, di lasciarci letteralmente senza fiato!

Leggi anche L’ultima verità di Raffaele Moccia è nell’ultimo bicchiere del Vigna del Pino 2017 di Agnanum Qui.

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Itri, l’Abbuoto Filari di San Raffaele 2018 di Monti Cecubi

17 agosto 2020

Una bottiglia di vino per quanto sconosciuta deve suscitare curiosità, rendere piacevole un momento, lasciare un buon ricordo di se, al di là del prezzo segnato in carta, sta poi al palato più attento, all’appassionato cogliere l’opportunità di una nuova scoperta.

E’ sostanzialmente questo il motivo che ci ha spinti sin quassù nelle campagne di Itri, alla ricerca di Monti Cecubi, così recava in etichetta una seducente Falanghina bevuta alla tavola di un ristorante a Fondi qualche sera prima. Ci siamo trovati davanti una piacevole scoperta, un piccolo gioiello incastonato in mezzo alla terra rocciosa, circondato da vigne nascoste tra ulivi e boschi secolari e foreste di sughere, appena sopra la costa di Sperlonga.

L’azienda è rinata nel 1990 grazie alla famiglia Schettino di S.M. Capua Vetere, conta ben 150 ettari, di cui almeno sei di uliveto e venti di vigneto collocati in larga parte qui a Itri e poco più in là verso Fondi. Vi si coltivano diversi varietali, alcuni introdotti proprio nel ’90, per provarne il potenziale colturale, come ad esempio Montepulciano, Vermentino, Fiano e Falanghina, altri erano già presenti in queste terre con vigne vecchie di impianti risalenti al secondo dopoguerra, ceppi con i quali, in alcuni casi, si è provveduto a selezioni clonali mirate, come nel caso di alcune varietà come l’Uva Serpe e l’Abbuoto, uve a bacca nera già anticamente protagoniste del ”Vinum Caecubum” prodotto in quest’area in epoca romana.  

L’Abbuoto è stato ufficialmente censito nel Registro Nazionale delle Varietà di vite con pubblicazione del decreto di ammissione sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 17.06.1970 e in seguito inserito dalla Regione Lazio nella pubblicazione dell’A.R.S.I.A.L. delle “Varietà Locali Tutelate”, ovvero “Risorse genetiche sotto tutela” ai sensi della Legge Regionale 1 marzo 2000 n. 15. E’ un vitigno originario proprio di questo areale che va dalle campagne di Fondi sino alle zone della piana racchiusa dalla corona dei Monti Ausoni e Aurunci, sino in Campania. Il grappolo ha dimensioni medie grandi, semi-serrato, di forma cilindrica-conica, a volte con una o due ali. L’acino, grande e sferico, ha buccia spessa e pruinosa, di colore violaceo. La foglia, grande anch’essa, è pentalobata, di colore verde chiaro.

Qui a Monti Cecubi si parla chiaramente della rinascita del vino Cecubo, il vino rosso molto pregiato e parecchio apprezzato dai Romani che secondo il racconto di Plinio si produceva proprio da queste parti in areale pontino – “Caecubae vites in Pomptinis Paludes madent…“ – e le cui vigne si trovavano nella zona “… supra Forum Appii”, proprio quel territorio che dall’attuale Formia, si estendeva fino alle attuali Fondi e Terracina.

L’Abbuoto di Monti Cecubi proviene proprio dalle vigne di San Raffaele di Fondi, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre un vino intenso, fresco e particolarmente suggestivo, che troviamo molto buono con questo duemiladiciotto, un Lazio igt di cui sono state prodotte circa 6000 bottiglie! E’ un rosso di colore amaranto, pieno e vivace, con sentori di melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di caffè e cioccolato, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, 13% di alcol in volume in etichetta, ben misurato il passaggio in legno che consegna al palato un tannino vellutato, nessuna spigolatura, solo tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso. Di quei rossi da bere alla giusta temperatura, intorno ai 14°, per goderselo appieno!

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Napoli, Falanghina Campi Flegrei Colle Imperatrice 2019 di Cantine Astroni

4 agosto 2020

Sono trascorsi dieci anni dalla prima recensione di questa etichetta su queste pagine, se questo tempo ha visto cambiare tante cose qui a Cantine Astroni, oltre alla nascita e l’affermazione di tanti nuovi protagonisti del vino nei Campi Flegrei, è anche merito di chi, dieci anni fa, ma anche prima, aveva intrapreso una strada nuova e convincente soprattutto puntando sul lavoro in vigna e in cantina.

L’Arcante custodisce innumerevoli testimonianze storiche di questo percorso, di tanto in tanto, bicchiere alla mano, è bello e suggestivo ripercorrere certi sentieri, ritornare a quegli anni, soprattutto quando, nel bicchiere che hai davanti, ci trovi buonissimi vini finalmente liberi da pregiudizi o da ansie da prestazione; così è con il Colle Imperatrice duemiladiciannove, un bianco decisamente efficace, semplice se vogliamo, eppure disarmante nella sua piena espressività territoriale. Con ogni probabilità ben più degli altri preziosi gioielli di famiglia nati nel frattempo, dallo stesso Strione¤ al Vigna Astroni¤, sino all’ultimo nato, il Campi Flegrei bianco Tenuta Jossa¤.

Così scrivevamo, dieci anni fa, a proposito della Falanghina e del pensiero maturato qui ad Astroni: ”… c’è poi chi continua a rincorrere un ideale di un vino, per dirlo alla sua maniera, alternativo, certamente possibile, ma indubbiamente diverso, se non spiazzante; è Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni, convinto come pochi in regione a fare sul serio sulla Falanghina tanto da spingerlo a continuare strenuamente nella sua personale ricerca di un bianco autoctono flegreo macerato e capace di sfidare il tempo: il 2008 dello Strione, dai primi assaggi promette buone aspettative, staremo a vedere cosa saprà raccontare tra qualche tempo ancora. Frattanto però, io gli continuo a preferire il Colle Imperatrice, l’altro cru aziendale, che di sfide non ne vuole lanciare, e nemmeno ambisce a grandi traguardi se non quelli di confermare, ove mai ce ne fosse stato bisogno, un vino perfettamente calato nella sua dimensione territoriale nonché nel suo ruolo commerciale, pura esibizione di carattere ad un prezzo piccolo piccolo”.

Leggi l’articolo completo del Colle Imperatrice 2009 di Cantine Astroni Qui.

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Segnalazioni| Falanghina Campi Flegrei 2019 Azienda Agricola Mario Portolano

26 luglio 2020

Abbiamo scritto più volte di questa nuova interessante azienda flegrea di proprietà della famiglia Portolano, imprenditori napoletani attivi in campo manifatturiero dal 1895. Ci siamo tornati con piacere a distanza di poco più di un anno, per camminarci nuovamente le vigne con Mara e provare alcuni vini, tra questi la deliziosa Falanghina Campi Flegrei duemiladiciannove di prossima uscita. 

L’azienda è a Toiano, area periferica del comune di Pozzuoli, cuore della denominazione di origine controllata Campi Flegrei; possiede 5 ettari e mezzo di cui 4 a corpo unico proprio a via Toiano, giusto all’ingresso del quartiere popolare del comune flegreo che ha conservato a macchia di leopardo piccole oasi verdi dove sono ancora evidenti le origini rurali di questi luoghi che, a metà-fine anni ’70 sono stati destinati, dopo un repentino e intenso piano di urbanizzazione, ad accogliere gli sfollati del centro storico e del Rione Terra di Pozzuoli, prima a seguito del Bradisismo, poi ancora del Terremoto dell’80.

Tra le vigne, al netto di qualche filare di Aglianico proveniente da Taurasi e piantato quasi per gioco negli anni ’90, regna sovrano il Piedirosso dei Campi Flegrei, protagonista di un vino che si sta facendo molto apprezzare per le sue caratteristiche organolettiche, così uniche e rare, che ne fanno uno dei rossi campani tra i più ricercati e apprezzati negli ultimi anni, qui poi particolarmente sorprendente, come già abbiamo avuto modo di raccontare nelle annate degustate che vi riproponiamo alla fine di questo post.

Da due anni è entrato in produzione anche un piccolo appezzamento di Falanghina, collocato però ad un paio di chilometri dall’azienda, in via Montenuovo Licola Patria, sul versante costiero di Cuma, sempre nel comune di Pozzuoli; una vigna di circa 1 ettaro e mezzo dove, con la vendemmia 2018, si è cominciato a fare un bianco di buona personalità, sempre con l’aiuto in cantina di Gianluca Tommaselli, ottimo enologista e buon interprete di questo e diversi altri territori della provincia di Napoli.

Proprio in questi giorni finisce in bottiglia il secondo atto di questo lavoro, il duemiladiciannove; nel bicchiere ci arriva un vino dal bel colore paglia con accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il quadro olfattivo è molto invitante, è varietale e tipico, con un quadro organolettico floreale e fruttato molto fine, cui s’aggiunge un lieve rimando salmastro e dei piacevoli sentori di acacia e ginestra. Il sorso è secco e morbido, possiede una buona progressione gustativa, si gioverebbe di maggiore freschezza con un pizzico di acidità, tant’è il calice sparisce con due sorsi e con piena soddisfazione, quanto ci basta per apprezzarne appieno la bevuta. Ci piace pensare che una nuova piccola stella possa brillare nel firmamento flegreo, ancora un passo avanti, ancora un tassello di qualità per tutto il territorio!

Leggi anche Pozzuoli, il Piedirosso Campi Flegrei 2017 di Mario Portolano Qui.

Leggi anche Pozzuoli, il Piedirosso Campi Flegrei 2018 di Mario Portolano Qui.

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Segnalazioni| Porto Late Bottled Vintage 2015 Burmester

24 luglio 2020

Ci trovi dentro aromi delicati e vari, il colore rossiccio è una finestra sul tempo, sembra ritrovarci bacche e uva completamente mature, si resta impalati sugli aromi di cacao, cioccolato e legno tostato, caffé, liquerizia. Il sorso è denso e profondo, conserva una bella freschezza gustativa, denota ovviamente un tono alcolico deciso eppure pienamente integrato nel vortice di cioccolato, frutta nera e un po’ di spezie dal sapore antico. Dona suggestioni straordinarie.

La storia della “Feitoria*” Burmester è simile a tantissime altre del panorama produttivo dei Porto ma la qualità dei suoi vini è comparabile a pochissime altre etichette in circolazione; Henry Burmester, originario della Germania, si era stabilito con la sua famiglia a Londra agli inizi del settecento dove aveva avviato in poco tempo una compagnia di commercio di cereali da e per il Regno Unito. Arrivato a Vila Nova de Gaja, in Portogallo, per tutt’altri affari, si accorse immediatamente del grande potenziale di questo delizioso vino che tanto lo aveva inebriato ma che tanto sembrava soffrire delle difficoltà di distribuzione commerciale sul mercato mondiale: è il 1750, nasce così la Burmester Port Wine Company che ancora oggi sfoggia vini dall’eccezionale valore degustativo e tipicità.

*Feitoria, è l’equivalente di azienda agricola.

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Correva l’anno| Falerno del Massico rosso Ariapetrina 2009 Masseria Felicia

9 luglio 2020

Non è possibile raccontare questo vino senza averlo vissuto sino in fondo, non solo sino all’ultimo coinvolgente sorso nel bicchiere, le due ultime dita nella bottiglia, bensì ritornando alla sua nascita, ripercorrendo questi anni.

Bisognerebbe quindi cominciare da là, tornando indietro nel tempo, a quell’anno, provare per quanto possibile a riavvolgere il nastro della nostra vita e ricordarlo quel tempo, quei mesi, certi giorni, alcuni momenti in particolare.

E’ stato un anno importante il duemilanove, segnato da cambiamenti epocali, per la storia del mondo e in qualche maniera, a piccoli sorsi, per chi scrive: a gennaio Barack Obama giurava da 44º Presidente degli Stati Uniti, davanti a più di due milioni di persone che avevano letteralmente invaso Washington DC per assistere al giuramento del primo Presidente americano di colore; il 6 Aprile invece l’Italia è sottoshock: alle 3:32 una scossa di terremoto di magnitudo 6.3 fa tremare la Provincia dell’Aquila (e non solo) causando vittime, feriti, sfollati e il crollo di molti edifici. Una tragedia immane che ha risvegliato in molti italiani paure e traumi mai spariti del tutto, ma anche orgoglio e dignità.

Qualche settimana più tardi, una scossa più o meno della stessa intensità scuoterà invece la mia vita professionale, provavo a rimettermi profondamente in discussione approdando a Capri (Leggi Qui). Ad ogni modo, fatte ovvie le giuste proporzioni, fu quello un anno particolarmente intenso!

Proprio a novembre di quell’anno, a fine stagione, torno a Masseria Felicia, a Carano, in località S. Terenzano, una piccola frazione di Sessa Aurunca, il primo comune per estensione della provincia di Caserta (e della Campania) per ritrovare Maria Felicia e i suoi splendidi Falerno del Massico. Una casa dei primi del novecento che il nonno rilevò nel dopoguerra, vi era stato per tanti anni colono ed unico conduttore dei terreni, così il papà di Maria Felicia, Alessandro Brini, si convinse che era venuto il tempo di riscattare la storia di quegli anni e consegnarla nelle mani della giovane figlia; il susseguirsi delle stagioni, con i suoi ritmi, ha poi tracciato lentamente  il solco famigliare sino ai giorni nostri.

Maria Felicia fa sostanzialmente un solo vino, il Falerno del Massico, che assume varie anime nella rincorsa alla natura di questo territorio straordinario, Bianco perchè tratteggiato con i colori della Falanghina, Rosso quando animato dall’Aglianico e dal Piedirosso, nella versione giovane (e sfrontato) col nome Ariapetrina, mentre diviene irreprensibile e immortale con l’Etichetta Bronzo¤. Oltre questi qua, nulla di stravagante, poche, pochissime bottiglie di altro ma giusto per dare libero sfogo ad uno studio approfondito sul potenziale delle tre varietà impiantate in azienda, un esercizio tecnico sul tema autoctono che conduce talvolta a utili micro vinificazioni, colmate dalla passione, per esempio del Piedirosso in purezza, anche qui capace di ritagliarsi, di tanto in tanto, il suo piccolo ruolo da solista.

Eccola invece la forza evocativa di questo Ariapetrina duemilanove, lo scugnizzo di casa per Maria Felicia; il rosso giovane e sfrontato che a sentirlo oggi, a distanza di quasi 11 anni, pare proprio non temerlo il tempo, le stagioni, i suoi ritmi, ci arriva così nel bicchiere maturo ma sicuro di sé, della sua storia, della sua stoffa, del suo talento capace di attraversare le insidie degli anni migliorandosi. Non è mera celebrazione, tutto sembra scorrere chiaramente in ogni bicchiere, riempiendo i calici di frutta e sensazioni odorose delle più ampie ed eteree, con sorsi asciutti e caldi, con ancora tanta piacevole freschezza gustativa, tratto distintivo di tutti i vini di Masseria Felicia, con quella spalla acido-tannico utile per abbracciare abbinamenti con molti piatti della nostra cucina tradizionale regionale, con la certezza di ritrovare ad ogni sorso almeno un pezzo di noi stessi, di averla vissuta proprio tutta la nostra storia di questi anni, ma che bello rivederla! 

Leggi anche Falerno del Massico Etichetta Bronzo 2013 Qui.

Leggi anche Piccola Guida ragionata al Falerno del Massico Qui.

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La conquista dell’indulgenza del Piedirosso a suon di sorsi, o del Colle Rotondella 2019 di Cantine Astroni

23 giugno 2020

L’indulgenza, il perdono dei peccati. C’è stato un tempo in cui bastava pagare moneta sonante per riceverla, per essere sicuri di andare dritto in paradiso. Era quello il tempo in cui i predicatori facevano credere al popolo che non servivano la fede e le buone opere, bastava infatti pagare per ottenere il perdono.

A quel tempo, per fortuna, in molti non la pensavano allo stesso modo, tra questi un monaco, colto e profondamente devoto, un certo Martin Lutero. Senza scomodare Papa Leone X, che pure aveva le sue ragioni per avallare una politica quantomeno bizzarra applicata al perdono dei peccati, – serviva per pagare la costruzione della basilica di San Pietro a Roma, perciò decise di vendere le indulgenze in tutta la Germania -, né lagnarsi dello scandaloso comportamento di alcuni predicatori che si spinsero tanto oltre da condurre alla nascita del Protestantesimo, ci piace l’idea che anche a parlar di  vino, del nostro Piedirosso dei Campi Flegrei, coltivare il dubbio – è proprio il caso di ribadirlo con fermezza – abbia contribuito a convertire molti appassionati dalle loro convinzioni davanti a certe belle bottiglie come questa di Cantine Astroni.

Anche da queste parti ne abbiamo viste tante, bevute di più, abbiamo a lungo assistito ad una rincorsa piena di incertezze, qualche scorciatoia e tante mezze misure talvolta senza senso, non senza errori; poi finalmente la verità: proprio come per Lutero, verrebbe da dire, per diversi produttori flegrei c’è stato un tempo tormentato a cui ha posto fine un fulmine, la riscoperta del Credo, di certi valori antichi, del territorio, valorizzandone pienamente il patrimonio vitivinicolo per mezzo di un atto di fede capace di tracciarne una nuova via di successo.

Colle Rotondella duemiladiciannove proviene in larga parte da vigne dell’areale dei Camaldoli, da quel vigneto di circa tre ettari piantato perlopiù con Piedirosso dei Campi Flegrei che si affaccia proprio sulla popolosa periferia napoletana, da dove viene fuori anche questo vino delizioso, caratterizzato da una sfrontata giovinezza, con un colore avvenente, profumi seducenti e ruffiani, una beva scorrevole e furba, non priva però del giusto carattere. Annata tormentata quella appena trascorsa, la pioggia di settembre ha provato a rovinare la vendemmia, la forza di saper aspettare il sole di ottobre ne ha riscritto segnatamente il destino dei vini. 

E’ un rosso contemporaneo quello che ci arriva nei bicchieri, prova a regalare un piacevolissimo gioco dei sensi a chi si avvicina alla tipologia per la prima volta, con quel colore rubino dalle vivaci sfumature quasi porpora; possiede un ventaglio olfattivo estremamente varietale, è vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. Un corredo aromatico arricchito da lievi sfumature officinali e da una fresca tessitura gustativa, abilmente tenute assieme dal manico di Gerardo Vernazzaro, proprio grazie alla sua lunga esperienza di studio del territorio e del varietale. Il sorso è secco e morbido, infonde piacere di beva e grazia ricevuta, una sorsata ne richiama subito un’altra, sfrontata, agile, calda e avvolgente.

Leggi anche Piedirosso Colle Rotondella 2018 di cantine Astroni Qui.

Leggi anche Piedirosso Riserva Tenuta Camaldoli 2011 di cantine Astroni Qui.

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Segnalazioni| Barolo MGA di Masnaghetti è on line!

23 giugno 2020

Chiunque abbia un briciolo di passione per il mondo del vino ama il Barolo e i territori da dove proviene questo straordinario rosso italiano.

Chiunque abbia avuto anche un solo briciolo di curiosità in più si è sin da subito affidato nelle mani di Alessandro Masnaghetti per orientarsi e imparare, scoprire ad esempio le 170 Menzioni Geografiche Aggiuntive ufficiali (MGA o Me.G.A., ndr), divorando ogni uscita di Enogea e collezionando le mappe del piacere enoico aggiornate costantemente negli anni. Un lavoro enorme e prezioso, imperdibile!

Oggi tutto questo è anche on line (in parte free): lo trovate qui www.barolomga360.it.

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La sobrietà travolgente del Montepulciano d’Abruzzo 2017 di Emidio Pepe

15 giugno 2020

Il Montepulciano d’Abruzzo rimane una delle varietà rosse più versatili dello straordinario patrimonio ampelografico italiano, protagonista assoluto in alcuni territori in particolar modo, senza dubbio tra le più bistrattate in alcuni altri.

Certo non qui a Torano Nuovo, nelle mani di Emidio Pepe che ci regala ancora una volta una grande bevuta con questo suo duemiladiciassette, forse non tra le migliori bottiglie di sempre uscite dalla storica cantina abruzzese ma senz’altro un rosso di assoluto valore emozionale.

Annata assai difficile da queste parti, dove non sono mancati disastri qua e là in regione, non qui, dove si fa un grande lavoro in vigna prima che in cantina, riuscendo a tirare fuori, evidentemente, ancora un Montepulciano d’Abruzzo di spessore e larghezza, già per sua natura proiettato a lunga vita. Un territorio unico questo, dove la natura incontaminata gode di un microclima particolare, con la terra argillosa e calcarea che si avvantaggia dell’influenza del mare e delle fredde correnti del vicino Gran Sasso; il resto lo fanno le vecchie vigne coltivate in larga parte ancora a pergola, in regime biologico e biodinamico, i primi 50 anni di vendemmie alle spalle, la manualità e la sapienza dell’uomo, unite al rispetto dei tempi lunghi.

Il colore è splendido, di quel rubino con appena degli accenni granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso chiede e merita un po’ di tempo, non tradisce una certa matrice fruttata e speziata, intrisa di un sottofondo balsamico dolce e sottile, ma è il frutto al centro del disegno olfattivo: franco, polposo il giusto, saporito. Il sorso è quasi prepotente, come solo un grande vino sa regalare, è generoso, con stoffa e misurata sostanza, la giusta tensione gustativa e quella avvolgenza gustosa che ti invita a riportare subito il bicchiere alle labbra, a ripetere quel gesto di sottile seduzione, necessario e piacevolissimo da condurre con certe bottiglie prive di sovrastrutture inutili e pregne di una sobrietà quasi travolgente.

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Sancerre La Moussiere 2018 Alphonse Mellot

8 giugno 2020

Un grande Sancerre questo di Alphonse Mellot, di quelli che ti rimangono dentro come una grande esperienza, guai a lasciarla andare via senza dedicargli almeno due righe, soprattutto quando si tratta di raccontare di una terra dove, si racconta, si nasconde ancora l’anima più arcaica e selvaggia del Blanc fumé Loirenne.

La Moussière duemiladiciotto prende vita da un assemblaggio delle uve raccolte tra i filari più o meno giovani degli oltre 30 ettari piantati a Sauvignon del Domaine, perlopiù su terreni caratterizzati da calcare e marne e vigne condotte in ossequio dei più rigidi protocolli di agricoltura biologica e biodinamica; rappresenta forse l’anima più autentica dei fratelli Alphonse Jr ed Emmanuelle Mellot e continua ad essere uno dei miei bianchi preferiti in assoluto di questo territorio, nonostante sia solo il terzo vino dopo “Génération XIX” e la “Cuvée Edmond¤” prodotto qui.

E’ un vino luminoso, con un bel colore paglia intenso, con un naso subito verticale, dal sorso tremendamente asciutto eppure tanto invitante quanto complesso e ricco. Ha spessore, agilità, pienezza; per un cinquanta per cento della massa che fa fermentazione in legno grande vi è l’altro cinquanta che passa solo in acciaio. Poi, una volta deciso il blend, finisce una manciata di mesi in bottiglia, il tempo necessario per ritrovare equilibrio, ricomporsi e consolidare quella verve che ne caratterizza in maniera incisiva, dal primo all’ultimo sorso l’esperienza gustativa.

Ci trovi dentro un corredo aromatico dei più classici (agrumi, litchi, frutto della passione, timo) ma anche note più intense, vibranti e quasi pungenti, di polvere di gesso e pietra bagnata. A piccoli sorsi ci ritrovi anche tanta sapidità, con quel sapore deciso, forse un po’ concentrico sul varietale ma con quelle increspature agrumate e minerali che man mano ne alleggeriscono la profonda tipicità del frutto senza però sovrastarlo, come solo certe grandi bottiglie sono in grado di fare!

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Il Terra di Rosso 2017 di Galardi e l’apologia del Piedirosso in Campania

19 Maggio 2020

Ci avviciniamo a questo delizioso rosso a distanza di qualche mese dalla sua primissima uscita sul mercato, Terra di Rosso è un vino prodotto con solo uve Piedirosso provenienti da una delle splendide vigne di San Carlo di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, di proprietà dell’azienda, nel pieno della sua maturità espressiva.

”I Galardi” – se così possiamo permetterci di sintetizzare il fortunato incrocio di passioni e devozione per questo meraviglioso pezzo di Terra di Lavoro dei cugini Roberto Selvaggi, la moglie Maria Luisa Murena, Arturo e Dora Celentano e Francesco Catello -, con questa nuova etichetta inaugurano un nuovo corso produttivo, non più appannaggio del solo Terra di Lavoro¤, peraltro conosciuto e già molto apprezzato in tutto il mondo per la sua costanza qualitativa, sdoganando l’idea di un secondo vino che non sia però una seconda scelta, bensì un progetto del tutto dedicato specificatamente al Piedirosso.

Una varietà a cui siamo notoriamente molto affezionati, per lungo tempo lasciata al suo destino di figlio di un Bacco minore ma che, come abbiamo avuto modo di cogliere più volte negli ultimi anni su queste pagine, resta capace, in certi luoghi, nelle mani giuste, di venire fuori con vini di grande personalità, finanche di raffinata eleganza, non più banalizzato a causa di alcuni difetti cronici di interpretazione ma esaltato per delle sue peculiarità specifiche.

Il Piedirosso ama le sabbie e i terreni vulcanici, non disdegna temperature fresche, non a caso due caratteristiche specifiche del territorio di San Carlo di Sessa Aurunca, alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. A queste vi si aggiungano l’età delle piante, in media sopra i 20 anni e quindi nel pieno della loro maturità produttiva e, ancora, l’esperienza dell’azienda lanciatissima verso il suo primo trentennio di vita, capace quindi di leggere ed interpretare perfettamente il territorio e il vigneto, l’umore dei frutti che ne vengono fuori, la giusta misura del legno e del manico in cantina.

La discesa in campo dell’azienda di Roccamonfina sul tema Piedirosso trova non pochi consensi nella storia vitivinicola regionale e ne avalla peraltro l’apologia manifesta degli ultimi anni. Alla base di questo momento fortunato ci sono però radici storiche forti, troppe volte negate, si pensi solo al suo impiego già previsto nel primo disciplinare del Taurasi¤ doc, anno 1970, dove vi entrava in uvaggio con l’Aglianico, come pure in diversi altri disciplinari regionali che ne fanno da sempre, in certi territori, il varietale in larga parte più diffuso, se non il protagonista assoluto, come ad esempio accade nei Campi Flegrei o a Ischia e in certe zone del Beneventano.

Assistiamo tra l’altro negli ultimi anni ad un lento ma inesorabile cambiamento di fronte sul piano gustativo; un tempo si ricercavano prevalentemente vini opulenti e comunque di grande struttura, ora la situazione si va praticamente ribaltando, almeno in certi contesti. E’ in atto una costante inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, anche quando tratteggiati da gradazioni alcoliche non necessariamente contenute. Non più, quindi, vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.

Terra di Rosso duemiladiciassette si va collocando a nostro parere proprio nel mezzo di questa storia, se da un lato dà il via ad una nuova stimolante sfida per Galardi, valorizzandone un pezzo di vigna di proprietà, un nuovo percorso stimolante, dall’altro saprà contribuire grazie al suo successo, la sua affermazione internazionale, di cui siamo certi, nel dare maggiore lustro al territorio di Roccamonfina e a questo vitigno che qui ci ha trovato senz’altro un ambiente favorevole e particolarmente vocato.

I presupposti, già con questa ”Prima”, sembrano esserci tutti: nel bicchiere ci arriva un vino dallo splendido colore rubino con vivaci riflessi violacei, di media concentrazione; il naso è subito fruttato e floreale, elegante e raffinato, profuma di rosa e violetta, di melograno e ciliegia, presto ne siamo certi svestirà anche quelle ultime nuances tostate regalate dal passaggio in legno nuovo, lasciando così spazio alla franchezza e alla bontà del frutto che ritroviamo scrocchiante e polposo, persistente sin dal primo sorso, è un rosso di buon corpo e tratteggiato da tannino lieve e morbido. Decisamente un buon esordio per un debuttante!

© L’Arcante – riproduzione riservata


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