Camminare per le viuzze di Barolo è davvero piacevole, più che mai in una giornata di ottobre soleggiata e calda; l’atmosfera qui pare conservare perenne pacatezza nonostante siamo in uno dei luoghi del vino più amati, conosciuti e visitati al mondo.
Il centro cittadino, piccolo borgo capitale del vino di Langa, appare al visitatore vivace ma non caotico, animato, – in alcuni momenti della giornata parecchio -, ma non chiassoso. Insomma è tutto in ordine, un elogio alla lentezza, con ogni cosa sempre al suo posto. E proprio all’ingresso di Barolo, subito a sinistra in via Roma, c’è quella che critici e appassionati, unanime, dicono rappresenti l’azienda che in tutto e per tutto esprime al meglio l’anima barolista tra le più tradizionali in circolazione: Cantina Mascarello. Cinque ettari tra La Morra e qui in Barolo – tra cui 1 ettaro in pieno Cannubi –, oggi, dopo la scomparsa del mitico Bartolo nel 2005, nelle mani di Maria Teresa. “Papà Bartolo – racconta la figlia con gli occhi colmi di orgoglio -, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, e per chi ha imparato a leggerne e seguire il modello, l’ideale, rimane un simbolo indelebile, uno strenuo difensore dell’identità barolista, senza se e senza ma”.
Forse è anche per questo che si rimane decisamente rapiti da questa bottiglia: cotanto blasone, guadagnato sul campo, coltivato in quasi cento anni di storia, pare sciogliersi dolcemente dinanzi a un bicchiere di vino che vuole essere tutto tranne che aristocratico o espressione di risoluta austerità. La freisa di Maria Teresa è tutto quello che non potrebbe mai esprimere un Barolo tradizionale, quello dei Mascarello in particolar modo: di un colore rubino porpora, fruttato e ammiccante, polposo, sottile e vivace quando non leggermente zuccherino; insomma, leggerezza e disimpegno, quelli necessari nelle lunghe chiacchierate intorno a una tavola imbandita di cose semplici e goderecce, un sorso veloce, sbarazzino, offerto dinanzi a un piatto unico e completo, come per esempio una buona pizza o un panino caldo.
Una freisa “nebbiolata” come mi racconta Maria Teresa, come si faceva un tempo in langa, ripassata per poche ore sulle vinacce del nebiolo (quello autentico si scrive con una sola b) risolvendo la fermentazione alcolica prima del dovuto lasciandovi così un contenuto residuo zuccherino tale da garantirgli una seconda fermentazione in bottiglia, utile a conferirgli vivace complessità ma senza stravolgerne compostezza e trama e, soprattutto, capace di donargli quella deliziosa immediata bevibilità altrimenti lontana nel tempo. In fondo, a rileggere la storia recente della famiglia Mascarello, questa vivacità d’animo è sempre aleggiata in casa, soprattutto in certe iniziative di papà Bartolo; un controcanto di leggerezza, talvolta audace, beffardo, addirittura anarchico se vogliamo, ma sempre fiero, e distante anni luce da certi stereotipi, politici come enologici soprattutto incalzanti negli anni novanta: chi non ricorda il “no Berlusconi, no barriques!” “gridato a viva voce” con una etichetta firmata di proprio pugno e che ha fatto storia e da eco a quel no! fermo all’innovazione che strizzava l’occhio al modello bordolese a quel tempo lontanissimo da Barolo eppure tanto costantemente inseguito. Ma questa è un’altra storia, come tanti gli altri aneddoti tutti da raccontare nei prossimi post; frattanto però godiamoci questo primo inatteso e fresco sorso di langa.
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