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Segnalazioni| Barolo MGA di Masnaghetti è on line!

23 giugno 2020

Chiunque abbia un briciolo di passione per il mondo del vino ama il Barolo e i territori da dove proviene questo straordinario rosso italiano.

Chiunque abbia avuto anche un solo briciolo di curiosità in più si è sin da subito affidato nelle mani di Alessandro Masnaghetti per orientarsi e imparare, scoprire ad esempio le 170 Menzioni Geografiche Aggiuntive ufficiali (MGA o Me.G.A., ndr), divorando ogni uscita di Enogea e collezionando le mappe del piacere enoico aggiornate costantemente negli anni. Un lavoro enorme e prezioso, imperdibile!

Oggi tutto questo è anche on line (in parte free): lo trovate qui www.barolomga360.it.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Bricco delle Viole 2014 G.D. Vajra, un Barolo che profuma di grazia e sa di eleganza

1 aprile 2019

Pochi vini sanno essere così riconoscibili come il Bricco delle Viole della famiglia Vaira, un Barolo pieno di fascino, tanto immediato quanto profondo e fine, di rara eleganza. 

Barolo Bricco delle Viole 2014 G.D. Vajra - foto L'Arcante
E’ uno splendido vino quello saggiato alcune settimane fa durante la manifestazione SoWine in Rinascente a Roma, tanto buono che ci siamo ritornati su più volte, ad ogni passaggio sempre più coinvolgente. Viene fuori da una delle colline più alte del comune di Barolo, il Bricco delle Viole per l’appunto, un promontorio tutto esposto a sud, che guarda le Alpi e che gode della luce del sole praticamente dal primo mattino sino all’ultimo raggio prima del tramonto. La vigna è caratterizzata perlopiù da vecchi ceppi di Nebbiolo delle varietà Lampia e Michet di età media tra i 60 e i 70 anni che affondano le radici in un terreno bianco chiarissimo ricco di calcare e minerali.

Ne cogli il gran fascino e l’eleganza già innanzi al suo splendido colore rubino brillante, trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere, possiede una lucentezza straordinaria che ammalia, invita, conquista. Il naso è subito intenso, ampio e caldo, sono finissime le note di violetta e rosa, cui s’aggiungono ciliegia e agrumi, seguite da rimandi lievemente più eterei, infine un accenno balsamico che ricorda la liquirizia. Di pregiatissima tessitura, il sorso è setoso e piacevole, pare esprimere già una sostanziale armonia di beva, con un finale di bocca lungo, che chiude asciutto, stuzzicante, lievemente speziato. Un Barolo duemilaquattordici che profuma di grazia e sa di eleganza.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Monforte d’Alba, Langhe Nebbiolo 2011 Parusso

7 gennaio 2014

Argomento delicato il nebbiolo di Langa, ancor più delicato quando passano per le mani bottiglie come queste, ben fatte, estremamente pulite al naso e con il sorso calibrato a puntino, di ‘facile’ lettura e di vocazione sicuramente più internazionale che nostrana.

Nebbiolo 2011 Parusso - foto A. Di Costanzo

Azienda solida e di chiara impronta contemporanea quella di Tiziana e Marco Parusso¤, stimati produttori a Monforte d’Alba e artefici tra gli altri di buonissimi Barolo. Modernismi a parte nulla da ridire sul principio che pare secondo me donare ancor più sostanza a una tipologia di vino entry level nemmeno più tanto ‘importante’ per certe aziende ma che rappresenta invece, molto bene, l’idea, nemmeno tanto celata, di piacere immediatamente a chi ne capisce poco o nulla del nebbiolo o vi si avvicina per la prima volta.

Va detto però che il naso affascina parecchio anche chi pensa di capirne qualcosina; curioso e spiazzante infatti sa dapprima di polvere di castagna, poi di tartufo, sottobosco infine di un invitante ed insistente profumo di rosa e, assai gradevole, al limite del ruffiano, di fragola. Legno nuovo o no il palato sembra giovarsene tanto, il vino scorre via che è un piacere, sottile e dolce senza manco una sbavatura o stortura acido tannica. Piacerà a chi piace, insomma, ecco perché vale la pena tenerne conto.

Intervallo. La cantina dell’anno

31 ottobre 2012

Mi piacerebbe avere una cantina così – magari tenuta non proprio così -, ma chissà quanto mi divertirei a maneggiare bottiglie del genere. Alcune si perdono nella memoria del tempo. Se provi a fare due conti, non ci arrivi. Però è tanta roba, ve l’assicuro. 

E’ il luogo di Maurilio Garola e Nadia Benech, a Treiso, in langa. Un ristorante, con camere, ricavato nell’ex asilo del paese di stile Littorio, del 1931. Grandi vini e buoni piatti della tradizione langarola. Da un piccolo ingresso di entra nella sala grande che affaccia direttamente sulle vigne. La Ciau del Tornavento è uno di quei posti dove può capitare tranquillamente di incrociare, tra tavolate di svizzeri, tedeschi e giapponesi un Roberto Voerzio qua e un Giorgio Rivetti là, mentre con degli amici tu sei a cena con Rossana Gaja. 

La Ciau del Tornavento
Piazza Baracco, 7 – 12050 Treiso (CN)
Tel. +39 0173 638333
www.laciaudeltornavento.it
info@laciaudeltornavento.it
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22-23-24-25 Ottobre Duemiladodici. Il Viaggio…

17 ottobre 2012

Sabatino, quasi 20 anni al Palace, se ne va in pensione. Gennaro festeggia per il terzo anno di seguito i suoi 50 anni. Antonio, non so perché, ma ci sta bene. Luca s’è fatto il culo, come del resto un po’ tutti quanti noi quest’anno, lui però giusto quel poco in più che quando c’è si nota subito. Nando, eh Nando, ah sì, per grazia di Dio. Pino? Beh, Marianna gli ha preso 16, se lo merita, lui! Fabrizio, Gianni, Mimmo sarà un piacere enorme averli con noi. Francesco poi ci deve stare per forza, sennò…

Insomma, per farla breve, il 22 ottobre prossimo si parte e il 23, 24, 25 saremo da quelle parti (e altrove) tra vigne e cantine. A conoscere persone. Ce lo siamo meritato tutto. Sì, anch’io, sino all’ultima goccia!

Chiacchiere distintive, di Angelo Gaja ed altre cose di questo mondo: la storia, il vino, il web

10 settembre 2012

E’ qui per fare vacanza, starsene tranquillo con l’amata Lucia e trascorrere le primissime ore del mattino a passeggiare alla Migliara ad Anacapri. Poi però cede alla tentazione lanciatagli iersera tra una chiacchiera e l’altra: “Le va di raccontare un po’ di storia della famiglia Gaja ai ragazzi dello staff, sarebbero onorati della sua presenza?”. “Manco a chiederlo Angelo, a che ora ci vediamo?”.

Inutile ricordare quanto sia bravo a tenere banco. Non è la prima volta che gli siedo davanti, ma oggi è più piacevole che mai. Il ricordo dei fondatori dell’azienda è un intercalare appassionato, poi si emoziona visibilmente quando parla di nonna Clotilde Rey*, della sua figura di donna severa e determinata, autoritaria ed esigente, di quanto sia stata fondamentale nella storia della famiglia. Cala il capo, prima di esplodere in un sorriso carico d’affetto, quando cita suo nonno Angelo che verso la fine dei suoi anni gli ricordava di sovente: “ad un uomo può anche capitare di sposare una donna più brava di lui, una in gamba, tosta. Ci pensi su ed arrivi alla conclusione che o la uccidi, o la segui. Io ho scelto di seguirla…”.

E’ una lunga storia, a tratti epica e ricca di sfumature. E’ orgoglioso quando rivendica le sue scelte, che ammette anche non essere state proprio tutte azzeccate ma ci tiene a riprenderle, una ad una, spiegandocele ognuna per bene.

Si va dalle prime occasioni mancate di comprar vigna in Barolo all’idea di andare in Toscana, sull’onda della grandeur dei Supertuscans; si passa poi dalla scelta, secondo lui obbligata – “per mille ragioni, ci dice” – di passare alla Langhe Nebbiolo coi suoi Grand Crus a quell’indimenticato “Darmagi!” esclamato da suo papà dopo aver piantato cabernet in terra di nebbiolo. Lo fa con orgoglio dicevo, sentimento che vira in felicità quando ci racconta dell’acquisto delle Cascine Marenca e Rivette a Serralunga d’Alba – dove si fa lo Sperss** -, avvenuta nell’88 e salutata quasi come una liberazione. Un omaggio al padre che proprio lì, in gioventù, aveva condotto le sue prime vendemmie; e di Ca’ Marcanda, che porta nel nome tutta la sua personale ostinazione che l’ha portato a sbarcare finalmente a Bolgheri dopo mesi di estenuanti tira e molla e trattative infinite con la vecchia proprietà.

E’ un fiume in piena Angelo Gaja, tantissimi gli argomenti toccati che non basterebbe una giornata per discutere di tutto e riportarne la cronaca; così, anche per questo, ci siamo dati appuntamento a fine ottobre lì a Barbaresco.

Ad alcune domande, tra le ultime, risponde con parole forti: lo fa su chi, dalle sue parti, continua a professarsi – autonomamente – conservatore della tradizione langarola quando “la storia nemmeno li ha sfiorati”. E non disdegna, più in generale, di condannare con fermezza la voracità della vetusta politica italiana, oltreché l’ostinazione di certi suoi esponenti intenti a guardare solo il proprio orticello più che l’interesse del paese. Un invito infine ai giovani, ad imparare sin da subito l’inglese e spostare, se necessario, le proprie ambizioni sin oltre i confini nazionali.

A pensarci bene è fatto proprio così, non si schermisce Angelo Gaja, non nasconde per esempio nemmeno di essere un vanitoso, e di essere inviso a diversi, eppure la percezione è che anche per coloro i quali il gradimento è ai minimi sopportabili rimanga un’istituzione per il mondo del vino italiano; e di certo lui non si fa mancare, di tanto in tanto, di ricordarlo in giro. Dice di farlo a modo suo, ne parla molto coi suoi clienti ma anche con i tanti (troppi!, cit.) “opinion leaders” di settore sparsi qua e là nel mondo eppure sempre proprio dietro l’angolo.

A tal proposito ci tengo a chiedergli ancora giusto un altro paio di cose sulla sua ultima uscita. Mi sorride, mi stringe forte al petto e prendendomi poi sotto braccio mi fa: “guarda che è tardi, facciamo tardi, tu hai da lavorare. Ci pensa due secondi su… “Vabbé dai, forza, sputa il rospo!”. E’ un grande!

Bene. In questi giorni è in giro sul web un suo pensiero sulla vendemmia 2012 e su come affrontare i cambiamenti climatici in atto. E’ lì la vera sfida del futuro per chi fa vino? Viviamo un tempo di grandi sfide, bisogna raccoglierle e fare del nostro meglio per affrontarle fino in fondo. Un tempo bastava consolidare la tradizione ereditata dalla famiglia, impegnandosi laddove possibile nel rilanciarla, affermarla, farla crescere. Oggi è diverso, non basta più solo quello, è necessario tirar fuori dalla storia nuovi orizzonti, scoperte, obiettivi.

E per far questo di cosa c’è bisogno secondo lei, tenendo conto del momento che converrà non essere proprio esaltante? Anzitutto la terra. Abbiamo in Italia ampie risorse per ricostruire un percorso di crescita economica virtuoso e proiettato nei lunghi termini. L’agricoltura ha bisogno di grande attenzione, innovazione, cura. E dare fiducia ai giovani, parlo soprattutto di noi vecchi che dobbiamo essere lì ad indicargli la via, non imporgliela, metterli sulla strada giusta e ricordargli la storia. Ma questi devono avere i mezzi per potersi mettere in gioco. In questo c’è bisogno di un grande slancio a livello istituzionale.

I cambiamenti climatici saranno quindi decisivi tanto da dover sviluppare una nuova agricoltura? Ma certo. L’Agricoltore, il vignaiolo per quanto ci riguarda, avranno un ruolo sempre più determinante. Solo chi vive la vigna sa di cosa ha bisogno in un determinato momento. Ma dovrà sapersi adeguare alle nuove occorrenze; certe malattie (della vite, ndr), ad esempio, a causa delle variazioni climatiche vanno scomparendo ma ne arrivano altre che bisogna saper affrontare.

Di concreto quindi c’è bisogno di tanta ricerca; possiamo anche immaginare l’abbandono di certe colture a favore di altre più adatte alle nuove “occorrenze”? Di certo c’è che con tutto il caldo di queste estati quelle che soffrono di più sono le varietà precoci. E’ necessario quindi imparare a “leggere” l’annata sin da subito, intervenire costantemente in vigna, con potature adeguate, defogliazione, ripensare l’irrigazione di soccorso, e avere naturalmente persone preparate per farlo al meglio.

Specializzazione insomma. Ma è lecito quindi pensare che la cantina, in senso stretto, acquisirà sempre maggiore importanza? Non si rischia così quell’omologazione di cui un po’ tutti fanno fatica anche solo a nominare? La cantina ha sempre avuto un ruolo importante, tuttavia ciò che la ricerca deve garantire sempre più è che il lavoro fatto in vigna venga interpretato al meglio senza stravolgerne l’essenza. Sicuramente chi può contare sulle giuste tecnologie ha una carta in più da giocare. Si può essere artigiani del vino senza essere necessariamente degli sfigati.

Per finire Sig. Gaja, ritornando ad internet e blog vari. Molti le imputano di usarli spesso come corrieri dei suoi pensieri, lei però si guarda bene da una vera interazione con i suoi frequentatori. Perché? Non è necessario, o non lo è quasi sempre. Poi, mettiamola così, io sono all’antica, c’ho 72 anni, ho bisogno di tempo per ragionarci su certi argomenti. Lì, nella rete o come diavolo la chiamate voi bloggers, tutto corre così velocemente che spesso tanti buoni argomenti, che andrebbero ragionati ed articolati, si perdono tra tante piccole fesserie.

* Alla nonna paterna Clotilde Rey (e alla prima figlia Gaia) è dedicato lo Chardonnay Gaia&Rey, un nome che volle essere un omaggio alla tradizione e al contempo uno slancio nel futuro.

** Sperss un tempo era Barolo Docg, oggi come tutti in Grand Crus di Gaja è un Langhe Nebbiolo. Quel luogo, le Cascine Marenca e Rivette in Serralunga, erano un vecchio pallino, scelto seguendo le orme del papà che in gioventù, per tre anni, lì ci aveva fatto vendemmia.

E’ venne il giorno del Barolo Borgogno a Capri…

30 Maggio 2012

L’Olivo DiVino

Storie di vino e di alta gastronomia nello stile de La Dolce Vite 

Venerdì 15 Giugno ancora un appuntamento imperdibile in Dolce Vite, la cantina del Capri Palace Hotel&Spa di Anacapri con la storia dell’azienda Borgogno, del Barolo e delle sue straordinarie terre di Langa.

Si parte alle ore 20.00 con un aperitivo di benvenuto in cantina, con l’Alta Langa Pas Dosé Contessa Rosa 2007 ed il Langhe Nebbiolo No Name 2008 di Borgogno. Durante la cena invece, realizzata a quattro mani dal nostro Executive Chef Andrea Migliaccio ed Ugo Alciati, chef nonché patron del Ristorante Guido a Pollenzo, verranno proposti quattro Barolo Riserva tra i quali le annate storiche del ’78, ’85, ’96 ed una delle ultime più apprezzate, quella del 2005. Un momento DiVino, imperdibile! 

Per informazioni e prenotazioni:
Ristorante L’Olivo – Due Stelle Michelin
Capri Palace Hotel & Spa
Via Capodimonte 14, Anacapri.
Tel. 081 978 0560
olivo@capripalace.com
www.capripalace.com
 
Ufficio stampa Capri Palace Hotel&Spa
Marita Rivas
Tel. 081 9780228
pr@capripalace.com

Serralunga d’Alba, vien di notte con le stelle e… un fresco bicchierino di bianco Montanaro

21 ottobre 2011

Stanotte ho dato un’occhiata lì fuori affacciandomi alla finestra; poi, per niente convinto della vista – cercavo le stelle, avevo a tiro solo rami di querce -, mi sono deciso a scendere giù; ho passeggiato qualche minuto, mi sono seduto su una panchina, ci sarò stato mezz’ora, quanto è bastato a far pace con la mia anima (mentre dal nulla sbucava un cervo!).

Il bianco Montanaro di Giulio Bongiovanni è molto più di un intruglio che ricorda il Vermouth – ricordate? E’ quel vino liquoroso ottenuto miscelando vini bianchi secchi, solitamente dal sapore neutro, con alcol puro, zucchero, assenzio ed altre piante aromatiche -, quello di una volta però, quello che aveva come base il miglior vino moscato e che faceva scintillare gli occhi già solo al primo sorso. Fu Ippocrate, il padre della medicina, tra i primi ad aromatizzare il vino con l’assenzio, aggiungendovi zucchero e alcol puro per renderlo ancora più dolce, quindi morbido diremmo oggi noi, e inebriante. Lui era solito utilizzarlo per purificare il corpo dei suoi pazienti, come vermifugo, ma vista l’euforia che manifestava la bevanda ed il suo gusto piacevole, ben presto questo intruglio divenne liquore pregiato, e nei secoli a venire destinato a palati sempre più raffinati.

Della ricetta tradizionale del Vermouth si conoscono più o meno i principali aromi utilizzati: di sovente genziana, zenzero, vaniglia, assenzio, maggiorana, melissa, timo, salvia, luppolo, sambuca, camomilla, finocchio, zafferano, melograno, garofano o chiodi di garofano, ma come la storia racconta ognuno ha poi maturato negli anni una propria unica ed irripetibile ricetta. Nel bianco Montanaro, tra i pochi “segreti” rivelati, oltre a recuperare il moscato come vino base, c’è che le erbe e le spezie non vengono lasciate in infusione diretta – cioè immerse nell’alcol -, ma in maniera indiretta, in sospensione; ovvero, in un contenitore con chiusura ermetica vengono poggiate su di una griglia e di tanto in tanto irrorate con l’alcol che, per caduta, viene raccolto alla sua base. Così per almeno 40 giorni. Altro segreto poi, lasciare i contenitori al sole al mattino e rimetterli al fresco in cantina alla sera.

Il risultato? Un vino delizioso e ammaliante, dal colore canarino luminoso. Al naso è fulgido, intensamente aromatico, officinale, speziato, finemente ammandorlato. Il sorso è asciutto, e nonostante il buon tenore alcolico e l’aggiunta di zucchero risulta assai fresco e avvolgente, anche se rotondo e caldo, efficace e piacevolmente secco sul finale di bocca. Un vino davvero adorabile, bevuto così freddo come l’ho apprezzato io rimane formidabile pure da solo, quando servito come aperitivo; ancor più se, con un pizzico di fantasia, un po’ di estro, giustamente miscelato ad una bollicina d’autore. Chissà che non sia da spingere come una buona idea…

Serralunga d’Alba, Barolo Vigna Lazzarito ’96

20 ottobre 2011

Chiariamo: tre giorni sono pochi – pochissimi – per cogliere tutte le sfumature che questa straordinaria terra sa offrire di se. Per questo, presto – molto presto – vi tornerò ancora; mi si è aperto un mondo davanti che sento valga seriamente la pena d’esser camminato, ovunque mi porti…

Ma cosa si può raccogliere in soli tre giorni? Beh, anzitutto i colori: siamo stati davvero fortunati, mai in ottobre il tempo è stato così clemente, con quell’aria quasi agostana che ci ha accolti a Barolo e ci ha fatto sentire subito a nostro agio, così come nella splendida Serralunga d’Alba. Ma c’è dell’altro, molto altro. Le colline tutt’intorno, un paesaggio splendido; qui si rischia davvero di lasciarci l’anima; solo a Vosne-Romanée ho provato la stessa unica sensazione di sentirmi in “un altro mondo”. Ma la dolcezza delle linee, ben definite, che si stagliano continuamente all’orizzonte non hanno nulla o quasi a che vedere con la pur amatissima Borgogna.

Qui, più che la mano di Dio ha potuto la fierezza dell’uomo, capace, pur tra mille difficoltà – nonostante qualche intuizione a dir poco esecrabile -, a difendere strenuamente un paesaggio finemente scolpito nella terra viva tra La Morra, Barolo, Castiglione Falletto e Serralunga, giusto per citare alcuni dei comuni del circondario a portata di mano. E poi le persone, certe storie, con alcuni dei loro vini assolutamente indimenticabili, tali da riempire decine e decine dei prossimi post. Leggerete.

A Serralunga d’Alba un passaggio tra i più felici di questa “treggiorni in langa”, tra i filari di uno dei crus più apprezzati dagli appassionati di Barolo di tutto il mondo: Lazzarito; poco più di otto ettari collocati in una conca naturale che arriva a circa 400 m slm con una esposizione sud/sud-ovest ed un profilo territoriale unico, con terreni poveri di materia organica e di origine sedimentaria marina ricco però di marne calcaree dal colore biancastro.

Qui, Fontanafredda, proprietaria di gran parte del vigneto (poi ci sono Vietti e Germano, credo), ha la sua vigna più preziosa, che tra l’altro, col millesimo 2007 esce in questi giorni sul mercato rispolverando un altro marchio storico di queste terre, Casa E. di Mirafiore, dalle chiare origini reali e svanito durante il secolo scorso, ma pur sempre all’origine di quella che è diventata prima Tenimenti di Fontana Fredda e Barolo e Fontanafredda poi.

Ma ritorniamo al Lazzarito così com’era: non è stata un’annata eccezionale la ’96, ma l’andamento climatico di quella estate, e in settembre inoltrato, nonostante non abbia risparmiato temporali e piogge, ha comunque consegnato in tempo utile nelle mani dei viticoltori della buona uva, e chi ne ha saputo fare buon uso in cantina ha tirato fuori comunque dei piccoli capolavori. Come questo. Certo, quindici anni per un Barolo non sono per niente l’eternità, tutt’altro, e anzi i tre lustri sono forse il limite minimo richiesto oltre i quali intravedere il reale potenziale di una bottiglia; ecco perché mi sento di dire che questo assaggio si è mostrato davvero speciale, una sorpresa da fissare nella memoria, imprevedibile appunto, ed estremamente rappresentativo.

Il colore è di un bel rosso granato netto, limpido, conserva ancora una certa vivacità, addirittura sull’unghia del vino appare piacevolmente cristallino. Il primo naso è subito finissimo, è lì nel bicchiere da molto, e nette sono le note di sottobosco, finocchio selvatico, fiori e foglie secche; poi ancora funghi, tabacco e quindi note più dolci, di liquirizia per esempio. In bocca è piuttosto austero, i tannini hanno di gran lunga subito il tempo, pur conservando una loro precisa trama, sottile ma ancora ben definita, vibrante, e che offrono quindi un sorso sì caparbio ma fine e morbido al tempo stesso, quanto basta, finanche lungo e avvolgente.

Solo in certe annate si verificano “piccoli miracoli” come questi, durante la degustazione l’abbiamo apostrofato come un nebiùl didattico, di quelli bastardi, duri a morire, arduo da domare, uno di quelli che ti regala solo un’annata complessa e poco generosa come questa. A Serralunga in particolar modo. Il tempo ha saputo farne tesoro, e regalarcene ancora l’emozione.

Alba, di Montanaro e della grappa dell’Alchimista

18 ottobre 2011

“S’ci l’è foll!”. Questo è un matto, per dirla alla maniera albese. E a pensarci bene Giulio Bongiovanni non fa proprio niente per smentirsi, per apparire alla mano, anche più di quanto in realtà lascerebbe intuire d’essere. “L’è così, prendere o lasciare!”. Noi, naturalmente, prendiamo…

La grappa, o “il sole d’uva imbottigliato” per dirla con Paolo Monelli, ha avuto in Alba il suo più autorevole precursore in Francesco Trussoni, maestro di alambicchi, detto l’alchimista, che nel 1885 si mise in testa di fare la prima grappa di Barolo, la prima monovitigno della storia. Una storia proseguita negli anni trenta sotto l’egida di Mario Montanaro, suo genero, che contribuì in maniera sostanziale a delineare l’attuale fama di cui gode la distilleria di Gallo d’Alba, nel cuore delle Langhe. Da poco più di un ventennio la Distilleria Montanaro è passata nelle mani di Giulio Bongiovanni, altro maestro artigiano langarolo di primissimo piano. Un gran personaggio!

Le vinacce arrivano in distilleria, quindi selezionate tra quelle ritenute di pregio, adatte quindi agli standards di casa, e quelle meno funzionali destinate magari a lavorazioni di tipo industriale, del tipo per tirarne fuori alcol puro o utilizzate come combustibile bionaturale. Ma la materia prima non è altro che un mezzo per arrivare al cuore della lavorazione, l’ispirazione necessaria per godere di tutti i segreti di una distillazione che conserva un’arte antica e mistica, infinatamente preziosa. Vengono quindi stoccate in silos di cemento da dove man mano vengono confluite, attraverso un nastro trasportatore, alle caldaie in rame.

Le “cotte” durano all’incirca un ora, e le caldaie, praticamente, si autoalimentano grazie alla pressione e al vapore da loro stesse prodotti. Sono infatti collegate tra loro due a due, alimentandosi a vicenda; esauritasi una “cotta”, attraverso l’apertura/chiusura di determinate valvole se ne fa entrare in funzione una seconda coppia, e così via sistematicamente. L’impianto è rimasto praticamante immutato, salvo piccoli ammodernamenti, sin dalla sua creazione nel 1927.

Giulio Bongiovanni, come detto è da poco più di vent’anni proprietario della distilleria Mario Montanaro. Qui è un’istituzione, lo dipingono come uno tosto e dal carattere ruspante, “ruvido”; a me è sembrato un tizio che la sa davvero lunga, un piacere ascoltare i suoi aneddoti, e poi, quel suo bianco Montanaro poi…

Dalle caldaie, attraverso una serie innumerevole di tubi e tubicini, il primo fiore distillato fa un giro piuttosto virtuoso spostandosi in tre diversi locali della distilleria, passando dallo stato liquido a quello gassoso almeno un paio di volte durante il suo “cammino”, così da liberarsi anche del benché minimo residuo sgradevole allo scopo di ottenere acqueviti o grappe purissime.

Il ragno invece, è un complesso sistema di tubicini e microfiltri che s’incrociano apparentemente caotici in una piccola caldaietta che sembra essere la destinazione finale del nettare dell’alchimista. Qui tutto è in rame: poco prima, in una caldaia poco più grande (se ne scorge uno scorcio nella foto, in alto a destra) il liquido viene “intiepidito” e “valorizzato” prima di venire fuori, purissimo, a circa 80 gradi. Praticamente una bomba. Da qui, la raccolta del distillato, tutto sigillato secondo normativa dalle punzonature della Guardia di Finanza; poco dopo il via libera, dritto all’infernot.

Qui riposa il meglio della produzione, dove vi rimane per almeno una dozzina d’anni prima di finire nelle bottiglie di acqueviti o grappe Montanaro. Qui però vi è anche dell’altro, infatti in alcune di queste botti giacciono anche acqueviti e grappe di almeno quarant’anni che concorrono al patrimonio aziendale, che è davvero importante, con alcune partite che arrivano sino al 1960. Non so voi, ma il fascino dell’alchimista mi attira non poco…

Distilleria Dott. Mario Montanaro
Via Garibaldi, 6
12051 Alba Fraz. Gallo (CN)
Tel. 0173/262.014
Fax: 0173/231.378
www.distilleriamontanaro.com
distilleriamontanaro@distilleriamontanaro.com
 

Pollenzo, la Banca del Vino è morta?!

16 ottobre 2011

Il dubbio è palese. In effetti della Banca del Vino non è che se ne faccia più questo gran parlare. Mah… chissà perché? Io a Pollenzo ci sono stato in settimana, di passaggio prima di andare a cena dai fratelli Alciati, da “Guido”. E non è che tirasse proprio una bella aria…

Intendiamoci, il luogo è magnifico, lo scenario a dir poco suggestivo, i locali sotterranei dell’Agenzia che la ospita, ben arredati, pur se evidentemente scarni. Ma a fare un giro per le sale, al di là dell’apprezzabilissimo lavoro della guida – davvero brava e preparata –, è chiaro sin da subito che qualcosa qui non quadra; se ci si ferma al primo o al secondo caveau (più o meno tra il primo e il secondo corridoio) salta agli occhi come il territorio venga ancora egregiamente privilegiato: i nomi ci sono, forse non proprio con tutte le annate, ma il panorama è quantomeno autorevole e ben rappresentato. Basta però varcare “il confine regionale” per intuire come le lancette dell’orologio qui si siano da tempo fermate, a più di qualche anno fa, probabilmente già appena dopo la campagna promozionale (credo del 2004, ndr) che ne lanciava il progetto nato qualche anno prima da un’intuizione di Carlo Petrini¤.

A qualcuno infatti apparirà come “corredo” prezioso, ma quelle “due dita” di polvere che stazionano sulle casse qui conservate, vanno lette più come un indice di perenne immobilismo che come un suggestivo effetto scenico. E le annate, poche e piuttosto vecchie, non fanno altro che confermare la mancata fiducia riposta invece con un certo entusiasmo inizialmente. Basta fare poi un giro nella sezione dedicata al sud Italia o alla Campania per rendersi conto quanto il tempo qui si sia letteralmente dissolto in quelle prime (autorevoli) adesioni; quanto a memoria liquida quindi, è evidente che va disperdendosi inesorabilmente. Lo stesso loro sito¤ tra l’altro, conferma in pieno quanto percepito, e cioè che le aziende già da tempo non rinnovano più la loro adesione al progetto dell’istituto.

Senza entrare troppo nel merito – o se volete, argomentiamo pure – del “funzionamento” della Banca del Vino¤, che in verità non mi è parso nemmeno particolarmente complicato, viene da chiedersi cosa cavolo sia successo, in così poco tempo, ad un progetto che pure appare rivoluzionario come pochi e “nobile” come tante altre iniziative messe in campo negli ultimi trent’anni da Slow Food: chi è che non ci ha creduto fino in fondo? L’istituto, i finanziatori, i produttori o, come spesso accade in Italia, nessuno dei tre nonostante la buona idea?

Barolo, Barbera d’Alba Superiore ’09 Borgogno

15 ottobre 2011

Ci sono vini come questo che non smetterò mai di amare, bere, raccontare. E’ quel vino di cui molti amano descrivere tutto il suo corredo organolettico sintetizzandone l’esperienza con una sola parola: “franco”. Come a dire “è inesorabilmente lui, punto e basta!”.

Borgogno in Barolo è storia, vera, un tantino travagliata se vogliamo, per troppo tempo rimasta lì impolverata, messa in un angolo, in attesa di chissà che, chissa chi se ne ricordasse. E’ curioso pensare come un’azienda tra le più antiche di Langa, anno di fondazione 1761, potesse pagare un dazio così salato tanto da passare quasi inosservata agli occhi dei più che cercavano sul territorio un richiamo tangibile dell’origine di tutto; è vero, i riferimenti sono tanti, molti altri, ma l’inizio di tutto è anche qui, tra le mura antiche di questo piccolo gioiello nel pieno centro della “capitale” delle Langhe.

E l’avrà pensato anche Oscar Farinetti quando ha deciso, nel duemilaotto, di farne il fiore all’occhiello del suo regno enoico langarolo rilevandola, in chiaro affanno, dagli ultimi eredi Cesare e Giorgio Boschis per consegnarla nelle mani del figlio poco più che ventenne Andrea. Una bella sfida, accidenti! mi sono detto, “Una gran figata!”, mi ha risposto il giovane Farinetti. Ma di questo però ce ne occuperemo in un prossimo post raccontando di una straordinaria verticale di Barolo e di molto altro ancora.

Frattanto, il duemilanove è stato l’ultimo raccolto portato in cantina dai Boschis, con le mani ancora in pasta di Cesare; da li in poi sarebbe toccato ad Andrea Farinetti – studi in enologia appena terminati e tanta, tanta grinta -, guardarsi intorno e capire che direzione prendere per rilanciare un marchio e i suoi vini che godono sì di tanto blasone ma pure di enormi difficoltà sul mercato che, incredibilmente, stenta a credere talvolta anche all’evidenza più chiara: la storia qui di langa non può non tenere in giusta considerazione questa azienda.

Le uve, tutte di proprietà, sono coltivate in località Liste e Crosia, nel territorio del comune di Barolo. In cantina niente più lieviti selezionati e vinificazione tradizionale in acciaio, con una permanenza sulle bucce di circa una decina di giorni prima di passare per non meno di dodici mesi in botti di rovere di diversa grandezza (ma non barriques). Il colore è splendido, di un rosso rubino particolarmente intenso e vivace. Il primo naso è vinoso, l’imprinting voluminoso e persistente, viene fuori un frutto rosso fresco e invitante che ad ogni passaggio, dopo un po’, s’accompagna a sbuffate di viola passita e note ferrose, che richiamano in maniera ineludibile il terroir. In bocca è secco, pochi gli angoli acuti ma il sorso è ricco, succoso e di buon corpo, conserva nerbo senza affaticare la beva che rimane costantemente fluida e piacevole. Davvero buono! Con il “generale inverno” alle porte e con una tavola sempre più ricca, ecco un buon “soldato” da non far mai mancare in cantina.

Barolo, Langhe Freisa 2009 Bartolo Mascarello

14 ottobre 2011

Camminare per le viuzze di Barolo è davvero piacevole, più che mai in una giornata di ottobre soleggiata e calda; l’atmosfera qui pare conservare perenne pacatezza nonostante siamo in uno dei luoghi del vino più amati, conosciuti e visitati al mondo.

Il centro cittadino, piccolo borgo capitale del vino di Langa, appare al visitatore vivace ma non caotico, animato, – in alcuni momenti della giornata parecchio -, ma non chiassoso. Insomma è tutto in ordine, un elogio alla lentezza, con ogni cosa sempre al suo posto. E proprio all’ingresso di Barolo, subito a sinistra in via Roma, c’è quella che critici e appassionati, unanime, dicono rappresenti l’azienda che in tutto e per tutto esprime al meglio l’anima barolista tra le più tradizionali in circolazione: Cantina Mascarello. Cinque ettari tra La Morra e qui in Barolo – tra cui 1 ettaro in pieno Cannubi –, oggi, dopo la scomparsa del mitico Bartolo nel 2005, nelle mani di Maria Teresa. “Papà Bartolo – racconta la figlia con gli occhi colmi di orgoglio -, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, e per chi ha imparato a leggerne e seguire il modello, l’ideale, rimane un simbolo indelebile, uno strenuo difensore dell’identità barolista, senza se e senza ma”.

Forse è anche per questo che si rimane decisamente rapiti da questa bottiglia: cotanto blasone, guadagnato sul campo, coltivato in quasi cento anni di storia, pare sciogliersi dolcemente dinanzi a un bicchiere di vino che vuole essere tutto tranne che aristocratico o espressione di risoluta austerità. La freisa di Maria Teresa è tutto quello che non potrebbe mai esprimere un Barolo tradizionale, quello dei Mascarello in particolar modo: di un colore rubino porpora, fruttato e ammiccante, polposo, sottile e vivace quando non leggermente zuccherino; insomma, leggerezza e disimpegno, quelli necessari nelle lunghe chiacchierate intorno a una tavola imbandita di cose semplici e goderecce, un sorso veloce, sbarazzino, offerto dinanzi a un piatto unico e completo, come per esempio una buona pizza o un panino caldo.

Una freisanebbiolata” come mi racconta Maria Teresa, come si faceva un tempo in langa, ripassata per poche ore sulle vinacce del nebiolo (quello autentico si scrive con una sola b) risolvendo la fermentazione alcolica prima del dovuto lasciandovi così un contenuto residuo zuccherino tale da garantirgli una seconda fermentazione in bottiglia, utile a conferirgli vivace complessità ma senza stravolgerne compostezza e trama e, soprattutto, capace di donargli quella deliziosa immediata bevibilità altrimenti lontana nel tempo. In fondo, a rileggere la storia recente della famiglia Mascarello, questa vivacità d’animo è sempre aleggiata in casa, soprattutto in certe iniziative di papà Bartolo; un controcanto di leggerezza, talvolta audace, beffardo, addirittura anarchico se vogliamo, ma sempre fiero, e distante anni luce da certi stereotipi, politici come enologici soprattutto incalzanti negli anni novanta: chi non ricorda il “no Berlusconi, no barriques!” “gridato a viva voce” con una etichetta firmata di proprio pugno e che ha fatto storia e da eco a quel no! fermo all’innovazione che strizzava l’occhio al modello bordolese a quel tempo lontanissimo da Barolo eppure tanto costantemente inseguito. Ma questa è un’altra storia, come tanti gli altri aneddoti tutti da raccontare nei prossimi post; frattanto però godiamoci questo primo inatteso e fresco sorso di langa.

Intervallo. In viaggio per le Langhe…

11 ottobre 2011

Napoli, i primi 50 anni di vite di Angelo Gaja

3 marzo 2011

Angelo Gaja

festeggia cinquant’anni di attività (1961-2011) dedicati all’azienda di famiglia, la cantina Gaja di Barbaresco. Così lunedì 21 marzo prossimo presso l’Hotel Parker’s C.so Vittorio Emanuele 135, Napoli tel. 081 7612 474, presso la Sala Ferdinando – si terranno, dalle 16.30 eccezionali degustazioni di tutti i vini di Gaja Distribuzione e Gaja. La sessione di degustazione si protrarrà per tutto il pomeriggio.

Alle ore 17:00 invece, con la partecipazione di Gimmo Cuomo e Luciano Pignataro si terrà la conferenza/dibattito “il fascino del vino”, che Angelo Gaja dedicherà esclusivamente  ad enotecari e ristoratori per illustrare la sua esperienza nel mondo del vino; un momento che è stato pensato anche per dibattere con i produttori di vino campani – invitati a condividere ed animare questo momento di particolare confronto senza dubbio nuovo e suggestivo – sul particolare momento storico della vitienologia italiana. Saranno presenti all’evento anche Lucia Gaja e Rossana Gaja. L’evento è esclusivamente su invito.

Nord a Sud, Hérzu di Ettore Germano in verticale

5 ottobre 2010

Alessandro Marra ha partecipato ad una interessante verticale di questo vino bianco piemontese che di certo non t’aspetti arrivi dalle langhe, prodotto in uno dei luoghi culto per il nebbiolo in assoluto, l’areale di Serralunga d’Alba; Alessandro ce ne lascia traccia in questo puntuale e lucidissimo resoconto; Aggiungo solo, spero di ricordare bene, che “Hérzu” in gergo dialettale locale, dovrebbe proprio indicare la particolare condizione nelle quali allignano le vigne sulle colline – scoscese appunto – di Cigliè, paesino ai confini con la valle del Tanaro monregalese. (A. D.)

Dici Piemonte e ti vengono in mente in rapida successione Barolo, Barbaresco e una-due-tre barbera. Rossi, sempre e comunque rossi, rossi e rossi ancora. Non penseresti mai di trovare un bianco degno di nota; O almeno questo pensavo io, stupidamente, prima di incontrare timorasso e erbaluce. Poi, ti imbatti in un riesling renano e rimani spiazzato. “Io quello lì lo voglio proprio conoscere, ho pensato”. Parlo di quel gran personaggio di Sergio Germano al quale mi piacerebbe chiedergli come diavolo gli sia venuto in mente di piantare riesling in Langa, a Serralunga d’Alba poi, terra natia di grandi Barolo, così per dire. Una sfida? Magari sì. A giudicare dai risultati, un’intuizione. L’azienda Ettore Germano (Ettore è il nome del papà, scomparso qualche anno fa) produce circa 70 mila bottiglie dai 13 ettari di proprietà. Non uno, bensì tre bianchi: questo riesling renano su terreni a circa 500 metri di altitudine, uno chardonnay in purezza e un uvaggio di riesling e chardonnay. Ecco in sequenza gli assaggi della verticale di Hérzu organizzata dall’amico Giuseppe Sonzogni, patron dell’ Enoteca Vintage di Cesano Maderno alla porte di Milano.

Langhe bianco Hérzu 2009 (13%) Il colore paglierino è piuttosto timido. La prima impressione è che profumi di mela e fiori bianchi, direi camomilla, anche se – nonostante la giovane età – si percepiscono i primi tratti idrocarburici. Odora anche di litchi, non tanto la polpa quanto invece la buccia. I profumi non sono un granché intensi ma eleganti, quello sì. L’attacco in bocca è più intenso che al naso, sorso fresco e bello sapido. Il finale è lungo, scattante e pienamente rispondente alle sensazioni olfattive, con le note di mela e prugna acerba che lasciano via via spazio a quelle di limone e pompelmo, quasi di citronella, di caramelle gommose, ricordate le fruit joy.

Langhe bianco Hérzu 2008 (13%) Al naso è inizialmente più idrocarburico e si differenzia dal precedente millesimo anche per il colore, un paglierino leggermente più carico. L’intensità è prerogativa sia del naso che della bocca. Al naso, in particolare, tornano alla mente profumi di una frutta più matura, di pompelmo e di fiori bianchi. Ha un’eleganza diversa, dovuta anche alla differente incisività dei profumi di cherosene. Regala grande soddisfazione in bocca dove il sorso, sempre agile, è armonico. Negli anni a venire, sono sicuro, saprà dare ancora molto.

Langhe bianco Hérzu 2007 (14%) L’impatto è strano: in assoluto il più chiuso, sembra essere monocorde, fermo com’è su quelle decise sfumature resinose. Si apre a fatica virando sui profumi d’erba e di frutta. Certo è intenso al naso ma soprattutto in bocca dove si propone sapido e ancor più potente, secco, complessivamente più austero. Da quanto si legge in rete, la lavorazione sarebbe in parte diversa con il 10% della massa che è vinificato in rovere; e ci sarebbe anche un taglio del 10% di chardonnay (il sito internet dell’azienda, tutt’altro che user-friendly e verosimilmente anche poco aggiornato, non aiuta). L’ho portato via e ne ho osservato la costante evoluzione con il passare delle ore. L’indomani, a mezzogiorno, era ancora lì: grande tenuta dei profumi e assoluta integrità, nessun cedimento. Ciò che lo differenzia di più dagli altri campioni è il tenore alcolico, di un grado superiore rispetto agli altri. Annata più calda? Eppure nulla, inizialmente, poteva far pensare a una certa maturità. Che magari le escursioni termiche giorno/notte siano state più forti rispetto alle altre annate?

Langhe bianco Hérzu 2006 (13%) Il colore – in un progressivo e regolare scurirsi scendendo d’annata – è più intenso. E così pure la vena idrocarburica del vitigno che qui esce fuori con particolare chiarezza e prepotenza, sin dall’inizio, arricchita dai sentori di frutta e fiori gialli. Non gli manca certo la persistenza in bocca che si esprime sui toni del pompelmo e, inaspettatamente, della radice di liquirizia. Alla lunga, mentre gli altri sono ancora lì a proporsi, lui è già sparito. Probabilmente è il più maturo dei quattro; è difficile, infatti, pensare a un’ulteriore evoluzione in bottiglia, anche per l’assottigliarsi della freschezza. Di certo, è godibilissimo adesso, con tutte quelle sfumature di zolfo e cherosene che tanto mi piacciono in certi bianchi.

Eleganza e durevolezza delle sensazioni, quindi. Per tutte e quattro le annate. Siete ancora sicuri non valga la pena di scoprire i bianchi del Piemonte?

Segui Alessandro Marra su Stralci di Vite.

Si ringrazia per la collaborazione:

Enoteca Vintage
di Giuseppe Sonzogni (nella foto)
Via Milano, 26 – 20031
Cesano Maderno (MI)
info@enotecavintage.it
Tel. 0362 528485
Cell. 333 1041211
Chiuso: Domenica e Lunedì
Si organizzano eventi e degustazioni

La Morra, che buono il Barolo 2004 di Elio Altare

6 aprile 2010

Era più o meno febbraio 2005 quando incontrai sulla mia strada uno dei primi Barolo davvero appassionanti, era il vino “base” di Elio Altare, annata millenovecentonovantanove; Ne rimasi rapito, affascinato dalla setosità dei suoi tannini e dalla freschezza di quello che oggi chiamo continuativamente “frutto” ma che allora era più semplicemente vino. Prima di allora avevo aperto alcune altre bottiglie del più famoso vino delle langhe, qualcuna di più semplice cognizione, qualcun’altra di altissimo lignaggio, eppure quasi sempre assolutamente incomprensibili, quasi sicuramente non per colpa loro, ma la pensavo così, trovavo le prime indegne di cotanta denominazione, le ultime bottiglie troppo austere e “nervose”, Barolo sì, ma perchè così difficili da comprendere?

In verità la risposta mi era già chiara da tempo, non era tutto oro ciò che luccicava o più semplicemente, come nel caso di taluni più preziosi, bisognava aspettarli quei vini, che sarebbero stati di lì a qualche anno dei gran fuoriclasse: necessitavano di un giusto affinamento, non di un provetto sommelier all’affannosa ricerca di sorpendere l’avventore di turno o più semplicemente di imparare e capire, bere, valutare. Quel Barolo ’99 seppe indicarmi la via, così più che ricordare Mauro Veglio, MascarelloScavinoVoerzio solo per citarni alcuni, imparai a cercare tra questi i loro migliori cru e a ragionare opportunamente in termini di Bric e Cascine, Vigne e Coste.

Dell’azienda agricola Altare opportuno ricordare che l’impresa ha avuto una storia abbastanza comune sin dalla sua fondazione nei primi anni del dopoguerra; Solo dopo il viaggio in Borgogna di Elio nel 1976 a poco più di 26 anni si decise di imbroccare la via della specializzazione dei pochi ettari, appena 5, sino ad allora coltivati ad uva e frutta, quali pesche, mele, nocciole, nonchè grano e granturco. Oggi a quei primi cinque ettari di proprietà se ne sono aggiunti altri cinque in conduzione, ovunque il lavoro in vigna è maniacale, i filari appaiono come un giardino curatissimo e non di meno è attentissima la fase di lavorazione in cantina: le uve vengono trattate con i guanti al fine di preservarne al meglio le qualità e l’integrità di frutto, che stando a questa degustazione non potrebbe essere meglio interpretata.

Il Barolo 2004 è di colore rosso rubino cristallino con accenni granata, appena trasparente. Il naso è superbo, pulito, perfettamente calibrato su sentori floreali passiti e fruttati maturi, spezie e corteccia, frutta secca e armonie balsamiche, dolci sul finale: una sequenza impressionante come l’eleganza con la quale tali sensazioni non smettono di persuadere i sensi. In bocca è secco, caldo ed abbastanza morbido, è puro come il piacere sublime del secondo e del terzo bicchiere, avvolgente, intrigante, al di sopra di ogni premessa-aspettativa, il tannino c’è ma è perfettamente celato dal frutto, spesso quanto basta, fuso nello spirito del corpo del vino non certo inosservato ma sostenuto da parvente contrappunto acido. Un delizioso Barolo da consigliare e consumare con estrema nonchalance, da provare, assolutamente, su di uno stinco di vitello brasato; con quale vino prepararlo? Se vi riesce di non bere tutta la bottiglia mentre preparate le verdure, Barolo 2004 Altare naturalmente!

Barbaresco, non il vino. Darmagi 2001 Gaja

5 febbraio 2010

Dicono di lui: “Angelo Gaja è, per il vino italiano, l’emblema stesso dell’uomo vincente. È uno a cui bisogna star dietro perché va veloce, e costringe all’inseguimento in tutti i sensi, tanto per quella sua spiccata arte dialettica che per la camminata veloce”. (Luca Bonci, www.acquabuona.it).

“Parla di sé parlando di altri o se vogliamo parla di altri facendo credere di non parlare poi più di tanto di sé”. (Alessandro Franceschini, www.lavinium.com).

Potrei continuare a lungo citando solo le frasi, per così dire famose, che girano sul web; Lui stesso, nonostante non manchi di professarsi lontano dal circo mediatico degli ultimi anni, non ha mai smesso di mettere carne al fuoco, puntualmente, con uscite imprevedibili, da vera star del firmamento, spesso spiazzanti, ancor di più discutibili, come quando fece recapitare a suo nome, al giornalista Franco Ziliani di vino al vino una lettera di invito rivolto a tutti i lettori dei blog che desiderassero fargli visita lì a Barbaresco, presso la cantina storica, per avere la sua opinione sul caso Brunello, non senza però sottilineare di non gradire, in quella occasione, l’arrivo dei giornalisti. Insomma, Angelo Gaja, al di là dei suoi amati (o a seconda, odiati) vini, ha lasciato e lascia tutt’ora, una traccia indelebile nel mondo del vino italiano che non può non essere sotto gli occhi di tutti. 

Il Darmagi è un vino che ha fatto discutere molti, per qualcuno invece è più semplicemente un vino di cui non discutere affatto. Di certo non è un vino qualunque, fosse solo per il prezzzo, oltre i 100 euro in enoteca. In generale avvicinarsi ai vini di Gaja può essere tante cose, spesso dei suoi Barbaresco ed ex tali si parla tanto più di quanto se ne siano bevuti, percui l’aver timore reverenziale o essere irriverenti significa camminare una linea assai sottile e fragile. Non sono certo bottiglie che si aprono spesso, almeno dalle nostre parti, costicchiano parecchio e quando te ne capita una a tiro, non sai mai che panni vestire: ci si lancia appassionatamente alla ricerca di una radiografia, quasi risonanza magnetica, ma più che per le emozioni da tirarne fuori si va in cerca della minima sbavatura, uno sgarro, uno solo, per poter dire finalmente: “Mamma che vino!” oppure, “Cavolo, come pensavo, non vale sti’ soldi!”. Arduo tirare le somme dell’una o l’altra definizione e più passa il tempo che lo giri e rigiri nel bicchiere più cerchi di tutto purchè non giustifichi quel prezzo.

Il vino nasce dalla volontà del grande produttore piemontese di cimentarsi col cabernet sauvignon in quel delle langhe, il nome Darmagi viene proprio dall’espressione dialettale piemontese “…che peccato!” che pare fosse stata espressa dal buon padre di Angelo Gaja nel vedere estirpare le vecchie vigne di nebbiolo per fare posto al cabernet. Il vino si presenta nel bicchiere di un rosso rubino concentratissimo, limpido, impenetrabile, consistente. Il primo naso è ampio e complesso su note di frutta surmatura, sensazioni balsamiche di liquerizia, tracce eteree di cuoio. L’alcol è prima invadente poi sovrastato dal frutto, il tannino è ben risoluto. In bocca è ricco, avvolgente, la sensazione di calore percepita alla deglutizione è decisa, ritorna di nuovo in primo piano, il frutto, volendone tracciare un profilo armonico si può tranquillamente scrivere di un vino maturo, forse oltremodo. E’ comunque una bella esperienza degustativa, però, mamma mia che vino, ma lo sapevo, non li vale sti’ soldi! 🙂


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