Premessa: ho scoperto personalmente Galardi poco più di una decina di anni fa, ne avevo sentito parlare durante una bella serata di degustazione presso l’enoteca La Botte di Casagiove, dove, aspirante sommelier mi ero recato con alcuni amici di bevute. Poco dopo, incuriosito e convinto che ne valesse la pena organizzai con gli stessi amici una giornata fuoriporta a Roccamonfina, ufficialmente per raccogliere castagne e mangiare il casatiello ma in realtà avevo già fissato un appuntamento con la signora Maria Luisa Murena con la speranza di fare un giro in cantina a San Carlo di Sessa Aurunca alla scoperta di questo nuovo gioiello di cui si parlava un gran bene e si diceva lanciata alla conquista di un posto al sole nella enologia campana.
L’azienda era un cantiere aperto, si stava lavorando alacremente alla nuova piccola area di vinificazione dove c’erano già i primi macchinari tecnologicamente avanzati consigliati da Cotarella per salvaguardare la grande qualità della materia prima raccolta in vigna; ascoltare il racconto del progetto Galardi da Maria Luisa e poi le parole di Arturo Celentano che ci raggiunse più tardi giù nella barriccaia (scarna ma molto suggestiva) bastò a darmi la sensazione che di questo vino se ne sarebbe parlato a lungo e difficilmente con sufficienza: e così è stato.
Da allora sono passati diversi anni, tutti i Novanta dei “vini bianchi burrosi e vanigliati” e dei rossi merlotizzati e cabernetizzati, sta passando lentamente anche questo primo decennio del duemila che tra le tante ha visto passarci tra le mani vini di molti produttori improvvisati e di tanti affaristi sprovveduti che speravano in un’onda lunga infinita e che invece si sono ritrovati svuotati e decisamente “alla canna”: ecco, queste sono alcune deficienze di cui per fortuna non avremo certamente rimpianti. Ci rimangono però diverse certezze, soprattutto in Campania, seppur qualcuno ancora fatichi a comprenderlo, una delle quali è che il futuro del nostro vino è racchiuso in due aggettivi semplici e complementari, a volte talmente naturali da apparire banali, eppure mai scontati: autenticità ed originalità. Una originalità – sia chiaro – non dettata da chiusure antiche e vetuste ma bensì dall’intuito e dal pensiero moderno che si deve avere oggi della “tradizione”, ed una autenticità che solo chi ama la terra ed i suoi frutti sa esprimere a livelli altissimi.
Dell’annata 2006 me ne sono occupato già agli inizi di quest’anno (vedi qui) e in linea di massima non c’è granchè da aggiungere tranne che per una (mancata) evoluzione soprattutto gustativa che mi ha lasciato non poco perplesso. Il vino è spesso sinonimo di moto continuo, si spera in continua evoluzione e nonostante l’annata duemilasei sia stata definita da qualcuno minore, pare e mi aveva certamente convinto già al primo assaggio di aprile che ne fosse venuto fuori comunque un piccolo capolavoro di equilibrio e godibilità tra le componenti austere ed eleganti dell’aglianico e del piedirosso di cui è composto, nonostante il ricordo dell’eccellente 2004 rischi ogni volta di sopraffare le mie aspettative.
Il colore è rimasto di un bel rosso rubino integro e poco trasparente, mediamente consistente. Il primo naso è caratterizzato da sentori floreali secchi e fruttati in confettura, col tempo, nel bicchiere si distinguono nitidamente sentori rosa passita, amarena, poi mora e mirtillo sino a note di pepe nero, carruba ed una lieve sensazione balsamica. In bocca è secco, abbastanza caldo e di buon corpo, il tannino già evidente e pronunciato all’esordio qui è amplificato da una nota acida slegata che ne esalta in maniera inopportuna una durezza tanto inaspettata quanto pressante e per niente supportata dalla sapidità. Ne risente innanzitutto l’equilibrio gustativo oltre che l’armonia complessiva, un frutto così nitido e così avvincente al naso non può rivelarsi così risoluto ed in così poco tempo: è vero sono note di durezza che tendenzialmente dovrebbero assopirsi, ma appena pochi mesi fà questa durezza era più contenuta, meno evidente, non così invadente.
Insomma rimane quell’anima draconiana che affascina e che lascia davvero poco spazio all’ovvietà ma di certo mi conduce a rivedere, al momento, quell’apertura alle molte aspettative che in questo caso appaiono sfuggite ad una complessità non proprio esemplare ed avvincente come da manuale. A volte certi vini manifestano staticità, ma non per questo hanno finito il loro percorso evolutivo, così mi strappo una promessa, di riassaggiarlo almeno tra sei mesi, e vediamo cosa accade.
Tag: aglianico, big picture, celentano, cotarella, cratere di roccamonfina, galardi, maria luisa murea, piedirosso, roccamonfina, terra di lavoro, vino
3 dicembre 2010 alle 09:17 |
[…] riassaggio di un altro millesimo piuttosto interessante ma forse poco male interpretato, il 2006: un’annata, anche questa, decisamente interessante ma che ha offerto un vino decisamente […]
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