Migliaia di parole al minuto vengono spese durante i corsi e sulla rete relativamente all’abbinamento dei cibi con i vini. Le più ascoltate e lette ci ricordano che le sensazioni del vino e del cibo si fondono per concordanza o per contrapposizione creando un insieme che deve risultare armonico, sarà proprio così?
Invero l’arte dell’abbinamento sta proprio nel mettere in piedi un effetto per il quale un certo tipo di vino valorizza un certo piatto e ne viene a sua volta valorizzato, talvolta anche fuori dagli schemi. Ne parliamo il prossimo 25 agosto alla Scuola di Alta Formazione In Cibum di Pontecagnano Faiano, a Salerno.
Promette di lasciar bere qualsiasi vino al bicchiere, in qualsiasi momento ed in qualsiasi quantità, senza preoccuparsi di dover finire la bottiglia. E qui, sul sito di Coravintrovate tutte le informazioni necessarie, con diversi Tutorial, grazie ai quali esplorare tutto il potenziale di questo strumento che, vuoi per moda vuoi per l’apprezzabile intuizione, ha introdotto un nuovo modo di gestire la mescita al calice.
Il sistema consente di versare un bicchiere di vino da una bottiglia senza doverla stappare, addirittura lasciarla smezzata, anche per lungo tempo, senza che questi possa subire minimamente ossidazioni o perdita di gusto dovuti come si sa per il contatto con l’aria.
Come funziona? Senza andarci troppo lunghi, Coravin prevede che un ago penetri il tappo di sughero spillando il vino e insufflando contemporaneamente Argon, un gas inerte che si sostituisce al contenuto impedendo così all’aria ogni influenza e interazione con il liquido, tutto questo, volendo, senza nemmeno rimuovere la capsula. Tolto l’ago infatti, per effetto naturale il sughero tende richiudersi naturalmente e il vino è al sicuro.
Lo strumento oltre ad essere facile da maneggiare appare ben studiato anche da un punto di vista del design, così come centrata è la scelta dei colori disponibili dei vari modelli (in foto il mod. Two Elite) che in certi casi non passano certo inosservati senza però risultare stucchevoli.
Da un punto di vista pratico, fatte le dovute premesse della necessità di almeno qualche esercizio di prova giusto per prendere le ”misure” del suo utilizzo, Coravin è uno strumento che aggiunge al servizio del vino un passaggio di modernità certamente utile, non banale, senza nulla togliere però alla liturgia del servizio del vino al bicchiere al tavolo. Per dirla tutta, Coravin è qui per restare, almeno per il prossimo futuro!
Per quanto ci riguarda ci pare uno strumento utile e funzionale soprattutto per la gestione di quelle bottiglie di vino che si decide di avere in mescita ma che probabilmente si pensa di vendere al calice non così velocemente, non necessariamente vini di particolare pregio o di annate vecchissime, vini che però necessitano di particolare attenzione per garantirne, dal primo all’ultimo bicchiere servito, pienezza e integrità.
Abbiamo letto diverse opinioni e commenti di molti professionisti che in generale promuovono Coravin a meno di qualche obbiettiva riserva o perplessità. Tra queste ultime ecco la nostra opinione su quelle che abbiamo ritenuto più interessanti da osservare con la dovuta attenzione.
Una volta bucato il sughero, successivamente aver riposto la bottiglia in cantina, fuoriesce del vino dal sughero? Sì, se non si ha la pazienza di attendere che il sughero riprenda la sua pienezza e ci si precipita a riporla coricata, anche se questa evidenza può variare (molto) da sughero a sughero; tant’è può capitare, ma la quantità rilevata è talmente esigua che non ci è parso incida assolutamente sulla conservazione del liquido dentro la bottiglia che è al sicuro carezzato dall’Argon¤.
Il servizio, direttamente al commensale? Suggeriamo di gestire la mescita prima di arrivare al commensale, proprio come si fa quando si decanta un vino servendosi di un wine-guéridon; può capitare infatti, durante la mescita o al termine della porzione, di trovarsi dinanzi a dei piccoli spruzzi di vino che potrebbero creare un qualche imbarazzo, ma niente di che. Inoltre, gestire la mescita in questa maniera consente anche qualche istante di attesa prima del servizio all’ospite, tempo utile per far svanire dal bicchiere quella leggera velatura che appare sopra il vino dovuta proprio alla presenza di Argon, presenza che svanisce velocemente.
Costi, manutenzione, capsule Argon, è conveniente? Coravin, come già espresso in precedenza è uno strumento tecnico che aggiunge qualità al servizio del vino al bicchiere, pertanto parlare di costi, manutenzione e ricariche è da farsi in funzione del suo utilizzo commerciale pertanto tutti elementi di costo sono da ripartire intelligentemente sul prezzo al calice che si propone in carta; è uno strumento di facile manutenzione, essenziale diremmo – richiede perlopiù la pulizia dell’ago -, con una ricarica si possono fare sino 15/16 mescite. A tal proposito ci sentiamo di evidenziare che per servire l’ultimo calice rimane più utile aprire la bottiglia e versarlo direttamente in quanto la quantità di gas necessaria da insufflare potrebbe risultare eccessiva per versarne il solo bicchiere rimasto.
In definitiva, Coravin può essere ritenuto uno strumento moderno, utile e funzionale, uno strumento che messo a disposizione di Sommelier professionali, abili e capaci aiuta certamente a gestire con maggiore efficienza il servizio di certi vini al bicchiere in quei luoghi che fanno della mescita una proposta centrale, vieppiù suscitare la giusta curiosità da parte dell’appassionato che al giorno d’oggi è sempre più informato, attento ed esigente ma anche giustamente incuriosito e attratto dalle moderne tecnologie al servizio del vino!
Il successo della pizza è inarrestabile, negli ultimi 4/5 anni si è assistito ad un exploit incredibile che sembra portarsi dietro tra gli altri alcuni ”effetti collaterali” molto positivi, tra questi una crescita propulsiva del consumo consapevole del vino che in alcuni nuovi locali diviene addirittura protagonista assoluto scalzando per alto gradimento due storici abbinamenti come birra e cola.
L’Ortolana d’autunno dei F.lli Salvo
Si vanno così a delineare nuovi equilibri commerciali nel canale Ho.Re.Ca che nei prossimi anni promettono numeri ancora più importanti. A maggior ragione abbiamo assistito ad un fatto storico non trascurabile: il vino è riuscito dove non è riuscita la birra! Per anni infatti ci si è chiesto perché la birra, in particolar modo quella artigianale, facesse così fatica ad uscire da pub e pizzerie e ”scardinare” le resistenze della ristorazione di qualità, entrare cioè nelle carte dei ristoranti, fossero pure non necessariamente stellati. Ebbene, dopo vani tentativi, nonostante ingenti investimenti la loro presenza è rimasta timida e dimessa. Non è così per il vino in pizzeria che va invece molto forte, ritagliandosi sempre più spazio nonostante richieda investimenti considerevoli visto il più alto costo medio del prodotto, l’indispensabile formazione specifica del personale, una rotazione continua del capitale in cantina.
Va detto per onestà che il vino in pizzeria c’è sempre stato, difficile smentirlo, vero è che non è mai stato così protagonista come pare diventarlo oggi. Tre anni fa se ne parlò approfonditamente nel libro di Francesco Aiello ”Sorbillo – la pizza di Napoli”¤ dove proprio il nostro Angelo Di Costanzo affrontò con attenzione e profondità l’argomento dell’abbinamento pizza e vino così concludendo: ”le scelte dell’abbinamento ideale vanno sempre studiate e misurate, e non buttate lì a caso giusto per compiacere o compiacersi”. Vino e pizza sono quindi da intendersi un’accoppiata vincente sempre, purché ragionata (!), non fosse altro per quel che rappresentano da un punto di vista storico, culturale e territoriale in Campania, in Italia e nel mondo.
Salvatore Salvo nella Pizzeria alla Riviera di Chiaia
Anche per questo ci sentiamo quasi in dovere di evidenziare ed apprezzare il grande lavoro portato avanti da Francesco e Salvatore Salvo¤, senza dubbio tra i primi a dare impulso a questa sorta di nouvelle vague che quasi impone in pizzeria una visione diversa e più articolata sull’argomento. Un pensiero seminato e ben coltivato a San Giorgio a Cremano, nella loro prima storica sede ed oggi rilanciato con maggiore impulso nella nuova confortevole dimora di Palazzo Ischitella nel centro di Napoli, alla Riviera di Chiaia.
Un investimento importante che all’occhio più attento non sfugge, figlio di un duro lavoro di meditazione, analisi giuste, scelte oculate tese soprattutto a disinnescare la tentazione di strafare che è là, sempre in agguato pronta a trasformare un’intuizione acuta in un tentativo stucchevole e pretestuoso. Qui tutto ha un senso più compiuto perché cammina pari passo con la loro storia recente, la tradizione di famiglia, la ricerca continua su materie prime, qualità degli impasti, manualità artigianale di chi sta dietro al banco, davanti ai forni e nelle cucine e, non ultimo, in sala in mezzo alla gente. Ecco, così del vino in pizzeria ce ne faremo una buona ragione, tutta da godere.
Pizzeria Francesco&Salvatore Salvo– Riviera di Chiaia, 271 – Napoli – Tel. 081 3599926
Capita talvolta di aprire una bottiglia e rimanere spiazzati dal suo profilo organolettico. Capita per vini giovanissimi non ancora “pronti”, più spesso per quei vini stipati per lungo tempo: il naso arranca “muto”, il sorso pare avere qualche problema, talvolta disarmonico, può darsi pesante.
Attenzione! Prima della cattiva idea di sparare a zero talvolta basta aspettare un po’, a certi vini basta davvero poco per rivelarsi invece pienamente espressivi. Qualcun’altro farà un po’ più fatica, e allora bisognerà dargli più tempo, anche un giorno o due se necessario. E’ così che si nutre la passione, così ci si rifà la bocca su preconcetti e pregiudizi.
C’è una sovrabbondanza di astanti, appassionati, sommelier et similia, degustatori serali, bloggers, qualche piccolo giornalista che, ancora oggi, fanno fatica a ben comprendere che non se ne può più di imbucati e scrocconi agli eventi, molti dei quali messi su con grande sacrificio e auto-tassandosi, caricandosi così impropriamente di costi altrimenti insostenibili. Mecenati sì, fessi no.
Da qualche tempo penso sempre che dovrei fare una chiacchierata o più chiacchierate con te. Un po’ perché mi ha sempre colpito quella parte schietta e diretta che hai con l’approccio a questo lavoro, un po’ perché, ci sta poco da fare, guardi sempre alla sostanza delle cose.
Mi ha sempre colpito quel guardare oltre quel velo, che tu stesso definisci patinato, che avvolge il tema della cucina e della ristorazione degli ultimi anni e, come te, sono convinto che alla fine l’unica cosa reale e di sostanza che resta, tolto il velo, sia il lavoro.
Il lavoro che diventa pietra sulla quale costruire il legame tra collaboratori, fornitori, clienti, proprietari e che oggi secondo me è l’unica cosa da guardare se si vogliono valutare successi, o meno, del proprio lavoro.
E allora andiamo al sodo: ma quanto è complicata questa “faccenda” del sommelier? Più che complicata però forse vorrei dire onesta.
Si onesta. Perché più cerco di capirci qualcosa del mondo del vino, e così pure del mondo della cucina, più ci vedo meno chiaro. Forse sarà proprio per quella patina, spesso travestita da ignoranza (nel senso della non conoscenza) che dilaga anche tra chi oggi si descrive con le frasi “sono un esperto”, “sono un conoscitore”, “sono un collega”, “sono un appassionato”, fino alla mitica frase da leggere in stile fantozziano “sono uno che gira molto”. Personaggi che si infiltrano in ogni posizione, oggi sono critici, blogger, scrittori, giornalisti, recensori, ma la cosa che mi desta più ansia e che oggi siano anche proprietari o gestori di locali convinti che tenere in bella mostra le bottiglie novità dell’anno (decise poi da blogger, giornalisti, associazioni di bevitori etc.) faccia la differenza.
Io non ci capisco quasi niente di vino e cerco di ampliare la mia conoscenza con calma, con prove, portandomi dietro un po’ delle mie esperienze in altri campi e, ancora oggi, a volte non riesco a capire come facciano, seduti a un tavolo a dire che alcune bottiglie siano buone, buonissime o ad arrivare a quella frase che odio istintivamente, quando, presi da pareri totalmente diverse dai propri commensali, sento ripetere: “si però ha quel qualcosa che…”.
Ne ho viste di persone aprire bottiglie diversissime da quelle provate prima, ne ho condivise altre che avevano aspetto, sapore, odore differenti da quelli che ricordavo e ho visto troppe persone elogiarne pregi inesistenti.
Se però il lavoro di sala e quello del sommelier è anche quella di travasare una parte della propria conoscenza con modalità limite, vicine a quelle di uno psicologo, oltre a portare i piatti o a riempire un bicchiere, se questo è vero allora la domanda è semplice: dove va a finire l’onestà dovuta al proprio lavoro senza il dovere di preservare un piacere ai propri commensali, legato al diritto di rispettare la propria professionalità, gli anni di studio e di lavoro?
E non inserisco in questo computo i casi limite che possono presentarsi in sala come, il finto saccente che vuole far bella figura con la ragazza, o quello al quale a tavola viene sempre consegnata la carta dei vini perché casomai ha tutte le bottiglie su Vivino e quindi qualche parola in più l’ha letta, il riccone che compra la bottiglia costosa e che quindi deve per forza essere ottima, o i partecipanti ai corsi che quindi diventano immediatamente esperti.
Parlo di quell’universo di clienti aperto ma a volte chiuso a riccio rispetto a un mondo che effettivamente si pone troppo lontano sopratutto raccontando palle su palle. Parlo di quel mondo aperto, che poi è anche quello che ci permette di lavorare e di campare del nostro lavoro, al quale dovremmo più rispetto e al quale potremmo spalancare le porte verso un mondo bello fatto di luoghi, terre strappate alla cementificazione, di vite agricole senza le quali tutto il resto sarebbe inesistente.
Quanto di questo sparisce ogni volta che si versa un bicchiere a tavola? Quando ci si riunisce a tavoli di degustazione dove nessuno ha il coraggio di dire che un vino ha certi limiti, se nessuno riesce a riconoscere se il prodotto arrivato in tavola è differente rispetto all’idea che ne aveva il produttore inizialmente?
Ecco uno dei punti dolenti più importanti, la conoscenza di un prodotto. Quante volte ho visto cambiare un vino in bottiglia? Quante volte i trasporti inadatti, la cattiva conservazione nei luoghi di vendita altera il prodotto che portiamo a tavola? E com’è possibile senza conoscerne il punto di partenza, l’idea del produttore, fare commenti su un prodotto che si millanta di conoscere?
Considerato che annate diverse ne possono cambiare il profilo, che produttori cambiano idee mentre approfondiscono anche loro la conoscenza del loro vigneto e del loro vino, mentre vanno e vengono le mode della morbidezza, dell’acidità etc… che fine fa l’onestà di chi fondamentalmente vende un prodotto legato a quella di un’esperienza gastronomica, di una serata da ricordare, di un regalo per una sera soltanto, di qualcosa legato al piacere che non sia solo quello della quantità, che si sposti verso la qualità e anche al sapere?
Ma poi? Ma quante vole lo dovete sbacchettare sto decilitro di vino nel bicchiere per dire che lo volete ossigenare? Ma quanto ossigeno può entrare in un decilitro di vino? Quale processo di fissione nucleare pensi possa mettere in moto il tuo gesto per far prendere aria a uno sputo di vino? Ore e ore a rigirare calici e a fare finta che ad ogni giro esca fuori quella nota in più che ormai sarà quello che stai mangiando? Senza parlare dei mal di testa che mi vengono quando vedo sbacchettare per ore e ore le bollicine e poi sentire parlare di metodi per ottenere perlage non aggressivi e che si sentono proprio nel bicchiere che da ore sbacchetti tanto da sfiatarlo!
Se a questo ci metti che sembra diventato impossibile poter fare un corso di sommelier se non sei avvocato, ingegnere, casalinga disperata, o qualsiasi altra cosa che non sia lavorare in un ristorante, se a questo ci metti il mercato a volte a senso unico costruito su case che imboniscono rivenditori e rappresentati, che imboniscono ristoratori e proprietari di locali che alla fine sembra che vendiamo tutti le stesse cose, senza che nessuno conosca un fazzoletto di terra dove ha scoperto un vino che gli si è legato al cuore, un produttore che si sporca le mani e ti trasmette il vero senso della terra, senza essere ambasciatori di un territorio di un’idea, di un cammino… dimmi tu: ma quanto è complicata sta “faccenda” del sommelier? (G. d. V.)
Col nuovo anno ci si prepara belli carichi ad affrontare un anno intenso di lavoro; tra le prime tante cose si ha che fare con molte scartoffie piene zeppe di appunti, numeri, dati da cui trarre indicazioni sul da farsi. Qua e là qualche parola sottolineata o segnata col rosso.
Programmazione. Le aziende ci passano notti insonni ma è ormai un parolone vuoto caduto in disgrazia. Sommelier, ristoratori, agenti un tempo orgogliosi di poter contare su una programmazione coi fiocchi oggi vivono praticamente alla giornata.
Prodotto in assegnazione. Ai bei tempi non è che avesse mai avuto un senso sensato ma per molti era un appiglio per suscitare languore ed acquolina. Certe aziende se ne crogiolavano, alcuni rappresentanti avevano imparato a farne arma letale. Caduto in disuso è ormai prassi dire semplicemente ‘non so se è ancora disponibile’.
Premiato col Tre Bicchieri. ‘Datemi un Tre Bicchieri e ci solleverò il mondo’. Non è ancora dato sapere chi fu il primo a dirlo ma certo per anni ci hanno marciato in molti. Un riconoscimento è un riconoscimento ed è giusto goderselo fino in fondo e quale che sia l’opinione che si ha di questa o quella guida poco importa, mai nessun premio ha mai portato con se una carica di adrenalina tale come quello del Gambero. Checché se ne dica per anni è stato manna dal cielo per molte aziende, rappresentanti e, diciamolo a chiare lettere, per enotecari e sommelier di ogni dove.
Rapporto Qualità-Prezzo. Questo sconosciuto. Per molti appena in piazza bastava guardare cosa facesse il vicino per determinare i propri prezzi, certe volte appena qualche centesimo in meno per sentirsi ‘avanti’ o 50/60 in più non tanto per essere temerari ma più semplicemente per autoreverenza: ‘perché io valgo’. Nessuna indagine di mercato particolare, studio dei costi, del mercato, del proprio prodotto, niente. Tuttalpiù ci avrebbe poi pensato il 10 a 2 o il 6+4 a rimettere le cose a posto.
Si avvicina il Natale, periodo nel quale si concentra gran parte del fatturato di molte aziende che orbitano intorno all’enogastronomia (penso ad alcune cantine specializzate, enoteche e distribuzioni a vario titolo).
Mi tornano in mente giornate intense e frenetiche, infinite, giornate durante le quali l’agente di commercio, il rappresentante, diviene il bersaglio preferito di clienti e di aziende: i primi perché la merce non arriva, i secondi perché non parte. Nel mezzo i corrieri, che fanno dannare l’anima perché incapaci di lavorare 30 ore al giorno (come minimo) e di consegnare la merce prima… a te!
Dicevo del ruolo del rappresentante¤ laddove questa professione viene ancora considerata cruciale nei rapporti che intercorrono tra azienda e cliente. Inutile nascondere che anche qui un mare magnum di improvvisati ha sbiadito un po’ la figura ma rimangono esempi di tutto rispetto a difesa di una categoria che ha contribuito e che contribuisce non poco a salvaguardare quel poco di buono che rimane, soprattutto nella tessitura delle relazioni nel nostro lavoro. Gente che ha fatto della strada il suo ufficio, delle persone il primo capitale sociale.
Detto questo, fatta tutta sta premessa mi domando* se non sia un tantino sovraesposta la figura di certi produttori di vino (ma non solo) che soprattutto attraverso i social network si lanciano in pubbliche relazioni dal sapore un po’ avventuriero un po’ adolescenziale, talvolta puntando incoscientemente (voglio sperare) ben oltre l’operato del suo stesso agente di zona. Pretese di conoscere senza vedere, di sapere senza vivere certe realtà; così i listini vengono lanciati su facebook senza uno straccio di riferimento, si ‘uozzappa’ invece di fare, almeno, un colpo di telefono. Certo, tutto gira più veloce al giorno d’oggi, ma temo che anche chi scappa col malloppo abbia imparato a correre veloce.
*Ascoltavo involontariamente al telefono: ‘Ma perché lì non ci siamo, eppure ci stanno in molti?’ Beh, sarà che il loro Babbo non è ancora morto. E il rappresentante?
Finalmente ho conosciuto Enrico Bernardo: che splendida persona, che stile! Sarò franco, mi viene sempre difficile pensare ad un maestro o a un idolo per quanto mi riguarda; negli anni ho conosciuto tante persone che nella vita privata come nel lavoro mi hanno insegnato tanto e tanto hanno significato per me, per quello che sono oggi. Ma maestri no, sinceramente credo proprio di non averne avuti.
Uno dei riferimenti come sommelier in quanto tale però è certamente lui: sveglio, intelligente, non sgomita, non ama blaterare a vanvera e, soprattutto, non ricordo di averlo mai colto a sculettare :-). Ha classe e stile da vendere Enrico, l’ho ammirato a lungo in passato in alcune sue degustazioni e performance, di tanto in tanto preso appunti su quanto facesse in giro là in Francia. Ammirazione tanta, talvolta un pizzico di invidia pure, senza malizia però, o colpo ferire. Giovedì scorso, a Venezia¤, il piacere di condividere una splendida serata in occasione del gran galà Pommery Italia. Iniziata così, indimenticabile. Perché con uno come lui si potrebbe andare tranquillamente anche solo a pesca!
Eh sì, l’argomento torna perentorio ogni qualvolta la sera prima si corre il rischio di rimanerci fregato. Un paio di settimane fa, dopo aver scritto questo post (leggi qui) ho avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con alcuni “tecnici del settore” ma anche e soprattutto con alcuni produttori di vino evidentemente sollecitati dall’argomento. Loro mi hanno detto la loro, che più o meno provo a sintetizzare, poi io ci metto ancora del mio…
La capsula in PVC = competitività. La parola d’ordine per chi sceglie questo tipo di chiusura è la competitività; difficile infatti trovare equilibrio fra estetica e controllo dei costi, soprattutto quando ci si deve confrontare con i canali della GDO dove il giusto rapporto qualità-prezzo è di fondamentale importanza.
Le capsule termoretraibili vengono realizzate a partire dalla materia prima acquistata in bobine, vengono poi verniciate sulle linee rotocalco dove si effettua la verniciatura del fondo e una prima personalizzazione che si ottiene attraverso cilindri di stampa disposti su tutta la larghezza della rotocalco. Il semilavorato, una volta verniciato e tagliato viene avviato nelle linee di formatura, dove le capsule vengono modellate attraverso un processo di termoretrazione su appositi mandrini conici. Anche in questo caso, nelle macchine di formatura, le capsule possono essere ulteriormente personalizzate con stampe a caldo e punzonature, sia sulla testa che sulla parete.
Tecnicamente facili da approcciare possono creare una qualche difficoltà quando il pvc non è di altissima rifinitura, strappandosi letterelmante sotto il coltellino del cavatappi. Con mano ferma però ed un po’ di esperienza l’apertura è regolare ed abbastanza veloce. (A.D.)
La capsula in Polilaminato, viva la modernità e l’eleganza. Le capsule in polilaminato sono essenzialmente costituite da un sandwich di Alluminio – Polietilene – Alluminio. Sia l’alluminio che il polietilene, vengono acquistati in bobine che vengono lavorate all’accoppiatrice, capace di produrre fino a 250 metri/min di materiale. Il semilavorato viene poi verniciato con dei colori di fondo ed eventualmente personalizzato con le grafiche richieste nelle linee rotocalco. Grazie al connubio fra la forza dell’alluminio e l’elasticità del polietilene, si ottiene una gamma di prodotti particolarmente adatti per tutti quei vini che devono, comunque, distinguersi anche a livello di packaging.
Se ti capita tra le mani una brochure promozionale di una qualche azienda non è raro trovare descrizioni del genere: “durante la fase di apertura, la sua eccezionale duttilità esalta al massimo questo importantissimo momento”. Bene, ma è davvero così? Non sempre, e di sicuro c’è da starci seriamente attenti; perché anche qui c’è Polilaminato e Polilaminato. Il più delle volte ti capitano capsule pessime, sottilissime, che hanno lo stesso potenziale letale di un Boker Magnum 02RB3 (qui); diciamola tutta, ne faremmo davvero a meno!
L’impressione è che sono sì facili da approcciare ma proprio qui rimani fregato. Il coltellino del cavatappi gli scivola intorno velocemente ma la dentatura spesso ne trattiene qualche briciola rendendo la capsula praticamente un’arma letale anche solo sfiorandola con le dita. Bisogna metterci molta attenzione, e 1 a 10 un paio di dita rischi sempre di rimettercele. (A.D.)
La capsula in stagno, un po’ amarcord e un po’ tradizione. Con i moderni impianti e materiali selezionati si ottiene di sovente un prodotto capace di adattarsi perfettamente al collo di ogni bottiglia. Nelle fasi di verniciatura, serigrafia e timbratura, vengono poi eseguiti i più svariati lavori di decoro e personalizzazione indispensabili per completare l’abbigliamento delle bottiglie destinate a contenere vini di grande pregio riservate alla clientela più attenta ed esigente.
Risultano un po’ “pesanti” da aprire e non sempre il taglio è lineare e scorrevole tant’è che spesso capita di doverci ritornare ancora una volta su per effettuare un taglio più decisivo e funzionale. Meglio procurarsi un cavatappi veramente dei migliori o una levacapsule piuttosto efficace. (A.D.)
Di là: Pronto… Buongiorno…Di qua: Buongiorno! Mi chiamo Angelo Di Costanzo. Ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere nel venire a farvi visita in cantina. E’ possibile?Di là: Sì, si, un attimo che vi passo l’interessato… [breve attesa].Di là: Pronto… Buongiorno…Di qua: Buongiorno a voi, mi chiamo Angelo Di Costanzo. La settimana scorsa ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere di venirvi a trovare in cantina. E’ possibile?Di là: Ah, ma voi cercate la cantina? Aspettate un attimo che vedo se ci rispondono… [attesa, non proprio breve].Di là: Pronto Buongiorno… chi è che parla?Di qua: Sì, salve, buongiorno, mi chiamo Angelo. Di Costanzo. Dicevo… che qualche giorno fa ho assaggiato alcuni vostri vini e così avrei piacere nel venire in visita in cantina per conoscervi meglio. E’ possibile?Di là: Eh sì, grazie grazie. Sentite, ma voi scrivete? Su qualche giornale, rivista, blogger (che immagino con l’h, ndr)?Di qua: Per la verità sì, a tempo perso anche, ma…Di là: No perché se vuole i vini glieli posso spedire: mi manda l’indirizzo e così facciamo prima.Di qua: In verità le mie intenzioni erano altre. Ci terrei a visitarvi, conoscere l’azienda, e magari saggiarli assieme a voi i vostri vini; guardi è mia intenzione comprarne un po’ per mettervi in carta…Di là: Ah… allora se è così dobbiamo fare quando ci sta pure l’enologo. Fa tutto lui qui…Di qua: Bene, se lo preferisce, per me va bene. Quando possiamo?Di là: Le faccio sapere quando è disponibile.Di qua: Attendo sue allora, buone cose. Le lascio il mio num…Di là: Buona giornata.
Ecco, immaginatevi adesso cosa possa essere, significare, e non per un appassionato mentecatto come me, ma per un normalissimo avventore o cliente – manco a pensarlo uno straniero, chennesò americano –, scoprire l’Italia del vino ancor oggi.
Un caro amico rappresentante di vino (e altro), qualche mese fa mi mandò quattro righe scritte di suo pugno, aveva piacere ch’io le pubblicassi; approfondimmo l’argomento, parlandone (più volte) anche da vicino; a distanza di un bel po’ di tempo – non che me ne fossi dimenticato, ma avevo tanto altro di cui scrivere -, gli ho chiesto se ritenesse ancora opportuno far passare la cosa. “C’è dell’altro…” mi aggiunge. Così ho chiesto all’amico Fritz, nome naturalmente buttato lì così, di parlaci un po’ del suo lavoro.Fai questo mestiere ormai da un po’ di tempo, potremmo dire (ma non lo diciamo chiaramente) che sei “figlio d’arte”; ma come si comincia a girare con la borsa? Se hai meno di trent’anni, e sei uno sfigato che non ha trovato ancora altro da fare nella vita, quasi ci sei costretto. Diciamo pure che per me è andata così: avevo una porta là a disposizione, la chiave in tasca, ero però convinto di poter e saper fare altro, ma mi sbagliavo. O forse non c’ho creduto abbastanza.
Così hai scelto la strada. Sei soddisfatto, lo rifaresti? Beh, come possono non esserlo, faccio questo lavoro con grande dedizione, mi faccio il culo – e tu lo sai – e senza presunzione o mancare di rispetto ai colleghi, credo di stare facendo un bel lavoro, per me e per le aziende che rappresento.
Non facciamo nomi naturalmente, ultimamente però l’ambiente è diventato piuttosto caustico o mi sbaglio: come se ne esce? Come in tutte le professioni chi ha saputo costruirsi una credibilità, leggere il mercato, anticipandone magari i cambi di rotta, non ha di questi problemi, o almeno li subisce meno. Il problema grosso è di chi ha sempre fatto questo mestiere da mercenario, sfruttando il momento inconsapevole dei danni collaterali.
Spiegati meglio. Chi ha memoria lo sa bene, questa crisi arriva da molto lontano; già poco dopo metà anni novanta ci furono primi significativi segnali del cambiamento in atto nel mondo del vino, le grandi aziende stavano muovendo i primi passi nel guardarsi intorno, ricercando nuovi orizzonti da inglobare nel proprio pacchetto; il marchio da solo non bastava più, c’era un urgente bisogno di diversificazione: per vendere Chianti non bastava più essere leader, c’era bisogno di Prosecco. Così come per vendere in Giappone o Stati Uniti alle poche grandi aziende campane serviva il Lacryma Christi, un vino che in alcuni casi non sarebbe mai entrato nel listino aziendale, pur rappresentando il 20% del fatturato complessivo. Incredibile no?
Una Baraonda! Così è stato per il nostro lavoro, un gran casino. Le aziende a rincorrere i fatturati, noi le fatturazioni. Risultato? Chi non aveva “nomi” in borsa si è lanciato in grandi operazioni di riposizionamento sul mercato (sì, così le chiamavano), col risultato di bruciare prodotti, marchi, talvolta intere aziende; e persino i clienti più “sani”: te li ritrovavi talmente carichi di vino da non potersi permettere nemmeno di comprarti un cartone da 12 bottiglie! Ognuno poi sembrava avere necessità di un subagente, così si tiravano dentro ragazzini tutti laccati venuti fuori da chissà dove, o gente che s’è ritrovata a cinquant’anni a doversi inventare un lavoro: dal rappresentante di profumi e bigiotteria, al vino; il passo in effeti è breve (aargh!).
Effettivamente. Senti questa: qualcuno continua a pensare che se hai meno di 5 aziende nella borsa, sei uno sfigato. Ma se ne hai più di una decina? C’è stato un periodo, forse tu sei troppo giovane per ricordarlo, che nel calcio, per vincere il campionato, non contava tanto quanto tu fossi forte, ma quanto invece fossero più deboli i tuoi avversari: ricordi Nando De Napoli passato dal Napoli scudettato al Milan di Capello? Avrà fatto, nei due o tre anni a Milano (lautamente ripagati) sì e no un paio di partite, mentre il Napoli andava sempre più ridimensionandosi, sino a sparire completamente dal campionato di A. Ecco, in fin dei conti nel mio ambiente è così: non conta quante aziende hai, ma quali. E di queste, più ne riesci a sottrarre al concorrente, più diventi capace di imporre la tua politica distributiva.Nota dolente: i pagamenti, gli insoluti, le questioni con i clienti. E’ un problema grosso, grossissimo, un male incurabile secondo alcuni; a dirla tutta non credo che se ne esca, soprattutto in un momento come questo. Eppure se provi a dire alla tua azienda di non servire più quel ristoratore perché ti paga male o mal volentieri, capita che ti ritrovi il proprietario una sera a cena da lui, convinto che comunque bisogna essere presenti in quel locale.
Vacci a capire qualcosa.CapitoloNapoli, ma anche la provincia e l’hinterland: chi se la passa peggio? Mettici pure l’Italia intera; ultimamente le riunioni con i capi area e i colleghi di altre regioni sono diventate processioni senza soluzione di continuità, dove il leit motiv sono rosari ormai insopportabili; a Napoli la crisi è profonda, e anche certi nomi, storicamente solidi più di altri, vacillano; e in provincia sembra vada ancora peggio. Salvando la pace di poche, pochissime mosche bianche, conviene quasi non metterci più piede.
Un quadro disastroso il tuo, come si va avanti allora? A fatica, con tanta pazienza ed un lavoro certosino, senza dimenticare la stima costruita in anni di lavoro soprattutto sulla buona educazione e sulla cura del cliente, delle relazioni e delle innumerevoli questioni che si presentano ogni giorno. Diciamo che la sera si rientra sempre più tardi a casa, e che il mio è un telefono caldo, ma ho imparato che è bene tenerlo sempre acceso!
Chiudiamola così: e quel morellino così buono di cui mi parlasti? No beh, quell’azienda lì non capiva certe dinamiche, taluni credono di essere i soli sul mercato. Mentre qua siamo in guerra (sorriso, ndr).
Ah, vabbé. Ti hanno disdettato? Ma nooo, che dici mai. Sono io che li ho lasciati perdere (altro sorriso!)”.
Siamo in finale! Dopo circa un mese di segnalazioni (tantissime!), votazioni (tante di più!) e selezioni, finalmente ci siamo: L’Arcante – diario enogastronomico di un sommelier, il Vostro blog, è tra le tre nominations in lizza per il Premio Blog Café dell’anno 2011 nella categoria “Vino” .
Per votarci, avete tempo fino al 29 Aprile; per farlo è indispensabile registrarsi, collegandosi qui su Blog Café 2011; chi l’avesse già fatto in precedenza, alla prima votazione, non ha bisogno di registrarsi nuovamente, può tranquillamente usare l’username (profilo utente) e password inviatogli allora dallo staff di San Patrignano!
Una volta aperta l’home page, a destra del vostro monitor, vi viene chiesto di esprimere, tra le varie categorie, la vostra preferenza: L’Arcante, come detto, è in finale nella categoria Vino.
Frattanto, vi basti un saluto affettuoso, e diciamo che non succede, ma se succede…
Nota: per noi è già motivo di orgoglio essere arrivati sino a qui, in lizza tra l’altro, nella nostra categoria, con blogs curati da due dei nostri più cari amici, Alessandro Marra e Stefano Ghisletta; ma giusto per darvi un’idea dello spessore del premio, tra la categoria “giornalisti” vi è un tale, Luciano Pignataro, che qualcuno di voi conoscerà senz’altro. 🙂
Quest’anno passo la mano, ma solo perché ho ancora troppe cose da fare e troppo poco tempo a disposizione prima che inizi la nuova stagione; mi scuseranno i tantissimi, che per piacere o semplicemente per dovere, non m’hanno fatto mancare l’invito a passarli a trovare; ci saranno altre occasioni. Vinitalyquindiè alle porte, qualcuno lo aspetta sempre mi verrebbe da dire, c’è però chi lo snobba (non serve! dicono), altri lo ignorano proprio, altri ancora sanno che sta lì, prima o poi ci andranno. Forse.
Si accendano quindi le telecamere, le fotocamere, i tablets di ogni marca e generazione, notebooks, telefonini, caricatori di; per i più nostalgici, si sfoderino pure le vecchie penne e i taccuini in finta pelle nera! Poi i biglietti – oddio i biglietti! – la rubrica telefonica con tutti i numeri utili, l’invito. Con questi, masse di professionisti, enotecari, salumieri, ristoratori, trattori, rappresentanti, sommeliers, giornalisti (quelli veri), bloggers – da non confondersi con i giornalisti, anche quando si spacciano di esserne colleghi – e semplici appassionati si apprestano a partire alla volta di Verona per trascorrere uno, due o cinque giorni all’insegna di grandi rivelazioni, delusioni o nuove esaltanti esperienze e, faccenda non certo di secondaria importanza, bevute e mangiate irripetibili; o almeno si spera.
A tutti quanti dico: divertitevi, e bevete tutto quello che pensate vi possa appassionare! Fate esperienza, allenate il vostro palato, incontrate persone, stringete più mani che potrete; non fate i fighetti, portate pazienza se gli stands saranno affollati e non vi lamentate alla prima occasione perché non vi hanno riconosciuto; capita, forse nemmeno vi rendete conto cosa significa per un produttore stare lì cinque giorni ed essere assaliti (si spera) costantemente da orde di genti da ogniddove! Fate di questo evento una bella passeggiata tra persone, bottiglie e bicchieri, e non la vostra idea definitiva del mondo del vino; cogliete l’occasione magari per allacciare nuove conoscenze, chiedete magari quando e come sarà possibile poi fare un salto in cantina, a camminare le vigne.
Infine una dritta, aggratis: le dieci domande, secondo me, più cool da fare ai produttori ai loro banchi d’assaggio qualora intuite un calo di attenzione nei vostri confronti. Attenzione però, leggere attentamente le avvertenze prima dell’uso! N.B.: tra parentesi un suggerimento di alcuni passaggi utili da tenere, in prima istanza, solo come un pensiero.
1 – Sono sempre stato affascinato dai vostri vini, li preferisco da sempre, quel vostro Riserva poi… che annata è in commercio adesso?Assicuratevi di stare parlando della stessa azienda, e che frattanto non siano trascorsi vent’anni dall’ultima volta che avete assaggiato un loro vino!
2 – Barrique di primo, secondo o terzo passaggio?Un classico, un caposaldo si direbbe seppur un tantino inflazionato; però se beccate quel piccolo produttore alla sua prima esposizione, avete fatto centro!
3 – Quante ne fate di questo?Se non siete dei maghi non impelagatevi in numeri che mai più ricorderete appena girato le spalle.
4 – Questo vino non fa malolattica, (e se la fa, solo in parte) dico bene?Domanda ficcante, da vero esperto; girate però alla larga da quegli stands con coltri di amerrecani in fila :-).
5 – Avete rappresentanti nella mia zona (sa perché è da un po’ che vorrei inserirvi in carta)?Astenersi se pensate di farla franca, magari il Vostro ve lo propone almeno da un paio d’anni mentre voi ve ne siete convinti solo ora giusto perché qua e là un paio di articolini ne parlano bene.
6 – Davvero notevole (si sente però l’annata calda), duemilasette vero?Schiere di grandi vini vi attendono, fate attenzione però a non relegarli nell’accezione più morbida del significato “grande vino”.
7 – Che portainnesto utilizzate, 140 Ruggeri o 779 Paulsen? Questa è proprio figa, ma tenetevela just in case siete sicuri di poter strappare un appuntamento per il dopo cena. E solo se la produttrice vi ispira, naturalmente; e comunque, occhio, in nessun caso citare il Kober 5 BB.
8 – Lieviti indigeni o selezionati (no perché le spiego, ormai ho maturato una certa sensibilità)? Attenzione a non avvicinare il calice all’altezza degli occhi mentre vi scappa di farla (sta domanda), e fissate bene il vostro interlocutore mentre vi risponde. Se gli vibra l’orecchio destro, mente spudoratemente!
9 – Mica ha un biglietto d’ingresso omaggio in più da offrirmi per un amico? Confidenziale, a dirla tutta, la più sputtanata delle domande che vi possa venire in mente. Qui serve un sorriso immenso e/o una gran faccia tosta, fate voi!
10 – Quanti milligrammi per litro di solforosa ci mettete in questo vino?La più cool di tutte, la domanda con “D” maiuscola, la madre di tutte, quella da 10 e lode, la più gettonata e all’altezza del trend attuale; badate bene però a chi la rivolgete, astenersi da omaccioni bio naturalqualcosa, caschereste male!
Rieccoci! Si riparte alla grande in questo 2011 con subito tanti appuntamenti a cui dedicare particolare attenzione, ma prima di tutto, senza voler essere troppo pallosi, eccovi un piccolo classico con il quale desideriamo sottolineare alcuni riferimenti che ci fanno pensare in positivo per quest’anno appena arrivato. Non è una classifica, solo il piacere – sincero – di ringraziare alcune persone per quello che fanno e sono capaci di trasmettere e dunque una sottolineatura a persone, cose, eventi, fatti che non ci sono risultati indifferenti. Così è se vi pare. Buon anno a tutti!
Rosanna Petrozziello. Moglie, mamma, sommelier, vignaiola di finissime intuizioni sotto l’egida di suo marito Piersabino Favati nonchè – da qualche tempo sempre più ferrata – abile tecnico di cantina grazie agli insegnamenti del suo consulente Vincenzo Mercurio. Potrei anche fermarmi qui, perchè di certe persone basta dire anche meno, per lasciarne carpire il valore umano e morale, ed il suo brillante futuro in questo più o meno meraviglioso mondo del vino. Ci tengo però ad aggiungere solo un ulteriore considerazione, rifacendomi ad una delle più leggere ma al tempo stesso efficaci battute di Totò: in un mondo costellato di mille e più primedonne “tutte pittate*” che sgomitano per ottenere un primo piano, ebbene, come chiosava il più nobile dei comici napoletani ne Il Turco Napoletano, “in questo negozio, fra tanti fichi secchi, un po di poesia non guasta mai”, e Rosanna, con il suo solare splendore, forgiato da sani e saldi principi di un tempo che fu, non guasta davvero no,e guai a chi se ne dimentica! (*) pittate, truccate
Gerardo Vernazzaro, mai senza Emanuela Russo però. E sì, perchè Gerardo è un tipo giusto, che sa il fatto suo, cresciuto come me nella cruda periferia napoletana ma che ha saputo leggere e vivere il presente senza mai rinunciare al suo futuro, ai suoi sogni, pur nella loro reale dimensione, senza cioè voli pindarici. Gerardo fa vino, e seguirlo nel suo lavoro, correre cioè tra le vigne, camminare con lui tra le vasche e rincorrere i suoi ideali nelle bottiglie è, credetemi, uno spasso; Perchè più del valore della fatica, del sacrificio della costruzione, condividere una bevuta con lui significa riuscire a cogliere di un vino”l’essenza” che vuole manifestare, più del territorio che si arroga la presunzione di rappresentare, il suo ideale. E mai compagno di bevute mi fu più gradito!
Teletubbies, sono off topic, lo so, ma aspetto da sei mesi di inserirli in qualche modo in un mio post; Senza di loro non so proprio come farei. Dei quattro, chi mi fa scompisciare è Dipsy, con il suo cappello sempre alla moda ed i suoi balli originalissimi, anche se, per amor del vero, sono quasi costretto a tifare sempre perPo e Laa-Laa, Letizia poi di quest’ultima è follemente invaghita. E che dire poi di Tinky Winky, il più grande (e grosso) della ciurma che se ne va in giro sempre con una borsa rossa (della serie ci fa o ci è?). Tutti protagonisti di storie incredibili alla luce di un sempre splendente Sole-bambina, un po come le mie giornate da quando sono diventato padre, altro che sommelier…
Carmine Mazza. In un tempo in cui Napoli e la sua provincia esprime tutto quello di cui mai ci si potrebbe innamorare ogni tanto salta fuori qualcosa di buono. Il Poeta Vesuviano non è solo un ristorante, prendiamolo come un avamposto di modernariato culinario nella popolosa e popolata provincia napoletana. Torre del Greco non è poi così lontana e andare da Carmine, nella foto con la deliziosa compagna Amalia, val bene il viaggio; Perchè Carmine ha voglia di fare e lo si vede in ognuno dei suoi piatti, ha talento da coltivare e motivazioni da preservare, insomma, il poeta va ascoltato!
La Francia. Credo di aver letto tutto il possibile sulla vitienologia francese e di non essermi mai fatto mancare il tempo per approfondire e cercare di capire: un mondo infinito, altro che bordò e burgogn! La cosa più curiosa è che più ci entri nei dettagli del vigneto Francia e più ne ami, ti appassionano, le mille sfumature più che le poche, solide architetture di un paese del vino straordinariamente ricco di cultura enoica. Così l’approccio dello scorso giugno al sogno borgognone diviene solo l’appetizer di una sì forte motivazione di cominciare quel viaggio fantastico che non si pone mete bensì obiettivi: vivere le terre di Francia.
Pasquale Torrente. Mi dicono che una volta capitato a Cetara si rischia di rimanerci secco, di cetarite o giù di lì. Aggiungono però che trattasi di un male buono, che si insinua dapprima nella mente ma che non perde tempo di rapirti l’anima. Cetara è un borgo marinaro tra i più suggestivi della costiera, vissuto da gente che praticamente si conosce tutta, tra questi c’è Pasquale. Di lui ho incontrato prima la sua fama, di persona per bene appassionata del buono e lento della vita nonchè gran cultore di amicizia. Poi il suo lavoro, di chef e patron dello storico ristorante “Al Convento” e quindi la sua persona: schietta, sincera, onesta, disponibile, trasparente. Un signore, si direbbe. Quanti come lui? Ne conosco solo alcuni altri, e comunque meno bravi con la sciabola!
Angelo Gaja gira che ti rigira te lo trovi sempre davanti, ma anche no. E’ indubbio che sia un personaggio tra i più ambìti della nomenclatura enologica italiana, tra i pochi, pochissimi a cui va indiscutibilmente concesso il merito di aver creato un aspettativa sempre crescente sui suoi vini. Vuoi per passione, vuoi per critica, i vini di messer Barbaresco – checchè se ne dica – sono sempre un riferimento certo della vitienologia italiana, un caposaldo che sai di avere e di potertelo giocare – con tutti – a tuo piacimento. A lui, come forse a nessun altro, è concesso di apparire e sparire dalla scena a suo piacimento, lui come nessun altro ha maturato, soprattutto negli ultimi anni, quella sottile capacità di essere massmediologo senza esserlo, a volte senza nemmeno proferire parola, lasciando semplicemente parlare i fatti. Altre volte, quando proprio gli girano, ci ha abituato invece a sonore prese di posizioni, più o meno condivisibili, proprio come i suoivini. Un riferimento Angelo Gaja, meno male che c’è!
Annalisa Barbagli. Ilsuo vecchio profilo sul sito del Gambero Rosso, per il quale ha collaborato sino a poco meno di un paio d’anni fa, la descriveva come “una persona pratica che vive l’impegno della casa (la spesa, il bucato, le pulizie, il cucinare ecc.) come un tutt’uno da fare all’insegna della massima professionalità”. Ed in verità dalle sue pubblicazioni si è sempre respirato quel non so che di vero che molti tentano – invano – di replicare costantemente nelle ultime uscite culinarie. Negli ultimi tempi non si riesce nemmeno più a contarli i vani tentativi di imitazione, ma chi come noi è cresciuto con La cucina di casa e si è ritrovato in quelle mille e più ricette che ha quasi tutte “vissute”, non v’è tubo catodico che tenga: che se le cuociano e mangino pure tra loro, il mio manuale di cucina è differente!
In ultimo, i miei primi dieci anni di Ais. E sì, son passati dieci anni; Era il 2001 quando mi sono avvicinato all’associazione italiana sommelier, per vocazione e non ripiego; Per molti dei miei amici/colleghi del tempo, quella rimane una “classe di ferro”, per altri addirittura mai più ripetuta. A me basta pensare di aver percorso, anche con alcuni di questi, un bel pezzo di strada professionale, appassionati e mai piegati all’arroganza di chi, nel tempo, ha preferito mettere avanti la scadenza mensile della sua prossima rata del mutuo alle ragioni, umane e morali, di un associazione che fortunatamente rimane un riferimento assoluto per la qualificazione e l’affermazione professionale dei comunicatori del vino, in Italia come nel resto del mondo. L’anno appena messo alle spalle ci ha consegnato una bella ventata di rinnovamento e tanti, tantissimi buoni propositi, a livello nazionale ma anche regionale qui in Campania: staremo a vedere cosa succederà, anche perchè, di cose da cambiare pare che ce ne fossero, chi vivrà vedrà!
Considerati l’interesse e la grande partecipazione fatta registrare negli anni passati, Assoenologi ripropone in tre sedi diverse i corsi sull’analisi olfattiva e sulle molecole aromatiche, alcune delle quali di ultima generazione. Sabato 27 novembre si fa tappa anche in Campania, a Manocalzati in provincia di Avellino. Queste invece le altre sedi e le date: martedi 23 novembre 2010 a Carpi in provincia di Modena, giovedi 25 novembre a Barletta.
Il corso si concretizza secondo i seguenti orari: 9-13 e 14.30-18, dando ampio spazio alla discussione e al confronto con i relatori, tra i quali Paolo Peira e docenti della facoltà di enologia di Bordeaux come Frédéric Brochet eDominique Roujou de Boubée.
Il costo di partecipazioneper i soci Assoenologi è di 120euro (inclusa Iva 20%) e di 140 euro (inclusa Iva 20%) per i non soci. L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata compilando una apposita scheda scaricabile dal sito www.assenologi.it.
La suddetta scheda di adesione va fatta pervenire all’Assoenologi – Via Privata Vasto 3 – 20121 Milano, corredata del relativo importo, almeno 10 giorni prima della data di inizio. Il corso è a numero chiuso, le iscrizioni verranno accettate fino a esaurimento delle disponibilità. Se viceversa non si raggiungerà il numero minimo di iscritti, il corso sarà cancellato e agli iscritti verrà restituita la somma versata.
Sede del corsoBel Sito Hotel Le due TorriUscita Autostrada – Avellino EstS.S. 7 Via Appia – 83030 Manocalzati (AV)
Tel 0825 670001 Fax 0825 670268
In principio fu leggere, poi studiare, lavorare; Fermarsi, quindi capire. Avere poi l’opportunità di maturare, grazie al proprio lavoro, esperienze umane e professionali atte a favorire una crescita è fortuna per pochi, e per ognuno di questi, un patrimonio personale da conservare gelosamente.
Sono questi giorni di improvvisa frescura, imperversano vento gelido e scrosci di fredda pioggia, le stanze rimbombano dell’assenza di vita, gli spazi si allargano, si allungano, i corridoi appaiono interminabili, il silenzio, rotto solo dalle grasse risate strappate da una battuta insolente, quasi fastidioso. Così volge al termine questa mia seconda stagione al ristorante L’Olivo del Capri Palace e tra qualche giorno, quando, con giusto distacco fisico e relax mentale potrò farlo, non mancherà un pensiero di fondo, a memoria di una delle più belle stagioni lavorative di sempre: grazie mille Oliver!
A caldo, mi sovviene di lasciare volentieri traccia di una breve, personale, osservazione su ciò che per molti è un dogma, per qualcuno un mero esercizio di stile, per altri più semplicemente la solita fuffa da salotto buono: l’etica e l’estetica in un albergo di lusso e/o ristorante gourmet.
L’architettura, le forme, possono suscitare un eccesso di aspettative, l’arte della raffigurazione della materia è palesemente di altissimo profilo, ed esprimere con essa la sostanza che ci si aspetta, attraverso linee esuberanti, lussuose, non è per tutti: il lavoro è tanto, l’impegno incalcolabile, il risultato già da qualche anno sotto gli occhi di tutti. Un luogo a dimensione umana, ideale per crescere e maturare.
Il dono artistico e la bontà sono due cose distinte? Chissà. Ad un ottimo pittore si possono commisionare tante opere, ma questi, se in gamba, dipingerà solo ciò che rappresenta la sua folgorazione. Alla stessa maniera costruire piatti per colpire l’immaginario può insinuare la mente del palato più fine, non le sue papille gustative. La rappresentazione delle proprie idee, della propria terra non può piegarsi alla sola esibizione estetica, gli ingredienti sono tutto, i colori, i profumi ed i sapori prima di tutto: un falso – seppur d’autore – non ha implicazioni di valore morale da salvaguardare, uno chef si: in bocca al lupo ad Andrea Migliaccio, il nuovo* manico ai nostri fornelli!
“Se non c’è talento, non c’è arte, e se non c’è anima retta, l’arte è inferiore, per quanto abile”. (John Ruskin, 1819-1900). Con queste poche parole, apparirà banale, autoreferenziale, va raccontato uno spaccato di gioventù motivatissima che insegue il sogno di essere invece che apparire; Giovani senza confini, partiti a 15 o 16 anni per scappare da realtà poco attente alle loro esigenze per conoscere il mondo, con la curiosità di chi guarda al futuro ed ambisce ad essere, imparare, crescere. Arrivano da ogni dove, partono per ogni dove, poi ritornano. Fermarsi sarebbe come delegare ad un ammortizzatore dell’originalità il proprio valore, il maggiore distruttore del proprio talento. Più forte ragazzi, liberi di sognare il proprio futuro, costruito pezzo per pezzo con il gran lavoro!
Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’invito alla prossima manifestazione Terre di Vite organizzata da Barbara Brandolie Elena Conti che si terrà al Castello di Buronzo – Vercelli il prossimo 13 e 14 novembre. Un modo interessante per vivere un territorio particolarmente suggestivo, assaggiando un pezzo del mondo del vino fuori dai tradizionali percorsi enoici.
sabato 13 e domenica 14 Novembre 2010
Castello di Buronzo – Vercelli
Vino, arte e multicultura. Degustazioni di vini di alcuni tra i migliori produttori italiani, due lezioni sull’imprevedibilità del vino e sulla sua comprensione – sensazioni, parole e suoni a cura di Sandro Sangiorgi di Porthos – una mostra sulla vita di Mario Soldati, un’emozionante installazione multimediale visivo – sonora denominata “Calici d’arte”. Sono questi gli ingredienti della terza edizione di Terre di vite.
Il filo conduttore di questa manifestazione enologico-culturale itinerante è la multicultura intesa come modello di vita, di espressione e condivisione tra persone e culture di territori differenti. Un’occasione per conoscere realtà produttive d’eccellenza che hanno scelto un approccio di natura etica con il vino, privilegiando la naturalità e il rispetto di ambiente e territorio. Così, nei suggestivi saloni del Castello di Buronzo, restituiti all’antico splendore da un recente restauro, si potranno degustare tra gli altri vini come Barolo, Gattinara, Ghemme, Boca e Dolcetto di Dogliani (Piemonte), Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano e Chianti (Toscana), Valtellina Superiore (Lombardia), Lambrusco e Pignoletto (Emilia Romagna), Sciacchetrà (Liguria) Verdicchio dei Castelli di Jesi (Marche), Aglianico del Vulture (Basilicata), Cirò (Calabria).
Il pubblico avrà inoltre la possibilità di approfondire la conoscenza dei gioielli enologici di regioni come Campania e Sicilia e dei vitigni autoctoni di Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia. Saranno presenti 24 aziende produttrici con 70 vini in degustazione. Non mancheranno, naturalmente, le chicche enogastronomiche del Piemonte, dal tipico Riso di Baraggia Dop fino ai formaggi e ai salumi di piccoli produttori provenienti dal vercellese e da altre zone d’Italia. Fra le cantine presenti molti nomi di prestigio ma anche alcuni giovani emergenti che si stanno distinguendo per talento e passione.
Terre di Vite è anche l’occasione per prenotare un week-end a due passi dal Lago D’Orta e dal Lago Maggiore, dalle montagne della Valsesia e a poca distanza da Torino e Milano.
Riferimenti:Castello di BuronzoVia Castello 13040 Buronzo (VC)Sabato 13 Novembre dalle 11 alle 20.Domenica 14 Novembre dalle 11.00 alle 18.00Contributo di ingresso: 15 euro + 5 euro cauzione caliceMaggiori info:www.terredivite.itinfo@divinoscrivere.it
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa importante iniziativa che vede impegnati tra gli ideatori e promotori il nostro caro amico Andrea Gorialias “sommelier informatico”.
Firenze, 2 Ottobre 2010. WineTown si avvicina a grandi passi e il Comune di Firenze sta finendo di allestire il particolarissimo palcoscenico dove prenderà vita il primo WineCamp italiano dedicato alla nuova comunicazione del vino: quindi spazio a etichette e design, il packaging e le campagne di comunicazione ai tempi dei blog e del social marketing. Sarà questa soprattutto una occasione formidabile per mostrare alle 120 aziendeprotagoniste e ai 12 consorzi e associazionipartecipanti cosa sappiamo fare noi geek e non solo…
Il convegno si trasformerà poi in un workshop in cui, aziende e bloggers, entreranno in contatto per chiarirsi e scoprire che parte del futuro del vino passa dai nuovi elementi della comunicazione grafica e visuale, dal web, dai social networks e dai blog. Per i blogger che presenteranno la propria esperienza nel pomeriggio durante il Camp abbiamo provveduto ad organizzare un pranzo e un aperitivo serale in due fascinosi locali della vita notturna fiorentina (ilTorre 69 e il famosissimoDolce Vita in Piazza del Carmine) e farvi avere per tutta la durata di WineTown un accesso gratuito wi-fi e una wine card per i vostri assaggi in giro per la città.
Continua a leggere qui per conoscere tutti i dettagli del programma.
L’estate è alle spalle, la vendemmia da qualche parte è appena cominciata, altrove se ne parlerà più in la, così l’autunno – preannunciato piuttosto rigido – rimane dietro l’angolo e così gli Amici di Bevute decidono di incontrarsi una sera a cena: per fare il punto della situazione, per discutere sul da fare e non ultimo a parlar… d’amore.
Eh si, perchè ognuna delle nostre storie, idee, fisime, passioni sono indissolubilmente legate all’amore, quello viscerale per la propria terra, quello ideale per il proprio progetto di lavoro, quello indissolubile per la propria donna (o l’uomo) che ti è compagna nella vita. Abbiamo trascorso una serata meravigliosa, coccolati da una infaticabile Emanuela, nutriti da François (e dalle galline del cratere degli Astroni, ndr) e magistralmente edotti da Gerardo in una lezione di enologia, tra le vasche, a mezzanotte e rotti: cose da bollino rosso insomma.
Ne abbiamo bevute delle belle e pure qualcuna meno affascinante, bottiglie che hanno già, a loro modo, fatto storia ed altre che l’avrebbero voluta fare ma all’altezza non sono, altre ancora, ahimè, miserabilmente consacrate all’altare di un dio che non arriverà mai a benedirle. Comunque, una bella serata, tra amici produttori, enologi, professori di marketing, sommeliers, l’idea di base è sempre quella di offrirsi, capire, confrontare, imparare, ma la riflessione importante, rimasta nell’aria come l’odore pregnante di vinaccia in vendemmia, è stata quella sopraggiunta giusto in mezzo tra il Camarato 2003 di Villa Matilde ed il Tenuta Argentiera 2004 – più o meno al quarto/quinto campione – e cioè che alla fine di tutto un grande vino per affermarsi tale, rimanere impresso nella bocca come nella mente, può nascere solo da chi, cosciente delle proprie idee e mezzi, sa cosa significa profondamente amare e rispettare la propria terra!
Pozzuoli 16 novembre 2009, nasce L’Arcante – diario enogastronomico di un sommelier. Abbiamo esordito più o meno così, raccontandovi di Peppe Mancini e Manuela Piancastelli e della bella favola del Pallagrello. In verità già da qualche giorno lavoravamo su una nuova idea di comunicazione ed alcune belle esperienze ci esortavano a camminare, decisi, questa strada: per imparare, costruire, confrontarsi, crescere.
Erano quelli giorni pesanti, mistici direi, di profonda gioia con il cuore impavido per la novella notizia e di pressione debordante con la mente rarefatta da scelte improrogabili; noi abbiamo deciso di guardare avanti, svoltare l’angolo, alla ricerca di una via percorribile, e di queste pagine farne la cronaca, di nuove esperienze professionali ed umane capaci di segnare il tempo, il nostro tempo, che passiamo a lavorare e vivere alcune delle nostre passioni quotidiane: il vino, il cibo, gli amici, il confronto professionale.
Le ragioni di questo post potrebbero far passare l’argomento come il più banale delle autocelebrazioni ma i numeri meritano sempre una certa considerazione, su tutti le più o meno 200 visite al giorno e le oltre 4500 pagine lette ogni mese, una costante che ci riempie di grandi stimoli; chi ci ama ci segue, chi no pure, ma questo conta relativamente; ci piace parecchio invece che chi ci conosce continua ad esortarci, mentre chi scopre queste pagine per la prima volta ne fa lettura quasi quotidiana.
A tutti diciamo grazie, di vero cuore, perchè avere qualcosa da dire è importante, ma essere ascoltati letti è proprio una bella soddisfazione: le lunghe notti del dopo-lavoro dedicate a buttare giù parole più o meno comprensibili e tracce percorribili hanno per fortuna un senso compiuto.
Orbene, ovunque voi andiate alla ricerca del mare più cristallino e delle spiaggie più fini, che il sole possa accompagnare ogni vostro giorno di agognata vacanza. A Chi sceglierà la terrazza sulla valle più verde di montagna, auguriamo che l’aria tutt’intorno sia della più pura possibile mentre per chi invece rimane in città, che lo stress, almeno ad agosto, abbandoni la vostra quotidianità. A tutti Buone vacanze, e per tutti, buon vino! E che sia dei migliori della nostra amata Campania Felix!
Ci sono alcune parole del dizionario della lingua italiana che mi stanno particolarmente a cuore, il loro significato, per alcuni effimero, è per me verbo e motivazione. Tra queste, “valorizzazione”, cioè quell’atto o effetto del valorizzare, “promuovere”, che tra i vari significati esprime un progresso, un avanzamento, un miglioramento, ed infine “territorio”, che gli appassionati di vino sanno bene cosa significa e mi basta questo per rendere l’idea.
Ebbene, ilVilla dei Misteridi Mastroberardino è la rappresentazione, nel suo insieme, di quanto un progetto di valorizzazione, tanto originale come ricreare un vino nelle vigne di Pompei, possa essere valido e concettualmente attrattivo nel promuovere un intero territorio; Allo stesso tempo però ci si chiede del perché non si continui a camminare questa via più di tanto, mortificando qua e là idee, progetti, persone inibendo loro il giusto spazio di azione per crescere, svilupparsi ed affermarsi come motore culturale prima che economico di un intero territorio, per altro tanto comune inCampania. Si parla di archeologia e vite ai giorni nostri, ma gli interlocutori chi sono, cosa fanno?
A Pompei grazie al fondamentale impegno della locale soprintendenza archeologica è stato fatto un buon lavoro strutturale e Mastroberardino dal canto suo ha espresso al meglio il potenziale di un progetto particolarmente affascinante ma certamente improbabile agli occhi di molti. Il vino venuto fuori negli anni, a parte il prezzo elevato dettato però soprattutto dalle ingenti difficoltà gestionali, ha espresso quasi sempre qualità intrinseche oggettive, e il 2003 in particolar modo, fortificato soprattutto da un’annata piuttosto calda mostra anche un certo carattere, una possenza non proprio tipica dell’uvaggio di cui si compone, specie del piedirosso, ma certamente riconducibile ad un terreno unico nel suo genere: vulcanico, sciolto, ricco di elementi minerali e lapilli. Anno dopo anno, dal 2001, sempre più espressivo. Un vino dal colore rubino splendido, quasi fermo nel tempo, dalle note olfattive dolci di mirtillo in confettura e di spezie finissime. Non certo un campione di profondità, ma ogni sorso scivola via con estrema piacevolezza, è accompagnato da giustezza e pacatezza, frutto ineccepibile e tanta suggestione, decisamente più godibile oggi che tre anni fa quando l’assaggiai l’ultima volta, nerboluto ed asciutto sino all’asprezza.
Ecco che mi vengono in mente altri esempi, negativi in questo caso, smarriti nel tempo ma non nella mia memoria; Uno su tutti, che mi rattrista particolarmente è proprio sulla strada che mi conduce sotto casa mia: chissà cosa sarebbe stata per iCampi Flegreila falanghina deiMartusciello se avesse potuto godere solo del fascino della suggestione della “Villa del Torchio” ritrovata appena qualche anno fa proprio ai piedi delle vigne aziendali invia Masullo a Quarto. Allora qualche stupido burocrate, dopo una inattesa “apertura” per il cantine aperte, pensò bene di preservare il prezioso giacimento archeologico vietandolo a tutti e da qualsiasi progetto di integrazione culturale. Oggi gli stessi si vergognino per lo scempio a cui è sottoposto, praticamente inondato di immondizia e di erbacce, lì in un angolo deserto del parcheggio del centro commerciale!
Addensum: ci pensate a cosa sarebbe il lago d’Averno se il Tempio di Apollo, adornato da vigne vocatissime, non fosse così abbandonato a se stesso? Ed i bellissimi reperti che costeggiano le vigne di loc. San Martino a Pozzuoli? Beh, certo, sono queste domande a cui non otterrò mai risposte, spero però almeno in una riflessione, un minimo di indignazione!
Urlatori è il nome attribuito dalla stampa italiana dell’epoca a una corrente canora che ha segnato una stagione musicale relativamente breve nel nostro paese, all’epoca del boom economico, fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta. La cifra stilistica di questa sorta di tecnica interpretativa, favorita dal diffondersi dei primi juke-box, era data da una voce ad alto volume, espressa in maniera disadorna e priva degli abbellimenti tipici del canto “melodico”.
Il termine era mutuato dal vocabolo di lingua inglese shouter (appunto, urlatore) che etichettava fin dalla fine degli anni quaranta star del rock statunitense come Howling Wolf (il Lupo solitario poi ricordato in American Graffiti) e Joe Turner, rispettivamente icone del nuovo sound nascente, che mescolava il boogie-woogie bianco alla durezza ritmica del blues di matrice nera, così come veniva praticato a Memphis o a Kansas City. I maggiori esponenti degli urlatori, prevalentemente collegati a etichette con sede a Milano, a quel tempo capitale del mercato discografico, furono cantanti all’epoca molto giovani, destinati – sia pure in misura diversa – a percorrere carriere di successo, come Tony Dallara, Joe Sentieri, Adriano Celentano, Clem Sacco (ve lo ricordate?), Ricky Gianco, Giorgio Gaber, Gene Colonnello, e, fra le voci femminili, Betty Curtis, Jenny Luna, nonché Mina, poi divenuta celeberrima com’è.
Ci fu, in quel tempo, una polemica che fece particolare scalpore, creata e amplificata ad hoc dalla stampa dell’epoca, che contrapponeva gli urlatori agli interpreti della melodia all’italiana (vedi Claudio Villa, Nilla Pizzi, Luciano Tajoli, ecc…). Negli anni in cui prendeva campo anche in Italia la musica rock, diventata fenomeno di costume con Elvis Presley, Claudio Villa fu uno dei pochi a capire che l’unico modo per combattere l’offensiva dei cantanti della nuova ondata era quello di usarne gli stessi mezzi di propaganda: questa fu la funzione dei fan club del “reuccio” e dei suoi atteggiamenti provocatori che a lungo fecero notizia in quegli anni.
Il fenomeno degli urlatori faceva pensare a una rivoluzione in atto del gusto e del mercato che coinvolgeva autori, arrangiatori, editori e cantanti. Così non è stato, appena qualche anno dopo, gli urlatori lasciano il posto, grazie anche all’avvento della british invasion e il conseguente arrivo in Italia di gruppi pop la cui musica era ispirata a quella dei Beatles, ad artisti che sarebbero stati, di lì in avanti, etichettati come rocker o cantanti beat: ad esempio, Gianni Pettenati e Patty Pravo fra i solisti, e The Rokes, Equipe 84, Camaleonti, Dik Dik tra i gruppi.
Ai numerosi lettori di questo blog, più di 15000 in appena quattro mesi, questo post risulterà quantomeno fuori tema, “off topic” come amano dire certi blogger più affermati ed affamati di blogosfera: è un piccolo omaggio alla tradizione centenaria della musica popolare in Italia, che ha visto, forse, il suo più alto gradimento proprio negli anni più laboriosi e virtuosi che ha vissuto il nostro bel paese, anni di duro lavoro, spesso sommesso, indirizzati ad affermare per ognuno il proprio ideale di vita, sociale e professionale, pur rimanendo nell’assoluto rispetto dei ruoli. E’ anche, poco velatamente, un invito ad abbassare i toni,a quanto pare un tantino “alticci” nelle utlime settimane, dal caso striscia in avanti sino ai presunti striscianti seguaci di poliphemo, del tipo grande e grosso nella sua “caverna”, meno tra la gente comune quando diviene piccolo e defilato. Anche perchè, come ampiamente raccontato, storia alla mano, gli urlatori hanno avuto vita breve, chi seppe gestire al meglio il proprio talento ebbe grandi opportunità di crescita ed affermò naturalmente stili e proposte, divenute nel tempo patrimonio della nostra musica, Mina e Celentanosu tutti; Gli altri, a parte l’istrionico Gaber, hanno poi consumato il resto della loro vita professionale tra comparsate e festival di Sanremo “per buon cuore degli organizzatori” sino a rimanere vagabondi nel dimenticatoio.
Ecco perché dico: abbasso gli urlatori! Nel vino come nella musica, abbiamo bisogno di melodie e non di isterismi galoppanti da frustrazione cronica dilagante, ed incipiente; Oltretutto, ma questa è solo una nota a margine, taluni urlatori, come hanno dimostrato i fatti, di talento, manco alla Gianni Pettenati, assolutamente niente, non pervenuto; Io, dal canto mio, scusate il gioco di parole musicale (sono pure stonato), di Claudio Villapossono ritenermi un esimio ammiratore, ma sono assolutamente poco incline alla sua epocale ficcante vocazione propagandistica, pertanto, e qui chiudo questo post, posso affermare con certezza che certi ritornelli, seppur piacevolmente orecchiabili, alla lunga possono stancare; Ecco perchè, per quanto amaro possa essere il boccone, buttiamolo giù, gridiamo abbasso gli urlatori, loro se ne faranno una ragione (forse) e noi, beh, almeno sapremo cosa ci abbiamo bevuto sopra.
Gli esami non finiscono mai ma soprattutto non si finisce mai di imparare abbastanza. Sinceramente non so se da oggi chi ha frequentato questo interessantissimo laboratorio sul riconoscimento sensoriale dei difetti del vino si sentirà più bravo, di certo almeno un paio delle stronzate che ci hanno voluto fortemente propinare negli ultimi anni come sentori “caratteristici”, o peggio ancora, “tipici” di alcuni vini, se ne possono tranquillamente andare a farsi benedire. E dico pure che qualcuno, avendo più o meno compreso quali siano gli errori o mancanze, spesso apparentemente banali, in cui si incorre nella produzione di un vino, correrà pure il rischio di risultare più antipatico di quanto già lo fosse, me compreso.
Ma veniamo alla cronaca, certamente impossibile da condensare in un unico post, per l’elevato numero di “campioni-difetti” analizzati e soprattutto per la fondamentale disquisizione tecnica affrontata in ogni passaggio di modulo dal bravo e coinvolgenteVincenzo Mercurio. Le basi sulle quali è organizzato il seminario prevede la degustazione “cieca” di circa 80 campioni, di due vini base abbastanza neutri, uno bianco ed uno rosso, preparati, a seconda dei moduli affrontati, con molecole che riprendono in tutto e per tutto le caratteristiche del difetto scaturente da questo o quel problema della filiera produttiva. Una fase certamente interessante è stata quella di riuscire di volta in volta a cogliere tra i campioni adulterati, in alcuni casi con soglie di riconoscimento molto basse, il vino testimone, cioè quello tal quale, nonchè in alcuni casi, la plularità dei difetti che uno o più campioni esprimessero. Da manicomio!
La prima parte del seminario è stata dedicata ai difetti derivanti dalle uve e dalla fermentazione alcolica, ecco quindi scendere in campo, tra gli altri, l’ortocresolo, l’isobutilmetossipirazine (IBMP), la geosmina e l’octenoloctenone: il primo spesso è causa dell’oidio e si manifesta con sentori medicinali, canforati, fenici, l’IBMP è la sintesi del classico sentore di peperone verde, cioè uve acerbe o comunque non giustamente mature; la geosmina provoca note ammuffite, humus, barbabietola cotta mentre l’octenoloctenone è causa della forte e spesso sgradevole sensazione di fungo. E cosa dire poi dell’acido acetico, dell’acetato di etile e dell’etanale? Se i primi sono più o meno due dei difetti capisaldi della buona formazione di ogni degustatore, l’etanale come l’acetaldeide rischiano di passare inosservati, spesso siamo portati a bollare dei vini come poco espressivi quando magari sono praticamente svaniti e basta.
Si passa ai difetti legati all’affinamento dei vini in bottiglia, scopriamo così dell’aminoacetofenone (AAP), del timetildriinaftale e delsotolone. Scorrono i vini nei bicchieri, vengono fuori le note cerose, mielose e di panno umido dell’AAP, la pungenza marcata del kerosene, che pur caratterizza in maniera assai affascinante molti vini bianchi di pregio, certi Riesling su tutti, ma che a concentrazioni elevate così come provato, diventa davvero sgradevole. Il sotolone invece non è parente del “fragolone” [:-)] seppur faccia rima sfacciata, ma bensì causa dell’eccessiva concentrazione di note caramellose e smaltate in alcuni vini stramaturi o passiti. Qualche tempo fa, ricordo di aver bevuto un pessimo Sauternes, non riuscivo a capire come potesse essere così cattivo: l’evoluzione gli aveva giocato un brutto scherzo, tutta colpa del sotolone.
Dopo l’interessante passaggio tra i “sentori di tappo”, in effetti non sempre imputabili esclusivamente ai tappi di sughero ma bensì anche a cattive condizioni ambientali dove il vino viene lavorato o riposa, abbiamo colto l’importanza di discernere il Tricloroanisolo (TCA) dal Tetracloroanisolo (TeCA), entrambi espressione di cattive partite di sughero dal Tetrabromoanisolo causato proprio da spore libere nell’aria in quegli ambienti di vinificazione o stoccaggio dei vini poco igienici.
A questo punto, dopo una necessaria pausa di ristorazione, scendono in campo i difetti legati alla fermentazione malolattica e alla maturazione in cantina, e qui è tutto un divertirsi; Si comincia con i vini bianchi con particolare inoculo di sostanze del tipo Idrogeno Solforato, Etantiolo e Metionolo ovvero uova marce (IS), cipolla, aglio, gas (ET) e per ultimo ma sicuramente primo per sgradevolezza e pesantezza, cavolfiore marcio e salinità concentratissima sino ad una netta sensazione della più pessima delle colature di alici! Poi ancora Benzaldeide, Diacetile ed Etantiolo, nell’ordine mandorla amara, colla (coccoina, ricordate?) e amaretto per le molecole del primo elemento, poi burro, cioccolato bianco e nocciola per il Diacetile, che in effetti hanno soglie di piacevolezza molto alte prima di divenire sgradevoli e pesanti. Infine le note grasse, stucchevoli sino all’acre della peggio cipolla o del latte acido, imputabili alla presenza proprio di Etantiolo o del Lattato di Etile. Si passa quindi ai campioni di vini rossi, ecco manifeste, espressive, forse le note più pesanti e sgradevoli sino a qui percepite: stallatico, animale, sterco, il famosissimo “merde de poule”, in poche parole, anzi in una parola, 4Etilfenolo, meglio conosciuto come “Brett“, accorciativo di Brettanomyces. E’ un sentore davvero sgradevole, spesso lo percepiamo in alcuni vini rossi lungamente evoluti o prodotti con lunghissime macerazioni tanto dall’essere attaccati da questo microrganismo. Qualcuno ne difende l’autenticità, che a dire il vero con una densità minima potrà anche apparire come tale, ma a patto che il vino abbia spina dorsale e frutto da lasciarlo intendere come aspetto olfattivo assolutamente secondario se non “terziario”; altro che sudore di cavallo, bleah!
Il modulo conclusivo del seminario, a questo punto, prevede due ore di intense esercitazioni: bicchieri alla mano, campioni a scorrere uno dietro l’altro a cercar di capire se il percorso intrapreso sino a qui abbia già apportato alla nostra esperienza sensoriale il giusto esercizio olfattivo. Ci vengono versati, sempre alla cieca, ventiquattro campioni tra bianchi e rossi, non tutti inoculati, e quelli adulterati possono contenere la stessa molecola ma in quantità lievemente differenti: è un gioco entusiasmante, coinvolgente, formativo. Si levano dalla sala risposte mirate, odi alla franchezza della Benzaldeide ed anatemi alBrett e parenti tali (oh mamma, li mostri!), osservazioni più che giuste, analisi critiche a tirare, alla fine, un bilancio emozionale entusiasta dell’esperienza vissuta.
Davvero bravi quelli di Vinidea a creare questo format, e molto bravo Mercurio a gestirlo; credo sia opportuno, senza falsa pubblicità, poterlo replicare all’infinito, renderlo perchè no, a disposizione dei molti appassionati e professionisti che passano attraverso i percorsi di avvicinamento o formazione professionale tra le varie fila associative (e non) del settore che se ne occupano: aiuterà senz’altro ad alzare l’asticella della qualità dei corsi.
Continuiamo il nostro percorso di approccio al vino attraverso le parole più frequentemente utilizzate nel linguaggio della coltivazione, produzione e degustazione. Qualcuno pigro saprà finalmente tradurre il termine “fresco”, qualcun’altro comprendere cosa significa quando un vino è girato, altri scopriranno che la parola grappa ha un doppio significato…
edulcorareAddolcire un vino eccessivamente acido o secco, con l’aggiunta di mosto o mosto concentrato in seguito alla fermentazione.
eiswein(“Vino di ghiaccio” in tedesco). Vino ottenuto da uve gelate, raccolte durante i primi freddi.
elevazioneTecniche di conservazione, cura, riposo, assiduo controllo, attuate dai viticultori o dai commercianti per offrire al vino le migliori condizioni di invecchiamento, dalla vinificazione fino al pieno sviluppo.
erbaceoOdore vegetale, di erba fresca. Sintomatico di cattiva qualità del vino, prodotto da uve non mature.
espressioneQualità di carattere gustativo od olfattivo, sfumatura di un vino, che provoca una reazione di tipo affettivo o emozionale.
estrazioneTecnica che permette di separare uno o più costituenti da un corpo (es.: la pigiatura, l’estrazione del colore nella vinificazione in rosso).
etereoOdore caratteristico dei vini maturi e invecchiati, originato da composti organici volatili.
evolutoVino che durante la conservazione ha subito modifiche, in peggio oppure in meglio, sviluppando aromi e profumi nuovi.
extra-brutSpumanti e Champagne con sostanze zuccherine residue entro i 6 grammi per litro.
extra-drySpumanti e Champagne con sostanze zuccherine residue comprese fra i 12 e i 20 grammi per litro.
fecciaSolidi sedimentati sul fondo delle bottiglie. Gusto di feccia: sapore di un vino restato a lungo a contatto con le proprie fecce, agre, terroso, di lieviti. Colore feccia: rosso violaceo. Messa in bottiglia sulle fecce: vino non filtrato, a contatto con le sue fecce.
femminellaGermoglio della vite che si origina da una gemma formatasi durante l’anno su un germoglio normale.
fermentazioneOperazione che consiste nel fare fermentare l’uva nei tini per un periodo che varia per il tipo di prodotto desiderato, la qualità delle uve, durante la quale avviene la fermentazione alcolica e l’estrazione delle sostanze coloranti. 2. Insieme dei processi chimici di demolizione degli zuccheri a opera di enzimi contenuti nei fermenti. Fermentazione alcolica: processo di trasformazione degli zuccheri contenuti nel succo d’uva in alcol etilico e anidride carbonica ed altri elementi. Fermentazione malolattica: processo di trasformazione dell’acido malico in acido lattico e anidride carbonica, da parte di batteri. Seconda fermentazione: 1. Ripresa della fermentazione in un vino con piccoli residui zuccherini. 2. Presa di spuma.
fillossera(Phylloxera vastatrix) Afide, insetto degli Afididi parassita della vite, di cui distrugge la radice. Per estensione indica la malattia dovuta a quest’insetto.
filtraggioOperazione di chiarificazione, che consiste nel filtrare il vino per separarlo dalla sospensione di sostanze solide.
flûteBicchiere a calice, alto e stretto, utilizzato per spumante e Champagne, in quanto favorisce la formazione di bollicine.
fortificatoVino irrobustito per l’aggiunta di alcol.
foxyOdore piuttosto forte tipico del pelo della volpe, indice di qualità, può risultare sgradevole se insistente.
fragileVino delicato se soggetto ad alterazione, come l’esposizione all’aria o gli spostamenti.
freschezzaStato di un vino a temperatura tra i 10 e i 13°C. 2. Stato di un vino molto equilibrato.
frescoVino lievemente alcolico e acidulo, equilibrato.
fruttatoInsieme di odori di un vino che ricordano quelli dell’uva e della frutta matura.
germogliazioneSviluppo dei germogli della vite, in primavera.
giovaneVino immaturo, privo di sapidità e di finezza. 2. Vino dell’annata che ha sviluppato tutte le sue caratteristiche, pronto al rapido consumo.
giratoAlterazione del vino dovuta a batteri, caratterizzata da colorazione bruna e opaca, odore acetato e perdita di acido tartarico.
granataColore di un vino rosso scuro.
grappaResiduo solido della pigiatura dell’uva, costituito da raspi e vinaccioli. 2. Acquavite di grappa, a forte gradazione alcolica, ottenuta per distillazione delle vinacce. 3. Grappe di spillatura: residui della spillatura.
grassoVino untuoso, morbido ,carnoso, ricco di glicerina e di alcol. 2. Vino affetto da grassume.
graves Terreno costituito da piccoli ciottoli morenici, sabbie ed argilla.
L’enologo, il mago. Il primo studia e rappresenta l’enologia, cioè la scienza che studia il vino e la sua produzione: dalla vendemmia alla bottiglia; Ne studia la microbiologia, la chimica e le caratteristiche sensoriali. Il nome deriva dal greco “oinos” (vino) e “logos” (studio). Il termine mago viene normalmente utilizzato in alternativa per designare una persona con poteri magici (mago, sciamano, stregone), un artista insomma che esegue giochi di destrezza di cui nasconde i meccanismi (come il prestigiatore, l’illusionista), una persona quindi eccezionalmente abile. La parola è la traslitterazione del termine greco magos (μαγος, plurale μαγοι).
Due attività, due professioni, che per le basi su cui poggiano i loro principi non dovrebbero mai avere a che fare l’una con l’altra, eppure per molti anni, troppi anni, direi anche tutt’ora, l’enologo, e peggio, il consulente enologo, hanno assunto un ruolo sempre più da mago che da interpreti della propria professionalità. La voracità del mercato in continuo fermento ha fatto sì che certi principi di studio, conoscenza, applicazione lasciassero sempre più costantemente spazio alla furba destrezza ed alla creatività, a discapito dell’originalità di un vino, di un territorio.
Francesco jr Martuscielloè un enologo, e contrariamente alla sua faccia pulita da Harry Potter, della magia non sa proprio cosa farsene, anzi, nonostante sappia bene come vada il mondo mostra di avere principi di responsabilità verso la natura e la naturalità dei vini, davvero sorprendenti. Da qui inizia la nostra conversazione, dalla terra, dall’origine, marchio indelebile di una identità, chiacchiere distintive, come sempre, con un giovane professionista del vino flegreo cresciuto all’ombra di spalle larghe (leggi zio Gennaro) e che trovatosi all’improvviso gettato nel fuoco piuttosto che rimanervi bruciato ha iniziato a domarne le fiamme, sino a forgiarle a propria immagine e somiglianza: il passo in avanti, il salto di qualità dei vini di Grotta del sole è inconfutabile e proporzionalmente cresciuto con la sua ascesa alla direzione tecnica aziendale iniziata cinque anni fa.
Chi è per te, in Italia, l’enologo di riferimento? “Giacomo Tachis, senza ombra di dubbio. E’ sconvolgente come riesce ad interpretare esattamente in maniera liquida ciò che la natura gli offre, terra ed uva, in maniera solida”. Quale secondo te la sua arma vincente? “La cura maniacale che profonde nei particolari: le vigne, le foglie, i grappoli, le micro zonazioni e micro vinificazioni plasmate poi in vini di straordinaria autenticità”. E rimanendo in Campania? “E’ sempre difficile fare nomi, però stimo moltissimo alcuni miei colleghi con i quali spesso ci incontriamo per discutere di vino e di problematiche ad esso legate, una condivisione tanto importante quanto impensabile solo qualche anno fa. C’è tanta buona materia grigia a disposizione del futuro viticolo campano”. Dai, desidero un nome, due per par condicio. Si stiracchia, gira lo sguardo, “Gerardo Vernazzaro (Cantine Astroni) – mentre con le braccia larghe si guarda entrambi i palmi delle mani – tiene na’capa tanta con delle idee tante, mi impressiona la sua curiosità, la profonda dedizione alla ricerca. E poi Fabio Gennarelli (Villa Matilde), un giorno gli faranno una statua”!
Qual è il futuro del vino in Campania, cosa ci trainerà fuori da questa fase di stallo?“La biodiversità e l’unicità, qua tutti vogliono fare tutto con tutto e soprattutto da un momento all’altro”. “Abbiamo lottato duramente per conquistarci delle piccole fette di mercato, oggi riconducibili solo alla nostra Campania, ma a qualcuno ciò non interessa, addirittura ne vorrebbe cavalcare l’onda solo per imporre il proprio marchio”. Non si espone più di tanto, corretto com’è, ma il pensiero comune, il mio innanzitutto, va al tentativo fallito (per ora) di apportare modifiche al disciplinare della d.o.c. Vesuvio dove qualcuno avrebbe spinto per lasciare produrre anche qui un rosso vivace, stile Gragnano, con ovvie ricadute sull’immagine di quest’ultimo, tradizionalmente legato come il Lettere alla storia della Penisola Sorrentina; Aggiungo io, sarebbe opportuno anche mettere mano alla sperequazione in atto sulle continue concessioni di proroghe alla spumantizzazione dell’Asprinio d.o.c. addirittura fuori regione, penalizzando naturalmente chi da anni ha investito ingenti capitali per la salvaguardia del vitigno e della denominazione. Cosa è cambiato in questi anni a Grotta? Tanto, per qualcuno troppo, ma la strada intrapresa non ammetteva ripensamenti, l’obiettivo rimane lo stesso di quando si è varcata la soglia il primo giorno di lavoro, migliorarsi, e i prossimi anni non potranno che essere spesi nella stessa direzione”. Come?“Aumentando i vigneti di proprietà e quelli in conduzione diretta, tutto nasce lì, in vigna, solo camminandola ogni giorno e governandola direttamente possiamo tirarci fuori la materia prima di cui abbiamo bisogno per far crescere il nostro valore nelle bottiglie”. Allora solo lavoro nei prossimi anni?“Certamente, ma più che per me, forse per l’altro mio cugino Francesco, l’agronomo”! Scusa?“Con uva sana e di grande qualità, che ci vuole a fare l’enologo, mi accontenterò di timbrare il cartellino una volta girato per le vasche…” Sorride, giustamente, bisognerà raccontarlo a zia Elena, aggiungo io.
Mi parla di tutti i nuovi protocolli che sta attuando in azienda, dei quali naturalmente non mi è possibile scriverne per non svelare il risultato di anni di sperimentazione e duro lavoro, ma che in realtà potrebbe essere sintetizzato in tutta una serie di passaggi vivi, in vigna ed in cantina, assolutamente naturali, ma che richiedono anni di studi e di conoscenza, tempo (tanto) e dedizione profonda (incalcolabile). Francesco jr Martusciello contrariamente all’aria timida e defilata che trasmette al primo approccio è invece molto sicuro di sé e delle sue idee, è pronto a metterle in gioco e sottoporle a giudizio e critica purchè liberi da preconcetti sul passato e confronti asettici. Ci lasciamo da carissimi amici quali siamo, con la promessa di condividere una pizza appena possibile, vista la comune passione sfrenata per essa, magari da Enzo Cocciade La Notizia; Ci salutiamo con un po’ più di stima, soprattutto da parte mia, dopo aver assaggiato, qualche tempo fa, il Quartodiluna 2007,oggi queste due anteprime di cui racconterò prossimamente, il Piedirosso Riserva Montegauro 2007 e l’aglianico Quartodisole 2007, quest’ultimo davvero sorprendente per equilibrio e piacevolezza. Puro territorio in movimento.
Leggendo questo post su intravino mi sono ritornate alla mente le matite colorate con le quali la mia amata maestra alle elementari, la straordinaria Pina Buzzurro, era solita correggere i compiti in classe. Un colore per ogni tipo di errore, una diversa tonalità a seconda della sua gravità: il giallo ed il verde per quelli meno gravi, dettati magari dalla distrazione o dalla fretta di scrivere, il rosa, l’arancione per quelli da tenere in mente, da non ripetere, il rosso ed il blu a sottolineare quelli più gravi, quelli, diciamo così, imperdonabili, sui quali lavorare duramente e guai a ripeterli. Non di rado mi capita di ringraziare il cielo per averla avuta, una maestrina così.
L’errore è comunque sempre in agguato, guai ad ergersi a maestro della lingua e della grammatica, anzi, personalmente non posso che elogiare continuamente chi riesce a mantenere una certa “pulizia” di linguaggio, soprattutto grammaticale, lontana da quell’influenza popolana che proprio la velocità comunicativa del web ha costantemente attaccato rendendola spesso anacronistica. Il vino, il suo mondo, fa proprio della comunicazione, specializzata, settoriale, una sua arma irrinunciabile per arrivare al consumatore finale: riviste specializzate, almanacchi, guide ma anche eventi, incontri di degustazione che servono sempre (quasi) a far crescere attenzione ed attese su di una azienda, di un vino, di un territorio.
Qui con le parole si gioca tanto, la comunicazione è divenuta indispensabile, tutto, perchè puoi fare anche il miglior vino possibile ma se non lo sai comunicare rimarrà sempre misconosciuto o peggio, incompreso. Pertanto le bottiglie, le etichette, le loro retro, le brochures assumono un valore aggiuntivo importante e le fiere, i saloni del vino, le aste divengono sempre più palcoscenici fondamentali dove esaltare il proprio progetto, l’idea, il prodotto: attenzione però, da evitare assolutamente etichette bugiarde e lo scaturire di sorrisi a denti stretti.
Perchè? Perchè ci si ritrova talvolta tra le mani etichette e brochures bugiarde, pensate e soprattutto scritte da mani assolutamente a digiuno della materia, spesso quindi, con il “degustabolario” alla mano e con gli occhi chiusi, per non dire delle false verità che sembrano poi non avere più fine, tramandate di generazione in generazione diseducando, confondendo, distraendo sino all’inganno il consumatore finale.
Questa, in poche righe, la mia esperienza: ai primi tempi, alle richieste di alcuni clienti, di una buona bottiglia di Falanghina rossa piuttosto che all’insoddisfazione di trovare Taurasi solo rosso, sorridevo; Il giorno in cui svelai, tra le altre cose, la verità nascosta sul Fragolino qualcuno rimase interdetto, come quando iniziò ad essere ben chiaro il concetto che bere in uno stesso pasto vino bianco e rosso non era di per sé certezza di rimanere ubriachi o di cadere in stato confusionale.
In seguito, con pazienza, attenzione, sfatammo anche alcuni falsi miti come quello dell’ Asprigno d’Aversa o del Prosecco come sinonimo di spumantino scemo e potemmo così iniziare, tra le altre cose, a percorrere altri sentieri, come per esempio a discernere il Nobile di Montepulciano dal Montepulciano d’Abruzzo ed il Tocai friulano dal Tokaji ungherese. Venne poi il tempo di sviscerare le differenze clonali tra i sangiovesi Brunello, Morellino e Prugnolo, tra le varie anime del Nebbiolo della valtellina, di Barolo o di Barbaresco sino alla corretta pronuncia del “Ghevurztraminar” e dell’impronunciabile, per qualcuno, Quarz d’ Sciome.
Ecco, possiamo ritenerci soddisfatti di aver fatto un buon lavoro, non senza sbavature, ma il confronto ci ha sempre portato benefici, siamo per questo arrivati abbastanza lontani, e visto delle belle, non sufficienti però, evidentemente, a farci smettere di sorridere di fronte, ancora oggi, ad etichette bugiarde e strafalcioni di ogni genere, ai vini bianchi aromatici e leggeri e rossi fruttati per antonomasia, eleganti e fini per tradizione e, caratteristica tipica soprattutto dei vini rossi, quasi sempre corpulenti e robusti per vocazione, come il loro abbinamento con arrosti e cacciaggione.
Allora di cosa ci meravigliamo se un Richebourg di Madame Lalou Leroy diviene per magia un Rich Bourg Le Roi (un ricco borgo da re!!)? E’ vero, a certi livelli di conoscenza è complicato arrivarci, ma almeno una casa d’aste che sta per battere bottiglie per un valore complessivo a cinque-sei zeri non dovrebbe esimersi dal pagare quattro soldi ad un sommelier qualunque per tentare di descrivere esattamente i vini in catalogo, anche perchè, magari, queste bottiglie saranno pure capitate per sbaglio, per eccesso di vanità, per puro pavoneggiarsi nelle cantine del fu riccone di turno, ma chi le dovrà acquistare, quantomeno dovrà essere consapevole di stare spendendo cifre blu sorridendo alla leggerezza o alla rabbia.
Come ogni nuovo anno nei primi giorni di gennaio si tirano fuori le emozioni e le delusioni di quello appena lasciato alle spalle. C’è chi sfila la sua corona francescana attraverso i migliori vini bevuti, i piatti più emozionanti, i luoghi del piacere, e chi, quest’anno in particolare, non ha proprio niente da dire, vuoi perchè niente da raccontare c’è o perchè, sommerso dal lavoro non riesce a dedicargli il tempo necessario. Io non faccio bilanci, per me il 2009, tolto lo straordinario scenario strettamente privato, è stato un anno come molti passati e come molti futuri: lavoro, pensieri e parole. Però una cosa la voglio fare, voglio pubblicamente ringraziare alcune persone che volentieri mi porto sull’arca di questo 2010. La sequenza con la quale vengono citati è puramente in ordine sparso.
Luciano Pignataro, giornalista e wine writer della prima ora. Ho avuto, negli anni, tante esperienze che in ambito lavorativo mi hanno aiutato a crescere, anche preziosi riconoscimenti professionali, eppure, solo da lui, che nemmeno mi conosceva personalmente, prima del2006, prima di tutti, ebbi l’opportunità di farmi ascoltare ed esprimere nella comunicazione del vino. La mia stima ad oltranza.
Francesco Mussinelli, Food&Beverage Manager al Capri Palace Hotel&Spa, premiato quest’anno dalla guida L’Espresso miglior Maitre dell’anno. Una persona di un garbo straordinario, colto, riflessivo, disponibile, stoicamente presente e con un back ground professionale da brividi. Da augurarsi di incontrare almeno una volta nella vita. Mi ha stupito, a Matera, durante il Congresso Ais, aver ascoltato, di sfuggita, Franco Maria Ricci che tesseva le sue lodi mentre parlava ad un nugolo di colleghi sommeliers in merito all’amore per il proprio lavoro. L’aveva avuto con sè alla Pergola de l’Hilton circa 10 anni fa, ne era ancora profondamente ed irrimediabilmente affascinato.
Nicola Venditti, enologo e produttore con la moglie Lorenza Verrillo di Antica Masseria Venditti di Castelvenere. L’ho conosciuto di persona lo scorso 12 novembre durante il secondo giorno di Aglianico&Aglianico alla Fabbrica dei Sapori di Battipaglia. Abbiamo scambiato pochechiacchiere, distintivee bevuto il suo Marraioli 2003, quanto basta per farmi capire la sua ragione di vita e la sua filosofia di fare vino. Corpo e anima di una agricoltura che ha urgente necessità di ritornare sui suoi passi per ritrovare la strada maestra del rilancio, da troppo tempo disattesa.
Marianna Vitale, alias Sud Ristorante in Quarto. Per tutto il 2009 si èparlato moltodi lei e del bel progetto che porta avanti con la famiglia nei Campi Flegrei. Mi ha colpito per la semplicità con la quale esprime la sua idea di cucina in un territorio straordinario (tutto l’areale flegreo) purtroppo martoriato costantemente da una classe dirigente atavicamente politicizzata ed avvinghiata sulle proprie bramosìe e sulle proprie incapacità intellettive, persino in riferimento alla quotidiana normale amministrazione.
Michela Guadagno, sommelier e wine trotter. Ci conosciamo ormai da un decennio, noi della classe 2001 prima della grande rivoluzione napoletana. Avanti e indietro con la sua Daihatsu cuore, “toma toma” sin dove arriva la voglia di scoprire, imparare e poi raccontare. Per lungo tempo direttrice di corsi Ais a Napoli, se fosse per molti dei suoi “allievi” si sarebbe già guadagnata un posto nella Hall of Fame della sommellerie campana, ma possiede, tra le sue principali qualità, molta meno fame di chi le gira intorno, pertanto, con mia personale soddisfazione, la vedremo per tutto il 2010 ancora in giro in molti luoghi e soprattutto impegnata nella prossimaGrande Notte del Rosatoalla Fabbrica dei Sapori di Battipaglia.
Tammy Bernice e Steve Mally. Per tre lunghissimi anni li ho portati in giro per l’Italia del vino alla scoperta di ciò che di meglio poteva offrirgli. Siamo diventati grandi amici e per questo ci sentiamo spesso via mail o per telefono raccontandoci ognuno le proprie bevute, le impressioni su questo o quel vino e di tutto quello che capita sull’asse Pozzuoli-Seattle. La promessa è stata affidata ad un dollaro americano strappato in due parti che devono vedere, prima di due anni dalla loro partenza, di ritrovarsi intorno ad un tavolo a bere le ultime bottiglie rimaste di Flaccianello della Pieve 2006 e Taurasi 1999 di Mastroberardino. A casa mia come a Denver, dove la famiglia di Tammy conduce una bella azienda vitivinicola,Spero Winery.
Andrea Gori, in principio era semplicemente “il Sommelier Informatico”, perchè ganzo com’è ha subito intuito il grande valore mediatico del web e dei mezzi che mette a disposizione. Adesso lo è ancora di più, si divide tra l’Osteria di famiglia “da Burde” a Firenze, consulenze enogastronomiche e le passioni di sempre di far girare in rete le sue recensioni-degustazioni qualcuna delle quali davvero “inarrivabile“. Abbiamo avuto poche occasioni di stare assieme eppure non ci perdiamo mai di vista. Grande Andrea!
Nando Salemme, amico sincero di bevute vere, con la moglie Vanna prosegue la sua straordinaria ascesa con L’OsteriaAbraxasdi Pozzuoli, riconosciuta quest’anno dal Gambero Rosso come “Best Place at low cost” tra i migliori locali italiani. Non è il primo, non sarà l’ultimo riconoscimento per l’ottimo lavoro che sta portando avanti da circa un decennio sul territorio flegreo, comunque mai paragonabile al successo di consensi che va mietendo tra i suoi avventori per l’ottima qualità degli standards offerti.
L’innominato, la mia più grande delusione. Alcuni rapporti nascono e crescono sulle ali dell’entusiasmo, sulla reciproca stima e fiducia in un possibile traguardo comune di condivisione e maturazione. Per strada, nel tempo, è ovvio che s’incappi in imprevisti della vita: se però possiedi un minimo di intelligenza ed amore per il prossimo, li superi brillantemente e ne subisci poco gli strascichi. Ego, brama ed invidia, se li lasci continuamente incubare, alla lunga generano falsi miti, ed è allora che inizi ad accontentarti del gettone di presenza, del favore all’amico di turno sino a, inevitabilmente, ritrovarti da solo. O quantomeno lontano da me.
I ferri del mestieri, inteso come il calice, il vino, l’amore per il mio lavoro, per la mia professione di sommelier e per il confronto, dei miei pensieri, idee, progetti. Perchè mi voglio portare dietro anche in questo 2010 la curiosità della scoperta, il piacere della condivisione, l’amore per il racconto di ciò che uomini e vigne, aziende e vini, con fatica, mettono assieme in una bottiglia di vino che resta lì, in attesa di essere raccolta, accarezzata, stappata ed offerta all’amico di turno, al cliente del giorno, all’appassionato del momento. I ferri del mestiere per continuare a comunicare il vino, con tutto l’amore possibile!
Nell’ultimo numero di deVinis¤, la rivista ufficiale dell’associazione italiana sommeliers, compare il bell’articolo scritto dall’amica sommelier Michela Guadagno sull’evento che abbiamo realizzato lo scorso 17 ottobre presso il prestigioso Capri Palace Hotel&Spadi Anacapri sui vini delle piccole isole del sud. In quell’occasione proponemmo in degustazione, ad una platea particolarmente edotta, alcuni tra i migliori vini prodotti nelle isole di Ischia, della stessa Capri, della splendida Pantelleria e di Ponza. Il risultato fu davvero sorprendente e tra i vini più interessanti ne venne fuori proprio quello prodotto sull’isola tanto amata da Strabone, il Fieno bianco 2008 delle Antiche Cantine Migliaccio, del quale potete trovare ampia descrizione storica ed organolettica sul sito di Pignataro¤ attraverso il racconto di Marina Alaimo¤ e di Michela Guadagno¤.
Antiche Cantine Migliaccio sopravvive esclusivamente grazie al forte legame che Luciana Sabino ed il marito Emanuele Vittorio nutrono per l’isola di Ponza ed in particolare per questo lembo di terra, in località Punta Fieno, che conserva un fascino incontaminato unico e raro in un isola da sempre depredata della sua vocazione rurale e naturalistica per fare posto al cemento delle case vacanza ed alle speculazioni dei burini arricchitisi con esse. Appena 2 ettari di vigna allevati grazie ad un lungo lavoro di restauro di muretti a secco, abbarbicati su per la piccola collina che lega la splendida Chiaia di Luna al Faro, raggiungibile esclusivamente attraverso una stretta mulattiera e con almeno 40 minuti di cammino che durante le estati più calde possono portare a dover sopportare temperature anche vicine ai 40-50 gradi.
Il Fieno Rosato nasce con l’intenzione di verificare le qualità tangibili delle uve rosse allocate in zona, piedirosso soprattutto, ma anche guarnaccia, montepulciano, barbera, tutti vitigni trapiantati sull’isola, in via sperimentale, dai vari contadini succedutisi nella conduzione dei vigneti nei decenni precedenti l’avvento della famiglia Migliaccio; uve, tutte, non certamente favorite da una condizione pedoclimatica davvero particolare, dato lo stress, soprattutto idrico, a cui sono sottoposte nel periodo di piena maturazione ed in prossimità dell’epoca vendemmiale. C’è da aggiungere a tutte queste, l’enorme difficoltà che si vive ad ogni raccolto, dato i mezzi tecnici a disposizione davvero essenziali a causa dell’ubicazione delle vigne e delle enormi difficoltà di strutturare il loco una vera e propria cantina, in effetti un piccolo cellaio restaurato, non senza ingenti sacrifici, dove grazie a piccoli fermentini trasportati addirittura in elicottero (!) comunque avviene tutta la fase di raccolta e vinificazione, in condizioni, per così dire, primitive.
Ciononostante mi ritrovo nel bicchiere un bel vino dal colore rosa tra il ramato ed il cerasuolo, per intenderci, appena una spanna sotto il chiaretto, di media consistenza nel bicchiere. Il primo naso va lasciato scivolare via poichè conserva una lieve nota di riduzione che con una giusta ossigenazione, due-tre minuti al massimo, va via lasciando spazio a sottili e gradevoli sentori floreali e fruttati. Note di petali di rosa e geranio, ma subito dopo mora rossa e melograno. Caratteristiche distintive di un vino di difficile concepimento ma dal risultato encomiabile viste le difficoltà attraverso le quali nasce.
In bocca è secco, abbastanza caldo, una discreta acidità maschera bene il buon tenore alcolico che comunque raggiunge i 12 gradi e mezzo. La beva risulta gradevole ed il finale di bocca è piacevolmente ammandorlato. Da bere fresco ma non freddo, su pietanze saporite di mare ma anche su carni bianche al sugo, coniglio o pollo ruspante su tutte. Rimuginando, cercandone similitudini, mi è venuto in mente il Tavel, tradizionale e classico rosè d’oltralpe prodotto nella a.o.c. omonima a sud della Valle del Rodano, vino emblematico di come i vini rosati possano essere amati ed apprezzati in tutto il mondo non solo come vini dal consumo veloce (di annata, per meglio capirci) ma anche da saper e poter aspettare per qualche anno prima di berli. Ecco, a volte, sacrificando mediocri vini rossi si possono tirare su, senza fasciarsi la testa e senza alzare troppo il tiro, piacevoli e rari vini ramati.