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Segnalazioni| A gennaio tre nuovi seminari #ASPIATHOME con Angelo Di Costanzo

16 dicembre 2020

Dal 26 Gennaio proseguono gli appuntamenti #aspiathome con 3 nuovi interessantissimi incontri sulla Campania Felix, alcuni dei suoi territori e i suoi vitigni, con Angelo Di Costanzo, Food&Beverage Manager e Sommelier. Durante gli incontri verrà degustato un vino che rappresenta le tipicità del vitigno o territorio oggetto della lezione, con l’intervento in diretta del produttore.

26 Gennaio – ore 20.30 – Le Terre del Fiano, con la Signora del Fiano Clelia Romano. Il racconto di uno dei vini di maggior successo dell’Irpinia, in provincia di Avellino, culla di tre straordinarie docg che proprio qui a Lapio serba una storia memorabile: una terra questa storicamente vocata all’aglianico ma che ad un certo punto si scopre vestita di bianco, sino a diventare patria e mito del Fiano di Avellino, grazie anche al coraggio e alla storia di donne del vino come Clelia Romano, per tutti la Signora del Fiano. Degustazione di Fiano di Avellino con Clelia Romano e Carmela Cieri.

2 Febbraio – ore 20.30 – Le Terre del Pallagrello e Casavecchia, c’era una volta un Principe. E’ una storia incredibile quella che proveremo a raccontare, proveniente dalla provincia di Caserta. Un viaggio che comincia proprio come una favola senza tempo, attraversando gli ultimi vent’anni immersi in un territorio unico e particolare, dalle tante anime, di cui racconteremo i vitigni Pallagrello bianco e Casavecchia. Degustazione del Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia di Terre del Principe, con Manuela Piancastelli e Peppe Mancini.

9 Febbraio – ore 20.30 – Il Taurasi, il giovane grande rosso dell’Irpinia. L’aglianico è un vitigno di particolare pregio che qui, in questo territorio straordinario, situato nel cuore dell’Irpinia, trova una casa ideale; il vino Taurasi ha una grande storia che Antico Castello prova a ripercorrere con un vino moderno e proiettato nel futuro. Degustazione di Taurasi di Antico Castello con il produttore Francesco Romano.

Non perdete questa occasione di avere un sommelier ed un produttore a casa vostra, fate domande, soddisfate le vostre curiosità affidandovi ai professionisti per il migliore approccio al vasto e meraviglioso mondo della sommellerie.

Iscrivendovi a questo percorso alla scoperta dei territori e dei vini della Campania riceverete comodamente a casa le tre bottiglie che degusterete insieme al sommelier. Questo percorso ha un costo di 105€ (90€ per i soci in regola con la quota 2021).

Iscriversi é molto semplice, basta mandare una mail a info@aspi.it che fornirà tutte le modalità per partecipare. Ad iscrizione confermata, vi verrà fornito il link a cui potrete seguire la diretta, nel giorno prestabilito, con l’app Zoom. Non perdete questo speciale approfondimento sulla Campania e continuate a seguirci, sono in arrivo altri interessanti appuntamenti.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Taurasi Aurelia 2016 Rocca del Principe

15 dicembre 2020

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Aurelia duemilasedici di Rocca del Principe proviene da una singola vigna di nemmeno un ettaro collocata a Lapio, in quello che potremmo identificare come il Versante Ovest, Le Terre del Fiano¤ dell’areale docg del Taurasi, con vigne ubicate a Montemiletto, San Mango sul Calore, Montefalcione e, appunto, Lapio; con questi ultimi due comuni che sono allo stesso tempo gli unici ammessi alla produzione sia di Taurasi che di Fiano di Avellino. In molti trascurano un dato storico ovvero che questo territorio, un tempo, era votato quasi esclusivamente alla produzione di Aglianico, non a caso proprio da queste terre sembrano venire fuori rossi più ossuti che vigorosi, con tannini levigati ma non troppo, capaci di garantire una beva snella e vibrante al contempo, con grandi prospettive evolutive davanti.  

Ci troviamo più precisamente in Contrada Campore di Lapio, all’incirca a 500mt s.l.m., dove i terreni sono composti in larga parte da marne argillose e calcaree l’esposizione delle vigne è a Sud/Est, una delle aree storicamente più vocate per l’Aglianico irpino e in qualche maniera dove tutto è iniziato per Aurelia Fabrizio ed Ercole Zarrella, per poi ritrovarsi negli anni a specializzarsi, per così dire, nella produzione di Fiano sino a diventarne tra i più illustri interpreti, basta andare a rileggere Qui e Qui tra i nostri ultimi appunti di viaggio in azienda dello scorso settembre.

Ci arriva nel bicchiere un rosso molto significativo, dal colore rubino appena trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere, il naso è ampio e complesso, vi si colgono nitidi sentori floreali e di frutta polposa, profumi di garofano e amarena, di prugna, anche note sottili di tabacco, pepe e spezie fini, queste amplificate da sottili sensazioni balsamiche. Il sorso è asciutto e caldo, giustamente tannico, non è di quei vini opulenti, glicerici, tutt’altro, ha finissima tessitura, ha ossatura solida più che muscoli allenati, propende infatti per una beva costantemente vibrante anziché vigorosa.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Taurasi 2014 Antico Castello

5 dicembre 2020

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie significative, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Antico Castello è una realtà irpina giovane e dinamica, ci pregiamo di seguire i fratelli Francesco e Chiara Romano da molto tempo, si può dire sin dai loro primi passi in vigna; tutto è partito con appena due ettari ad Aglianico proprio qui a Poppano, in località S. Agata, nel comune di San Mango sul Calore. Primi passi molto coraggiosi che hanno però visto lungo, portandoli anzitutto ad aumentare subito la superficie ad Aglianico sino agli attuali 5 ettari e, nel 2006, alla realizzazione della cantina: una struttura a misura d’uomo, accorta, funzionale, allora affidata nelle mani dell’esperto Carmine Valentino come consulente; ancora, nel 2008, con l’ingresso a pieno regime di Francesco e Chiara alla conduzione dell’azienda, la scelta consapevole di piantare Falanghina, Fiano e Greco nelle immediatezze dell’azienda, sempre in territorio di San Mango, rinunciando così anche alle docg bianchiste irpine ma confidando di valorizzarne una possibile originalità territoriale. La vigna di proprietà oggi conta 10 ettari tondi tondi.

San Mango sul Calore rientra infatti in quello che identifichiamo come il Versante Ovest, Le Terre del Fiano¤ dell’areale docg del Taurasi, quello che prevede vigne ubicate a Montemiletto, Montefalcione, Lapio e, appunto, San Mango sul Calore, con quest’ultimo comune ammesso pertanto solo alla produzione di Taurasi docg e non, quindi, anche Fiano di AvellinoGreco di Tufo. Da qui sembrano venire fuori generalmente rossi ossuti più che vigorosi, con tannini levigati ma non troppo, capaci di garantire una beva snella e vibrante al contempo, con grandi prospettive evolutive davanti.  

C’è, quindi, un lungo percorso dietro questo splendido risultato in bottiglia, scelte chiare e immediatamente riconoscibili. Ci troviamo infatti davanti a un Taurasi duemilaquattordici con un bel colore rubino vivace, appena trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere, con un naso nel complesso elegante, molto avvenente, che sprigiona tanto frutto in primo piano, sa anzitutto di amarena e prugna, con piacevoli rimandi speziati, di cacao, tabacco e sottobosco; il legno usato per l’affinamento è chiaramente ben integrato al corpo del vino, così il sorso è integro, caldo ma ben equilibrato, sapido, con tannini ben levigati e ancora larghi margini di affinamento davanti.

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Taurasi, red passion!

28 novembre 2020

Ce lo siamo chiesto spesso se si potesse cominciare a guardare al Taurasi con gli stessi occhi di chi si approccia per esempio ad un Barolo, riferendosi cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Insomma, se ai più esperti viene naturale cogliere e raccontare dell’originalità, dello stile, delle sfumature dei Nebbiolo di Serralunga d’Alba, di La Morra o Grinzane Cavour, perché non dovrebbe accadere lo stesso ad esempio per i vini prodotti a Taurasi, Mirabella Eclano o ancora quelli di Lapio, Castelfranci e Montemarano?

Un’operazione di approfondimento la avviò un po’ di anni fa il giornalista Paolo De Cristofaro¤, nelle prime edizioni di Taurasi Vendemmia di Miriade&Partners – Leggi Qui -, con un lavoro certosino, millimetrico quasi, sulle macro-aree interessate alla coltivazione di Aglianico e Aglianico da Taurasi; ne venne fuori una rappresentazione puntuale ed efficace, una guida indispensabile per chi mastica vino e desiderava cominciare a schiarirsi le idee su certi aspetti ormai ineludibili quando ci si trovava a raccontare e scrivere di Taurasi o di Aglianico di queste meravigliose terre irpine.

Ecco perché nelle prossime settimane proveremo a raccontare in quest’ottica diverse buone bottiglie di Taurasi che abbiamo incrociato durante tutto quest’anno, all’insegna di uno slogan che ci piace tanto: Taurasi, red passion!

Bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo questo straordinario vino campano muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere al meglio un grande lavoro di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il suo valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

In estrema sintesi, queste che seguono sono cinque caratterizzazioni, aree territoriali specifiche da cui muove tutto, sulle quali proveremo man mano nel coglierne le sfumature maggiormente distintive:

Assemblaggi, sono quei vini provenienti da due o più distinte macro-aree, una scelta questa abbastanza comune per molte aziende irpine.

Quadrante Nord, Riva Sinistra del fiume Calore, sono vini provenienti dalle vigne collocate nei comuni di Venticano, Pietradefusi e Torre Le Nocelle.

Versante Ovest, Le Terre del Fiano, con vigne ubicate a Montemiletto, San Mango sul Calore, Montefalcione e Lapio; con questi ultimi due comuni che sono allo stesso tempo gli unici ammessi alla produzione sia di Taurasi che di Fiano di Avellino.

Valle Centrale, Riva Destra del fiume Calore. Il territorio senz’altro più frammentato dell’areale, da qui provengono quei vini prodotti con le uve dellle vigne ubicate nei comuni di Taurasi, Mirabella Eclano, Luogosano, Bonito, Sant’Angelo all’Esca e Fontanarosa.

Versante Sud, Alta Valle, dove il vigneto ad Aglianico assume una quota di rilevanza notevole, talvolta esclusiva, distribuito nei comuni di Castelvetere sul Calore, Montemarano, Castelfranci e Paternopoli.

Leggi anche Taurasi Vendemmia 2008 Qui.

Leggi anche Taurasi Vendemmia 2009 Qui.

Leggi anche Anteprima Taurasi 2005 Qui.

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Lapio, Fiano di Avellino Clelia 2018 Colli di Lapio, Clelia Romano cala l’asso!

9 novembre 2020

”In principio ci rimase impresso il firmarsi col cognome, poi col nome. E’ un Fiano di Avellino tra i più buoni da sempre, profondo, minerale, incalzante; quei sentori che tutti conosciamo come markers identitari del Fiano li abbiamo imparati anzitutto bevendo Colli di Lapio, e non necessariamente grazie a bottiglie ‘vecchie’ e/o mature, tutt’altro”.

Con questo incipit sette anni fa circa lasciavamo traccia su questo blog di una delle più controverse bevute di Fiano di Avellino di Clelia Romano (la bottiglia recava in etichetta annata duemilacinque, leggi sotto), auspicando, già allora, che semmai vi fosse stata l’uscita di un secondo vino bianco qui ad Arianiello, che questi venisse fuori dall’esperienza e dal grande lavoro in vigna e non da ”scorciatoie” volte più semplicemente a strizzare l’occhio alla globalizzazione come talvolta accade sotto la pressione della domanda di mercato.

Ebbene, il momento sembrerebbe arrivato e noi abbiamo avuto la fortuna di berlo in anteprima assoluta, qualche settimana fa, quello che con ogni probabilità sarà il primo Cru aziendale che la famiglia Romano-Cieri ha deciso di produrre: viene fuori da un’accurata selezione in pianta di grappoli di Fiano di Avellino raccolti tardivamente nella vigna più alta della proprietà, collocata ad oltre 600 metri s.l.m., situata sempre in contrada Arianiello. Decisamente un filo pregiato per un ricamo di antica tradizione.

Si tratta di una minuscola produzione di poco più di un migliaio di bottiglie, si chiamerà ”Clelia”, doveroso omaggio alla Nostra Signora del Fiano ma soprattutto, immaginiamo, per segnare il tempo con la quarta generazione della famiglia Romano-Cieri che ben presto troverà il suo spazio in cantina. Noi la nostra idea ce la siamo fatta e senza tirare le fila a giudizi affrettati ne abbiamo parlato con loro apertamente, a voi non resta che andare in cantina per provarlo!

E’ un Fiano di Avellino decisamente buono, duemiladiciotto in perfetto stato di grazia, pronto, nella sua pienezza espressiva e con ancora tanta strada davanti; il colore si arricchisce di una ricca venatura oro sull’unghia del vino nel bicchiere, possiede un ventaglio olfattivo ricchissimo di frutta e fiori di campo, ancora di miele e piccola pasticceria, il sorso è pieno di sostanza ma ricco di tensione gustativa, il finale di bocca piacevolissimo. Il diario di Carmela Cieri, che ne ha curato personalmente la raccolta manuale di pianta in pianta, reca in calce ”finito di vendemmiare il 14 novembre”, il vino prodotto ha fatto solo acciaio e bottiglia.

Leggi anche Clelia Romano, Fiano su tela Qui.

Leggi anche Fiano di Avellino Colli di Lapio 2005 Romano Clelia Qui.

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Irpinia Campi Taurasini Cretarossa 2012 I Favati

12 ottobre 2020

Una delle prime volte che ci siamo ritrovati davanti a una bottiglia di Campi Taurasini ci sono venute in mente non poche domande, tutto nasceva ovviamente da un pregiudizio che nonostante gli anni trascorsi, e le tante bottiglie aperte, continua ad aleggiare e ritornarci in mente di tanto in tanto: l’istituzione di questa sottozona, fu vero successo?

Proviamo a spiegarci meglio: in quel tempo, dopo il 2005, d’un colpo, ci ritrovammo sin da subito con il prezzo aumentato di molte bottiglie, sino ad allora degnissime seconde e terze etichette di produttori spesso riconosciuti sì per il loro Taurasi ma solo dopo l’entry level Aglianico, vero pass-partout per entrare nel cuore e sulle tavole di molti appassionati, in particolar modo in certi locali dove meglio funzionavano soprattutto al calice, cioè Winebar ed Osterie tout court con una cucina all’altezza; posti ben frequentati, magari da una clientela meno danarosa ma sempre molto disponibile a lasciarsi consigliare e ”scoprire” nuove proposte.

L’istituzione della Doc Irpinia, in data 13 settembre 2005, poneva le basi per una riorganizzazione delle produzioni di qualità in provincia di Avellino, nello specifico, per la Sottozona Campi Taurasini, nel territorio dei comuni di Taurasi, Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre le Nocelle, Venticano, Gesualdo, Villamaina, Torella dei Lombardi, Grottaminarda, Melito Irpino, Nusco e Chiusano San Domenico, cioè proprio là dove l’Aglianico esprime grandissime qualità organolettiche sin da giovane, vieppiù con la giusta maturazione.

Da questo momento, in molti, soprattutto tra i piccoli produttori di cui ci siamo innamorati in questi anni, hanno sistematicamente rinunciato a dare spazio a vini per così dire ”base”, puntando quasi esclusivamente a fare vini ”Premium o Top di gamma” o da lungo affinamento abbandonando un poco alla volta la produzione di Aglianico destinato ad un consumo più immediato che, tra l’altro, è sempre stato quel vino che maggiormente ha contribuito alla loro iniziale crescita nonché a conquistare appassionati e professionisti in molti casi fidelizzandoli proprio su certe etichette. Una scelta, quella di alzare l’asticella ovviamente legittima, un riconoscimento doveroso all’impresa, al lavoro e al sacrificio quello di spuntare prezzi più alti, ciononostante la domanda resta: a conti fatti, fu vero successo?  

È innegabile quanto avvenuto negli anni, l’omologazione verso il basso di molte etichette, talvolta proposte a prezzi ingiustificati, invero già palpabile laddove non c’era quell’esperienza necessaria per gestire il vitigno ed il vino per una produzione proiettata nel tempo, non ultimo lo smarrimento evidente che ci prendeva un po’ a tutti davanti a certi bicchieri dove a dominare avrebbe dovuto essere l’uva, semmai il territorio, la sua anima, pure la scienza e la bravura di chi le governa, ma non certo il tempo o più banalmente il prezzo.

Per contro, per fortuna, parallelamente a questa scia c’è traccia di chi ha continuato a lavorare duro per metterci un po’ più di concretezza dentro una bottiglia di Irpinia Campi Taurasini, non un piccolo Taurasi, il rischio resta dietro l’angolo, ma un Aglianico capace di esprimere anche a distanza di qualche anno sfaccettature di freschezza e vivacità gustative ancora molto interessanti.

Riflessioni queste sulle quali ci siamo ritrovati davanti a questo splendido vino, il Cretarossa duemiladodici di Rosanna, Giancarlo e Piersabino Favati. Un rosso, manco a dirlo dopo 8 anni, con ancora tanta strada da fare, dal colore esemplare, rubino appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere, fruttato, certamente balsamico, speziato ma pienamente succoso, nerboruto, pieno di stoffa, il buon rosso che ci aspettavamo insomma, dall’Aglianico, da quel territorio di provenienza, qui siamo a Montemarano e Venticano, dalla passione e dal manico di chi li ha governati.

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Lapio, storica verticale di dieci annate di Fiano di Avellino di Rocca del Principe

26 agosto 2020

Rocca del Principe nasce nel 2004, sino ad allora la proprietà familiare conferiva le proprie uve, come spesso accadeva da queste parti, a terzi produttori imbottigliatori; così Ercole Zarrella, sua moglie Aurelia Fabrizio ed il fratello Antonio decisero di mettersi in proprio e puntare dritto nel produrre Fiano di Avellino, Aglianico e Taurasi che esprimessero al meglio una precisa loro idea di vini di territorio.

Oggi, a distanza di più di tre lustri, Rocca del Principe offre davvero un piacevole colpo d’occhio a chi arriva qui a Lapio, la cantina è proprio sulla strada provinciale Appia, in Contrada Arianiello, conta all’incirca 10 ettari di proprietà dei quali 6 coltivati a Fiano e più o meno 1,5 ad Aglianico. Le vigne del Fiano sono tutte allocate proprio lungo il colle Arianiello, la parte più alta (e suggestiva) di Lapio che rappresenta, non solo per gli appassionati, una delle zone in assoluto più vocate in regione alla coltivazione di Fiano di Avellino, possiamo dire un vero e proprio Grand Cru della denominazione.

I primi impianti risalgono in larga parte al 1990, con alcuni reimpianti del 2014, collocati su due versanti opposti del colle, a Nord e a Ovest. Il vigneto di Aglianico insiste invece in contrada Campore, anche questo da annoverare tra i luoghi di maggiore vocazione del territorio per il Taurasi, posto a 500mt s.l.m. con esposizione Sud/Est, su terreni caratterizzati soprattutto da marne argillose e calcaree, areale questo qui a Lapio dove l’Aglianico è sempre stato coltivato con grandi risultati prima di lasciare strada alla vasta diffusione del Fiano, vitigno che anche qui ha rischiato seriamente di scomparire del tutto prima di essere riportato a nuova vita, a partire dalla fine degli anni ’70, sulla spinta del grande successo commerciale delle bottiglie prodotte dalla famiglia Mastroberardino.

Qui la diversità dei terreni è fondamentale, la loro differente composizione incide in maniera molto particolare sul vino che ci arriva nel bicchiere. Parte degli ettari di Fiano, circa 4 e mezzo, sono collocati tra la parte più alta della proprietà a 600mt s.l.m. del versante nord di Contrada Arianiello, sino a degradare ai 550mt di Contrada Tognano, dove godono di un clima più fresco e ventilato con escursioni termiche decisamente più accentuate rispetto al circondario della docg. I terreni di questa zona poi sono più sciolti, caratterizzati da chiare origini vulcaniche, costituiti da uno strato superficiale di limo, sabbia, arenarie e lapilli e solo in profondità da argilla; una caratteristica che permette al suolo di trasmettere umidità anche nelle annate più calde, non a caso i vini prodotti in questa zona sono generalmente più fini ed eleganti ma anche più ricchi in acidità, nonché capaci di donare sensazioni minerali più accentuate.

La restante parte di Fiano è collocata sul versante Ovest sempre di Contrada Arianiello e in Contrada Lenze, entrambi a circa 570mt sul livello del mare. Da questa parte il microclima è generalmente più caldo ed asciutto ed il terreno più compatto, perlopiù di natura argillosa-calcarea con marne argillose in evidenza. I vini provenienti da questa zona sono di solito più ricchi, fruttati e morbidi.

I vini ottenuti dai due versanti confluivano generalmente in unico Fiano di Avellino, almeno sino al duemilaquattordici, da quando, dopo un’attenta analisi e più di un exploit in termini di espressione massima, si è cominciato a mettere in bottiglia una seconda etichetta con le sole migliori uve provenienti da Tognano, ma di questo ve ne parleremo più dettagliatamente in un prossimo post.

Presto invece ci sarà spazio per un nuovo piccolo Cru, il Fiano di Avellino Neviera, che abbiamo provato in anteprima, frutto di una intelligente e sapiente lettura di una piccola parte del raccolto duemiladiciannove da parte di Simona Zarrella, la giovane enologa di casa, allieva di Luigi Moio¤, già pienamente a suo agio nella cantina di famiglia. E’ un bianco molto interessante, fitto, ampio e complesso, che uscirà probabilmente tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022; le uve provengono da una parcella collocata dove una volta qui a Lapio c’era una neviera, precisamente una conca, ora vitata, che un tempo serviva per l’accumulo delle precipitazioni nevose che, grazie alla particolare connotazione rocciosa dei terreni e alla fitta vegetazione boschiva, riuscivano a conservarsi fin quasi alla fine del periodo estivo. 

Prima di lasciare spazio alle note descrittive dei vini assaggiati, corre l’obbligo di una doverosa premessa: sono tutti vini bianchi di straordinaria fattura, luminosi, verticali, precisi, spesso trasversali, in certe annate infiocchettati a dovere ma comunque buonissimi a bersi nonostante la giovane età. Sono questi vini dove c’è dentro tutta la forza di una terra straordinaria, c’è l’ebbrezza dello spazio infinito sopra Lapio, vissuto senza un filo di vertigini, c’è il sole riflesso sul pelo sull’acqua che non c’è ma se ne sente il fragore, quella calda sensazione che si colloca con precisione millimetrica nel sapore mediterraneo di un Fiano di Avellino avvenente, sferzante, balsamico e sapido, non a caso, sin dagli esordi, tra i migliori in circolazione.

****/* Fiano di Avellino 2019. L’ultimo nato, decisamente verticale e pieno al sorso. Il colore è paglia luminoso, ancora ”verde” sull’unghia del vino nel bicchiere, il corredo aromatico è particolarmente avvenente, floreale e fruttato, vengono fuori fiori d’arancio e litchi, ma anche kumquat e camomilla; l’annata pare offrire tanto equilibrio, ripreso dopo 1 ora, al riassaggio, tira fuori tanta più materia soprattutto al palato, è secco, fresco e sapido.

****/* Fiano di Avellino 2018. Di colore paglia, bello a vedersi, al naso è subito caratterizzato da sentori floreali e fruttati molto fini, ancora fiori d’arancio, poi agrumi (mandarino), degli accenni di frutta secca e balsami, erbe di montagna. Il sorso è asciutto, piacevolmente fresco e sapido, con una buona persistenza gustativa. E’ forse un vino più orizzontale, nonostante l’annata sia stata fresca, ma in questa fase appare infatti distendersi più in larghezza.

**** Fiano di Avellino 2017. Annata calda la duemiladiciassette, torrida per certi versi, l’impronta olfattiva risulta un tantino monocorde. Il colore conserva un bel giallo paglierino, qui le sensazioni fruttate sembrano ben mature, vi si colgono susina e pera, un piccolo accenno salmastro. Il sorso è secco, morbido, possiede buona persistenza aromatica e fruttata.

***** Fiano di Avellino 2016. Si conferma la duemilasedici l’annata della gioia qui a Lapio, annata fresca che richiama alla mente vini tipicamente mediterranei: il colore è paglia con riflessi oro appena accennati, il naso è ricco, voluttuoso, è floreale, fruttato, iodato, il frutto lascia subito spazio alla terra, svelando rimandi di frutta secca e spezie, dello zenzero candito. Nessuna concessione al tempo, sembra appena sbocciato, esempio di come il Fiano, più di ogni altro bianco campano, negli anni, sia capace di mutare lasciandosi alle spalle i tratti più immediati del varietale per lasciare spazio al carattere minerale più complesso e identitario che lo lega indissolubilmente al suo straordinario territorio.

**** Fiano di Avellino 2015. E’ stata una annata di sacrifici la duemilaquindici, appena 45 quintali di resa per ettaro portati in cantina. Resta un bianco di grande equilibrio olfattivo e gustativo. Annata calda, non eccessivamente, ma calda. Il colore conserva quello splendido giallo paglierino luminoso, nel bicchiere ci arriva un vino dal corredo aromatico finissimo ed elegante, aristocratico, è il primo della batteria dal quale cogliamo sensazioni di idrocarburi. Il sorso è secco, caldo, di lunga persistenza e piacevolezza di beva. In etichetta risalta il 14% di alcol in volume.

**** Fiano di Avellino 2014. Ne apriamo un paio, la prima ha qualche problema di sughero, a quel tempo in effetti ci fu qualche impasse con la scelta dei tappi, ci tiene a precisare Ercole Zarrella che ci accompagna nella splendida degustazione. Ci troviamo di fronte ad un grande bianco, intessuto di pienezza e complessità, ricchezza di frutto e tanta sostanza, sembra un bianco di Meursault senza il legno di Meursault. Impegnativo come confronto? Per niente! Di colore paglierino-oro, all’olfatto viene fuori immediatamente la matrice fruttata e speziata, poi la generosa terra, anche note salmastre e terziarie di lievi note di idrocarburi. Non è forse il vino che meglio rappresenta lo stile dei Fiano di Avellino di Rocca del Principe, eppure ci regala una gran bella bevuta.

****/* Fiano di Avellino 2013. Colore imperterrito, nessuna concessione al tempo, paglia-oro luminoso. Vi è in questo vino una dicotomia precisa, c’è un naso intenso, verticale, anzitutto fruttato e balsamico mentre il sorso, pur conservando una certa freschezza e piacevolezza, resta circoscritto e contratto. Buonissimo a bersi ora, ritroviamo il 13% in volume in etichetta.

**** Fiano di Avellino 2012. La longevità di questi vini non sorprende più ovviamente, rimarchevole il grande equilibrio che viene fuori dopo qualche anno di bottiglia, come la finissima tessitura di un bianco di 8 anni che si presenta così in splendida forma. Il colore è perfetto, nessuna dimostrazione di segni di stanchezza, come il naso, subito floreale, poi fruttato maturo, appena empireumatico. Il sorso è coinvolgente e fresco, ha stoffa, è sapido e di buona persistenza aromatica, è da annoverare tra quei vini di cui non smetteresti mai di godere.

***** Fiano di Avellino 2011. Con il duemilasedici il migliore della batteria, magari appena una spanna sotto, senza voler contare gli anni alle spalle. Resta un grandissimo vino! Con tanto frutto e sostanza dentro, c’è terra e sole, come la ’13, la ’16 e la ’18 anche la duemilaundici è stata un’annata di grande equilibrio. Bellissimo il colore paglia-oro, luminoso, il naso è profondo e complesso, un sorso stilla millemila piacevoli sensazioni gustative. Un grande Fiano di Avellino questo di Ercole Zarrella, di quelli che non finiresti mai di bere, offrire, in qualsiasi momento, occasione, abbinamento.

**** Fiano di Avellino 2010. Non è semplice avvicinarsi a certi bianchi senza rimanerne colpevolmente distanti, è qui che con ogni probabilità si comincia a sorseggiare l’anima più ancestrale dei vini di questa terra, dove si coglie l’esperienza del giovane vignaiolo che inizia a ”saper leggere” le sue vigne e la sua terra ben oltre il manico suggerito. Proprio a partire da qui, seppur lievemente, si fanno spazio certi aromi tostati e affumicati tipici di alcuni Fiano di Avellino, di questi territori in particolare, con espressioni molto riconoscibili del varietale e del terroir lapiano, un timbrica votata al minerale che conduce subito a iodio, note fumé e più in generale a idrocarburi.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre

Leggi anche Fiano di Avellino 2011 Rocca del Principe Qui.

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Correva l’anno| Falerno del Massico rosso Ariapetrina 2009 Masseria Felicia

9 luglio 2020

Non è possibile raccontare questo vino senza averlo vissuto sino in fondo, non solo sino all’ultimo coinvolgente sorso nel bicchiere, le due ultime dita nella bottiglia, bensì ritornando alla sua nascita, ripercorrendo questi anni.

Bisognerebbe quindi cominciare da là, tornando indietro nel tempo, a quell’anno, provare per quanto possibile a riavvolgere il nastro della nostra vita e ricordarlo quel tempo, quei mesi, certi giorni, alcuni momenti in particolare.

E’ stato un anno importante il duemilanove, segnato da cambiamenti epocali, per la storia del mondo e in qualche maniera, a piccoli sorsi, per chi scrive: a gennaio Barack Obama giurava da 44º Presidente degli Stati Uniti, davanti a più di due milioni di persone che avevano letteralmente invaso Washington DC per assistere al giuramento del primo Presidente americano di colore; il 6 Aprile invece l’Italia è sottoshock: alle 3:32 una scossa di terremoto di magnitudo 6.3 fa tremare la Provincia dell’Aquila (e non solo) causando vittime, feriti, sfollati e il crollo di molti edifici. Una tragedia immane che ha risvegliato in molti italiani paure e traumi mai spariti del tutto, ma anche orgoglio e dignità.

Qualche settimana più tardi, una scossa più o meno della stessa intensità scuoterà invece la mia vita professionale, provavo a rimettermi profondamente in discussione approdando a Capri (Leggi Qui). Ad ogni modo, fatte ovvie le giuste proporzioni, fu quello un anno particolarmente intenso!

Proprio a novembre di quell’anno, a fine stagione, torno a Masseria Felicia, a Carano, in località S. Terenzano, una piccola frazione di Sessa Aurunca, il primo comune per estensione della provincia di Caserta (e della Campania) per ritrovare Maria Felicia e i suoi splendidi Falerno del Massico. Una casa dei primi del novecento che il nonno rilevò nel dopoguerra, vi era stato per tanti anni colono ed unico conduttore dei terreni, così il papà di Maria Felicia, Alessandro Brini, si convinse che era venuto il tempo di riscattare la storia di quegli anni e consegnarla nelle mani della giovane figlia; il susseguirsi delle stagioni, con i suoi ritmi, ha poi tracciato lentamente  il solco famigliare sino ai giorni nostri.

Maria Felicia fa sostanzialmente un solo vino, il Falerno del Massico, che assume varie anime nella rincorsa alla natura di questo territorio straordinario, Bianco perchè tratteggiato con i colori della Falanghina, Rosso quando animato dall’Aglianico e dal Piedirosso, nella versione giovane (e sfrontato) col nome Ariapetrina, mentre diviene irreprensibile e immortale con l’Etichetta Bronzo¤. Oltre questi qua, nulla di stravagante, poche, pochissime bottiglie di altro ma giusto per dare libero sfogo ad uno studio approfondito sul potenziale delle tre varietà impiantate in azienda, un esercizio tecnico sul tema autoctono che conduce talvolta a utili micro vinificazioni, colmate dalla passione, per esempio del Piedirosso in purezza, anche qui capace di ritagliarsi, di tanto in tanto, il suo piccolo ruolo da solista.

Eccola invece la forza evocativa di questo Ariapetrina duemilanove, lo scugnizzo di casa per Maria Felicia; il rosso giovane e sfrontato che a sentirlo oggi, a distanza di quasi 11 anni, pare proprio non temerlo il tempo, le stagioni, i suoi ritmi, ci arriva così nel bicchiere maturo ma sicuro di sé, della sua storia, della sua stoffa, del suo talento capace di attraversare le insidie degli anni migliorandosi. Non è mera celebrazione, tutto sembra scorrere chiaramente in ogni bicchiere, riempiendo i calici di frutta e sensazioni odorose delle più ampie ed eteree, con sorsi asciutti e caldi, con ancora tanta piacevole freschezza gustativa, tratto distintivo di tutti i vini di Masseria Felicia, con quella spalla acido-tannico utile per abbracciare abbinamenti con molti piatti della nostra cucina tradizionale regionale, con la certezza di ritrovare ad ogni sorso almeno un pezzo di noi stessi, di averla vissuta proprio tutta la nostra storia di questi anni, ma che bello rivederla! 

Leggi anche Falerno del Massico Etichetta Bronzo 2013 Qui.

Leggi anche Piccola Guida ragionata al Falerno del Massico Qui.

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Clelia Romano, Fiano su tela

5 luglio 2020

E’ un Fiano di Avellino tra i più buoni da sempre, profondo, minerale, incalzante quello di Clelia Romano, con quei sentori che tutti ormai conosciamo come markers identitari del Fiano di queste terre lapiane, li abbiamo studiati per anni, cercati e fissati nella memoria bevendo anzitutto Colli di Lapio, non necessariamente inseguendo bottiglie ”vecchie” o mature, tutt’altro.

Lapio terra del grano, Lapio terra del tabacco, Lapio terra del Fiano di Avellino. Non tutti sanno però che queste terre, oggi gettonatissime per questo splendido varietale bianco campano, un tempo erano perlopiù votate alla coltivazione dell’Aglianico che qui ne ricopriva buona parte della superficie vitata generalmente strappata alle altre colture di sussistenza del tempo, anzitutto grano e tabacco, prima di venire lentamente soppiantato, a partire dalla prima metà degli anni ’70, dalla piantagione di Fiano, vino che aveva, con il ”gemello” Greco di Tufo, già grande appeal commerciale, soprattutto sul vicino mercato napoletano, da sempre principale sbocco economico dei vini irpini.

Lapio terra di Taurasi quindi. L’altitudine, il suolo argilloso, le escursioni termiche, elementi fondamentali che uniti alla tradizione familiare e alla capacità di un grande enologo esperto come Angelo Pizzi hanno consegnato agli annali sempre buonissime bottiglie di rosso prodotte qui in casa Romano: vini austeri, da aspettare, caratterizzati da grande tensione gustativa più che immediata piacevolezza del frutto; per questo, forse, un po’ fuori dal tempo, soprattutto con certe mode e tendenze contemporanee di quegli anni. Anche questo ha influito non poco, facendo sì che il Fiano di Avellino prendesse sempre più il sopravvento sul territorio, contribuendo però a far nascere anzitutto il fenomeno Colli di Lapio ma anche a consegnare alla storia del vino italiano lei, Clelia Romano, per tutti, non da oggi e con pieno merito, Nostra Signora del Fiano!

Non se ne trovano molte in giro di foto sue, men che meno in posa (rubata!), perciò ne facciamo gran tesoro, vieppiù per la straordinaria accoglienza riservataci quel giorno con accanto i figli Carmela e Federico Cieri, davanti ad una straordinaria batteria di vini. Colli di Lapio è in contrada Arianiello, produce tutti i suoi vini con uve provenienti esclusivamente da vigne di proprietà, sono poco più di 10 gli ettari oggi in produzione, con appena una manciata di filari ad Aglianico, quasi a testimonianza storica; vigne dove ci mette le mani anzitutto Carmela, con l’aiuto naturalmente di più componenti della famiglia, mentre in cantina, con Federico – che fa tanto altro ancora! – c’è da sempre Angelo Pizzi, uno dei riferimenti assoluti dell’enologia campana e straordinario interprete di numerosi territori e varietali autoctoni regionali. Qui, questo vino, anche grazie al suo lavoro raggiunge vette incredibili, con una costanza impressionante.

****/* Fiano di Avellino Colli di Lapio 2019. Impressiona per l’ampiezza olfattiva, quella nota balsamica che ne accentua l’anima di montagna e prepara il palato a tanta sostanza. Il colore tradisce leggerezza, il sorso nemmeno si accorge del 13,5% di alcol in volume in etichetta, tant’è che la bottiglia finisce in men che non si dica. Annata complessa, la duemiladiciannove, con un raccolto infinito, protratto sino a metà novembre, fortunatamente qui a Lapio meno problematica che altrove.

****/* Fiano di Avellino Colli di Lapio 2018. Sono circa 80.000 le bottiglie tirate fuori ogni anno, nessuna sbavatura per resa e capacità espressiva. Il colore è preciso, di un paglia luminoso, vivissimo. Il naso è invitante, fruttato e mentolato, rimanda a sentori di erbette in fiore e frutta a guscio, in particolare tiglio, camomilla, citronella; il sorso è pieno di freschezza, il finale di bocca lunghissimo, con un ritorno balsamico assai piacevole. Riporta 13,5% di alcol in volume, pare avviato in rampa di lancio.

**** Fiano di Avellino Colli di Lapio 2017 Annata a dir poco difficile, qui a queste latitudini ci si difende sempre, siamo tra i 550 e 600 metri, il vino è estremamente piacevole ma pare rilassarsi sul finale di bocca concedendosi a pochi guizzi. Il colore accentua una tonalità appena matura pur mantenendo piena luminosità. Il sorso è morbido, caldo e avvolgente, resta fresco e abbastanza persistente al palato, ancora 13,5% di alcol in volume in etichetta. In perfetta armonia.

***** Fiano di Avellino Colli di Lapio 2016. Probabilmente il Campione che emerge perentorio sopra tutti nella batteria, in splendida forma. Impressiona soprattutto per la verticalità e l’ampiezza olfattiva, con quella nota balsamica che qui si fa più complessa, vengono fuori anche muschio e citronella, la nocciola, addirittura accenni fumé; in bocca non si fa fatica a coglierne l’essenza, un dono di franchezza che si ripete puntualmente ad ogni sorso, asciutto e severo, con un gustoso e lunghissimo finale di bocca.

In anteprima assoluta invece, lasciamo traccia di quello che con ogni probabilità sarà il primo Cru aziendale che la famiglia Romano-Cieri ha (finalmente!) deciso di produrre, viene fuori da una selezione in pianta di grappoli di Fiano di Avellino raccolti tardivamente nella vigna più alta della proprietà, collocata ad oltre 600 metri s.l.m., situata sempre in contrada Arianiello. Un filo pregiato per un ricamo di antica tradizione.

Si tratta per il momento di una minuscola produzione di poco più di un migliaio di bottiglie, si chiamerà ”Clelia”, doveroso omaggio alla Nostra Signora del Fiano ma soprattutto, immaginiamo, per segnare il tempo con la quarta generazione della famiglia Romano-Cieri che ben presto troverà il suo spazio nello smanettare in cantina. Noi la nostra idea ce la siamo fatta e senza tirare le fila a giudizi affrettati ne abbiamo parlato con loro apertamente, a voi non resta che andare in cantina per provarlo!

****/* Fiano di Avellino Clelia 2019. Vendemmiato praticamente e metà novembre dopo una lunga ed estenuante cernita tra i filari che ha tenuto Carmela col fiato sospeso sino all’ultima cassettina portata in cantina. Bellissimo il colore paglia lievemente dorato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è davvero impressionante, variopinto, verticale, ricco di piccole sfumature e note olfattive di grande fascino e suggestione. Ne cogliamo nitidamente tiglio e acacia, camomilla e crema di nocciola, tant’è che sorge il dubbio (anche) di un parziale uso del legno ma Federico e Carmela si smarcano immediatamente al solo pensiero, di legno sui bianchi qui non ne vogliono sentir parlare! E allora non possiamo che rimanerne ancor più impressionati per la profondità espressiva. Il sorso è decisamente invitante, sostenuto da decisa freschezza con un gusto amplificato da pienezza e sapidità ad ogni assaggio. Ci appare un quadro dipinto, Fiano su tela!

**** Fiano di Avellino Clelia 2018. E’ decisamente buono, in perfetto stato di grazia, forse solo un po’ avanti nella sua pienezza espressiva rispetto al duemiladiciannove appena descritto; il colore si arricchisce di una maggiore venatura oro sull’unghia del vino nel bicchiere, possiede un ventaglio olfattivo ricchissimo di frutta e fiori di campo, ancora di miele e piccola pasticceria, il sorso anche qui è pieno di sostanza ma ricco di tensione gustativa, il finale di bocca piacevolissimo. Finito di vendemmiare il 14 novembre, il vino prodotto fa solo acciaio e bottiglia.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre

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Il vino della gioia, lo diciamo a chiare Lettere!

4 giugno 2020

Furono probabilmente i greci, sempre loro, a piantare per primi la vite sulle pendici dei Monti Lattari, in Penisola Sorrentina, in provincia di Napoli e ad insegnare ”come si fa” agli Oschi, gli antichi abitanti di queste zone interne impervie e brulle ma fertilissime per via delle eruzioni vulcaniche.

Poi ci hanno pensato i Romani a darne slancio, grandi estimatori del vino prodotto da queste parti sui Lattari, allora parte integrante dell’Ager Stabianus, dove nelle numerose ville rustiche riportate alla luce la coltivazione della vite era la principale attività. Il vino di queste terre è sempre stato ricercato per la sua immediatezza e bontà, gradito per la freschezza gustativa, assai apprezzato per la bevibilità, così quando a metà del ‘900 i commercianti napoletani e in particolar modo i Massari gragnanesi impeganti nella “trafica del vino*“, ovvero l’acquisto del vino novello portato poi a Napoli nelle botti su grandi carri, cominciarono a farne vanto commerciale il successo fu incredibile e popolare, una fortuna che a fase alterne possiamo dire continua tutt’oggi.  

Pochi possono vantare una conoscenza di questo territorio, dei siti, delle uve, dei vignaioli come la famiglia di Salvatore Martusciello, da oltre trent’anni impegnata nella coltivazione, produzione e commercializzazione di vini dei Campi Flegrei, dell’Agro aversano e di qui, provenienti da questo splendido areale della Penisola Sorrentina dove hanno certamente contribuito in maniera decisiva alla riscoperta, la salvaguardia e la valorizzazione di un patrimonio vitivinicolo così unico, un impegno che oggi Salvatore continua a portare avanti con maggiore determinazione e grande devozione con la moglie Gilda.

L’area geografica vocata alla produzione del vino doc Penisola Sorrentina si estende in una zona circoscritta dell’Appennino Campano lungo le pendici dei Monti Lattari, partendo da Castellammare di Stabia e tutto intorno sino a Punta Campanella, abbracciando praticamente tutta l’area della costa Sorrentina e il suo ”interno” in provincia di Napoli, attraversando diversi comuni come Gragnano¤ – città conosciuta in tutto il mondo per la pasta ma anche patria del famoso vino frizzante celebrato da Totò in ”Miseria e Nobiltà” -, Pimonte e, per la sottozona Lettere, i territori dei comuni di Lettere, Casola di Napoli e, in parte, il territorio di Sant’Antonio Abate, un’area dove vengono coltivate principalmente Aglianico, Piedirosso, Sciascinoso (Olivella) ed altre numerose varietà locali a bacca rossa e bianca che entrano a pieno titolo nella produzione dei vini di queste zone.

Il Lettere Ottouve duemidiciannove di Salvatore Martusciello è davvero un inno alla gioia a tavola, con quel colore porpora e la sua spuma violacea così stuzzicanti, con un ventaglio di profumi deliziosi ed invitanti di piccoli frutti rossi e neri carnosi, la piacevolissima freschezza del sorso come manifesto della convivialità, una vivacità gustativa intensa e tratteggiata in punta di rosso a grandi caratteri, per restare ben impressa ma solo per il tempo necessario, capace di donare ad ogni sorso un raggio di sole, una sferzata di gusto, la piena soddisfazione!

*Leggi di più sulla ”trafica del vino” Qui.

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Torelle è il sogno di Emanuele Guardascione che si fa Falerno del Massico rosso 2015

11 febbraio 2020

Una bella novità in terra di Falerno che merita assolutamente di essere conosciuta, l’azienda è a Cascano di Sessa Aurunca, nel cuore dell’Ager Falernus, con il vulcano spento di Roccamonfina a nord-est e il Monte Massico a Sud-ovest.

L’azienda della famiglia napoletana Guardascione vede la luce poco più di dieci anni fa, nel 2009, con l’acquisto di 16 ettari in località Torelle, nel comune di Sessa Aurunca, ad opera di Emanuele. Era un giovane agronomo e la sua più grande passione era la viticoltura, nutriva il sogno di contribuire a rinverdire i fasti di questo straordinario territorio da oltre duemila anni sulla bocca di tutti.

Dopo la laurea in agraria inizia il suo percorso, prima affiancando Pierpaolo Sirch presso Feudi San Gregorio, poi trasferendosi per qualche anno presso l’azienda cilentana di Paola e Bruno De Conciliis, esperienze che lo aiutano nell’indirizzare il suo modello di approccio al mondo del vino: ricerca e pragmatismo in vigna, senza perdere di vista uno sviluppo eco-sostenibile e i vini prodotti come essenza del territorio di provenienza. Nel 2010 pianta così i suoi primi 2,5 ettari di Aglianico e nel 2014, dopo aver rilevato una piccola cantina nella frazione di Cascano di Sessa Aurunca, riesce a portare a termine anche la sua prima vendemmia allorché viene a mancare prematuramente all’età di soli 29 anni.

Giuliana, la sorella, a cui Emanuele ha provato a consegnare il testimone nonostante il troppo poco tempo a disposizione, ne ha subito raccolto il lascito valoriale e con grande slancio continua a metterci l’anima nel portare avanti un sogno divenuto frattanto una splendida realtà. L’azienda produce oggi circa 12.000 bottiglie di vino con uve provenienti da vigneti coltivati tutti in regime biologico proprio a ridosso del vulcano spento di Roccamonfina. Qui si punta anzitutto sul Falerno ma anche nella valorizzazione della i.g.t. Roccamonfina sotto la quale si produce una Falanghina, un rosso e un rosato sempre da Aglianico.  

“É” duemilaquindici, il Falerno di Torelle non è ancora in commercio, è un Falerno rosso con Aglianico al 99% e un lungo affinamento in acciaio, legni e bottiglia, ben 60 mesi, anche per questo ha un sapore assolutamente ancestrale, dal colore rubino vivace e un naso sfrontato e guascone, con quel timbro vinoso, floreale, fruttato e speziato e un sorso sottile, fresco, polposo e saporito, finanche sgraziato nel suo incedere gustativo ma pienamente autentico.

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Syriacus 1997, un sorso di storia nel bicchiere

27 dicembre 2019

Anno straordinario quello, con l’annata dapprima definita calda, poi rivalutata nel tempo sino a che, con il passare degli anni, quella del 1997 è risultata essere una vendemmia talmente straordinaria tanto dall’essere definita “l’ultimo mito del Novecento”.

Davanti a questa rara etichetta, scovata non a caso nella cantina di Zì Pasqualina¤ ad Atripalda, sono riaffiorati mille ricordi di quegli anni. Ci ricordiamo, tra i molti, di un Monfortino ’97 di Giacomo Conterno strepitoso, Barolo le cui quotazioni in questi anni hanno poi toccato cifre stratosferiche; o del memorabile Solaia ’97 di Antinori, Super Tuscan da Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Cabernet Franc. Vini profondamente diversi ma a loro modo spettacolari, si potrebbe dire di un altro pianeta, quasi a suggellare l’arrivo della sonda Mars Pathfinder sul pianeta rosso del luglio di quell’anno.

Il 1997 è stato un anno di montagne russe emozionali, nel vino come nella vita di tutti i giorni. E’ l’anno in cui a Miami, il 15 luglio, viene assassinato lo stilista italiano Gianni Versace. E qualche settimana più tardi, il 31 agosto, a Parigi, Lady Diana Spencer rimane vittima di un incidente automobilistico sotto il Pont de l’Alma assieme al suo compagno Dodi Al-Fayed. Il 5 settembre muore in India Madre Teresa di Calcutta. Mentre un mese più tardi, il 9 ottobre, lo scrittore e regista Dario Fo viene insignito del Premio Nobel per la letteratura.

Quando qualche anno più tardi questo Syriacus ’97 di Feudi di San Gregorio¤ debutta sul mercato è subito un successo. E’ un vino prezioso, viene prodotto in quantità limitata poiché nasce da vecchie vigne pre-fillosseriche di ben oltre 150 anni situate a Taurasi, viti erroneamente identificate col Syrah, per questo localmente chiamata Syriaca. E’ a tutti gli effetti un recupero archeo-enologico, possibile grazie al terreno sabbioso dovuto all’origine vulcanica della zona di Taurasi che anche qui in Irpinia non ha permesso al parassita di attaccare le radici di queste viti, allevate con il tradizionale sistema a “starseta”, con uno sviluppo dei rami di circa 15-20 metri.

Negli anni a seguire questo ”nuovo” varietale prenderà il nome di Sirica¤, grazie al lavoro della cantina di Sorbo Serpico in partnership con le Università di Milano e di Napoli che, partendo dai ceppi di questi patriarchi, sono riusciti a riprenderne le fila consentendo una nuova piantagione in un piccolo appezzamento aziendale. Le analisi del dna delle piante hanno poi rivelato caratteri comuni con lo Shiraz, il Refosco e il Teroldego, varietà certamente non autoctone del luogo e che lasciano immaginare uno sviluppo storico ben diverso dall’Aglianico e che danno origine ad un vino dalle caratteristiche profondamente diverse dagli altri vitigni a bacca rossa presenti sul territorio campano.

Sorseggiare questo rosso, a quasi vent’anni da quell’uscita, rappresenta così un vortice di sensazioni particolari e al tempo stesso piacevoli. Il colore del vino è chiaramente segnato dal tempo, ma nemmeno più di tanto: il timbro rimane rubino trasparente, l’unghia del vino nel bicchiere è appena tendente all’arancio ma conserva buona vivacità. Il naso è dapprima ombroso e scuro, come un baule di ricordi aperto inaspettatamente, le prime sensazioni sono perlopiù incentrate su spezie, aromi di china, sottobosco, con l’andare del tempo nel bicchiere riecheggiano invece note di composta di frutta e sentori di erbe officinali. Il sorso è secco, caldo, morbido, con un finale di bocca sottile, anche scarno, eppure piacevole e coinvolgente. 

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TREBICCHIERI® 2020, premiato il Taurasi Riserva Puro Sangue 2014 di Luigi Tecce

2 ottobre 2019

Ne rimanemmo subito profondamente rapiti lo scorso aprile durante gli assaggi di Campania Stories¤ a Cetara, in Costiera Amalfitana. Venne fuori perentorio tra i vini rossi in degustazione, un bel colpo di coda in un periodo di così forte congiuntura per certi vini di grande struttura, soprattutto in Campania dove è sempre più il momento del Piedirosso, dai Campi Flegrei al Vesuvio sino a Roccamonfina, con un fiorire di belle bottiglie e felici rappresentazioni.

Questo Aglianico, che ricordiamo rimane il vitigno Principe dei varietali regionali, come sempre protagonista anzitutto in Irpinia, ci pare rappresentare al meglio quella speranza di rilancio mediatico di cui il Taurasi avrebbe tanto bisogno, affiancandosi quindi, finalmente con maggiore costanza, a tutte quelle straordinarie ”interpretazioni” dei già affermati e rinomati vini irpini prodotti dagli storici Mastroberardino¤, Feudi di San Gregorio¤ e Terredora¤, per citarne solo alcuni di lungo corso impegnati da anni, a vari livelli, nella ricerca e nella selezione delle migliori espressioni territoriali, assieme a certe perle di autenticità, anche artigianali, che sono diventate negli ultimi anni ad esempio Quintodecimo¤ o certe uscite dei vini di Perillo¤, come già per Caggiano¤ e Molettieri¤.

Meritatissimo quindi il TREBICCHIERI®¤ a questo vino di Luigi Tecce, un Taurasi Riserva Puro Sangue 2014 che è materia viva, già nel colore vivacissimo nonostante il lungo affinamento tra legno e bottiglia. Il naso è intriso di belle note varietali, anzitutto di frutta polposa e invitante, poi una miriade di sottili ed invitanti sfumature aromatiche, un corredo di spezie dalla trama finissima e altre piccole sensazioni terragne assai intriganti. Il sorso è (quasi) sconvolgente, subito largo, caldo, profondo, gustoso, decisamente appagante. Ci piacerebbe essere smentiti sin dai prossimi assaggi, ma ci appare, forse, come il miglior vino tirato fuori dal cilindro di Tecce sin da quando ha mosso i suoi primi passi nel mondo del vino. Chapeau!

Leggi anche Campania Stories, i nostri appunti di viaggio Qui.

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TREBICCHIERI® 2020, premiato il Taurasi Riserva Piano di Montevergine 2014

28 settembre 2019

Lo abbiamo scritto a chiare lettere l’anno scorso, con piacere ci ripetiamo volentieri ancora quest’anno: c’è una lunga storia molto forte che ci lega indissolubilmente a questa straordinaria etichetta e all’azienda di Sorbo Serpico, una storia antica e profonda.

Le prime grandi bottiglie che abbiamo stappato e raccontato sono state proprio di Taurasi¤ docg, e se ci siamo appassionati a questo straordinario vino rosso campano un po’ è anche merito del Piano di Montevergine di Feudi di San Gregorio, da sempre tra i migliori rossi campani e grande ambasciatore dell’Aglianico nel mondo.

Alcune sue uscite sono impresse negli annali e ricordate perché capaci, come e più di altre bottiglie, di attraversare il tempo e raccontare in maniera autentica e profonda il grande territorio Irpino. Vini che anche nelle annate più austere sanno esprimere complessità e vivacità organolettica, sostanza e finezza sorprendenti. Dopo un duemilatredici tutto da incorniciare, premiato l’anno scorso, ecco che il Piano di Montevergine coglie nuovamente il TreBicchieri®¤ con il Riserva duemilaquattordici. Ad Maiora Semper!!

Leggi anche TREBICCHIERI 2019, Premiato il Taurasi Riserva Piano di Montevergine 2013 Qui.

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Omaggio a Gillo Dorfles 2015, l’Aglianico secondo Peppino Pagano

1 Maggio 2019

Angelo Eugenio Dorfles, è stato un critico d’arte, pittore e filosofo triestino, scomparso lo scorso Marzo 2018 all’età di 108 anni. Accademico onorario di Brera e dell’Albertina di Torino, è stato membro dell’Accademia del Disegno di Città del Messico, nonché Fellow della World Academy of Art and Science e Dottore Honoris Causa del Politecnico di Milano e dell’Università Autonoma di Città del Messico. Nonché insignito dell’Ambrogino d’oro dalla città di Milano, del Grifo d’Oro di Genova e del San Giusto d’Oro della sua Trieste.

A lui che per tanti anni, durante l’estate, amava concedersi lunghe passeggiate tra i Templi ed il lungomare di Paestum, Peppino Pagano, suo carissimo amico, ha voluto dedicare il vino di punta della sua azienda di Giungano San Salvatore 1988¤, un Aglianico prodotto da uve di un clone cilentano disperso negli anni, dal grappolo piccolo e spargolo ma dalla grande ricchezza fenolica delle bucce che ha saputo impressionare positivamente sin dalla sua prima uscita con il duemilanove che raccontammo, tra i primi, proprio qui su queste pagine nel gennaio del 2015.

Il Gillo duemilaquindici, ancora una volta impreziosito da un’originale etichetta disegnata proprio dal Maestro Dorfles, ha ricchezza e voluttà già nello splendido colore rubino-viola, concentrato e quasi ancora porpora sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è estremamente ampio e verticale, affianca alla tradizionale matrice varietale una certa giovialità che ne anticipa tanta vibrante sostanza in bocca.

All’assaggio sembra quasi di masticarlo, tanto è spesso, fitto, lungo. Quel velo porpora che tinge il calice pare ammantare con piacevolezza anche il palato, il sorso è corposo, carico di polpa di frutto e le spigolature sono ben attenuate dal sapiente uso del legno. E’ un rosso di caratura importante, con una tessitura considerevole, che punta a conquistare sin dal primo calice ma anche a poter sfidare il tempo senza alcun timore reverenziale nei confronti di altri grandi rossi regionali e italiani.

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Falerno del Massico rosso Etichetta Bronzo 2013 Masseria Felicia

4 aprile 2019

E’ indubbio quanto sia importante ritornare su certi vini più volte nel tempo prima di decretarne definitivamente la loro bontà, quella fondamentale capacità di rappresentare appieno l’idea di vino che ci si aspetta da un certo luogo o un produttore, da questo e quel vitigno, denominazione, nella sua più alta espressione.

I vini di Maria Felicia Brini sono una rincorsa continua, lo sono, per la verità, un po’ da sempre: mai del tutto definiti, o definitivi, eppure mai come prima in questo Etichetta Bronzo, ancora una volta, ci sembra di coglierne l’altissima rappresentazione di questo pezzo di sud, di Campania, di provincia di Caserta, per meglio definirne i confini siamo in Ager Falernus, a San Terenzano, non lontano da Sessa Aurunca.

Tutto nasce da una piccola vigna piantata con Aglianico e Piedirosso, qua e là tra i filari di Aglianico, vecchi di alcune decine di anni, un tot di ceppi di Piedirosso, come si faceva un tempo, come si continua a fare, ahinoi, molto raramente oggigiorno: così viene fuori questo piccolo capolavoro. A chiederle perché dell’Etichetta Bronzo, Maria Felicia direbbe, come ha detto: ”non c’è che un vino che piano piano ridefinisce la sua fisionomia se non un vino che “attrezza” il suo altare. Non ci siamo sbagliati.

Le abbiamo camminate a lungo le vigne di questo territorio, ci siamo spesso seduti a tavola qua, a casa Brini e altrove. Mai abbastanza distratti per non ricordare, mai pienamente convinti che sarebbero bastati quei momenti per capirci tutto quanto. Qualcosa però ci è rimasto dentro, rieccoci oggi con questo duemilatredici, un vero schiaffone, anzi, una serie di paccheri come a dire: dove siete stati? Eh no che non siamo stati fermi ad aspettare, lo capirebbe pure mio cugino Tanino, che di mestiere fa l’acquaiuolo. E’ forse un vino anacronistico questo, perciò profondamente autentico, irripetibile altrove.

L’Etichetta Bronzo 2013 è un rosso meravigliosamente squadrato, almeno contando i primi angoli che riesci a vederci oggi. Ma siamo solo all’inizio. Il colore è di uno splendido rubino con delicate sfumature di alleggerimento sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco, subito verticale, parte sfrontato, accigliato, incipriato, speziato, poi viene fuori l’amarena, la prugna, sentori di tabacco. Il sorso è slanciato, perentorio il tannino, tanto è caparbio che ti sembra quasi di masticarlo, ma lo perdi tra un morso e l’altro del frutto polposo e gaudente. V’è da rimanerci rapiti, dalla intensità, dal sapore saporito, dalle promesse fatte e mantenute, di una storia che parte dai poeti latini e arriva sin qui alla fatica contadina. Quella di chi non si ferma, perchè sempre di rincorsa.

Leggi anche Il ritorno e il desiderio dell’abitudine di Maria Felicia Brini Qui.

Leggi anche Falerno del Massico rosso 1999 Qui.

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My name is Tannino

4 febbraio 2019

La lunga esperienza professionale e le molte bevute alle spalle ci hanno lasciato scoprire e apprezzare nel tempo tanti vini tratteggiati e caratterizzati talvolta in maniera decisiva dal tannino, bottiglie che in qualche maniera abbiamo poi imparato ad amare oppure deciso di lasciar perdere perché (troppo) lontane dal nostro gusto. Di vini ‘’tannici’’ ve ne sono in giro per l’Italia molti, alcuni memorabili, altri meno ma in larga parte caratteristici e coinvolgenti.

Si pensi ad esempio ai grandi Nebbiolo di Barolo¤ e della Valtellina o ai più classici Sangiovese che danno vita a certi Brunello di Montalcino o Nobile di Montepulciano. Qualcuno ha mai provato un Pignolo o un Tazzelenghe¤ friulani? O un Sagrantino di Montefalco¤? Invero, già nella nostra amata Campania Felix vini con ‘’tannino da vendere’’ ne abbiamo eccome, basti pensare all’Aglianico, o al Tintore¤ di Tramonti per citarne giusto un paio.

Ma cosa sono i tannini? Ebbene, appartengono alla famiglia dei polifenoli e sono i principali responsabili del carattere astringente dei vini; sono suddivisi in tannini condensati (propri dell’uva), tannini idrolizzabili o ellagici (derivanti principalmente dal legno). Sono generalmente presenti nel raspo, nei vinaccioli e nella buccia dell’uva e sono diversi i fattori che concorrono alla sua forma e sostanza.

Raspo. Sono generalmente ricchi di composti fenolici più o meno polimerizzati e a forte potere astringente.

Vinaccioli. Sono fonte importante di composti polifenolici per quanto concerne la vinificazione in rosso; contengono dal 20 al 55% dei polifenoli totali dell’acino, in funzione della varietà. Nel corso della maturazione aumenta il loro livello di polimerizzazione. I vinaccioli raggiungono la loro dimensione definitiva prima dell’invaiatura, momento in cui raggiungono la loro maturità fisiologica. Osservare e assaggiare i vinaccioli nelle fasi finali del ciclo della vite è fondamentale per determinare anche empiricamente la maturità fenolica dell’ uva.

Quando l’uva non è sufficientemente matura, i vinaccioli sono verdi e ancora ricoperti da sostanze pectiche o mucillaginose (come una sorta di placenta a protezione dell’embrione), all’assaggio sono amarissimi e provocano decisa astringenza; in questa fase i tannini hanno un basso grado di polimerizzazione e sono pertanto molto reattivi e presentando carica elettrica negativa, reagiscono facilmente con le glicoproteine della saliva, caricate positivamente, facendoci percepire la sensazione gustativa amaro-astringente.

Quando l’uva è mediamente matura, presenta vinaccioli che dal verde virano al marrone, lo strato protettivo inizia a staccarsi, all’assaggio sono mediamente astringenti e amari ma non eccessivamente, in quanto in questa fase i tannini presentano un grado di polimerizzazione intermedio e la reattività con le proteine inizia a diminuire.

Quando l’uva è matura, i chicchi presentano vinaccioli che da marrone tendono al nero, si svuotano all’ interno, i tannini hanno un alto grado di polimerizzazione e pertanto la loro reattività è quasi o del tutto nulla con le glicoproteine della saliva.

Per dirla con parole semplici e non entrare oltremodo in meccanismi biochimici complessi e difficili da comprendere, possiamo affermare che nel frutto immaturo i tannini sono scarsamente polimerizzati e con il progredire della maturazione la polimerizzazione aumenta per cui il sapore tannico, quella sensazione allappante, si attenua fino a scomparire a fine maturazione.

Per capire meglio i tannini e le sostanze polifenoliche in generale, dobbiamo sempre tener presente che la vite non porta avanti la maturazione del frutto e quindi del vinacciolo per farci fare il vino buono, ma per un concetto spesso sottovalutato o per niente considerato ovvero la sua riproduzione, per la continuità della specie. Non a caso quando l’uva non è matura è anche acida, ha poco zucchero e le sostanze fenoliche hanno un ruolo perlopiù di difesa e di repellenza, per scoraggiare cioè gli uccelli a magiare l’uva rendendola quindi sgradevole all’assaggio, in quanto il seme non è ancora maturo.

Non è così a fine ciclo, quando l’uva diviene dolce, quindi poco acida, la repellenza pertanto svanisce (si abbassano le difese) per invitare gli uccelli a beccare gli acini e portare i semi in giro attraverso le loro deiezioni, appunto con l’obiettivo della riproduzione. In buona sostanza volendo non è necessario il rifrattometro, o il mostimetro, analisi particolari per avere l’idea della maturità dell’uva, talvolta basterebbe osservare il colore dei vinaccioli e un assaggio per coglierne la maturità, con l’aiuto poi di api e uccelli che quando iniziano a mangiare gli acini ci danno indicazione che siamo (quasi) pronti per raccogliere.

Buccia. I composti fenolici presenti si ripartiscono nelle cellule dell’epidermide e nei primi strati della sotto epidermide. I tannini presentano strutture complesse ma il loro grado di polimerizzazione varia poco durante la maturazione e il loro potere astringente tende man mano a diminuire; essi sono molecole con proprietà colloidali a differenza dei tannini di raspo e vinaccioli. E’ risaputo che i tannini delle bucce sono meno astringenti di quelli dei vinaccioli causa probabilmente di un loro maggior grado di polimerizzazione (circa 15 unità rispetto a un media inferiore a 10 unità per quelli dei vinaccioli) oltre al fatto che essi sono spesso presenti in forma di complessi tannini-polisaccaridi e tannini-proteine che conferiscono morbidezza al vino.

La quantità e qualità di questi composti sopraccitati dipende sia dalla varietà sia dalle tecniche colturali utilizzate in campo, sia dalla scelta dell’epoca di raccolta ed anche dalle tecniche di ammostamento e vinificazione.

Diraspatura e Pigiatura. Da studi (Ribereau-Gayon) emerge che la presenza di raspi aumenta i polifenoli totali (tannini compresi ovviamente) ma diminuisce l’intensità colorante e questo pare dovuto a un effetto adsorbente da parte dei raspi nei confronti degli antociani. Considerando l’evoluzione del colore grazie anche alla copigmentazione si è osservato come vini non sottoposti a diraspatura diano nel tempo vini più colorati, anche se inizialmente l’effetto è esattamente opposto.

In primis, arrivata in cantina, l’uva è sottoposta spesso a una pigia-diraspatura o viceversa a una diraspa-pigiatura. Considerando che i tannini localizzati nei raspi sono a forte potere astringente e quindi i meno nobili, l’utilizzo di pigiadiraspatrice ha come rischio principale quello che i raspi siano schiacciati e quindi rilascino succo vacuolare amaro e astringente. Compiendo invece una diraspa-pigiatura non s’incorre in questo spiacevole inconveniente ma si rischia di aver una minor resa causata da una perdita di prodotto in fase di diraspatura; ovviamente non è condizione del tutto necessaria e difatti in alcuni casi questo passaggio viene eliminato come ad esempio quando s’intende effettuare una macerazione carbonica, in cui l’integrità del grappolo è fondamentale.

Macerazione. Operazione di dissoluzione nella parte liquida dei composti localizzati nelle parti solide dell’uva ottenuta per rottura degli acini durante la pigiatura. La fase fondamentale di una vinificazione in rosso è la cosiddetta macerazione; essa apporta fondamentalmente composti fenolici per struttura e colore del nostro prodotto finale oltre che per quanto riguarda la componente aromatica e altre importanti sostanze. Come abbiamo visto in precedenza nel grappolo si ha una vasta gamma di tannini ognuno con un “sapore” proprio, i quali si localizzano in determinati siti. Lo scopo della macerazione è quindi quello di far si che vengano estratti i componenti migliori per aroma, sapore e struttura cercando di non far passare nel prodotto sostanza con nota vegetale, amara, erbacea ecc.

I Fattori coinvolti sono molteplici: il tempo, maggiore è il tempo di contatto, maggiore è l’estrazione; la temperatura, più è alta, più si contribuisce all’estrazione; il contatto liquido-solido, più lungo è il contatto, piu alta è l’estrazione; l’anidride solforosa, dosi eccessive decolorano, dosi mirate hanno azione estrattiva; l’alcol, più siamo in presenza di alcol e maggiore sarà l’estrazione tannica in quanto l’alcol è per natura un solvente; infine l’enzimaggio, termine un po’ curioso ma che in sostanza ci suggerisce che con l’aggiunta di enzimi macerativi si aumenta l’estrazione del colore e dei tannini.

Ci sono varie tecniche di macerazione che si differenziano sostanzialmente per epoca (pre-fermentativa, fermentativa, post-fermentativa), temperatura, durata che contribuiscono all’estrazione del tannino. Tra queste è bene ricordare:

Macerazione Pre-Fermentativa a freddo (MPF). Questa tecnica consiste nel ritardare l’avvio della fermentazione dei mosti rossi per un tempo variabile dall’una alle due settimane. Essa si basa sul principio di raffreddamento del pigiato (una forma più elaborata prevede il raffreddamento attraverso CO2 liquida o neve carbonica) in modo tale da favorire, attraverso lo choc termico, la rottura delle cellule e la liberazione di succo molto tintoreo. Si ottiene quindi un’estrazione che privilegia il colore attenuando l’estrazione della componente tannica. Dopo questo primo periodo di estrazione a freddo la temperatura viene riportata a livelli idonei per l’inizio della classica fermentazione in rosso.

Macerazione Post-Fermentativa. E’ di solito riservata ai vini destinati a un lungo invecchiamento poiché ha lo scopo di estrarre i tannini dei vinaccioli che andranno con il tempo a interagire con altre sostanze contribuendo alla rotondità del vino. La macerazione è accompagnata spesso da rimontaggi che favoriscono l’aerazione del mezzo e un continuo contatto tra vinacce e parte liquida omogeneizzando la massa.

Macerazione Carbonica. Viene utilizzata frequentemente per vini di pronta beva come i Novelli ma non solo, favorisce la degradazione dei tessuti vegetali; i composti fenolici, antociani e sostanze azotate diffondono più velocemente dalla buccia. L’estrazione di tannini e dei pigmenti polimerici è minore rispetto alla vinificazione classica; ne consegue un vino con minore intensità colorante ma con una componente aromatica imponente. Le caratteristiche di questi vini sono generalmente:
• Colore vivace, non molto intenso;
• Profumo intenso e particolare (fruttato) di durata limitata;
• Tannicità e acidità fissa contenuta;
• Estratto secco non elevato;
• Morbidezza e rotondità di gusto.

Fase di affinamento in legno. In questa fase entrano in gioco un altro tipo di tannini, i tannini idrolizzabili, derivanti dal legno (botti o surrogati). Essi possiedono molti gruppi ossidrilici (OH) suscettibili a essere ossidati e quindi hanno un forte potere antiossidante nei confronti di altri composti presenti nel mezzo. Fanno parte di questa categoria i tannini ellagici e i tannini gallici poiché idrolizzati liberano rispettivamente acido ellagico e gallico. I tannini svolgono anche varie funzioni secondarie tra le quali:
– Combinazione con le proteine;
– Combinazione con i polisaccaridi: questo legame comporta una diminuzione dell’aggressività dei tannini interferendo nel legame sopraccitato tannini-proteine salivari e conferendo quindi una maggior morbidezza al prodotto;
– Polimerizzazione;
– Chelazione dei metalli eliminandoli dal mezzo;
– Condensazione: uno dei fenomeni più complessi a cui partecipano i tannini è la condensazione con gli antociani (frazione colorante).

Tannini aggiunti. Oggigiorno esistono in commercio innumerevoli preparati di tannini ognuno con uno scopo preciso, in base alla composizione (siano essi tannini di vinaccioli, bucce, ellagici, di quercia, castagno, di the, di limone, da mimosa, di tara, di galla, di quebracho, di frutti rossi, di rovere, ecc) e al momento in cui questi vengono aggiunti al vino.

In linea del tutto generale si può dire che sia per la stabilizzazione proteica sia per la protezione del colore siano preferibili i tannini proantocianidinici mentre per quanto concerne il loro potere antiossidante siano più indicati i tannini idrolizzabili.

In conclusione, ripensando alla componente polifenolica del vino che viene condizionata da fattori quali il vitigno, le caratteristiche pedoclimatiche del luogo di coltivazione e le tecniche di coltivazione, vinificazione, invecchiamento e/o conservazione applicate ci viene da fare un’ultima considerazione: che senso ha eliminare i vinaccioli dalla macerazione e poi dopo aggiungere tannini da vinacciolo di un’altra varietà? Che senso ha la pressatura soffice per eliminare immediatamente le bucce e poi dopo aggiungere tannini di buccia estratti da vinacce fresche, ad esempio di Chardonnay? Che senso ha quindi aggiungere, più in generale, se la miglior cosa da fare appare essere togliere?

Togliere e non mettere quindi, questo dovrebbe essere il motto, o meglio lavorare con i buoni propositi di preservare quanto di meglio ci sta nel frutto, a partire da una materia prima sana ed eccellente, figlia di una viticoltura di precisione, per grazia di Dio di una buona annata e di un’enologia non necessariamente sottrattiva a causa di chiarifiche o filtrazioni spinte, senz’altro non additiva ma bensì conservativa di tutto quanto di buono naturale vi è nell’uva e che dovremmo ritrovarci poi nel nostro bicchiere di vino!

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

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L’Aglianico, l’effetto elastico e il Taurasi 2007 di Michele Perillo

1 febbraio 2019

Torniamo a raccontare di un grande vitigno del Sud, l’Aglianico, varietale che dona vini meravigliosi ma che continua a soffrire una sorta di effetto elastico su troppi appassionati. Di certo non manca (quasi) mai di stupire, appassionare, conquistare, come nel caso di questo splendido Taurasi che ha fatto letteralmente breccia nei nostri cuori, piccolo capolavoro di espressività ed equilibrio.

Ad ogni assaggio nella stragrande maggioranza dei casi si susseguono sensazioni molto positive e grande piacere gustativo che si muovono con molta intensità, con chiare manovre di avvicinamento seguite da profonda devozione, poi un repentino allontanamento, quindi ci si riavvicina nuovamente. Alcune volte manco ce ne accorgiamo eppure, a pensarci bene, un po’ tutti seguiamo questo alternarsi di emozioni con l’Aglianico e il Taurasi, vino tra le sue massime espressioni, in modo del tutto naturale ed istintivo. Non che vi siano dubbi sulla passione e sull’amore per questo varietale e per questi vini, ogni tanto però è come se fosse necessario allontanarsene per sentirne la mancanza, mettere distanza per poi colmarla.

Chi ama gli almanacchi e sa ricercare il buono in bottiglia conosce molto bene Michele Perillo, un po’ per la sua Coda di Volpe, un bianco anacronistico ma sempre avvincente, un po’ per la sua profonda dedizione alla valorizzazione dell’Aglianico in quel di Castelfranci che raggiunge picchi di espressività assoluta, tra gli altri, proprio con questa etichetta qui, annata duemilasette, un millesimo se vogliamo eterogeneo che ha però tratteggiato in qualche caso Taurasi di incredibile pienezza e complessità senza sovrastrutture inutili fini a se stesse; da queste parti poi il particolare microclima dell’areale contribuisce non poco a favorire raccolti con uve pienamente mature con buono equilibrio in zuccheri, composti fenolici, acidi e sostanze minerali capaci di dare vini di nerbo, sostanza e in grado di sfidare il tempo.

L’azienda conta sostanzialmente su cinque ettari di vigneto piantati perlopiù tra Contrada Baiano e Contrada Valle a Castelfranci – qui le altitudini arrivano sino ai 500 metri s.l.m. -, dove ha sede anche la cantina, e nel comprensorio del vicino comune di Montemarano, altro luogo d’elezione per questo straordinario vitigno. L’areale rientra geograficamente in quello che abbiamo imparato a conoscere come il Versante Sud/Alta Valle del comprensorio della docg Taurasi. In sede di vinificazione non vi sono particolari protocolli prestabiliti, è la sensibilità del vigneron che regna sovrana sulle scelte che si fanno in cantina soprattutto in funzione degli andamenti climatici registrati, in questo caso il vino ha passato circa due anni in legno tra botte grande da 20 hl e barriques di terzo e quarto passaggio.

A distanza di poco più di 11 anni il colore è uno splendido rubino concentrato, il naso è fitto, subito caratterizzato da sentori di viola, ciliegia sotto spirito, pepe, lentamente vengono fuori toni più scuri, accenni balsamici e nuances di tabacco e spezie dolci. Il sorso è graffiante, ha tannino di carattere ma ben fuso con il corpo del vino, si distende agile e fine e tira dritto regalando un finale di bocca piacevolissimo e polposo. Altro che effetto elastico, verrebbe da dire!

Leggi anche A proposito dell’Aglianico e del Taurasi Qui.

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Comfort Wines, ad esempio il Fidelis di Cantina del Taburno e il Rubrato di Feudi di San Gregorio

22 gennaio 2019

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Irpinia Aglianico Rubrato 2017 Feudi di San Gregorio - foto l'Arcante

Ne abbiamo già scritto qui, sono generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, alcuni vini che lentamente, anno dopo anno, sono letteralmente entrati a far parte della vita quotidiana di appassionati e non. 

Due esempi a noi molto cari sono il Rubrato di Feudi di San Gregorio e il Fidelis di Cantina del Taburno, entrati con pieno merito nella quotidianità dell’appassionato che oggi fa la spesa al supermercato, domani magari va ospite a pranzo a casa di amici, al sabato sera gli tocca scegliere il vino al Wine Bar oppure al Ristorante. Due nomi che vanno ben oltre la rappresentazione dell’azienda stessa che li produce, qualcuno lo ricorderà ma non di rado sono stati percepiti addirittura come una denominazione a se stante mentre per molti, possiamo dirlo senza temere smentita, continuano ad essere un investimento sicuro, moneta sonante per far girare velocemente la cantina.  

Il Rubrato viene prodotto ininterrottamente dal 1994, un Best Seller che ha pochi eguali in Campania dove continua a registrare i numeri più importanti tanto sul mercato Ho.Re.Ca quanto su quello della Grande Distribuzione Organizzata, oggi ribattezzata ”Canale Moderno”. Un rosso da uve Aglianico sempre all’avanguardia, dal colore vivace, franco ed espressivo al naso come al palato, dal sorso preciso e immediato come questo duemiladiciassette, un classico passpartout per entrare nelle corde di chi volge i primi passi con il vino, l’abbinamento cibo-vino o mostra le prime attenzioni ai varietali tradizionali dell’entroterra campano rifuggendo però dalle astringenze classiche dell’Aglianico.     

Aglianico del Taburno Fidelis 2015 Cantina del Taburno - foto l'Arcante

Alla stessa maniera dobbiamo dire del Fidelis di Cantina del Taburno, altro campione di vendite che ci accompagna praticamente da sempre. Se ne imbottigliano mediamente circa 150.000 bottiglie l’anno, anche qui Aglianico ma di provenienza dell’areale del Taburno; il vino base fa fermentazione malolattica in botti grandi da 50 e 100hl e quindi viene lasciato affinare in barriques generalmente di secondo e terzo passaggio. Venduto in larga parte in GDO non manca però quasi mai nelle migliori carte dei vini di Ristoranti e locali che hanno a cuore una scelta mirata di vini da proporre soprattutto al bicchiere.

Siamo rimasti piacevolmente soddisfatti da questo duemilaquindici, un rosso dal colore rubino e dai profumi gradevolissimi di piccoli frutti neri, dal naso ampio che ricorda toni scuri di grafite e sottobosco, finanche di tabacco. Il sorso è asciutto e profondo, il lungo percorso di affinamento lo alleggerisce dalle austerità caratteristiche dell’aglianico di queste terre beneventane consegnandogli però buon equilibrio e tipicità, unite a vivacità gustativa e piacevole persistenza.

Leggi anche Comfort Wines, most unwanted Qui.

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TREBICCHIERI® 2019, premiato il Taurasi Riserva Piano di Montevergine 2013

10 ottobre 2018

Piano di Montevergine Taurasi Riserva

C’è, oltre al presente, una storia personale molto forte che ci lega a questa etichetta e all’azienda, storia che ha radici antiche e ben salde. Le prime grandi bottiglie che abbiamo stappato e raccontato sono state di Taurasi¤ docg, e se ci siamo appassionati a questo straordinario vino un po’ è anche merito del Piano di Montevergine di Feudi di San Gregorio, da sempre tra i migliori rossi campani e grande ambasciatore dell’Aglianico nel mondo.

Alcune sue splendide uscite sono impresse negli annali e ricordate perché capaci, come e più di altre bottiglie, di attraversare il tempo e raccontare in maniera autentica e profonda il grande territorio Irpino.

Vini che anche nelle annate più austere sanno esprimere complessità e vivacità organolettica, sostanza e finezza sorprendenti. Vieppiù per un duemilatredici tutto da incorniciare, che dopo il Taurasi ”base” premiato l’anno scorso coglie nuovamente il TreBicchieri®¤ con il Piano di Montevergine Riserva 2013. Ad Maiora Semper!!

Leggi anche Piano di Montevergine Taurasi Riserva 2004¤

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Boscotrecase, giovane e di belle speranze il Lacryma Christi rosso 2015 di Cantine Matrone

19 Maggio 2016

Una piccolissima produzione di un bianco ed un rosso dal Vesuvio che si farebbe bene nel seguire con attenzione nel prossimo futuro.

 Lacryma Christi del Vesuvio rosso 2015 Territorio De' Matroni - foto L'Arcante

Nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio¤ i cugini Andrea e Francesco Matrone¤ hanno ripreso a coltivare la vigna del “Territorio de’ Matroni”¤. Poco più di due ettari per cinquemila bottiglie in tutto, un Lacryma bianco e un Lacryma rosso. 

Il bianco 2015 ha una buona forgia, è cristallino, tenue e fine al naso, forse un poco impreciso sul finire di bocca che pare insistere sulla mandorla amara. Ha però una buona profondità e corpo. Da uve caprettone, falanghina, greco e altre varietà vesuviane. Val bene aspettarlo magari in annate meno generose.

Più di una segnalazione merita invece il Lacryma Christi rosso 2015, perlopiù piedirosso con un saldo di aglianico e sciascinoso. Appena stappato, l’approccio soffre un po’ il legno (tonneau), lo cogli al primo naso e ai primi sorsi ma alla distanza viene fuori invece un bel rosso invitante e sbarazzino, dal naso intenso, ricco di frutto e rimandi balsamici. Il sorso è goloso, polputo, fresco e sapido, avvolgente e significativo. Una piacevole scoperta, giovane e di belle speranze!

L’Arcante raccomanda di servire questa tipologia di vini con Fresh¤, il nuovo seau a glace di Nando Salemme.

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Taurasi Vigna Andrea 2002 Romano Clelia, l’altra splendida faccia della medaglia dei Colli di Lapio

6 settembre 2014

A proposito di aglianico e Taurasi cominciano a venire fuori spunti sempre molto interessanti anche dalle piccole cantine sparse qua e là in Irpinia.

Taurasi Vigna Andrea 2002 Colli di Lapio Romano Clelia - foto L'Arcante

Grazie all’esperienza magistrale della famiglia Mastroberardino¤ sappiamo di poter contare su grandi bottiglie e siamo convinti, più o meno tutti definitivamente, del grande valore dell’aglianico e del Taurasi, vino che attraversa il tempo con lentezza senza cedere però un solo grammo di personalità ed autenticità. Anzi.

Una sicurezza talvolta vacillata dinanzi a bottiglie un poco fuorvianti, sono piene le cronache di Anteprime¤ dove gli assaggi spesso rivelavano puntualmente mani poco esperte se non addirittura un eccesso di sicurezza sfociato però in bottiglie banali senz’anima e futuro. Vi è tuttavia una schiera di produttori di riferimento ormai consolidata ed affidabile, per storia, tradizione, capacità, impronta: Colli di Lapio¤ ad esempio.

Il fiano di Avellino¤ di Clelia Romano ce l’abbiamo tutti sulla bocca, da almeno tre lustri tra i più autentici e fedeli rappresentanti di questo meraviglioso bianco ma soprattutto del terroir lapiano. Non tutti sanno però che queste terre, oggi gettonatissime per il fiano un tempo erano perlopiù votate all’aglianico che ricopriva buona parte della superficie vitata dell’area prima di venire lentamente soppiantato dal fiano, che aveva, con il greco di Tufo, più appeal e mercato soprattutto sul vicino mercato napoletano.

Lapio terra di Taurasi quindi. L’altitudine, il suolo argilloso, le escursioni termiche, elementi fondamentali che uniti alla tradizione familiare ed alla capacità di un grande enologo esperto come Angelo Pizzi hanno consegnato agli annali sempre buone bottiglie di rosso; certo vini austeri, da aspettare, caratterizzati da grande tensione gustativa più che piacevolezza del frutto, per questo forse un po’ fuori tema soprattutto con certe mode e tendenze contemporanee.

Il tempo però riequilibra tutto, rende onore alle scelte, premia la lungimiranza, esalta il manico; così anche in annate ‘minori’ consente di tirare fuori il meglio. Un Taurasi il 2002 di Colli di Lapio dove a predominare è la terra, le note balsamiche, la liquirizia, la menta. Il sorso è teso, carico di energia ma senza ammiccamenti, non una piega, elegante e severo. Il frutto è un po’ diluito ma rimane di grande eleganza, anima autentica, con la tipica chiusura sferzante amarognola dell’aglianico sul finale di bocca. Sospeso nel tempo, ce ne fossero di bottiglie così!

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Questione di etichetta

20 aprile 2014

Un caro amico enologo in viaggio studio in Portogallo scrive sulla sua bacheca Facebook di sentirsi sorpreso (ed orgoglioso) che una delle etichette più prestigiose di Graham’s Port si chiami ‘Quinta do Vesuvio¤‘, con un chiaro riferimento al ‘nostro’ vulcano napoletano.

Etna Rosso Planeta

Da qualche tempo prego insistentemente molti amici produttori di vino di crescere da un punto di vista della comunicazione e di sganciarsi definitivamente dall’idea che duemila anni di storia bastino da soli per continuare a vendere vino. Il mercato è in continua evoluzione, una metamorfosi costante ed imprevedibile, non ultimo, in piena crisi di consumi e fatturati. Per un certo segmento più che in altri.Etna rosso I Vigneri

Alcune aziende, un po’ ovunque in Italia, forti della loro struttura per far fronte a questi cambiamenti hanno fatto investimenti importanti per diversificare la propria offerta; un esempio lampante può essere per tutti il fenomeno nero d’Avola in Sicilia, di molto ridimensionatosi in poco meno di un decennio a favore di una crescita esponenziale dei vini dell’Etna. Qui, dacché erano in tre/quattro a fare vino sono arrivati un po’ tutti¤ e non solo dalla stessa Sicilia.

Contrade dell'Etna

Stiamo parlando chiaramente di grandi vini, tra l’altro a prezzi sostanzialmente di segmento medio alto, vini di cui rimango ogni volta conquistato. Così, senza entrare nel merito della questione qualitativa, ritornando allo stato del mio amico, mi sono tornate in mente quante riflessioni proprio con lui abbiamo speso sulla necessità che un territorio – più che un vino – debba saper emergere grazie al lavoro di valorizzazione di tutta una serie di aziende e non per la singola capacità individuale nel riuscire ad imporre una etichetta o un modello.

Inutile ricordare che è stato così a Barolo e Barbaresco, a Montalcino, in parte anche a Bolgheri, per non parlare – ancora una volta – di quanto fatto oltralpe dai cugini francesi.

Lacryma Christi Vigna del Vulcano Villa Dora

Venendo al dunque, non mi stupisce affatto che Donna Antónia Adelaide Ferreira sia rimasta folgorata dal nostro Vesuvio tanto da dedicargli una delle sue più prestigiose tenute, come non mi fa specie che in poco meno di un decennnio i vini dell’Etna vanno affermandosi come ‘Vini del Vulcano’ grazie anche ad una grande intelligenza comunicativa messa in campo.

E invece quelli universalmente riconosciuti dalla storia come tali, quelli del ‘nostro’ Vesuvio per intenderci, faticano ad imporsi nonostante una capacità produttiva soddisfacente ed una domanda mai sopita tant’è che vede impegnati, seppur a fasi alterne, anche i grandi marchi di casa nostra che girano milioni di bottiglie in tutto il mondo.

Lacryma Christi del Vesuvio rosso Mastroberardino

In breve, mentre qui ci si perde tra chi fa prima e chi è meglio temo stiamo rischiando veramente di non essere nemmeno più riconosciuti per quel tratto d’orizzonte che affascina da sempre milioni di appassionati in tutto il mondo. Di questo prima o poi dovremmo cominciare a discuterne. Anche perché se aspettiamo che a renderne conto siano le istituzioni hai voglia di aspettare…

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Taurasi Contrade di Taurasi 2001 Cantine Lonardo

15 gennaio 2014

Chi segue queste pagine e lucianopignataro.it¤ ricorderà quando scrissi del Taurasi Contrade di Taurasi 2001 messo a confronto con un’altro grande rosso italiano, il Barolo Runcot 2001 di Elio Grasso.

Taurasi 2001 Cantine Lonardo - foto L'Arcante

Di quello scritto val bene ricordare qualche passaggio: anzitutto che siamo proprio nel cuore del paese omonimo che dà il nome alla docg, a circa 400 metri d’altitudine dove le vigne, parte impiantate a guyot (le più giovani hanno in media 20 anni) e parte, quelle vecchie di 50 e più anni con ancora il tradizionale “starseto” taurasino, insistono su terreni di chiara origine vulcanica frammisti ad argilla e sedimenti calcarei. La poca uva raccolta, una sessantina di quintali in tutto quell’anno, è rimasta in macerazione per più di un mese, poi il vino ha fatto circa 2 anni in tonneau, quindi in bottiglia per almeno 12 mesi; senza trattamenti, stabilizzazioni e filtrazione.

Qualche giorno fa, a distanza di due anni, ci sono tornato su senza indugio. Il colore tiene botta, sono solo un po’ più accentuate quelle sfumature granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso conserva ancora tanta verve unendo a un buon frutto tante piccole nuances di sottobosco, frutta secca, tabacco e pepe in grani.

Pure il sorso non ha ceduto di un millimetro, puro e arcigno, ancora ruvido ma di piena soddisfazione; quel tannino lì, così fitto sembra inamovibile, asciugante quasi. Al momento di stapparlo ricordate che è un vino non filtrato, se preferite tenetelo pure in bottiglia avendo però buona cura nel versarlo, tuttavia credo opportuno decantarlo con attenzione. Dispiace infatti dover rimettere al tempo quasi due dita di vino a causa di un deposito abbastanza consistente. A dirla tutta però, pagare pegno non è mai stato così piacevole.

Serpico 2001 (magnum) dei Feudi di San Gregorio

1 gennaio 2014

Pochi vini campani sanno essere evocativi di una così antica tradizione ma al contempo moderni e capaci di attraversare i nostri giorni con la stessa forza del Serpico dei Feudi di San Gregorio¤.

Irpinia Aglianico Serpico 2001 Feudi di San Gregorio - foto A. Di Costanzo

Negli ultimi dieci anni, da che ho memoria degli assaggi in maniera diciamo così un po’ più rilevante, ricordo pochissimi passaggi minori – forse solo uno, il 2003, ça va sans dire – di questo splendido aglianico da vigne vecchie del comprensorio taurasino. Per il resto, vini sempre centrati, autentici e dal profilo organolettico preciso, di fine struttura, ossuti e tesi e di grande prospettiva.

In effetti il Serpico¤ io l’ho veduto sempre un po’ così, fuori dalla mischia, da quella lotta compulsiva che soprattutto negli anni duemila ha visto l’azienda al centro di un vero boom che non gli ha risparmiato una vera e propria lotta di quartiere in quartiere per conquistare quote mercato. Una crescita non priva di fraintendimenti, certo, eppure Feudi, come poche altre aziende in Italia, nonostante grandi numeri, vanta un buon numero di vini, al di là di Diplomi e Coccarde varie, capaci di sorprendere a distanza anche di parecchi anni. Come ad esempio questo.

Nel mezzo, o frattanto, tanti anni di ricerca e studio che sono serviti a far quadrare il cerchio o perlomeno a selezionare il migliore aglianico¤, in parte da vigne centenarie, misurare l’affinamento più o meno ideale per consegnare ai bicchieri vini sempre più espressivi di un varietale ed un territorio che, non mi stancherò mai di ripeterlo, non hanno assolutamente nulla da invidiare agli altri ‘grandi’ italiani.

Duemilauno, magnum, 12 anni, ad avercene. Preciso il colore rubino appena sgranato sull’unghia del vino nel bicchiere e bene il primo naso, speziato e balsamico. Il tempo nel decanter gli dà slancio e spazio: prugna e liquirizia, pepe e cioccolato, tabacco e sottobosco. Tannino sottile e ancora frutto sul finale di bocca. Il sorso si fa agile e carezzevole, le papille ringraziano. Io pure.

Aglianico del Vulture Il Repertorio 2010 Cantine del Notaio, si fa molto presto a dire buono…

20 dicembre 2013

Altro ‘porto sicuro’ per gli appassionati è Il Repertorio di Gerardo Giuratrabocchetti, ormai a pieno titolo tra i grandi classici vulturini.

Aglianico del Vulture Il Repertorio 2010 Cantine del Notaio - foto L'Arcante

Torno con grande piacere a scrivere di Cantine del Notaio folgorato da questo 2010 davvero impeccabile, di grande piacevolezza ma anche ricco di complessità e profondità.

Se le annate passate sembravano avere bisogno di un po’ più di tempo per sbocciare e rivelarsi a pieno, qui tutto appare molto chiaro e godibile sin da ora e con significativo equilibrio.

È un rosso di considerevole vitalità già al naso, dove emerge perentorio il varietale in tutta la sua franchezza: sa di prugna e amarena, con rimandi balsamici che si fanno poi di succosa liquirizia; quindi, in bocca, si allunga conciso e saporito ad ogni sorso.

Incanta questo aglianico, ha struttura ma anche armonia, figlio di un’annata buona ma non indimenticabile pare invece baciato dalla sapiente interpretazione che vive, è proprio caso di dirlo, dell’esperienza ormai quasi ventennale del connubio Giuratrabocchetti-Moio.

© L’Arcante – riproduzione riservata

A proposito dell’aglianico e del Taurasi

17 dicembre 2013

È assai piacevole bere con Nando, con lui si aprono continuamente nuovi fronti di discussione interessanti. Non ultimo quello su quanto si stia gestendo male (secondo lui) l’anima più pura di uno dei più grandi vitigni italiani, l’aglianico, costantemente in balìa di pittoresche rappresentazioni ed interpretazioni ad uso e consumo di un mercato a dir poco strampalato (secondo me) e produttori sempre più confusi (secondo entrambi).

Nando Salemme, patron dell'Abraxas Osteria - foto A. Di Costanzo

La goccia (di vino) che ha fatto traboccare il vaso è stata versata sul confronto su due bottiglie 2008, un aglianico per così dire base ed un Taurasi, entrambe dello stesso produttore. Il primo vino, per quanto buono correva sul fil di lana: assai etereo, maturo, risoluto, buono ma praticamente arrivato. Il secondo, manco a dirlo, con ancora tanta strada da fare, succoso, balsamico, speziato, nerboruto: il grande rosso che ci aspettavamo insomma.

Fin qui tutto possibile se non per il fatto che il primo è ancora in listino (praticamente da tre anni) e proposto come vino d’annata, l’entry level per capirci. Scelta aziendale? Opinabile, o più semplicemente vino invenduto, con le annate successive vendute magari tutte o in parte sfuse per ovviare ai costi di gestione. Boh, però qui mi fermo perché le ragioni di una scelta del genere ha mille risvolti che poco interessano alla discussione. Almeno per ora.

Mi preoccupa, ci preoccupa invece, il fatto che in molti soprattutto tra i piccoli produttori irpini di cui ci siamo innamorati in questi anni stiano sistematicamente rinunciando a dare spazio ai loro vini base puntando quasi esclusivamente a fare vini ‘top gamma’ da lungo invecchiamento abbandonando un poco alla volta la produzione di aglianico destinato ad un consumo più immediato. Che tra l’altro è quello che maggiormente ha contribuito alla loro iniziale crescita economica nonché a conquistare appassionati e professionisti proprio come il nostro buon Nando.

Aggiungo il pericolo di un’omologazione verso il basso, invero già palpabile laddove non c’è quell’esperienza necessaria per gestire il vitigno ed il vino per una produzione proiettata nel tempo, evidenza ogni anno abbastanza palese nelle numerose degustazioni all’Anteprima Taurasi. Non ultimo lo smarrimento evidente che ci prende un po’ a tutti davanti a certi bicchieri dove a dominare dovrebbe essere l’uva, magari con l’anima, la scienza e la bravura di chi la lavora e non certo il tempo.

Abbiamo già assistito al fallimento istituzionale della genialata della Campi Taurasini che ha, d’un colpo, fatto lievitare il prezzo delle bottiglie dei secondi e terzi vini di alcuni produttori facendole praticamente scomparire dal mercato, un suicidio che unito alla crisi le ha letteralmente tagliate fuori dalle tavole soprattutto in quei locali dove meglio funzionavano, cioè Winebar ed Osterie tout court con una cucina all’altezza, posti ben frequentati da una clientela magari meno danarosa ma molto disponibile a lasciarsi consigliare. Insomma miei cari vignaioli irpini, su, un po’ più di coraggio, un’altro (secondo) aglianico è possibile!

Stanno tutti bene, più o meno

15 dicembre 2013

C’è un tale crescente interesse sui vini campani che è proprio il caso di dire che non si è più figli di un Bacco minore, anzi. Attenzione certificata da molti critici autorevoli che hanno preso a scrivere con una certa continuità e non più solo di Taurasi o fiano di Avellino dei più blasonati ma anche di etichette per così dire ‘minori’ tipo Piedirosso o Barbera del Sannio piuttosto che Falanghina.

Una tendenza seguita dalle migliori Guide ai Vini che mai come negli ultimi tempi battono forte da queste parti scoprendo tante belle e nuove realtà all’altezza della situazione. Non ultimo dalla soddisfazione di trovare nelle carte dei vini in giro per l’Italia qualche buona etichetta ‘fuori dai soliti giri’ che assieme raccontano tanti piccoli spaccati della nostra amata terra.

Grande merito va anzitutto a chi da sempre racconta e tesse le lodi di una viticoltura preziosa che aveva solo bisogno di un po’ più di fiducia e di un maggiore confronto per imporre le sue indubbie qualità. Ma anche e soprattutto a quei produttori che ci hanno creduto in questo percorso che definire ‘ad ostacoli’ tra i provincialismi e la burocrazia che li circonda è veramente dir poco.

Eppure non stanno proprio tutti bene. Questi due mesi sono stato poco in giro, ovvero meno di quanto sono solito fare eppure anche le poche voci raccolte qua e là mi sembrano assai meno rassicuranti di quanto invece invitino a fare le svariate carrellate fotografiche di premi e riconoscimenti che impazzano un po’ ovunque sul web o nelle stanze di rappresentanza.

In Campania, le poche grandi aziende (per dimensione e fatturati) si difendono – ma ancora per quanto tempo potranno farlo? – perché hanno le spalle belle larghe ma l’aggressività con cui si affrontano ‘tra loro’ soprattutto nella Grande Distribuzione va creando precedenti assai pericolosi. Le aziende medio grandi, diciamo quelle già sopra le 150.000 bottiglie soffrono maledettamente, hanno grandi qualità e un buon marchio ma non hanno più tanta liquidità di cassa, il che gli limita soprattutto la capacità di puntare quei nuovi mercati su cui si è potuto fare poco o nulla visti gli altissimi costi promozionali limitandosi ad un’approccio puramente esplorativo.

Sembrano cavarsela così così le piccoline, un po’ meglio quelle con una dimensione unifamiliare e ancor più quando specializzate nella produzione di due o tre vini al massimo. Qui però si sta ponendo un’altro problema, la montante mancanza di fiducia nella ripresa del mercato italiano (e locale) sempre più alla ricerca ‘del prezzo’, una vera martellata sui denti per le piccole aziende, soprattutto laddove di tanto in tanto strappano un buon contratto di un paio d’anni con qualche importatore (che negli states qualcosa si muove). Accade quindi che si sentono al sicuro, fanno spallucce e vanno per la loro strada ma finiscono praticamente in un limbo, pienamente nelle sue mani, dell’importatore intendo. Mi spiego: se questi per qualche ragione salta – non mancano esempi, ndr -, gli salta il 60/70% del fatturato di un anno.

Insomma, ha una fragilità tutta questa situazione che spero non vada sottovalutata e faccia riflettere in molti e far sì che si guardi tutti nella stessa direzione. Comprese le istituzioni che come sempre appaiono assenti quando non distratte e contente – loro si – solo in occasione dell’ennesimo taglio di nastro. La notorietà si sa è un bel treno, ma ogni locomotiva che si rispetti ha bisogno di binari sicuri e soprattutto di una destinazione certa. Altrimenti va a finire che stiamo tutti perdendo tempo.

I love Falernum|Falerno del Massico rosso Etichetta Bronzo 2010 Masseria Felicia

22 agosto 2013

C’è una sorta di tristezza di fondo, forse inconsapevole, che ci porta talvolta a vivere un vino passivamente, starcene lì senza prendere iniziativa, adattandosi a quello che viene con la convinzione che è lui – il bicchiere – a dover fare il primo passo. Vero o no?

Falerno del Massico Rosso Etichetta Bronzo 2010 Masseria Felicia

E’ un po’ come quel desiderio che da là, in fondo all’anima, vuole emergere ma non desidera mostrarsi: c’è la paura di sbagliare, di vivere un momento come non si è mai avuto, o più semplicemente non ci si sente all’altezza. C’è riverenza e rispetto. Ma soprattutto aspettativa.

E dinanzi all’Etichetta Bronzo¤ 2010 di Maria Felicia è un po’ così, adesso. Un gioco a mostrarsi poco o niente, senza esporsi, sottotraccia; in fondo è tutto così in divenire, e ogni volta è sempre così, parti convinto di saper dove mettere le mani, da dove cominciare e invece no, ti sbagliavi: ti odio Maria Felicia Brini¤!

C’è un continuo stato di transitorietà e di tumulto interno nei tuoi vini, tutto fatto, secondo me, nella negazione del tempo che passa. Ti rivolgi spudoratamente con languore verso un passato immaginifico lanciandoti a scavezzacollo in un futuro idilliaco, fuori dal tempo, impossibile da stabilire nel presente. Sei unica! T’amo Falerno del Massico Etichetta Bronzo!

Aglianico del Vulture Teodosio ’02 Basilisco. O di quando piove e il vino, con l’acqua, non si fa…

6 luglio 2013

Quante volte ve l’hanno detto che l’annata 2002 è stata piovosa e che i vini di quell’anno non sono un granché?. Quante volte l’avete sentito dire o letto in giro? Come pure che, nel 2003, al contrario, l’annata molto calda, caldissima ha dato vini tutti cotti dal sole buoni solo da spalmare sulle fette a colazione?

Aglianico del Vulture Teodosio 2002 Basilisco

Ecco, come si dice: l’Italia è un paese di Santi, Navigatori e… grandi degustatori! Eppure il vino, certi vini come questo, sono capaci di metterci a nudo come più di una predica alla domenica in chiesa e a volte più di un temporale in piena estate.

Nulla da dire sulla piovosità del 2002, proprio io quell’anno compravo per la prima volta una Nuova Vespa che ho poi subito rivenduto ai primi di settembre: tanta acqua non l’ho mai più presa in vita mia. Però qua la differenza sta tutta nell’uva e in quella terra straordinaria che è il Vulture. Nemmeno tanto nel manico del produttore, a quel tempo Michele Cutolo aveva appena cominciato e stava pieno di impicci da sistemare. Credo tra l’altro non avesse ancora nemmeno la cantina là a Barile.

Ma che vino il Teodosio 2002! Vivo, polposo, disteso. Il colore è perfetto, sul rubino appena sfumato. Il naso è dapprima tabaccoso, poi viene fuori tutta la freschezza dell’aglianico, la dolcezza della ciliegia, il balsamico della liquirizia, l’erbaceo secco e piacevolmente pungente. Il sorso è netto, spogliato del tutto del tannino ma ben dritto, caldo e avvolgente, succoso e lungo, fine, piacevolissimo. E’ nato proprio quell’anno al posto del primo vino di Basilisco, non prodotto. Una bella e profonda esperienza.