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Leo Cubans, l’aglianico di Giovanni Carlo Vesce che conquista al primo sorso!

5 luglio 2022

Aglianico, che magia! Proviamo a guardare a questo straordinario vitigno campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Questo non è il (breve) racconto della solita novità sul mercato, l’azienda agricola di Giovanni Carlo Vesce non nasce oggi, anzi, coltiva uva e produce vini da molte generazioni anche se per il solo consumo di famiglia. Fino alla metà del ‘900, infatti, i vigneti della famiglia Vesce sono stati coltivati da famiglie di contadini residenti sui diversi fondi, secondo gli usi e i costumi regolati dalla mezzadria e che non riguardava solo uva e vini, ma al tempo anche grano e tabacco risultavano attività molto fiorenti in questo areale collocato tra il Sannio, il Beneventano e la vicina Puglia. Due secoli dopo, la miseria, l’emigrazione e i danni provocati dalle grandi guerre, insieme alla caduta della mezzadria, hanno naturalmente cambiato radicalmente il sistema agricolo e sociale, senza disperdere però le radici e il valore della tradizione.

Si arriva quindi ai tempi d’oggi, proprio qui davanti a questo splendido aglianico Leo Cubans ventiventi, un’Irpinia doc Campi Taurasini proveniente da una vecchia vigna dell’antico cru della famiglia Vesce sito in contrada Cuorno, a Venticano, terreni vocatissimi perlopiù argillosi, sabbiosi, con sedimenti e coperture piroclastiche. Le uve sono state raccolte verso la fine di ottobre, spingendosi sin quasi a novembre, diraspate e immediatamente avviate alla fermentazione e alla sosta sulle bucce per circa 20 giorni. Tutto è finito poi prima in acciaio, quindi in bottiglia, senza alcuna filtrazione o altra ingerenza, niente legno. A questo giro ne sono venute fuori poco più di 2500 bottiglie di straordinaria suggestione.

Curiosa l’origine del nome di questa etichetta; le uve di questo rosso provengono sostanzialmente da quella che storicamente è conosciuta come ”piana del Cubante”, una terra che per molte generazioni ha fornito aglianico e coda di volpe di buonissima qualità sopravvissute alla devastante infestazione di filossera dell’800, proprio lungo la via Appia Antica che da Benevento conduceva a Brindisi. Cubante è una frazione del Comune di Calvi, in provincia di (BN), da qui il nome Leo Cubans, letteralmente ”leone che giace”, un toponimo antichissimo e suggestivo in quanto origina dal ritrovamento di un leone sdraiato, proprio lungo quel tratto della via Appia Antica teatro della battaglia fra Tiberio Sempronio Gracco ed il generale Annone (214 a.C.). Un’interpretazione di tale inspiegabile avvistamento ipotizza che il felino fosse sfuggito ai suoi trasportatori durante un trasferimento di fiere catturate in Africa verso il Circo Massimo o altro serraglio romano.

Ciò detto, siamo di fronte ad un rosso dalla forte identità territoriale, è un aglianico di 14,5 gradi di poderosa personalità ma al contempo di spiccata freschezza, un rosso avvenente, pieno di frutto, corposo, dal bellissimo colore rubino intenso, con numerose e piacevoli sensazioni odorose giustamente proporzionate, con sentori di viola e piccoli frutti neri sino a spezie, tabacco e liquirizia. Il sorso avvolge senza coprire, coinvolge senza strafare, regala una beva franca e accorta, soprattutto se si ha l’intelligenza di giocare (bene) con la temperatura di servizio, rinfrescandolo prima intorno ai 14 gradi poi via via un po’ più sbottonato sui 16 gradi, capace così di regalare un finale di bocca asciutto, lungo e persistente. Di quei vini assolutamente contemporanei di cui ti puoi innamorare al primo sorso!

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E’ già una pietra miliare il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2010

10 ottobre 2021

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Testimonianze preziose come questa rara bottiglia di Quintodecimo sono fondamentali per ribadire il principio che vado affermando da anni: il Taurasi è un grande vino che nulla ha da invidiare ai grandi rossi italiani e internazionali! Peraltro qui espresso con una chiave di lettura del terroir irpino antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario vino, tratteggiato da autentica territorialità, eleganza e finezza, alcuni tratti distintivi dei suoi vini irrinunciabili per Luigi Moio.

Fu quella un’annata abbastanza eterogenea in Irpinia, per alcuni produttori una delle loro migliori vendemmie anche per una variabile decisiva: le piogge abbondanti concentrate nella parte centrale di ottobre, per cui riuscirono a portare in cantina le migliori uve quelle aziende che riuscirono a raccogliere prima delle piogge, all’inizio di ottobre entro la metà del mese come in questo caso, oppure chi poté attendere la seconda metà di novembre; più in generale si è comunque trattato di un millesimo dall’impronta decisamente fresca. Vigna Quintodecimo proviene dalla vigna omonima della tenuta, la prima ad essere piantata nel 2001 dove il suolo è costituito perlopiù da rocce argillose, molto ricche in calcare, posta a circa 420 metri di altitudine con piena esposizione nord/ovest.

Un Taurasi duemiladieci questo, a più di dieci anni dalla vendemmia, appena avviato sulla sua strada della maturità, incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino, netto, vivido e luminoso, appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso si apre subito come un ventaglio dapprima balsamico ed intrigante, poi intenso, fine e complesso; si va da piccoli frutti rossi e neri, a riconoscimenti di fiori passiti, spezie fini, cuoio, radici e sottobosco, in un insieme persuasivo e convincente al tempo stesso; il sorso fresco e teso fa il resto, pieno di vigore fruttato e infine ancora balsamico, regala una bevuta dal nerbo misurato e appagante. Una vera pietra miliare!

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Taurasi Riserva B. M. 2009 Joaquin Avellino

29 Maggio 2021

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, in grado certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Vieppiù tocca farlo con bottiglie suggestive ed evocative come queste, prodotta da Joaquin Avellino, l’azienda Madre di Raffaele Pagano che a suo tempo immaginò, con le straordinarie uve Aglianico provenienti dalle vigne vecchie di Paternopoli, un rosso di tale intensità e longevità; siamo sul Versante Sud, in Alta Valle irpina, dove il vigneto a bacca rossa assume una quota di rilevanza notevole, talvolta esclusiva, distribuito nei comuni di Castelvetere sul Calore, Montemarano, Castelfranci e, per l’appunto Paternopoli¤, areali questi tra i più vocati della docg del Taurasi.

E’ perciò un Taurasi Riserva destinato ad un lungo affinamento in legno oltre che in bottiglia – sino a dieci anni -, prima della sua uscita dalla cantina-laboratorio di Montefalcione; vino che reca in etichetta un nome velocemente ”siglato” con B.M., invero ispirato alla Venerabile Confraternita della Buona Morte, un messaggio nemmeno tanto subliminale posto a condizione di un nettare evidentemente immortale se non sino all’incontro cruciale con quei palati più attenti ed esigenti in grado di sancirne dopo anni, appunto, una buona e giusta fine.

Godiamo di un rosso duemilanove maturo e intenso, dal naso ampio che mette in riga sentori fruttati maturi e spezie fini, erbe di montagna e sottobosco, dentro al calice ci troviamo pennellate di austerità, un pot-pourri di frutta secca, olii ed e aromi complessi, fragranza di cedro e sandalo, finanche tabacco, l’accompagnano un sorso misurato e intransigente, brevemente amarognolo sul finale di bocca. Sono anche bottiglie come queste che ci lasciano intuire tutto il grande potenziale del Taurasi, a tutti gli effetti uno dei grandi rossi italiani. 

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La partita a scacchi di Luigi Moio

25 Maggio 2021

È una partita a scacchi quella di Luigi Moio, giocata senza la ricerca di avversari e con obiettivi ben precisi; l’accompagnano il tempo, questi primi 20 anni di Quintodecimo e un territorio straordinario caratterizzato da panorami e vigne rigogliose coltivate lungo crinali e colline circondati da boschi e ulivi secolari nelle aree di maggiore vocazione del territorio irpino.

É infatti una partita a scacchi anzitutto tra l’uomo Luigi e l’accademico Moio, giocata colpo su colpo con le visioni e le esperienze del primo e gli strumenti e le certezze del secondo, l’intuito e il pragmatismo dello scugnizzo volato in Francia a farsi le ossa e il Professore irreprensibile che gira in lungo e in largo vivendo però intensamente il suo centro di gravità permanente tra le vigne di Aglianico e Falanghina, Fiano e Greco distribuite tra Mirabella Eclano, Lapio e Tufo.

Quella del drammaturgo Giuseppe Giacosa si giocava invece in un castello del XIV secolo tra il bel paggio Fernando e Iolanda, figlia del nobile Renato e abilissima nel gioco degli scacchi, ignara della scommessa stretta tra il proprio padre e il giovane Fernando: se vincesse questi, lei gli andrà in sposa, mentre se vincesse la giovane, lui dovrà morire. Durante la partita però Iolanda s’innamora del paggio tanto da lasciarlo vincere, ottenendolo così per marito, per la gioia del proprio padre pentitosi nel frattempo dell’eccessiva posta in gioco nel caso fosse stato Fernando a perdere.

Il simbolo più evidente (sui bianchi) di questa partita è questa Grande Cuvée Luigi Moio duemiladiciotto, si compie infatti con questo vino un viaggio nella memoria del tempo, attraverso il bellissimo Dominio di Quintodecimo oggi costituito da trenta ettari distribuiti nei tre nuclei di Mirabella Eclano, Tufo e Lapio. Territori e terreni diversi tra loro, interamente coltivati in biologico che qui Moio prova a raccogliere e raccontare a suo modo, dopo questi primi 20 anni, con la stessa gioia ed ambizione di chi ci ha creduto sin dal primo momento, da questa o da quella parte del palcoscenico.

Il vino esce come Irpinia bianco doc, è composto per il 40% da Greco di Tufo che vi partecipa con la sua impronta tannica e la sua elevata acidità, ma anche corpo e struttura capaci di donare longevità al vino. La Falanghina, per il 20%, partecipa con vivacità e leggerezza, tensione e bevibilità, mentre il restante 40% è Fiano di Avellino, il varietale dell’eleganza, dell’intensità e complessità olfattiva, quota che infonde finezza e giusta progressione gustativa. La Grande Cuvée Luigi Moio viene lasciata fermentare per il 60% in barriques nuove di rovere francese e per la restante parte in acciaio, successivamente alla lunga sosta sui lieviti, almeno 8 mesi (di cui 6 già assemblata) è messa in bottiglia dove matura per almeno due anni prima dell’uscita in commercio.

E’ un bianco sontuoso, dal colore paglierino oro luminoso, il primo naso è finissimo, avvenente e persuasivo, manifesto di fiori gialli e frutta polposa dolcissima, vieppiù sentori di macchia mediterranea, anche melliflui, con note balsamiche a tratteggiare complessità e persistenza olfattiva; il sorso è secco, pieno e sapido, lungo e gratificante, intessuto di quella opulenza mai ostentata che solo i grandi vini sanno regalare. E’ questo il vino bianco campano che prova a dare Scacco matto al Re!, sfidare cioè senza più remore ne timori reverenziali i grandi bianchi francesi!

Poscritto: ricordo come fosse ieri quella prima bottiglia di bianco uscita dal cilindro di Mirabella Eclano di Laura e Luigi, quell’Exultet duemilasei anticipava i tempi, forse anche troppo repentinamente, molti infatti si ritennero spiazzati, taluni nemmeno vollero metterci il naso, pur mettendoci volentieri bocca, a sproposito. Quel vino però consegnava già tanto agli occhi e al palato (dei più attenti) di cosa sarebbe diventata di lì a poco quest’azienda, per il panorama campano e per il vino italiano e cosa ci avrebbe regalato Moio negli anni a seguire con le sue letture, certe esecuzioni magistrali sino al compimento, con questa Grande Cuvée – non a caso reca in etichetta il suo nome -, della comunione tra Greco di Tufo, Falanghina e Fiano di Avellino.

P.S.: Una partita a scacchi, opera teatrale del narratore e drammaturgo G. Giacosa (1847-1906) di un atto, composta nel 1871 e rappresentata a Napoli il 30 aprile 1873, è tratta da un episodio “grivois” del cantare cavalleresco Huon de Bordeaux (sec. XIII), scambiato dal Giacosa per una romanza provenzale.

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I nostri migliori assaggi dell’anno!

17 dicembre 2020

Torniamo come ogni fine anno a fare i conti con quanto di (più) buono è passato su questo blog. Inutile sottolineare che diviene oggettivamente sempre più difficile, per nostra fortuna. Prendete però questi dieci vini per quelli che sono, secondo noi: alcuni tra i migliori in evidenza tra le decine e decine di buone bottiglie passateci per mano quest’anno, ma anche e soprattutto appunti di viaggio per ricordare luoghi e belle bevute tra amici, vigne che abbiamo camminato e tante belle persone che abbiamo incrociato. Tra questi, ecco quelli che (forse) riteniamo i nostri migliori assaggi dell’anno!

Irpinia Coda di Volpe del Nonno 2018 Cantine dell’Angelo. Rappresenta certamente un risultato molto incoraggiante per l’areale, cosa ne sarà potrà dirlo solo il tempo, con le prossime vendemmie , frattanto ci è sembrato un bianco che viaggia assolutamente parallelo agli altri due bianchi di Cantine dell’Angelo¤, i Greco di Tufo Miniere e Torrefavale. Se il primo rappresenta appieno l’idea di Greco di Angelo Muto, voluminoso e concreto, mentre Torrefavale resta un viaggio nel tempo tutto da affrontare, questa etichetta qui sembra volerci consegnare il gusto del momento, quel sapore dei vini immediati di una volta, non a caso dedicato al nonno. Il colore è paglia oro, abbastanza luminoso, il naso è sobrio ma fine, qualche lieve nota floreale e agrumata, sa di fiori gialli e bergamotto, della frutta a polpa gialla, di nespola. Il sorso è notevolmente fluido, gratificante, morbido, sapido.

Paestum Fiano Tresinus 2018 Agricola San Giovanni¤. C’è tanta strada e sacrificio alle spalle di Ida Budetta e Mario Corrado, un duro lavoro che rende i loro vini ancor più autentici e territoriali, provenienti da uno degli areali più suggestivi della Campania, il Cilento; ci arriva nel bicchiere un vino dal bellissimo colore paglia oro, luminoso, con un corredo aromatico merlettato: vi si colgono note di agrumi, fiori gialli, erbette aromatiche, odore di salsedine, balsami. Il sorso mostra subito consistenza e stoffa, finissima tessitura, persistenza gustativa, misurata sapidità, è certamente uno di quei bianchi da bere con piacere già oggi ma che anticipa una certa capacità di maturare ed evolvere in bottiglia, di quelli che verrebbe voglia addirittura di incorniciare.

Campania bianco Cupo 2013 di Pietracupa. Un vino a dir poco emozionante, di rara complessità, venuto fuori da un’annata fresca e tardiva, ben inteso tra le migliori dell’ultimo ventennio in Irpinia, di impronta classica, con vini destinati a grande longevità e una progressiva evoluzione in bottiglia tutta da scoprire. Non a caso il Cupo¤ duemilatredici è un vino bianco ricco, dal colore intenso e avvenente, con un naso portentoso, ampio e complesso, puro e fine, al palato morbido ma pieno di stoffa pulsante, intessuto di freschezza e mineralità. Si fanno largo sentori tostati, finanche fumé che fanno da corollario ad un quadro olfattivo tratteggiato da frutta a polpa bianca e da erbette balsamiche (menta, timo, salvia), con un sorso pieno di sostanza, vigoroso, un finale di bocca lungamente sapido. 

Fiano di Avellino Tognano 2016 Rocca del Principe. E’ una splendida lettura varietale questo Tognano¤ duemilasedici, Cru suggestivo e ricco di stoffa. Il colore è splendido, paglia oro, il naso regala frutta a polpa bianca, anche esotica, fiori gialli, erbe aromatiche, spezie, balsami, richiami salmastri. Ha però forma e sostanza, si conferma un millesimo riuscitissimo da queste parti, l’annata della gioia come abbiamo già avuto modo di dire qualche recensione più in là, annata che ha regalato vini di gran frutto e spalla acida, trame finissime ordite con manico intelligente. Vini consegnati nelle mani del tempo, certamente capaci di evolvere, mutare, superando i tratti più immediati del varietale per lasciare spazio al carattere minerale più complesso e identitario che lo lega indissolubilmente a questo straordinario territorio.

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2018 Quintodecimo. Questo è un vero e proprio Cru prodotto con le uve provenienti dalla Tenuta del Giallo d’Arles¤ di Tufo, 12 ettari tutti a Greco, a conduzione biologica, allevati a Guyot, da dove ci sembra venire fuori, con questo duemiladiciotto, una delle versioni più autentiche di Greco degli ultimi anni; un vino dal colore luminoso e invitante, che sa di pesca gialla e pompelmo, di caprifoglio e citronella, dove emergono perentorie il frutto e il territorio, proprio grazie alle abilità tecniche, la profonda conoscenza del territorio e del varietale, l’uso intelligente e misurato del legno, che consentono a Moio di portare in bottiglia tutta l’anima e l’energia di questo pezzo d’Irpinia, intessuti, potremmo dire, senza più puntini, niente più tratteggi, nessuna sovrastruttura ma solo grande armonia.

Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2019 Cantine Astroni. Piccolo grande gioiello! E’ un rosso decisamente contemporaneo quello che ci arriva nel bicchiere, capace di regalare un piacevolissimo gioco dei sensi a chi si avvicina alla tipologia per la prima volta, con quel colore rubino dalle vivaci sfumature quasi porpora; è decisamente un piccolo fuoriclasse, possiede un ventaglio olfattivo estremamente varietale, è vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. Un corredo aromatico arricchito da lievi sfumature officinali e da una fresca tessitura gustativa, abilmente tenute assieme dal manico esperto di Gerardo Vernazzaro¤, proprio grazie alla sua lunga esperienza di studio del territorio e del varietale. Il sorso è secco e morbido, infonde piacere di beva e grazia ricevuta, una sorsata ne richiama subito un’altra, sfrontata, agile, calda e avvolgente.

Piedirosso Campi Flegrei Terrazze Romane 2018 Cantine del Mare. Ancora una chicca, ancora un Piedirosso, si tratta di una manciata di bottiglie che testimoniano appieno la qualità del grande lavoro in vigna e in cantina di questi ultimi anni portato avanti da Gennaro Schiano¤; il colore è splendido, rubino vivace, luminoso come sacro fuoco, il naso è un portento, fitto, ampio, finissimo, pieno di rimandi a frutta rossa polposa, sa di ciliegia e melagrana, floreale di rosa, peonia e gerani, con appena un accenno di balsami e macchia mediterranea. Il sorso è rotondo, sottile e disteso, si fa poi largo e si allunga ad ogni assaggio, abbastanza morbido, ricco di tanto frutto polposo, teso il giusto, dissetante. E’ un piccolo manifesto questo vino, oggi pronto a bersi con soddisfazione ma siamo certi anche capace di maturare e sorprendere nel tempo.

Falerno del Massico rosso Falé 2015 Torelle. “Falé” duemilaquindici è il Falerno di Torelle¤, il sogno di Emanuele Guardascione. E’ un Falerno rosso con Aglianico al 99% che fa un lunghissimo affinamento in acciaio, legni e bottiglia, ben 60 mesi, anche per questo ha un sapore assolutamente ancestrale, dal colore rubino vivace e un naso sfrontato e guascone, con quel timbro vinoso, floreale, fruttato e speziato e un sorso sottile, fresco, polposo e saporito, finanche sgraziato nel suo incedere gustativo ma pienamente autentico. Una bella novità in terra di Falerno che merita assolutamente di essere conosciuta, l’azienda è a Cascano di Sessa Aurunca, nel cuore dell’Ager Falernus, con il vulcano spento di Roccamonfina a nord-est e il Monte Massico a Sud-ovest.

Irpinia Campi Taurasini Cretarossa 2012 I Favati. Siamo tornati a cercare un Irpinia Campi Taurasini che fosse (finalmente) capace di farci ritornare a bere con piacere questo rosso Irpino di carattere ma audace e sbarazzino; ci siamo così ritrovati davanti a questo splendido vino, il Cretarossa¤ duemiladodici di Rosanna, Giancarlo e Piersabino Favati. Un rosso, manco a dirlo dopo 8 anni, con ancora tanta strada da fare, dal colore esemplare, rubino appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere, fruttato, certamente balsamico, speziato ma pienamente succoso, nerboruto, pieno di stoffa, il buon rosso che ci aspettavamo insomma, dall’Aglianico, da quel territorio di provenienza, qui siamo a Montemarano e Venticano, dalla passione e dal manico di chi li ha governati.

Feudi Studi Taurasi Candriano 2015 Feudi di San Gregorio. ”Pezzo da 90” del progetto Feudi Studi¤, prodotto con le sole uve provenienti dall’areale di contrada Baiano, nel comune di Castelfranci, da vigne di età media di 20 anni, Candriano rappresenta una delle migliori espressioni di Taurasi in circolazione provenienti dal Versante Sud-Alta Valle della denominazione, dove il vigneto ad Aglianico assume una quota di rilevanza notevole, in alcuni punti sino a 700 mt s.l.m., vigneto distribuito nei comuni di Castelvetere sul Calore, Montemarano, Paternopoli e, appunto, Castelfranci. Ci arriva nel bicchiere un grande rosso, dall’impronta netta, con un bellissimo colore rubino e un naso subito coinvolgente, con profumi di viola, ciliegia, cacao, lievi nuances fumé; il sorso è pieno e avvolgente, possiede tannini finissimi, chiude vigoroso con un finale di bocca caldo e gratificante.

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Taurasi Aurelia 2016 Rocca del Principe

15 dicembre 2020

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Aurelia duemilasedici di Rocca del Principe proviene da una singola vigna di nemmeno un ettaro collocata a Lapio, in quello che potremmo identificare come il Versante Ovest, Le Terre del Fiano¤ dell’areale docg del Taurasi, con vigne ubicate a Montemiletto, San Mango sul Calore, Montefalcione e, appunto, Lapio; con questi ultimi due comuni che sono allo stesso tempo gli unici ammessi alla produzione sia di Taurasi che di Fiano di Avellino. In molti trascurano un dato storico ovvero che questo territorio, un tempo, era votato quasi esclusivamente alla produzione di Aglianico, non a caso proprio da queste terre sembrano venire fuori rossi più ossuti che vigorosi, con tannini levigati ma non troppo, capaci di garantire una beva snella e vibrante al contempo, con grandi prospettive evolutive davanti.  

Ci troviamo più precisamente in Contrada Campore di Lapio, all’incirca a 500mt s.l.m., dove i terreni sono composti in larga parte da marne argillose e calcaree l’esposizione delle vigne è a Sud/Est, una delle aree storicamente più vocate per l’Aglianico irpino e in qualche maniera dove tutto è iniziato per Aurelia Fabrizio ed Ercole Zarrella, per poi ritrovarsi negli anni a specializzarsi, per così dire, nella produzione di Fiano sino a diventarne tra i più illustri interpreti, basta andare a rileggere Qui e Qui tra i nostri ultimi appunti di viaggio in azienda dello scorso settembre.

Ci arriva nel bicchiere un rosso molto significativo, dal colore rubino appena trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere, il naso è ampio e complesso, vi si colgono nitidi sentori floreali e di frutta polposa, profumi di garofano e amarena, di prugna, anche note sottili di tabacco, pepe e spezie fini, queste amplificate da sottili sensazioni balsamiche. Il sorso è asciutto e caldo, giustamente tannico, non è di quei vini opulenti, glicerici, tutt’altro, ha finissima tessitura, ha ossatura solida più che muscoli allenati, propende infatti per una beva costantemente vibrante anziché vigorosa.

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Taurasi 2014 Antico Castello

5 dicembre 2020

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie significative, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Antico Castello è una realtà irpina giovane e dinamica, ci pregiamo di seguire i fratelli Francesco e Chiara Romano da molto tempo, si può dire sin dai loro primi passi in vigna; tutto è partito con appena due ettari ad Aglianico proprio qui a Poppano, in località S. Agata, nel comune di San Mango sul Calore. Primi passi molto coraggiosi che hanno però visto lungo, portandoli anzitutto ad aumentare subito la superficie ad Aglianico sino agli attuali 5 ettari e, nel 2006, alla realizzazione della cantina: una struttura a misura d’uomo, accorta, funzionale, allora affidata nelle mani dell’esperto Carmine Valentino come consulente; ancora, nel 2008, con l’ingresso a pieno regime di Francesco e Chiara alla conduzione dell’azienda, la scelta consapevole di piantare Falanghina, Fiano e Greco nelle immediatezze dell’azienda, sempre in territorio di San Mango, rinunciando così anche alle docg bianchiste irpine ma confidando di valorizzarne una possibile originalità territoriale. La vigna di proprietà oggi conta 10 ettari tondi tondi.

San Mango sul Calore rientra infatti in quello che identifichiamo come il Versante Ovest, Le Terre del Fiano¤ dell’areale docg del Taurasi, quello che prevede vigne ubicate a Montemiletto, Montefalcione, Lapio e, appunto, San Mango sul Calore, con quest’ultimo comune ammesso pertanto solo alla produzione di Taurasi docg e non, quindi, anche Fiano di AvellinoGreco di Tufo. Da qui sembrano venire fuori generalmente rossi ossuti più che vigorosi, con tannini levigati ma non troppo, capaci di garantire una beva snella e vibrante al contempo, con grandi prospettive evolutive davanti.  

C’è, quindi, un lungo percorso dietro questo splendido risultato in bottiglia, scelte chiare e immediatamente riconoscibili. Ci troviamo infatti davanti a un Taurasi duemilaquattordici con un bel colore rubino vivace, appena trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere, con un naso nel complesso elegante, molto avvenente, che sprigiona tanto frutto in primo piano, sa anzitutto di amarena e prugna, con piacevoli rimandi speziati, di cacao, tabacco e sottobosco; il legno usato per l’affinamento è chiaramente ben integrato al corpo del vino, così il sorso è integro, caldo ma ben equilibrato, sapido, con tannini ben levigati e ancora larghi margini di affinamento davanti.

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Taurasi, red passion!

28 novembre 2020

Ce lo siamo chiesto spesso se si potesse cominciare a guardare al Taurasi con gli stessi occhi di chi si approccia per esempio ad un Barolo, riferendosi cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Insomma, se ai più esperti viene naturale cogliere e raccontare dell’originalità, dello stile, delle sfumature dei Nebbiolo di Serralunga d’Alba, di La Morra o Grinzane Cavour, perché non dovrebbe accadere lo stesso ad esempio per i vini prodotti a Taurasi, Mirabella Eclano o ancora quelli di Lapio, Castelfranci e Montemarano?

Un’operazione di approfondimento la avviò un po’ di anni fa il giornalista Paolo De Cristofaro¤, nelle prime edizioni di Taurasi Vendemmia di Miriade&Partners – Leggi Qui -, con un lavoro certosino, millimetrico quasi, sulle macro-aree interessate alla coltivazione di Aglianico e Aglianico da Taurasi; ne venne fuori una rappresentazione puntuale ed efficace, una guida indispensabile per chi mastica vino e desiderava cominciare a schiarirsi le idee su certi aspetti ormai ineludibili quando ci si trovava a raccontare e scrivere di Taurasi o di Aglianico di queste meravigliose terre irpine.

Ecco perché nelle prossime settimane proveremo a raccontare in quest’ottica diverse buone bottiglie di Taurasi che abbiamo incrociato durante tutto quest’anno, all’insegna di uno slogan che ci piace tanto: Taurasi, red passion!

Bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo questo straordinario vino campano muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere al meglio un grande lavoro di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il suo valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

In estrema sintesi, queste che seguono sono cinque caratterizzazioni, aree territoriali specifiche da cui muove tutto, sulle quali proveremo man mano nel coglierne le sfumature maggiormente distintive:

Assemblaggi, sono quei vini provenienti da due o più distinte macro-aree, una scelta questa abbastanza comune per molte aziende irpine.

Quadrante Nord, Riva Sinistra del fiume Calore, sono vini provenienti dalle vigne collocate nei comuni di Venticano, Pietradefusi e Torre Le Nocelle.

Versante Ovest, Le Terre del Fiano, con vigne ubicate a Montemiletto, San Mango sul Calore, Montefalcione e Lapio; con questi ultimi due comuni che sono allo stesso tempo gli unici ammessi alla produzione sia di Taurasi che di Fiano di Avellino.

Valle Centrale, Riva Destra del fiume Calore. Il territorio senz’altro più frammentato dell’areale, da qui provengono quei vini prodotti con le uve dellle vigne ubicate nei comuni di Taurasi, Mirabella Eclano, Luogosano, Bonito, Sant’Angelo all’Esca e Fontanarosa.

Versante Sud, Alta Valle, dove il vigneto ad Aglianico assume una quota di rilevanza notevole, talvolta esclusiva, distribuito nei comuni di Castelvetere sul Calore, Montemarano, Castelfranci e Paternopoli.

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Segnalazioni| Campania bianco Donna Lucrezia 2019 AgriBeeo

14 novembre 2020

La Catalanesca è stata ufficialmente aggiunta all’elenco delle uve da vino nel 2006, l’uva arrivò sul Vesuvio importata dalla Catalogna, per volontà di Alfonso I d’Aragona nel XV secolo, impiantata perlopiù sulle pendici del Monte Somma, fra Somma Vesuviana e Terzigno.

Proprio qui, su questi terreni così fertili, di natura spiccatamente vulcanica, l’uva fu ben presto molto apprezzata e coltivata in maniera intensiva per la vinificazione in grandi quantità dai contadini vesuviani per il loro commercio di vini sfusi che da queste parti è sempre stato molto fiorente, tra l’altro, grazie alla sua spiccata dolcezza le quantità eccedenti erano spesso commercializzate come uva da tavola.

Sappiamo che oggi la sua presenza è riscontrabile nei dintorni dei comuni di Somma Vesuviana, Sant’Anastasia, Ottaviano e in alcuni altri comuni vesuviani. La Catalanesca è una varietà a bacca bianca particolarmente apprezzata, molto caratteristica e resistente, tant’è che la vendemmia può spingersi generalmente sino a fine ottobre e agli inizi di novembre: un tempo vi era la consuetudine di lasciare sulla pianta i grappoli più belli, lasciandoli surmaturare addirittura fino al periodo natalizio. Il grappolo è di sovente rado, gli acini acquisiscono così un tipico colore dorato conservando però una polpa carnosa, croccante e dolce, ricca di vinaccioli.

L’uva e il vino nel progetto di valorizzazione del territorio di Vito Graniglia è solo una tessera di un puzzle assai più ricco di suggestioni tipicamente territoriali, qui in AgriBeeo si produce infatti anzitutto miele, albicocche della varietà Pellecchiella e pomodori del Vesuvio, tutti certificati Bio, dai quali si ricavano tra gli altri conserve e prodotti assolutamente unici, provenienti da una terra meravigliosa.

Questa bottiglia, la n. 1 di nemmeno un migliaio dell’annata duemiladiciannove, racchiude il lavoro di anni di cura e recupero di questo mezzo ettaro di vigne vecchie allevate con sistemi assolutamente ancestrali, legate a pali di sostegno, collocati a circa 350 mt s.l.m.; viene fuori da una vendemmia tardiva, come da tradizione, con il vino che ha fatto passaggi solo in acciaio, dove è restato per 8 lunghi mesi, prima di 4 mesi ancora in bottiglia.

Ci troviamo davanti a un vino bianco vestito di un bel giallo paglia con profondi e luminosi riflessi dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; è delicato il profumo di fiori e agrumi, sa di ginestra e limoni, più incisivo il sentore di albicocca matura. Il sorso è morbido e asciutto, abbastanza fresco, manca forse di profondità ma la beva, piacevolissima e appagante, non da nemmeno il tempo di accorgersene.

AgriBeeo
Località Ventarielli 
Somma Vesuviana (Na) Italia
+39 347 2804242
agribeeo@agribeeo.it

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Lapio, Fiano di Avellino Clelia 2018 Colli di Lapio, Clelia Romano cala l’asso!

9 novembre 2020

”In principio ci rimase impresso il firmarsi col cognome, poi col nome. E’ un Fiano di Avellino tra i più buoni da sempre, profondo, minerale, incalzante; quei sentori che tutti conosciamo come markers identitari del Fiano li abbiamo imparati anzitutto bevendo Colli di Lapio, e non necessariamente grazie a bottiglie ‘vecchie’ e/o mature, tutt’altro”.

Con questo incipit sette anni fa circa lasciavamo traccia su questo blog di una delle più controverse bevute di Fiano di Avellino di Clelia Romano (la bottiglia recava in etichetta annata duemilacinque, leggi sotto), auspicando, già allora, che semmai vi fosse stata l’uscita di un secondo vino bianco qui ad Arianiello, che questi venisse fuori dall’esperienza e dal grande lavoro in vigna e non da ”scorciatoie” volte più semplicemente a strizzare l’occhio alla globalizzazione come talvolta accade sotto la pressione della domanda di mercato.

Ebbene, il momento sembrerebbe arrivato e noi abbiamo avuto la fortuna di berlo in anteprima assoluta, qualche settimana fa, quello che con ogni probabilità sarà il primo Cru aziendale che la famiglia Romano-Cieri ha deciso di produrre: viene fuori da un’accurata selezione in pianta di grappoli di Fiano di Avellino raccolti tardivamente nella vigna più alta della proprietà, collocata ad oltre 600 metri s.l.m., situata sempre in contrada Arianiello. Decisamente un filo pregiato per un ricamo di antica tradizione.

Si tratta di una minuscola produzione di poco più di un migliaio di bottiglie, si chiamerà ”Clelia”, doveroso omaggio alla Nostra Signora del Fiano ma soprattutto, immaginiamo, per segnare il tempo con la quarta generazione della famiglia Romano-Cieri che ben presto troverà il suo spazio in cantina. Noi la nostra idea ce la siamo fatta e senza tirare le fila a giudizi affrettati ne abbiamo parlato con loro apertamente, a voi non resta che andare in cantina per provarlo!

E’ un Fiano di Avellino decisamente buono, duemiladiciotto in perfetto stato di grazia, pronto, nella sua pienezza espressiva e con ancora tanta strada davanti; il colore si arricchisce di una ricca venatura oro sull’unghia del vino nel bicchiere, possiede un ventaglio olfattivo ricchissimo di frutta e fiori di campo, ancora di miele e piccola pasticceria, il sorso è pieno di sostanza ma ricco di tensione gustativa, il finale di bocca piacevolissimo. Il diario di Carmela Cieri, che ne ha curato personalmente la raccolta manuale di pianta in pianta, reca in calce ”finito di vendemmiare il 14 novembre”, il vino prodotto ha fatto solo acciaio e bottiglia.

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Lacryma Christi del Vesuvio rosso Riserva 2017 Cantina del Vesuvio

19 ottobre 2020

Torniamo con grande piacere davanti a una bottiglia di Maurizio Russo di Cantina del Vesuvio, azienda che assieme a tante altre sta contribuendo non poco al rilancio di una denominazione di grande tradizione in Campania con vini riuscitissimi provenienti da un territorio a dir poco straordinario.

E’ dal 1951 che la sua famiglia si occupa del commercio di uva e della produzione di vini qui a Trecase, ai piedi del maestoso Vesuvio, A’ Muntagna come la chiamano da queste parti, con il mare davanti, con affaccio direttamente sul Golfo di Napoli e il vulcano più famoso del mondo alle spalle proprio della piccola cantina e le suggestive vigne vecchie e nuove di Caprettone, Aglianico e Piedirosso.

Proprio sul vitigno Piedirosso qui c’è grande attenzione, e questo ci rende ovviamente felici, rimane un varietale dal grande potenziale quello già decantato da Plinio e Columella, coltivato proprio da queste parti da millenni ormai; Maurizio lo sa bene e ci sta investendo tanto, provando a riportarlo a forme di coltivazione più congeniali secondo l’esperienza locale. Lo scopo resta quello di ottenere il miglior risultato possibile tenendo conto della grande qualità dei terreni, del clima, dell’umidità, dell’esposizione alla luce solare e della persistente ventilazione di questi luoghi baciati da Dio.

Il risultato di questo lungo percorso è certificato da questa Riserva alla sua prima uscita con il millesimo duemiladiciassette, in larga parte Piedirosso con un saldo di Aglianico al 20%, vino dal bel colore rubino e dal sentore ancora vinoso, floreale e marcato di frutta rossa polposa; il sorso conserva pienamente l’anima terragna, è secco, caldo e morbido con un finale di bocca sapido e rinfrancante, lungo e abbastanza persistente.

Non è necessario immaginare questo Lacryma Christi sul lungo periodo, quanti anni possa conservarsi, fosse anche solo un lustro, è un tempo più che sufficiente per godere appieno del territorio che c’è dentro una bottiglia, qui è proprio il caso di dirlo; più che altro è necessario maturare la curiosità di camminare questi territori straordinari, stringere mani forti e ascoltare le storie di questa terra, attività che anche qui a Cantina del Vesuvio non vedono l’ora di riprendere a fare ogni giorno.

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Irpinia Campi Taurasini Cretarossa 2012 I Favati

12 ottobre 2020

Una delle prime volte che ci siamo ritrovati davanti a una bottiglia di Campi Taurasini ci sono venute in mente non poche domande, tutto nasceva ovviamente da un pregiudizio che nonostante gli anni trascorsi, e le tante bottiglie aperte, continua ad aleggiare e ritornarci in mente di tanto in tanto: l’istituzione di questa sottozona, fu vero successo?

Proviamo a spiegarci meglio: in quel tempo, dopo il 2005, d’un colpo, ci ritrovammo sin da subito con il prezzo aumentato di molte bottiglie, sino ad allora degnissime seconde e terze etichette di produttori spesso riconosciuti sì per il loro Taurasi ma solo dopo l’entry level Aglianico, vero pass-partout per entrare nel cuore e sulle tavole di molti appassionati, in particolar modo in certi locali dove meglio funzionavano soprattutto al calice, cioè Winebar ed Osterie tout court con una cucina all’altezza; posti ben frequentati, magari da una clientela meno danarosa ma sempre molto disponibile a lasciarsi consigliare e ”scoprire” nuove proposte.

L’istituzione della Doc Irpinia, in data 13 settembre 2005, poneva le basi per una riorganizzazione delle produzioni di qualità in provincia di Avellino, nello specifico, per la Sottozona Campi Taurasini, nel territorio dei comuni di Taurasi, Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre le Nocelle, Venticano, Gesualdo, Villamaina, Torella dei Lombardi, Grottaminarda, Melito Irpino, Nusco e Chiusano San Domenico, cioè proprio là dove l’Aglianico esprime grandissime qualità organolettiche sin da giovane, vieppiù con la giusta maturazione.

Da questo momento, in molti, soprattutto tra i piccoli produttori di cui ci siamo innamorati in questi anni, hanno sistematicamente rinunciato a dare spazio a vini per così dire ”base”, puntando quasi esclusivamente a fare vini ”Premium o Top di gamma” o da lungo affinamento abbandonando un poco alla volta la produzione di Aglianico destinato ad un consumo più immediato che, tra l’altro, è sempre stato quel vino che maggiormente ha contribuito alla loro iniziale crescita nonché a conquistare appassionati e professionisti in molti casi fidelizzandoli proprio su certe etichette. Una scelta, quella di alzare l’asticella ovviamente legittima, un riconoscimento doveroso all’impresa, al lavoro e al sacrificio quello di spuntare prezzi più alti, ciononostante la domanda resta: a conti fatti, fu vero successo?  

È innegabile quanto avvenuto negli anni, l’omologazione verso il basso di molte etichette, talvolta proposte a prezzi ingiustificati, invero già palpabile laddove non c’era quell’esperienza necessaria per gestire il vitigno ed il vino per una produzione proiettata nel tempo, non ultimo lo smarrimento evidente che ci prendeva un po’ a tutti davanti a certi bicchieri dove a dominare avrebbe dovuto essere l’uva, semmai il territorio, la sua anima, pure la scienza e la bravura di chi le governa, ma non certo il tempo o più banalmente il prezzo.

Per contro, per fortuna, parallelamente a questa scia c’è traccia di chi ha continuato a lavorare duro per metterci un po’ più di concretezza dentro una bottiglia di Irpinia Campi Taurasini, non un piccolo Taurasi, il rischio resta dietro l’angolo, ma un Aglianico capace di esprimere anche a distanza di qualche anno sfaccettature di freschezza e vivacità gustative ancora molto interessanti.

Riflessioni queste sulle quali ci siamo ritrovati davanti a questo splendido vino, il Cretarossa duemiladodici di Rosanna, Giancarlo e Piersabino Favati. Un rosso, manco a dirlo dopo 8 anni, con ancora tanta strada da fare, dal colore esemplare, rubino appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere, fruttato, certamente balsamico, speziato ma pienamente succoso, nerboruto, pieno di stoffa, il buon rosso che ci aspettavamo insomma, dall’Aglianico, da quel territorio di provenienza, qui siamo a Montemarano e Venticano, dalla passione e dal manico di chi li ha governati.

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Campania bianco Dall’Isola 2018 Joaquin

8 ottobre 2020

Torniamo a godere di un bianco che ci sta particolarmente a cuore, uno dei pochissimi vini prodotti con varietà autoctone coltivate da sempre sull’isola di Capri che merita degna attenzione.

Dall’Isola duemiladiciotto resta una produzione estremamente limitata, anche per questo preziosa e imperdibile, le uve Ciunchese (Greco), Falanghina e Biancolella provengono da piccole ”pezze” di natura sabbiosa coltivate in maniera tradizionale perlopiù col sistema dello Spalatrone Puteolano, talvolta collocate in luoghi impervi e suggestivi come ad esempio l’affaccio sul Golfo di Napoli di Villa San Michele ad Anacapri, il comune più alto dell’Isola, ai piedi del Monte Solaro.

Raffaele Pagano a Capri non ci è arrivato certo per caso, sono ormai oltre dieci anni che produce puntualmente il bianco Dall’Isola, riconoscendovi in questa piccola produzione, sin da subito, tutto il potenziale di una grande sfida avvincente; lui, già produttore di spiccata originalità in quel di Montefalcione, con vigne anche Lapio e Paternopoli, ci aveva già abituati a vini mai banali, segnatamente autentici, talvolta fuori dagli schemi tant’è che la sua opera qui come altrove resta una vera e propria ”cantina laboratorio” per i vitigni autoctoni campani.

Dicevamo quindi Ciunchese (Greco), Biancolella e Falanghina selezionati, è proprio il caso di dire, acino per acino, con una piccola percentuale lasciata surmaturare in pianta: questo delizioso bianco ha colore paglierino tenue, è luminoso e intriso di piacevolissimi sentori molto invitanti, profumi floreali e sfumature agrumate assai suggestive, ci trovi dentro caprifoglio e camomilla, ma anche fieno ed erbe mediterranee, limone e cedro. In bocca è asciutto, possiede un ottimo slancio gustativo che ammanta il palato di sana freschezza e chiude sapido e minerale un sorso davvero gustosissimo, con quell’11,5% in volume di alcol in etichetta! Un tempo se ne facevano solo una manciata di magnum, da qualche anno se ne producono poco più di 2000 bottiglie l’anno!

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E venne il giorno della prima verticale storica del Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella di Cantine Astroni

28 settembre 2020

E’ una verticale storica questa, che segna il tempo trascorso provando a contare e raccontare i passi fatti in tre lustri nei Campi Flegrei da Cantine Astroni e Gerardo Vernazzaro, senza dubbio tra i più dinamici produttori e interpreti del panorama enoico di questo pezzo di territorio della provincia napoletana.

La famiglia napoletana Varchetta da oltre quattro generazioni è impegnata ad affiancare al florido commercio di uve e vini puntuali e lodevoli investimenti in un territorio dove piantare una vigna spesso può rivelarsi impresa difficile quasi quanto programmare il lancio di una sonda esplorativa nello spazio.

Così, all’incirca vent’anni fa, è nato il progetto Cantine Astroni, un cambio di passo decisivo per la famiglia ma anche, soprattutto, un nuovo modo di guardare al territorio non più in maniera passiva bensì diventandone tra i protagonisti più attivi, convertendo e piantando vigne oggi tra le più suggestive intorno a Napoli e mettendo su una cantina bella e funzionale, tecnologicamente all’avanguardia, proprio a due passi dal centro città e dalla riserva naturale del Cratere degli Astroni¤, là dove oggi è possibile per chiunque andare e toccare con mano uno spirito nuovo fuori dai soliti luoghi comuni di una periferia altrimenti assediata dal cemento.

Sono oltre dieci anni che proviamo a consegnare a queste pagine, con una certa regolarità, le impressioni su tutti i vini di Gerardo, il racconto della sua significativa sensibilità nell’approcciarsi al Piedirosso e alla Falanghina dei Campi Flegrei, a partire proprio dal Colle Rotondella¤ – tra i primi ad essere qui recensito con l’annata duemilanove, nel 2011 – sino al Riserva Tenuta Camaldoli¤, seguito dai bianchi Colle Imperatrice¤ e Vigna Astroni¤ passando da Strione¤ al Tenuta Jossa¤.

Ebbene, pur senza allungarci troppo in una sterile adulazione o innescare inutile piaggeria possiamo dire con una certa ragionevolezza che ognuna di queste referenze hanno raggiunto oggi grande equilibrio e piena espressività, risultato figlio di un lavoro duro e faticoso che ha richiesto anni di impegno, investimenti, studio, confronto, umiltà, provando a destreggiarsi tra insidie, errori, opinioni talvolta date senza avere piena conoscenza diretta dei fatti ma soprattutto con tanta intelligenza, indispensabile per non adagiarsi, nemmeno dopo i primi successi arrivati e, ne siamo certi, dopo quelli prossimi che non mancheranno a tardare!

Proprio dalle vigne del circondario flegreo più prossimo a Napoli, in areale delle colline dei Camaldoli, da un vigneto di circa tre ettari di Piedirosso dei Campi Flegrei, provengono le uve di questo rosso, il Colle Rotondella, che fa solo acciaio e bottiglia e che pare riassumere tutto quello che un vino di questo territorio deve saper garantire in tutta la sua sfrontata consistenza: un colore avvenente, profumi seducenti, finanche ruffiani, una beva scorrevole e furba, non priva però del giusto carattere. Ma cosa succede poi negli anni? C’è da aspettarsi altro, qualcosa in più?

E’ così che l’enologo si è spogliato di quanto non più strettamente necessario e si è fatto nel frattempo viticoltore tout court, rimanendoci in vigna tutto il tempo necessario per comprendere e agire, seguendo e assecondando la natura, con attenzione alla tutela del suo equilibrio e dell’ambiente che lo circonda, mirando al mantenimento della fertilità del suolo attraverso la promozione di processi naturali biologici e sistemi chiusi favorendo quindi la coltivazione di uve sane, ricche, pregevoli. 

Aspetto, quello agronomico, assolutamente non secondario nel cogliere appieno il valore del risultato finale nel bicchiere che, soprattutto nella terza e ultima parte della batteria in degustazione, quella che va dalla ‘sedici all’ultima ‘diciannove, con delle prime avvisaglie già nella ‘tredici e ‘quindici, contribuisce in maniera decisiva a tratteggiare un vino dalla chiarissima impronta vulcanica, assolutamente originale, dal respiro moderno e dal sapore contemporaneo, con un naso seducente e un sorso coinvolgente, pieno e gratificante nei suoi primi anni di bottiglia ma che non ha assolutamente nulla da temere dallo scorrere del tempo, restando in grande spolvero almeno per un lustro.

***** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2019. E’ un rosso che regala un piacevolissimo gioco dei sensi a chi si avvicina alla tipologia per la prima volta, con quel colore rubino dalle vivaci sfumature quasi porpora; possiede un ventaglio olfattivo estremamente varietale, è vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. Un corredo aromatico arricchito da lievi sfumature officinali e da una fresca tessitura gustativa, abilmente tenute assieme dal manico di Gerardo Vernazzaro, proprio grazie alla sua lunga esperienza di studio del territorio e del varietale. Il sorso è secco e morbido, infonde piacere di beva, una sorsata ne richiama subito un’altra, una beva sfrontata, agile, calda, salata e avvolgente. 12% di alcol in volume in etichetta.

**** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2018. E’ un rosso tremendamente contemporaneo, decisamente didattico, dal colore rubino con vivaci sfumature quasi porpora sull’unghia del vino nel bicchiere, con un naso estremamente varietale, vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. L’anima più tradizionale del Piedirosso flegreo qui è sorretta anche da un frutto dalle piacevolissime sfumature speziate ed una fresca tessitura gustativa abilmente intrecciate. Il sorso è secco e morbido, dona piacere di beva che grazia il palato e un sorso ne richiama subito un altro. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

****/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2017. Fu quella un’annata complessa e complicata, sin dal colore rubino carico se ne coglie la pienezza del frutto, ha un naso estremamente varietale, ancora vinoso, ampio, floreale e fruttato, balsamico. Si avvantaggia di una maggiore percezione ”calorica” in bocca, il sorso è secco e morbido, assai piacevole, scorrevole, con un finale di bocca sapido ma appena amaricante in chiusura. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

**** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2016. Bottiglia nuova, di ispirazione francese, con le etichette necessariamente riviste e adattate. Resta una piacevole sorpresa, lo beviamo nuovamente a distanza di nemmeno una settimana. Ha un colore tipicamente ”borgognone”, pienamente rubino, luminoso e trasparente, appena più accentuato sull’unghia del vino nel bicchiere; Il naso è anzitutto balsamico e floreale, rimanda poi a piccoli frutti rossi e neri maturi, appena un sottofondo di sottobosco, cenere e polvere di cacao. Il sorso è sottile, dal gusto secco e di finissima tessitura gustativa, magro ma non privo di vigore ed energia, chiusura di bocca salina. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

***/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2015. Segna uno spartiacque, è questa l’ultima uscita ancora in bottiglia bordolese. Ha colore rubino maturo, nemmeno tanto trasparente sull’unghia del vino nel bicchiere; conserva un’impronta varietale particolarmente interessante, vi si colgono sentori di rosa, melograno e altri piccoli frutti neri maturi a cui s’aggiungono piacevolissime tonalità speziate e balsamiche. Il sorso è asciutto, abbastanza morbido, molto piacevole la beva, con un finale di bocca caldo e abbastanza lungo. 12% di alcol in volume in etichetta.

***/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2013. Annata altalenante, particolarmente ”allenante” la definisce Gerardo Vernazzaro, di quelle che non puoi perdere di vista nemmeno un giorno e che ti costringono a stare sul pezzo sino all’ultimo, non a caso tra le prime ad essere portata in cantina solo a fine ottobre, raccogliendo i primi frutti del lungo lavoro di valorizzazione del patrimonio vitivinicolo di proprietà. Il colore rubino ha tenuto benissimo, conservando invidiabile integrità varietale, il naso è floreale e fruttato, in particolare di rosa passita e arancia sanguinella. Il sorso è secco, caldo e morbido, con una buona progressione gustativa e una sapidità marcata. 12% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2012. L’ultima vestita di nero, con etichette trendy per l’epoca, un nuovo taglio scelto qualche anno prima per provare a far prendere il largo dalla casa madre quei vini provenienti dalle vigne di proprietà, proprio come il Colle Rotondella. Il colore è marcato da un tono scuro, granato con note aranciate/brune sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è terragno, conserva buona pulizia olfattiva ma vi si riconoscono soprattutto note di terra bagnata, sottobosco, frutta secca più che altro, con il sorso asciutto e snello, con ancora buona intensità. 12% di alcol in volume in etichetta.

**/* Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2011. Annata calda, perfino torrida in alcuni frangenti, anche in questo caso il colore è maturo, granato/aranciato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso, tuttavia, è molto interessante: verticale e balsamico, dai tratti maturi, vi si coglie confettura di ciliegia, sciroppo di melograno, cenere, carrube, sottobosco. Il sorso è lineare, snello, con ancora una buona corsa. E’ questo il millesimo con il quale uscirà poi sul mercato, un paio d’anni dopo, per la prima volta, la Riserva Tenuta Camaldoli¤. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2010. Sono questi gli anni in cui si comincia a lavorare con una certa continuità in vigna con un approccio più consapevole. Oggi ne viene fuori un vino dal colore marcato da toni scuri, granato con note aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere. Ha naso empireumatico, severo, conserva buona pulizia olfattiva restando però concentrico (terra, radici, polveri) consegnando tuttavia un sorso asciutto, agile con una marcata connotazione salina. 12,5% di alcol in volume in etichetta.

** Piedirosso Campi Flegrei Colle Rotondella 2007. Annata calda e asciutta, si direbbe di frutto più che di terroir, a quel tempo capace di tirare fuori vini di grande godibilità un po’ ovunque in Campania, pieni e insolitamente carnosi soprattutto per il varietale flegreo. Ne resta un vino dal colore granato con note aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso ha bisogno di qualche minuto per liberarsi da un po’ di riduzione, lasciando poi spazio a sentori di prugna e amarena sotto spirito, sentori di sottobosco e humus, frutta secca, chiodi di garofano, erbe medicinali. Non male per una bottiglia che certamente non aveva alcuna velleità di arrivare ad oggi! Il sorso è asciutto e abbastanza fresco, anche caldo seppur non lunghissimo. 13% di alcol in volume in etichetta.

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***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre 

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Miniere

26 settembre 2020

Verso metà dell’800 accadeva sempre più di sovente che a Tufo, di tanto in tanto alcuni pastorelli rinvenivano pietre che al fuoco bruciavano sviluppando un forte odore acre di anidride solforosa, erano perlopiù sassi giallo-grigiastro composti di zolfo, gesso e argilla.

Quasi nessuno però diede particolare rilevanza a questi ritrovamenti sino a quando Francesco Di Marzo, Signore e proprietario di larga parte di questi luoghi, prese a incoraggiare i pastorelli a ricercare con maggior lena quelle pietre e dargli la posizione esatta dei luoghi di rinvenimento. Di Marzo era un uomo spiccio, parecchio deciso, non ci mise molto ad intuire che là da qualche parte vi fossero delle miniere che aspettavano solo di essere scoperte. Correva l’anno 1866!

Come spesso accade però, questo pezzo di storia trova una contrapposizione abbastanza netta con quanto tramandato invece dalla famiglia di Federico Capone di Altavilla, che sostiene sia stato lui lo scopritore delle miniere di zolfo; c’è da dire infatti che da queste parti, le imprese minerarie furono sin dall’inizio due, con due distinte proprietà e due fabbriche: quella della famiglia Di Marzo e la Società Anonima Industrie Minerarie (SAIM¤) che, del resto, delle due è l’unica sopravvissuta al tempo e ancora in parte funzionante nel comune di Altavilla Irpina.

Non c’è dubbio alcuno però che a Tufo furono certamente i Di Marzo che promossero nel tempo tante iniziative sociali che ritornava in qualche modo benessere all’areale, gli annali raccontano del primo cinematografo, dell’asilo e della scuola per i bambini, l’istituzione della società operaia, cui s’affiancarono negli anni una nuova coscienza dei diritti e dei doveri, del senso civico e man mano uno sviluppo culturale e sociale della comunità che intravedeva finalmente prospettive concrete di emancipazione.

E’ un’atmosfera decisamente lontana negli anni ma che sembra continuamente riecheggiare nell’aria mentre ci cammini le vigne qui sopra le vecchie miniere di zolfo a Tufo dove, tra gli altri, ci lavorava anche il nonno di Angelo Muto, con la nonna, invece, che aveva come compito quello di trasportare i candelotti di esplosivo utilizzati negli scavi della maniera. Lavori umilissimi, duri, pericolosi ma per tanti anni considerati manna dal cielo per queste terre in cerca di rinascita e affrancamento, lavori che hanno dato da vivere a centinaia di famiglie e l’opportunità di creare reddito e prospettive di riscatto sociale. 

Nel solco di una storia famigliare così radicata proprio qui, nel 1995 Angelo decide di acquistare proprio dai Di Marzo questi 8 ettari che si estendono tra la vecchia polveriera e l’ingresso della miniera, esattamente là dove i suoi nonni ci hanno passato una vita intera.

Di questi, poco più di 3 ettari sono vitati e votati interamente al Greco di Tufo, da qui proviene, per l’appunto, il Miniere, un bianco di straordinaria capacità evocativa, dal sapore ancestrale ma assolutamente capace di rappresentare pienamente la consistenza di questi luoghi e lo spessore dei suoi valori, un vino autentico, ossuto, pregno di consistenze ma privo di sovrastrutture, inutili ideologie, sostanza di una viticoltura semplice, attenta alla natura, sostenibile e conservativa, come il buon lavoro fatto in cantina da Luigi Sarno, al fianco di Muto sin dai suoi primi passi.

E’ una piccola enclave Miniere, dentro un territorio nemmeno tanto ampio ma che conta ben 670 ettari di vigne iscritte all’albo della Docg, riconosciuta con Decreto Ministeriale nel Luglio del 2003, con una produzione annuale di poco più di 4.000.000 di bottiglie e 8 comuni ammessi: Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Petruro Irpino, Prata di Principato Ultra, Santa Paolina, Torrioni e, per l’appunto Tufo; ovunque qui le coltivazioni sono poste ad altitudini che vanno dai 300 ai 700 metri s.l.m., in molti punti – come qui nelle terre di Cantine dell’Angelo -, lungo pendii particolarmente ripidi, in mezzo a boschi, su terreni fortemente caratterizzati da argilla e calcare, con stratificazioni vulcaniche, sabbie, gesso e minerali (zolfo) visibili già in superficie, in alcuni punti più chiaramente che in altri.

L’Aminea Gemina, di cui si parla già nelle Georgiche¤ di Virgilio, è una varietà arrivata qui dalla Tessaglia, per merito dell’antico popolo dei Pelasgi¤, così chiamata per la caratteristica forma del grappolo che presenta una spiccata gemmazione laterale, a renderlo quasi doppio, gemello, appunto. L’uva da generalmente un vino dalla tipicità ineguagliabile, con profumi che ricordano la pesca, l’albicocca, il caprifoglio, la mandorla amara, citronella, pompelmo, iris, zenzero e cannella quando più maturo. E’ dotato di spiccata acidità nonché di sostanze fenoliche che la buccia rilascia in abbondanza naturalmente durante la pigiatura. Per questa ragione il Greco viene anche definito un ‘’vino rosso mascherato da bianco’’.

**** Greco di Tufo Miniere 2018. E’ stato un millesimo abbastanza complesso, con una primavera fresca e piovosa e una lunga estate inizialmente tiepida e poi calda e siccitosa con qualche fibrillazione in fase di vendemmia. Tutto però sembra ritornare perfettamente nel bicchiere, con un vino dal profilo slanciato, agile eppure teso e vibrante, con il suo caratteristico timbro particolarmente minerale. Il colore è uno splendido paglia oro appena dorato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco, insolitamente complesso già ora, riconoscibilissimo, con quella sua matrice di zolfo che lascia poi spazio a fiori e frutta a polpa gialla matura. Il sorso è tanta roba, ha struttura, equilibrio e morbidezza con un finale di bocca piacevolissimo e sapido.

In diversi areali campani l’annata duemilasedici si è rivelata altalenante e sembrava non promettere benissimo a causa di gelate primaverili che in molti casi hanno segnato a fine ciclo una sensibile riduzione di produzione. L’estate, però, è stata di quelle classiche, capace di mantenere il ritmo del ciclo vegetativo costante nonostante un autunno abbastanza umido. Ne sono venuti fuori vini di buon equilibrio, con struttura, acidità e, per i rossi, tannini di grande armonia, senza far mancare punte di eccellenza in certi areali più che in altri. Vini di buona struttura insomma ma che non mancano di freschezza e nerbo, sia nei rossi che nei bianchi con ottime prospettive di longevità.

**** Greco di Tufo Miniere 2016. Miniere duemilasedici è giallo paglierino tendente al dorato. Ha un naso ricco e riconoscibile, ben oltre le note sulfuree e salmastre che certo sorprendono ma poi lasciano il campo a sentori di caprifoglio, citronella, albicocca, mandorla amara. Il sorso ci pare più equilibrato e morbido del precedente, probabilmente meno profondo ma non certo meno distintivo, rinnovando quel finale di bocca in cui ritorna perentoria la piacevolissima e personalissima trama sapida che lo caratterizza appieno.

**** Greco di Tufo Miniere 2014. La duemilaquattordici è stata un’annata particolarmente austera, scarsa da un punto di vista produttivo in diverse aree della Campania ma in grado di rivelare anno dopo anno tante belle bottiglie capaci di sorprendere e affascinare. E’ giallo oro quel che ci arriva nel bicchiere, qui l’anima sulfurea e minerale è rimarchevole e caratterizzante, in secondo piano tante piccole sfumature, di fiori e frutta passita e candita, ci trovi uvetta, scorze di arancia amara, zenzero, poi frutta secca accompagnate da un sorso di carattere, anche sgraziato, dritto e indirizzato a un finale di bocca sapido, in un quadro gustativo che regala una bevuta dal piacere assolutamente edenico.

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Segnalazioni| Campi Flegrei Piedirosso Terrazze Romane 2018 Cantine del Mare

17 settembre 2020

Continua il momento magico per questo straordinario territorio a nord di Napoli e per i suoi meravigliosi vini, in particolare per il Piedirosso dei Campi Flegrei¤, risultato di un duro lavoro cominciato molti anni fa e con non pochi alti e bassi, con tanti dei protagonisti continuamente alle prese con scelte talvolta condivisibili altre volte meno.

E’ all’esame di maturità Gennaro Schiano, il suo leggere il Piedirosso ha trovato da tempo un’apprezzabile quadratura, gli ultimi assaggi di tutte le etichette prodotte sono più che confortanti e danno prova di vini ricchi di personalità, pienezza espressiva e di grande piacevolezza; tra queste, emerge con considerevole slancio Terrazze Romane duemiladiciotto, un Cru proveniente dalle vigne terrazzate di via Bellavista a Bacoli, riprese in etichetta, che affacciano sulla Spiaggia Romana tanto cara a Publio Servilio Vatia, console e militare della Repubblica romana che qui si ritirò a vita privata.

Si tratta di una manciata di bottiglie che testimoniano appieno la qualità del grande lavoro in vigna e in cantina di questi ultimi anni; il colore è splendido, rubino vivace, luminoso come sacro fuoco, il naso è un portento, fitto, ampio, finissimo, pieno di rimandi a frutta rossa polposa, sa di ciliegia e melagrana, floreale di rosa, peonia e gerani, con appena un accenno di balsami e macchia mediterranea; il sorso è rotondo, appare sottile e disteso, si fa poi largo e si allunga ad ogni assaggio, abbastanza morbido, ricco di tanto frutto polposo, teso il giusto, dissetante. E’ un piccolo manifesto questo vino, oggi pronto a bersi con soddisfazione ma siamo certi anche capace di maturare e sorprendere nel tempo; da portare in tavola con primi al ragù di mare ma anche con carni stufate o preparate al forno con contorni di verdure.

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Torrefavale, quell’ettaro di follia pura!

16 settembre 2020

E’ un luogo fuori dal tempo Torrefavale, nascosto lassù tra le braccia dei boschi di Tufo; mentre ci arrivi, durante la lunga e faticosa salita, attraversando anfratti tortuosi e passaggi con rientranze in bilico sul vuoto scavati nella roccia dura, ti rendi conto di cosa muove effettivamente uno come Angelo Muto nel tirarci fuori da qui questo vino: follia, follia pura!

Stiamo parlando di circa un ettaro collocato a 550 metri s.l.m. sopra Tufo, qui la superficie di argilla e calcare copre un sostrato di zolfo e ferro i cui residui sono ben evidenti in molti punti della vigna dove alcune delle piante sono addirittura vecchie 100 anni. Spesso siamo portati ad identificare con il termine “tufo” rocce di natura assai diversa. Sono tali ad esempio calcari teneri, travertini leggeri porosi, arenarie friabili, calcaree o argillose, ma più propriamente questo nome va riservato a rocce piuttosto incoerenti, certamente di origine piroclastica, formatesi con l’accumulo di frammenti di materiali vulcanici che le eruzioni, nelle loro diverse fasi esplosive, spingono via dai magmi interni e li proiettano sulla superficie della terra intorno alla bocca eruttiva e, come in questo caso, ben oltre. E’ questo materiale che può essere di natura e di calibro diverso: da blocchi anche di qualche metro cubo si passa gradatamente a sabbie fini e a polveri impalpabili. Proprio come la terra delle vigne che abbiamo camminato in lungo e in largo a Tufo che qui a Torrefavale pare concentrarle tutte!

Da questa terra unica, salubre, ricca di biodiversità, favorita da un microclima straordinario, ne viene fuori un vino immortale, capace di attraversare il tempo con una certa disinvoltura, una versione di Greco di Tufo fine ed elegante, non confondibile nemmeno con il Miniere, l’altro Greco di Cantine dell’Angelo, generalmente più sgraziato e opulento, probabilmente quello più autentico di Angelo Muto o più semplicemente quello più amato ed apprezzato dagli appassionati.

**** Greco di Tufo Torrefavale 2019. L’annata ha consegnato un inverno mite e poco piovoso, con una primavera fredda, in special modo nella prima parte, con temperature talmente rigide da rallentare in molti casi la fase fenologica del germogliamento e un ritardo della fioritura dovuto anche alle piogge frequenti sino a Maggio. Per fortuna l’estate è stata regolare e le maturazioni sino alla vendemmia sono state in linea con le aspettative di una buona annata. Abbiamo nel bicchiere un vino certamente giovanissimo, dal colore paglia oro luminoso. Il naso, in questo momento, regala soprattutto sentori di balsami e di olî essenziali, di frutta a polpa bianca e gialla, sa di erbe aromatiche, fiori di campo, pera e pesca. Il sorso è caratterizzato da una importante spalla acida, una tessitura finissima ma evidente che conduce a una persistenza gustativa notevole. Stare qualche mese ancora in bottiglia gli gioverà senz’altro per ritrovarlo più disteso.

**** Greco di Tufo Torrefavale 2018. L’andamento climatico ha consegnato un’annata complicata più che complessa ma nell’insieme si può dire di aver portato in cantina uve che hanno dato vini di una certa personalità, ossuti, tesi e vibranti, per quanto riguarda i Greco di Tufo anche molto sapidi. Si può dire che sono queste le annate in cui il manico, in questo caso quello di Luigi Sarno che aiuta Angelo Muto da sempre, conta molto per non disperdere il patrimonio varietale e territoriale delle uve di questo areale. Anche qui nel bicchiere ci arriva un bianco dal colore paglia oro con un tono lievemente più luminoso sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ampio e ricco di sfumature, emergono sentori di fiori gialli e frutta polposa, pera e pesca bianca, cui s’aggiungono note balsamiche di erbette ed appena un cenno di salmastro e sentore fumé. Il sorso è una stilettata di freschezza, è un bianco pieno di verve, capace di ben asciugare la bocca regalando però un finale gustativo piuttosto sapido.

***/* Greco di Tufo Torrefavale 2014. Come spesso accade il Greco di Tufo dopo i primi anni in bottiglia in cui sembra percorrere strade piene di curve e saliscendi, dopo un po’ incontra il rettilineo sul quale spinge forte rallentando di tanto in tanto solo per dare respiro al suo motore vitale, la mineralità. E’ di colore oro, nemmeno troppo maturo, questo duemilaquattordici, ora però la nota salmastra e lo zolfo sono preminenti e incisivi, la frutta che vi si coglie è perlopiù disidrata e candita, le erbe officinali e gli aromi sono perlopiù di spezie in polvere. Il sorso è invece ben fresco e molto sapido, la verticalità del naso prende decisamente il largo sulla rigorosa staticità della bocca, che resta conservativa, insieme ci consegnano un vino assolutamente didattico.

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E poi c’è Rosanna

10 settembre 2020

E’ lei, Rosanna Petrozziello della Cantina I Favati, donna caparbia, energica e solare, qualità che ritrovi pienamente nei suoi vini, in particolare nei suoi Fiano di Avellino, sia nella veste classica del Pietramara Etichetta Nera che quando imbottigliati con l’Etichetta Bianca riservata alle annate straordinarie.

Guai però a parlarle di ”specializzazione” sul Fiano, non ne vuole proprio sentir parlare, tanto per l’impegno che ci mette nel tirare fuori anche ottimi Greco di Tufo, Aglianico e Taurasi, sin dai suoi primi timidi passi mossi in cantina qui a Cesinali, nel 1996, quanto perché questa scelta, a suo tempo, l’ha letteralmente scaraventata nel mondo del vino, portandola a mollare tutto e dedicare tutta se stessa all’azienda di famiglia dei fratelli Favati, con suo marito Giancarlo e il cognato Piersabino al suo fianco. 

Tra vigne di proprietà e in conduzione, collocate in più aree Doc e Docg dello splendido territorio irpino, I Favati lavora oggi poco più di 16 ettari, con il Fiano di Avellino proveniente perlopiù dalle vigne di via Pietramara ad Atripalda – nella foto sotto, con Giancarlo Favati, ndr -, l’Aglianico da alcune parcelle provenienti dai comuni di Montemarano e Venticano, il Greco di Tufo da Santa Paolina.

Ciononostante per noi resta il Fiano di Avellino che emerge perentorio nella batteria dei buonissimi vini assaggiati. Il Pietramara di Rosanna, seguita da sempre nel lavoro di cantina dal bravo Vincenzo Mercurio, conserva in sé l’anima del grande vino, ha verticalità e spessore e il tempo ci continua a consegnare ampie conferme. Resta infatti una lettura varietale (e territoriale) capace di esprimere equilibrio ma anche e soprattutto opulenza ed eleganza; è un bianco vivace e invitante quando giovane, talvolta anche sopra le righe, ruffiano e per certi versi fuorviante, ma al contempo capace di offrire ampi spunti di profondità e complessità olfattive e gustative al pari dei migliori vini bianchi del mondo.

La vigna di Atripalda è a poche curve dalla cantina di Cesinali, conta circa 5 ettari, è un piccolo anfiteatro naturale che si apre da nord-est a nord ovest e arriva in certi punti a circa 450 metri s.l.m.. Ai piedi delle vigne insiste un piccolo insediamento boschivo, nelle vicinanze ci passa il fiume Sabato, a monte ancora querce, castagni, noccioleti e vegetazione sparsa lungo una dorsale costantemente spazzata dal vento, dove l’uva si avvantaggia, in certe annate, di una maturazione lenta e tardiva, giovandosi anche di particolari escursioni termiche notturne. Quello che ne viene fuori è uno spettacolo liquido per le papille gustative tutto da assaporare!

**** Fiano di Avellino Pietramara 2019. Millesimo fortunato, che sembra aver regalato vini in forma smagliante, dal colore paglierino intenso con accenni oro sull’unghia del vino nel bicchiere. Il calice sprizza fiori gialli, agrumi e frutta a polpa gialla, con note anche tropicali, ci trovi dentro caprifoglio e timo, pesca e susina, mango. Il sorso è fresco ed equilibrato, col tempo saprà ”allargarsi” ma resta un assaggio di notevole persistenza.

****/* Fiano di Avellino Pietramara 2018. Buono ogni oltre ogni ragionevole dubbio, di quelle bottiglie indimenticabili, dal colore luminoso paglia oro. Il naso è ampio e complesso, il ventaglio olfattivo dona tanti spunti, note floreali, macchia mediterranea, sentori che lasciano spazio a profumi più maturi di frutta a polpa gialla (pesca noce e mango) sostenuti da balsami e agrumi, accenni salmastri. Il sorso è carico di buona materia, polposo e fresco, succoso ed equilibrato, persistente da masticare, finemente intessuto.

I due ettari di Greco di Tufo, come dicevamo, sono invece in conduzione a Santa Paolina, collocati, per intenderci, nella parte alta che si alza sopra Cutizzi, più verso il centro del paese, nel cuore di una delle tre Denominazioni di Origine Controllata e Garantita irpine, e da qui proviene il Terrantica.

Del Greco ne abbiamo ampiamente raccontato  e non smetteremo mai di farlo, non è un vino “facile”, tutt’altro: è un bianco che va lasciato respirare e soprattutto servito ad una giusta temperatura (12°-14°) per non ghiacciare con le papille gustative anche i sottili ma persistenti profumi varietali e minerali, quella vivacità gustativa che sorso dopo sorso si tramuta in una profondità davvero encomiabile, che avvolge il palato e non lo lascia più, per molto, molto tempo.

**** Greco di Tufo Terrantica 2019. Il colore è giallo paglierino, appena un po’ più marcato oro sull’unghia del vino nel bicchiere. Ha un naso sottile, profuma di frutta a polpa bianca e di agrumi, di fiori e frutta secca. Il sorso è fresco e sapido, un poco statico in questo momento, però fresco e gradevolmente sapido. Sarà certamente una splendida rivelazione con qualche mese ancora di bottiglia, ne siamo sicuri!

**** Greco di Tufo Terrantica 2018. Già nel colore paglierino oro sembra voler raccontare qualcosa in più della sua sostanza, ha un naso complesso e invitante, tira fuori sensazioni agrumate e fruttate di pompelmo e albicocca, di mela cotogna e pesca matura. Il corollario regala anche note più sottili di balsami che richiamano gelsomino e zenzero, macchia mediterranea. Il sorso è fresco e gratificante, morbido e fine, con buon equilibrio e persistenza gustativa, dei tre Greco in batteria quello di maggiore efficacia.

***/* Greco di Tufo Terrantica 2016. E’ stato un millesimo complesso con alcuni giorni di pioggia proprio nel mese di ottobre ma in fin dei conti ci sembra venir fuori ancora un buon Greco, caratterizzato da piena maturità espressiva, forse una spanna sotto i precedenti anche se proprio qui emergono sin da subito la mineralità sulfurea e l’acidità che caratterizzano il Greco di Tufo nelle sue espressioni più tipiche. Il colore è oro, con un naso che sa di camomilla, malto ed erbe officinali, mela cotogna, zenzero e ancora qualche tono balsamico; il sorso è pieno, asciutto, ancora deciso e persistente ma nel complesso, forse, un po’ distante dalla piena e coinvolgente complessità olfattiva.

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Lapio, Fiano di Avellino Tognano 2017 e 2016 di Rocca del Principe

5 settembre 2020

E’ un luogo d’elezione per il Fiano di Avellino Contrada Arianiello, a Lapio; camminarci le vigne, calpestare questa terra argillosa, lasciarsi carezzare il viso dal fresco soffio del vento, continuamente baciati dal sole, dona sensazioni di appartenenza straordinarie che arrivati a Tognano sembrano conquistare pienezza e consistenza irreprensibile, un luogo segnato da una pietra miliare scolpita nella roccia lapiana.


C’ha messo qualche anno Ercole Zarrella nel decidersi a mettere in bottiglia una quota parte del suo Fiano di Avellino proveniente da questo pezzo di terra, tirandone fuori un nuovo vino, qui dove insistono tra l’altro residui di lapilli e pomici nel substrato e il vitigno sembra aver conquistato piena coscienza della sua proverbiale forza evocativa, la sua capacità di maturare, evolvere, crescere senza disperdere nemmeno un filo della sua freschezza e della sua viva materia.

E’ il 1990 quando proprio qui si piantano i primi filari specializzati di Fiano, è anzitutto qui che negli anni a seguire si lavora per conservare una propria identità caratteriale innestando la restante parte del vigneto, oggi di 4 ettari, con talee provenienti esclusivamente dalle vigne di proprietà. Per la prima volta, con l’annata 2014, venne fuori Tognano, proprio da queste vigne che giacciono su terreni caratterizzati da argille e sabbie di medio impasto, tratteggiati da consistenti sedimenti di origine vulcanica, dove il microclima è particolarmente asciutto e ventilato, poste a circa 550 mt s.l.m..

Le uve vengono di sovente raccolte ai primi di ottobre, sottoposte a macerazione con le bucce per circa 15 ore, lasciando il mosto fiore fermentare in acciaio per circa 45 giorni; un protocollo di base, non certo un dogma, soprattutto da quando in cantina c’è Simona Zarrella, la giovane enologa di famiglia, a scuola con Luigi Moio in cattedra, che a quanto pare sembra avere le idee ben chiare, quello che conta è l’attenzione e la particolare aspettativa che si nutre per le uve provenienti da questo che possiamo definire a tutti gli effetti un vero e proprio Climat.  


Il vino resta poi in acciaio per almeno un anno, tanto quanto in bottiglia prima di vedere l’uscita sul mercato. Ad occhi chiusi, bicchiere alla mano, pare di stare ad appena un palmo di mano da certi territori d’oltralpe, tipo Chablis e dintorni, luoghi tanto amati dai cercatori di emozioni più attenti. Qualche anno fa scrivemmo che il tempo e l’intraprendenza di alcuni farà di Lapio, con ogni probabilità, un vero e proprio Cru della Docg alla maniera borgognona, non siamo poi tanto lontani, in effetti, frattanto ci accontentiamo, se così si può dire, di godere di bianchi ogni anno più coinvolgenti, profondi, pienamente espressivi a tal punto dall’essere, in certi casi come questo, davvero unici.

****/* Fiano di Avellino Tognano 2017. L’annata è ritenuta calda, torrida per certi versi, eppure sia il colore che l’impronta olfattiva di questo vino sembrano consegnare al bicchiere un racconto tutt’altro che scontato. L’aspetto conserva un bel giallo paglia, ben luminoso, mentre il naso sovrappone sentori fruttati di frutta a polpa gialla a piacevolissimi rimandi agrumati, poi balsamici, di macchia mediterranea, con un abbrivio finanche salmastro. Il sorso è secco, riempie la bocca con la sua morbida piacevolezza, carico di frutto, possiede buona persistenza gustativa, di finissima tessitura.

***** Fiano di Avellino Tognano 2016. E’ una splendida lettura varietale questo Tognano duemilasedici, davvero suggestivo e ricco di stoffa. Il colore è splendido, paglia oro, il naso regala frutta a polpa bianca, anche esotica, fiori gialli, erbe aromatiche, spezie, balsami, richiami salmastri. Ha però forma e sostanza, si conferma la duemilasedici una grande annata da queste parti, l’annata della gioia come abbiamo già avuto modo di dire qualche recensione più in là, un millesimo che ha regalato vini di gran frutto e spalla acida, trame finissime ordite con manico intelligente. Vini consegnati nelle mani del tempo, certamente capaci di evolvere, mutare, superando i tratti più immediati del varietale per lasciare spazio al carattere minerale più complesso e identitario che lo lega indissolubilmente a questo straordinario territorio.

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Segnalazioni| Irpinia Coda di Volpe del Nonno 2018 Cantine dell’Angelo

3 settembre 2020

Varietà coltivata un po’ su tutto il territorio campano, la Coda di Volpe ha trovato riparo favorevole soprattutto nel Sannio, in particolare nei dintorni del Taburno dove oggi è molto diffusa, prima ancora sul Vesuvio, spesso imposta dai grandi imbottigliatori impegnati nella ”Tafèca”, dove però negli ultimi anni si sono affrettati a ”sostituirla” con il Caprettone.

E’ in Irpinia da sempre, non a caso resta la varietà a bacca bianca più diffusa nell’areale di Taurasi, largamente coltivata e inserita nei disciplinari sia del Fiano che del Greco docg. Qui a Tufo era pressoché scomparsa, se non in questo piccolo lembo di terra della frazione San Marco. E’ stato un lavoro di recupero non semplice, partito nel 2014 quando Angelo Muto ha innestato a Coda di Volpe poco meno di mezzo ettaro di vigna di un piccolo appezzamento che fu del nonno, a cui ha voluto dedicare l’etichetta. Dopo un paio di micro vinificazioni di prova andate a buon fine, con l’annata duemiladiciotto sono venute fuori le prime pochissime bottiglie, poco più di 2.500.

Rappresenta certamente un risultato incoraggiante, cosa ne sarà potrà dirlo solo il tempo, con le prossime vendemmie, frattanto ci è sembrato un bianco che viaggia parallelo agli altri due bianchi di Cantine dell’Angelo, i Greco di Tufo Miniere e Torrefavale. Se il primo rappresenta appieno l’idea di Greco di Muto, voluminoso e concreto, mentre Torrefavale resta un viaggio nel tempo tutto da affrontare, questa etichetta qui sembra volerci consegnare il gusto del momento, quel sapore dei vini immediati di una volta, non a caso forse dedicato al nonno.

Il colore è paglia oro, abbastanza luminoso, il naso è sobrio ma fine, qualche lieve nota floreale e agrumata, sa di fiori gialli e bergamotto, della frutta a polpa gialla, di nespola. Il sorso è notevolmente fluido, gratificante, morbido, sapido. E’ un bianco da pasta asciutta con sughi leggeri, oppure da spendere su una buona zuppa di legumi o cereali, ci vengono in mente ad esempio una ”Vellutata di Cicerchie” oppure ”Farro e Porcini”.

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C’è il racconto di un pezzo di territorio del Greco di Tufo dentro il Cutizzi di Feudi di San Gregorio

1 settembre 2020
Proprio sul confine tra i comuni di Tufo e Santa Paolina insiste una particolare conformazione territoriale di superficie, fragile e di difficile gestione e conservazione, che periodicamente mette a dura prova i vignaioli e le aziende che ostinatamente, provano a preservarne lo spettacolo della natura che qui alterna valli e costoni impervi coltivati a Greco a scenari boschivi aspri e selvaggi, disegnando paesaggi unici e tratteggiando vini tra i più complessi e caratteristici di tutto l’areale.

Lungo questa frattura di superficie si coglie in tutta evidenza la particolare differenza dei terreni che da queste parti, dove le rocce affioranti risultano intensamente frantumate e la terra assume varie connotazioni e colori bruni, divenendo molto suggestiva per via della diversa natura organica, delle varie esposizioni e della luce del sole che l’attraversa durante il giorno. Una terra faticosa da lavorare, con al centro la vigna e tutto intorno una rara e preziosa biodiversità vegetale da tutelare.

Ne viene fuori una particolare energia che si coglie appieno nell’aria: non appena ci arrivi qui a Cutizzi, appena scollinati, ti accoglie un avvenente e caratteristico profumo di erbe e fiori, di piante e cortecce aromatiche, una mescolanza di essenze con freschi profumi di rosmarino e timo che si colgono chiarissimi nell’aria, è qualcosa di straordinario, da provare per credere, vieppiù quando questi stessi sentori te li ritrovi poi ben precisi e amplificati nei vini qui prodotti.

Sono questi terreni eterogenei, perlopiù calcarei e argillosi, ricchi di limo, in alcuni punti di materiale piroclastico, in altri di materia organica, in altri ancora di gesso, ad ogni modo ”acidi” e abbondanti di sostanze minerali, circondati da boschi, con vigne ben ventilate ed esposte, dove un microclima con importanti escursioni termiche garantisce pieno equilibrio alla maturità delle uve sino al raccolto. Da qui proviene questo Cru di Greco di Tufo di Feudi di San Gregorio, un bianco capace in certe annate di slanci notevoli senza mai perdere la forte caratterizzazione originale.

Il Greco è storicamente conosciuto come l’Aminea Gemina di cui parlavano già i Georgici Latini, una varietà importata dalla Tessaglia dall’antico popolo dei Pelasgi, varietà così chiamata per la caratteristica forma del grappolo che presenta una spiccata gemmazione laterale, a renderlo quasi doppio, gemello, appunto. Il vino Greco di Tufo ha ottenuto il massimo riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata e Garantita con Decreto Ministeriale il 18/07/2003.

Le proprietà in questi luoghi sono estremamente frazionate, sono pertanto abbastanza pochi gli esempi di vinificazione in purezza di singole sottozone o, come in questo caso, addirittura di un singolo vigneto. La maggior parte delle aziende imbottigliatrici, infatti, è costretta di sovente a lavorare piccole partite, producendo il più delle volte vini che sono il risultato di un assemblaggio di più vigne e di aree diverse tra loro, talvolta provenienti da più comuni del circondario, elemento questo che avvalora ancor di più la scelta di chi punta dritto sul vino da singola vigna.

**** Greco di Tufo Cutizzi 2019. E’ senz’altro tra i primi ”Single Vineyard” prodotti in zona Greco di Tufo docg, Feudi di San Gregorio è qui da oltre trent’anni, in pochi lo sanno ma gestisce una buona parte dei 670 ettari dell’intera denominazione di origine controllata e garantita, in larga parte di proprietà o comunque in conduzione esclusiva pluriennale. Il colore di questo duemiladiciannove è paglierino ben luminoso, con appena accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere, al naso esprime tutta la tipicità di cui si raccontava, con un profilo olfattivo ben definito, erbaceo, floreale e fruttato che spazia dalle erbe aromatiche (rosmarino e timo, appunto) al salice, dalla prugna alla pera, con sentori via via impreziositi da toni balsamici che ne amplificano verticalità e fragranza. Il sorso è secco, certamente fresco e sapido.

**** Greco di Tufo Cutizzi 2018. Il colore paglia ne anticipa il gran carattere, al naso ha già maggiore ampiezza rispetto alla verticalità del millesimo precedente, i profumi che vengono fuori sono anzitutto fiori d’acacia, frutta a polpa gialla, c’è susina e pera kaiser, con una delicata sensazione salmastra appena accennata. Colpisce la ricca struttura, piena rappresentazione di un bianco pregno di stoffa, di frutto e buona acidità, che conserva quindi un sorso agile e di buon equilibrio, in perfetto stato di grazia in questo momento, con una decisa persistenza gustativa e un finale di bocca decisamente appagante.

C’è il racconto di un bel pezzo di territorio del Greco di Tufo dentro il Cutizzi di Feudi di San Gregorio, un racconto che proveremo nelle prossime settimane ad ampliare e rendere più esaustivo, crediamo però che nessuna narrazione di questo areale può essere pienamente rappresentativa senza camminare e raccontare anche questo pezzo di terra di confine, sott’ Cutizz’, come dicono da queste parti.

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Lapio, storica verticale di dieci annate di Fiano di Avellino di Rocca del Principe

26 agosto 2020

Rocca del Principe nasce nel 2004, sino ad allora la proprietà familiare conferiva le proprie uve, come spesso accadeva da queste parti, a terzi produttori imbottigliatori; così Ercole Zarrella, sua moglie Aurelia Fabrizio ed il fratello Antonio decisero di mettersi in proprio e puntare dritto nel produrre Fiano di Avellino, Aglianico e Taurasi che esprimessero al meglio una precisa loro idea di vini di territorio.

Oggi, a distanza di più di tre lustri, Rocca del Principe offre davvero un piacevole colpo d’occhio a chi arriva qui a Lapio, la cantina è proprio sulla strada provinciale Appia, in Contrada Arianiello, conta all’incirca 10 ettari di proprietà dei quali 6 coltivati a Fiano e più o meno 1,5 ad Aglianico. Le vigne del Fiano sono tutte allocate proprio lungo il colle Arianiello, la parte più alta (e suggestiva) di Lapio che rappresenta, non solo per gli appassionati, una delle zone in assoluto più vocate in regione alla coltivazione di Fiano di Avellino, possiamo dire un vero e proprio Grand Cru della denominazione.

I primi impianti risalgono in larga parte al 1990, con alcuni reimpianti del 2014, collocati su due versanti opposti del colle, a Nord e a Ovest. Il vigneto di Aglianico insiste invece in contrada Campore, anche questo da annoverare tra i luoghi di maggiore vocazione del territorio per il Taurasi, posto a 500mt s.l.m. con esposizione Sud/Est, su terreni caratterizzati soprattutto da marne argillose e calcaree, areale questo qui a Lapio dove l’Aglianico è sempre stato coltivato con grandi risultati prima di lasciare strada alla vasta diffusione del Fiano, vitigno che anche qui ha rischiato seriamente di scomparire del tutto prima di essere riportato a nuova vita, a partire dalla fine degli anni ’70, sulla spinta del grande successo commerciale delle bottiglie prodotte dalla famiglia Mastroberardino.

Qui la diversità dei terreni è fondamentale, la loro differente composizione incide in maniera molto particolare sul vino che ci arriva nel bicchiere. Parte degli ettari di Fiano, circa 4 e mezzo, sono collocati tra la parte più alta della proprietà a 600mt s.l.m. del versante nord di Contrada Arianiello, sino a degradare ai 550mt di Contrada Tognano, dove godono di un clima più fresco e ventilato con escursioni termiche decisamente più accentuate rispetto al circondario della docg. I terreni di questa zona poi sono più sciolti, caratterizzati da chiare origini vulcaniche, costituiti da uno strato superficiale di limo, sabbia, arenarie e lapilli e solo in profondità da argilla; una caratteristica che permette al suolo di trasmettere umidità anche nelle annate più calde, non a caso i vini prodotti in questa zona sono generalmente più fini ed eleganti ma anche più ricchi in acidità, nonché capaci di donare sensazioni minerali più accentuate.

La restante parte di Fiano è collocata sul versante Ovest sempre di Contrada Arianiello e in Contrada Lenze, entrambi a circa 570mt sul livello del mare. Da questa parte il microclima è generalmente più caldo ed asciutto ed il terreno più compatto, perlopiù di natura argillosa-calcarea con marne argillose in evidenza. I vini provenienti da questa zona sono di solito più ricchi, fruttati e morbidi.

I vini ottenuti dai due versanti confluivano generalmente in unico Fiano di Avellino, almeno sino al duemilaquattordici, da quando, dopo un’attenta analisi e più di un exploit in termini di espressione massima, si è cominciato a mettere in bottiglia una seconda etichetta con le sole migliori uve provenienti da Tognano, ma di questo ve ne parleremo più dettagliatamente in un prossimo post.

Presto invece ci sarà spazio per un nuovo piccolo Cru, il Fiano di Avellino Neviera, che abbiamo provato in anteprima, frutto di una intelligente e sapiente lettura di una piccola parte del raccolto duemiladiciannove da parte di Simona Zarrella, la giovane enologa di casa, allieva di Luigi Moio¤, già pienamente a suo agio nella cantina di famiglia. E’ un bianco molto interessante, fitto, ampio e complesso, che uscirà probabilmente tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022; le uve provengono da una parcella collocata dove una volta qui a Lapio c’era una neviera, precisamente una conca, ora vitata, che un tempo serviva per l’accumulo delle precipitazioni nevose che, grazie alla particolare connotazione rocciosa dei terreni e alla fitta vegetazione boschiva, riuscivano a conservarsi fin quasi alla fine del periodo estivo. 

Prima di lasciare spazio alle note descrittive dei vini assaggiati, corre l’obbligo di una doverosa premessa: sono tutti vini bianchi di straordinaria fattura, luminosi, verticali, precisi, spesso trasversali, in certe annate infiocchettati a dovere ma comunque buonissimi a bersi nonostante la giovane età. Sono questi vini dove c’è dentro tutta la forza di una terra straordinaria, c’è l’ebbrezza dello spazio infinito sopra Lapio, vissuto senza un filo di vertigini, c’è il sole riflesso sul pelo sull’acqua che non c’è ma se ne sente il fragore, quella calda sensazione che si colloca con precisione millimetrica nel sapore mediterraneo di un Fiano di Avellino avvenente, sferzante, balsamico e sapido, non a caso, sin dagli esordi, tra i migliori in circolazione.

****/* Fiano di Avellino 2019. L’ultimo nato, decisamente verticale e pieno al sorso. Il colore è paglia luminoso, ancora ”verde” sull’unghia del vino nel bicchiere, il corredo aromatico è particolarmente avvenente, floreale e fruttato, vengono fuori fiori d’arancio e litchi, ma anche kumquat e camomilla; l’annata pare offrire tanto equilibrio, ripreso dopo 1 ora, al riassaggio, tira fuori tanta più materia soprattutto al palato, è secco, fresco e sapido.

****/* Fiano di Avellino 2018. Di colore paglia, bello a vedersi, al naso è subito caratterizzato da sentori floreali e fruttati molto fini, ancora fiori d’arancio, poi agrumi (mandarino), degli accenni di frutta secca e balsami, erbe di montagna. Il sorso è asciutto, piacevolmente fresco e sapido, con una buona persistenza gustativa. E’ forse un vino più orizzontale, nonostante l’annata sia stata fresca, ma in questa fase appare infatti distendersi più in larghezza.

**** Fiano di Avellino 2017. Annata calda la duemiladiciassette, torrida per certi versi, l’impronta olfattiva risulta un tantino monocorde. Il colore conserva un bel giallo paglierino, qui le sensazioni fruttate sembrano ben mature, vi si colgono susina e pera, un piccolo accenno salmastro. Il sorso è secco, morbido, possiede buona persistenza aromatica e fruttata.

***** Fiano di Avellino 2016. Si conferma la duemilasedici l’annata della gioia qui a Lapio, annata fresca che richiama alla mente vini tipicamente mediterranei: il colore è paglia con riflessi oro appena accennati, il naso è ricco, voluttuoso, è floreale, fruttato, iodato, il frutto lascia subito spazio alla terra, svelando rimandi di frutta secca e spezie, dello zenzero candito. Nessuna concessione al tempo, sembra appena sbocciato, esempio di come il Fiano, più di ogni altro bianco campano, negli anni, sia capace di mutare lasciandosi alle spalle i tratti più immediati del varietale per lasciare spazio al carattere minerale più complesso e identitario che lo lega indissolubilmente al suo straordinario territorio.

**** Fiano di Avellino 2015. E’ stata una annata di sacrifici la duemilaquindici, appena 45 quintali di resa per ettaro portati in cantina. Resta un bianco di grande equilibrio olfattivo e gustativo. Annata calda, non eccessivamente, ma calda. Il colore conserva quello splendido giallo paglierino luminoso, nel bicchiere ci arriva un vino dal corredo aromatico finissimo ed elegante, aristocratico, è il primo della batteria dal quale cogliamo sensazioni di idrocarburi. Il sorso è secco, caldo, di lunga persistenza e piacevolezza di beva. In etichetta risalta il 14% di alcol in volume.

**** Fiano di Avellino 2014. Ne apriamo un paio, la prima ha qualche problema di sughero, a quel tempo in effetti ci fu qualche impasse con la scelta dei tappi, ci tiene a precisare Ercole Zarrella che ci accompagna nella splendida degustazione. Ci troviamo di fronte ad un grande bianco, intessuto di pienezza e complessità, ricchezza di frutto e tanta sostanza, sembra un bianco di Meursault senza il legno di Meursault. Impegnativo come confronto? Per niente! Di colore paglierino-oro, all’olfatto viene fuori immediatamente la matrice fruttata e speziata, poi la generosa terra, anche note salmastre e terziarie di lievi note di idrocarburi. Non è forse il vino che meglio rappresenta lo stile dei Fiano di Avellino di Rocca del Principe, eppure ci regala una gran bella bevuta.

****/* Fiano di Avellino 2013. Colore imperterrito, nessuna concessione al tempo, paglia-oro luminoso. Vi è in questo vino una dicotomia precisa, c’è un naso intenso, verticale, anzitutto fruttato e balsamico mentre il sorso, pur conservando una certa freschezza e piacevolezza, resta circoscritto e contratto. Buonissimo a bersi ora, ritroviamo il 13% in volume in etichetta.

**** Fiano di Avellino 2012. La longevità di questi vini non sorprende più ovviamente, rimarchevole il grande equilibrio che viene fuori dopo qualche anno di bottiglia, come la finissima tessitura di un bianco di 8 anni che si presenta così in splendida forma. Il colore è perfetto, nessuna dimostrazione di segni di stanchezza, come il naso, subito floreale, poi fruttato maturo, appena empireumatico. Il sorso è coinvolgente e fresco, ha stoffa, è sapido e di buona persistenza aromatica, è da annoverare tra quei vini di cui non smetteresti mai di godere.

***** Fiano di Avellino 2011. Con il duemilasedici il migliore della batteria, magari appena una spanna sotto, senza voler contare gli anni alle spalle. Resta un grandissimo vino! Con tanto frutto e sostanza dentro, c’è terra e sole, come la ’13, la ’16 e la ’18 anche la duemilaundici è stata un’annata di grande equilibrio. Bellissimo il colore paglia-oro, luminoso, il naso è profondo e complesso, un sorso stilla millemila piacevoli sensazioni gustative. Un grande Fiano di Avellino questo di Ercole Zarrella, di quelli che non finiresti mai di bere, offrire, in qualsiasi momento, occasione, abbinamento.

**** Fiano di Avellino 2010. Non è semplice avvicinarsi a certi bianchi senza rimanerne colpevolmente distanti, è qui che con ogni probabilità si comincia a sorseggiare l’anima più ancestrale dei vini di questa terra, dove si coglie l’esperienza del giovane vignaiolo che inizia a ”saper leggere” le sue vigne e la sua terra ben oltre il manico suggerito. Proprio a partire da qui, seppur lievemente, si fanno spazio certi aromi tostati e affumicati tipici di alcuni Fiano di Avellino, di questi territori in particolare, con espressioni molto riconoscibili del varietale e del terroir lapiano, un timbrica votata al minerale che conduce subito a iodio, note fumé e più in generale a idrocarburi.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre

Leggi anche Fiano di Avellino 2011 Rocca del Principe Qui.

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Falanghina Campi Flegrei Vigna del Pino 2017 di Agnanum, il piccolo capolavoro di Raffaele Moccia

20 agosto 2020

E’ un bianco suggestivo e coinvolgente nonostante l’annata sia stata difficile da queste parti, con un andamento altalenante, finanche siccitosa e avara di frutti, che ben rappresenta però tutto lo straordinario potenziale espressivo ed evolutivo del vitigno ma anche, soprattutto, i tratti caratteriali di un territorio unico ed eccezionale che Raffaele Moccia, autentico vignaiolo flegreo, sembra rappresentare al meglio!

Ne scrivemmo appena qualche mese fa, in aprile, l’etichetta non era ancora in commercio, ne avevamo parlato a lungo con Raffaele qualche settimana prima durante l’ultima visita ad Agnanum, rimanendone particolarmente colpiti, Vigna del Pino rimane il suo piccolo capolavoro, un cru di Falanghina prodotto in appena un migliaio di bottiglie.

Un bianco buono a bersi subito, dicemmo allora, celebrazione di un varietale presente in molti territori in Campania e al sud ma che proprio qui, nei Campi Flegrei, in questi scorci metropolitani dove la terra è matrigna e ardente, e si avvantaggia della vicinanza del mare, regala vini che sembrano conquistare significativa complessità, ampiezza e profondità gustativa particolarmente distintive, oggi nel bicchiere, ancora più marcate e coinvolgenti.

Un vino dal colore giallo paglia luminoso, fitto al naso, largo in bocca. Un vino ricco di frutto, pieno di maturità espressiva, vi si colgono anzitutto profumo di gelsi e albicocca matura ma anche sensazioni più sottili di macchia mediterranea, zenzero e pietra focaia. Il sorso è deciso, potremmo definirlo ora, a distanza di mesi, pienamente compiuto, riconoscibile e gratificante, fresco e piuttosto sapido.

Non scriviamo spesso dello stesso vino della stessa annata più volte su queste pagine, vieppiù in un arco temporale così breve, a meno che non si tratti di un riassaggio rimarchevole come questo straordinario bianco flegreo, capace quest’oggi, ancora una volta, di lasciarci letteralmente senza fiato!

Leggi anche L’ultima verità di Raffaele Moccia è nell’ultimo bicchiere del Vigna del Pino 2017 di Agnanum Qui.

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Un bianco per l’estate, anzi dieci, tutti campani e dove trovarli!

13 agosto 2020

Negli ultimi mesi non sono stati pochi i vini che abbiamo raccontato su queste pagine, ebbene, a volerne tirare fuori una decina, appena dieci tra i tanti buonissimi assaggiati, senza far torto a nessuno, proviamo a riproporne alcuni come etichette ”sicure” per le vostre prossime bevute in vacanza in Campania e, per non farci mancare nulla, come meglio apprezzarli in tavola e anche dove trovarli!

Asprinio di Aversa Spumante Trentapioli Brut s.a. Salvatore Martusciello. Di Asprinio di Aversa se ne parla sempre troppo poco, mentre l’esperienza degli anni passati ci è servita per capire che quel suo gusto così spiccato e originale ha invece una marcia in più, davvero originale, unico e particolare! Nelle versioni spumanti diventa poi irresistibile, con quel suo colore brillante giallo paglia, una spuma delicata e fine, dei profumi lievi che rimandano agli agrumi, alle erbette, la pesca, con tanta freschezza e piacevolezza al palato. Buono per la pizza fritta, ad esempio, non poche le pizzeria napoletane che ne hanno fatto un must della loro proposta vini in carta. L’azienda è a Quarto (NA), in Via Spinelli 4 – Tel. +39 081 8766123, con punto vendita a Pozzuoli (NA), in P.za della Repubblica presso la storica Salumeria Guida. La scheda completa Qui.

Asprinio di Aversa Vite Maritata 2019 I Borboni. Ecco una felice versione ferma dell’Asprinio davvero imperdibile! E’ un vino bianco dal colore paglia, il naso consegna profumi di fiori bianchi e agrumi, frutta a polpa bianca, macchia mediterranea. Il sorso è invece teso e vibrante, chiaramente sfrontato, con un frutto chiaro e un sapore asciutto, vivace, finanche citrino di cui sa farne ampiamente virtù. Resta una testimonianza viva del grande lavoro di valorizzazione di questa produzione campana della famiglia Numeroso di Lusciano. E’ un degno compagno a tavola con tutto un po’, sempre valido l’abbinamento con la Mozzarella di Bufala Campana Dop. L’azienda è a Lusciano (CE), in Vico E. De Nicola 7 – Tel +39 081 8141386. La scheda completa Qui.

Costa d’Amalfi Tramonti bianco 2019 Giuseppe Apicella. L’estate ti porta inevitabilmente ad ”alleggerire” la portata delle bevute, così se in tavola arrivano generalmente meno piatti, se non portate uniche, o comunque più semplici, ecco che nel bicchiere si preferisce versare vini profumati e leggeri, anche con una discreta personalità e carattere, come questo Tramonti bianco, purché sappiano accompagnare il cibo senza affaticare il palato, senza appesantirne il pasto. Riuscitissimo per esempio in questo caso l’accostamento alle alici impanate e fritte del Ristorante Al Convento di Cetara. L’azienda è Tramonti (SA), in Via Castello S. Maria 1 – Tel. +39 089 856209. La scheda completa Qui.

Falanghina Campi Flegrei Colle Imperatrice 2019 Cantine Astroni. Uno tra gli ultimi assaggi passati su queste pagine che ci ha consegnato un bianco decisamente coinvolgente, semplice se vogliamo, eppure disarmante nella sua piena espressività territoriale; con ogni probabilità una delle migliori versioni tirate fuori da Gerardo Vernazzaro negli ultimi anni, ben più degli altri preziosi gioielli di famiglia nati nel frattempo. E’ un vino bianco buono da bersi come aperitivo, con del pane al burro e alici, o delle bruschette con ”Stracciata di Bufala” ad esempio, se non con un piatto di pasta con frutti di mare. L’azienda è in Via Sartania 48, in Loc. Pianura a Napoli – Tel +39 081 5884182. La scheda completa Qui.

Falanghina Campi Flegrei 2019 Azienda Agricola Mario Portolano. Un vino dal bel colore paglia con accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il quadro olfattivo è molto invitante, è varietale e tipico, con un quadro organolettico floreale e fruttato molto fine, cui s’aggiunge un lieve rimando salmastro e dei piacevoli sentori di acacia e ginestra. Il sorso è secco e morbido, possiede una buona progressione gustativa, tant’è il calice sparisce con due sorsi e con piena soddisfazione, quanto ci basta per apprezzarne appieno la bevuta con un pesce al sale al forno. L’azienda è in Via Toiano 12 a Pozzuoli (NA) – Tel. +39 0818042974. La scheda completa Qui.

'A Muntagna, il Vesuvio da Cantina del Vesuvio - foto L'Arcante

Lacryma Christi bianco Superiore 2018 Cantina del Vesuvio. Di vulcano in vulcano ci piace lasciare traccia di questo vitigno autoctono campano, tipico del Vesuvio, il Caprettone dell’azienda Cantina del Vesuvio di Trecase. Si tratta di un bianco leggiadro e morbido, da bere ben fresco, magari affiancandoci piatti ricchi di verdure, pensiamo ad esempio ad insalate arricchite con carpacci di pesce. Non è difficile comprendere perché queste terre, questi luoghi, già in epoca antica, sin dai Romani, fossero così ricercati e apprezzati. Non da meno oggi, grazie a chi con visione e lungimiranza non smette di credere che il Vesuvio sia molto, molto di più di un semplice tratto di paesaggio da incorniciare in una cartolina. E il lavoro della famiglia Russo emerge perentorio tra i molti nuovi protagonisti di questo straordinario territorio. L’azienda è a Trecase (NA) in Via Panoramica 65 – Tel. +39 081 5369041. La scheda completa Qui.

Greco di Tufo Chianchetelle Feudi Studi 2017 Feudi di San Gregorio. Chianchetelle proviene da una vigna del Comune di Chianche ubicata a circa 400 metri d’altitudine, due ettari esposti verso sud-est, caratterizzati da un sottosuolo principalmente argilloso e tufaceo, parte del Progetto FEUDI STUDI, una delle diverse espressioni di Greco di Tufo sulla quale Feudi di San Gregorio ha condotto un grande lavoro di ricerca sul varietale e sul territorio, nel tentativo di portare alla luce la loro massima espressione. E’ un vino bianco preciso e compiuto, estremamente suggestivo al naso, pieno di lievi sfumature, con un sorso ricco di carattere. Di quei vini da provare in compagnia, per goderne e parlarne, magari proprio là in giardino presso Feudi, dove in questo periodo è anche possibile fare picnic seduti sull’erba a fare merenda all’aperto, davanti a un piatto di grandi salumi e formaggi freschi. L’azienda è a Sorbo Serpico (AV), in loc. Cerza Grossa – Tel. +39 0825 986611. La scheda completa Qui.

Fiano di Avellino Pietramara 2018 I Favati. Il Pietramara è ormai una certezza in termini di territorialità e personalità, l’azienda di Piersabino e Giancarlo Favati e Rosanna Petrozziello veleggiano spediti verso il ventennale con mano sempre più sicura, tanta è infatti la strada fatta e tanta ancora li aspetta da grandi protagonisti quali sono ormai diventati. Dalle vigne di Cesinali viene fuori un bianco in splendida forma, dai sentori floreali e fruttati che lasciano poi via libera a note di erbe aromatiche e la classica nocciola tostata. Il sorso è carico di materia, c’è frutto da vendere, con tanta freschezza e sapidità che ne accompagnano il finale di bocca pienamente coinvolgente. A pensarci su, ci viene in mente un abbinamento con il ”Gran Fritto di mare” di Sud Ristorante a Quarto (NA), per dirne una. L’azienda è nei pressi di Piazza Di Donato, al civico 41 a Cesinali (AV) – Tel. +39 0825 666898. La scheda completa Qui.

Fiano di Avellino Colli di Lapio 2019 Romano Clelia. Restando da queste parti, in terra di Fiano, ci piace riprendere le fila di un altro grande bianco provato proprio in queste ultime settimane, impressionante per l’ampiezza olfattiva, quella nota balsamica che ne accentua l’anima di montagna e prepara il palato a tanta sostanza. Siamo su un fronte diverso della docg, l’altra faccia del Fiano di Avellino potremmo dire, oppure quella più autentica, chissà, con il colore che tradisce leggerezza ma il sorso nemmeno si accorge del 13,5% di alcol in volume in etichetta, tant’è che la bottiglia finisce in men che non si dica. Annata complessa, la duemiladiciannove, con un raccolto infinito qui a Lapio, protratto sino a metà novembre, fortunatamente da queste parti con meno problematiche che altrove. In genere nessun buon posto al mare se lo fa mancare in carta, pensate di berlo anche solo con un ”Spaghetto alla Nerano”. L’azienda è a Lapio (AV) in C.da Arianiello, 47 – Tel. +39 0825 982184. La scheda completa Qui.

Paestum Fiano Tresinus 2018 Azienda San Giovanni. Ancora un Fiano, questa volta però cilentano, di quelli con dentro una storia piena di romanticismo come quella di Mario Corrado e Ida Budetta e la loro splendida azienda agricola San Giovanni a Punta Tresino, a Castellabate. Una storia però carica anche di forza e determinazione, di passione pura, come questo bianco, un vino dal bellissimo colore paglia oro, luminoso, con un corredo aromatico merlettato: vi si colgono note di agrumi, fiori gialli, erbette aromatiche, odore di salsedine, balsami. Il sorso mostra subito consistenza e stoffa, finissima tessitura, persistenza gustativa, misurata sapidità. Uno di quei bianchi da bere con piacere magari proprio là a Punta Tresino, a guardar le stelle con qualche piccolo assaggio di crudo e cotto di verdure e pesce, gamberi, molluschi con del buon pane all’olio evo. L’azienda è a Punta Tresino, Castellabate (SA) – Tel. +39 334 1153784. La scheda completa Qui.

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Segnalazioni| Costa d’Amalfi Tramonti bianco 2019 Giuseppe Apicella

7 agosto 2020

Raccontiamo di una fresca interpretazione di Falanghina e Biancolella, il Tramonti bianco di Prisco Apicella, giovane e lanciatissimo enologo che dopo aver studiato a Torino è rientrato nell’azienda di famiglia fondata dal padre Giuseppe alla fine degli anni ’70.

L’estate ti porta inevitabilmente ad ”alleggerire” la portata delle bevute, così se in tavola arrivano generalmente meno piatti, se non portate uniche, o comunque più semplici, ecco che nel bicchiere si preferisce versare vini profumati e leggeri, anche con una discreta personalità e carattere, come questo Tramonti bianco duemiladiciannove ma che sappiano accompagnare il cibo senza affaticare il palato, senza appesantirne il pasto.

I primi passi dell’azienda risalgono a metà degli anni ’70 ma la svolta arriva nel 2000 quando Giuseppe Apicella comincia ad imbottigliare il vino (rosso) prodotto in zona che prima di allora veniva perlopiù venduto sfuso ai mediatori che ne facevano in larga parte Gragnano, tra i più diffusi e apprezzati vini campani non solo qui in Costiera e nel napoletano ma soprattutto dai numerosi ”compaesani” emigrati in giro per il mondo per le loro Pizzerie.

Poi c’è Tramonti, incastonato tra la montagna e il mare, immerso nei boschi, circondato dalla natura selvaggia a cui sottrarre pezzettini di terra per piantarvi Tintore, Sciascinoso e Piedirosso, se non Falanghina (qui detta Biancazita, ndr), Biancolella (sin. Biancatenera, ndr) Pepella e Ripoli. Chi c’è stato¤ non ha potuto far altro che constatare che luogo meraviglioso è questo per la vigna, quali emozioni straordinarie si provano nel camminare questi luoghi, queste terre, le vigne ultracentenarie immerse tra le montagne che sovrastano, imponenti, la Costiera Amalfitana.

Gli Apicella sono certamente in buona compagnia, qui ci sono ad esempio anche Gigino Reale e Alfonso Arpino¤, di cui trovate piena testimonianza dando uno sguardo alle storiche verticali del Borgo di Gete Qui e del Monte di Grazia rosso Qui, due tracce indelebili continuamente appetite dai “pasionari” del Tintore, ma c’è anche Tenuta San Francesco, quelli del Per Evaleggi Qui -, altra splendida realtà che produce uno dei vini bianchi più buoni prodotti qui a Tramonti.

Questo pezzo di Costa d’Amalfi rappresenta un territorio e una denominazione che vanno fermamente salvaguardati, oggi più che mai, per preservarne, con il successo commerciale, l’enorme valore culturale, sociale, identitario che qui rimane unico e irripetibile, grazie anche a vini bianchi come questi capaci di condensare in una manciata di sorsi tante suggestioni da godere con vero piacere, dei preziosi messaggi in bottiglia nel vero senso del termine.

Leggi anche Tramonti, Monte di Grazia rosso 2009 (e 2007) Qui.

Leggi anche Tramonti, il Tintore di Gigino Reale Qui.

Leggi anche Tramonti, Costa d’Amalfi Per Eva 2009 Qui.

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Napoli, Falanghina Campi Flegrei Colle Imperatrice 2019 di Cantine Astroni

4 agosto 2020

Sono trascorsi dieci anni dalla prima recensione di questa etichetta su queste pagine, se questo tempo ha visto cambiare tante cose qui a Cantine Astroni, oltre alla nascita e l’affermazione di tanti nuovi protagonisti del vino nei Campi Flegrei, è anche merito di chi, dieci anni fa, ma anche prima, aveva intrapreso una strada nuova e convincente soprattutto puntando sul lavoro in vigna e in cantina.

L’Arcante custodisce innumerevoli testimonianze storiche di questo percorso, di tanto in tanto, bicchiere alla mano, è bello e suggestivo ripercorrere certi sentieri, ritornare a quegli anni, soprattutto quando, nel bicchiere che hai davanti, ci trovi buonissimi vini finalmente liberi da pregiudizi o da ansie da prestazione; così è con il Colle Imperatrice duemiladiciannove, un bianco decisamente efficace, semplice se vogliamo, eppure disarmante nella sua piena espressività territoriale. Con ogni probabilità ben più degli altri preziosi gioielli di famiglia nati nel frattempo, dallo stesso Strione¤ al Vigna Astroni¤, sino all’ultimo nato, il Campi Flegrei bianco Tenuta Jossa¤.

Così scrivevamo, dieci anni fa, a proposito della Falanghina e del pensiero maturato qui ad Astroni: ”… c’è poi chi continua a rincorrere un ideale di un vino, per dirlo alla sua maniera, alternativo, certamente possibile, ma indubbiamente diverso, se non spiazzante; è Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni, convinto come pochi in regione a fare sul serio sulla Falanghina tanto da spingerlo a continuare strenuamente nella sua personale ricerca di un bianco autoctono flegreo macerato e capace di sfidare il tempo: il 2008 dello Strione, dai primi assaggi promette buone aspettative, staremo a vedere cosa saprà raccontare tra qualche tempo ancora. Frattanto però, io gli continuo a preferire il Colle Imperatrice, l’altro cru aziendale, che di sfide non ne vuole lanciare, e nemmeno ambisce a grandi traguardi se non quelli di confermare, ove mai ce ne fosse stato bisogno, un vino perfettamente calato nella sua dimensione territoriale nonché nel suo ruolo commerciale, pura esibizione di carattere ad un prezzo piccolo piccolo”.

Leggi l’articolo completo del Colle Imperatrice 2009 di Cantine Astroni Qui.

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Rutino, quel Vignolella che ogni male stuta

1 agosto 2020

L’azienda conta già tre lustri di storia alle spalle, resta una giovane e promettente realtà, nata dalla ristrutturazione della Cantina Sociale del Cilento di Rutino e che anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia ha saputo tracciare un percorso di tutto rispetto, armati di gioia e passione per questa terra cosi piena di storia e di tradizione.

L’abbiamo ritrovata in carta al ristorante Al Convento¤ di Cetara, a casa di Pasquale Torrente¤, non potevamo farci scappare l’assaggio. L’azienda è a Rutino, lavora circa 12 ettari di vigna tutti in conversione biologica, piantati perlopiù con Aglianico e Fiano e alcune varietà locali minori. Del Vignolella conserviamo un piacevole ricordo, è passato un po’ di tempo dall’ultimo assaggio ma la memoria di un bianco così fine, elegante e tanto espressivo e piacevole da bere non ci ha fatto battere ciglio.

Che buono! Ritroviamo nel bicchiere un Vignolella duemiladiciotto in grande equilibrio, davvero un gran bel Fiano del Cilento, dal colore paglia luminoso, capace di stillare tante suggestioni al naso, con sentori floreali di ginestra, erbette di campo e macchia mediterranea, frutta a polpa bianca e gialla, anzitutto con note di agrumi e di pesca. Il sorso è scorrevole, è secco, morbido, piacevolissimo con quel finale di bocca sapido e minerale, perfettamente disteso.

Ne abbiamo molto apprezzato l’accostamento al pescato del giorno, un Merluzzo in umido servito con tante fresche verdure di stagione, talune alla griglia altre ripassate in padella con un meraviglioso olio extravergine di oliva. Il lusso, il più delle volte, risiede nella semplicità!

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Segnalazioni| Falanghina Campi Flegrei 2019 Azienda Agricola Mario Portolano

26 luglio 2020

Abbiamo scritto più volte di questa nuova interessante azienda flegrea di proprietà della famiglia Portolano, imprenditori napoletani attivi in campo manifatturiero dal 1895. Ci siamo tornati con piacere a distanza di poco più di un anno, per camminarci nuovamente le vigne con Mara e provare alcuni vini, tra questi la deliziosa Falanghina Campi Flegrei duemiladiciannove di prossima uscita. 

L’azienda è a Toiano, area periferica del comune di Pozzuoli, cuore della denominazione di origine controllata Campi Flegrei; possiede 5 ettari e mezzo di cui 4 a corpo unico proprio a via Toiano, giusto all’ingresso del quartiere popolare del comune flegreo che ha conservato a macchia di leopardo piccole oasi verdi dove sono ancora evidenti le origini rurali di questi luoghi che, a metà-fine anni ’70 sono stati destinati, dopo un repentino e intenso piano di urbanizzazione, ad accogliere gli sfollati del centro storico e del Rione Terra di Pozzuoli, prima a seguito del Bradisismo, poi ancora del Terremoto dell’80.

Tra le vigne, al netto di qualche filare di Aglianico proveniente da Taurasi e piantato quasi per gioco negli anni ’90, regna sovrano il Piedirosso dei Campi Flegrei, protagonista di un vino che si sta facendo molto apprezzare per le sue caratteristiche organolettiche, così uniche e rare, che ne fanno uno dei rossi campani tra i più ricercati e apprezzati negli ultimi anni, qui poi particolarmente sorprendente, come già abbiamo avuto modo di raccontare nelle annate degustate che vi riproponiamo alla fine di questo post.

Da due anni è entrato in produzione anche un piccolo appezzamento di Falanghina, collocato però ad un paio di chilometri dall’azienda, in via Montenuovo Licola Patria, sul versante costiero di Cuma, sempre nel comune di Pozzuoli; una vigna di circa 1 ettaro e mezzo dove, con la vendemmia 2018, si è cominciato a fare un bianco di buona personalità, sempre con l’aiuto in cantina di Gianluca Tommaselli, ottimo enologista e buon interprete di questo e diversi altri territori della provincia di Napoli.

Proprio in questi giorni finisce in bottiglia il secondo atto di questo lavoro, il duemiladiciannove; nel bicchiere ci arriva un vino dal bel colore paglia con accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il quadro olfattivo è molto invitante, è varietale e tipico, con un quadro organolettico floreale e fruttato molto fine, cui s’aggiunge un lieve rimando salmastro e dei piacevoli sentori di acacia e ginestra. Il sorso è secco e morbido, possiede una buona progressione gustativa, si gioverebbe di maggiore freschezza con un pizzico di acidità, tant’è il calice sparisce con due sorsi e con piena soddisfazione, quanto ci basta per apprezzarne appieno la bevuta. Ci piace pensare che una nuova piccola stella possa brillare nel firmamento flegreo, ancora un passo avanti, ancora un tassello di qualità per tutto il territorio!

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Comfort Wines, Irpinia Aglianico Magis 2015 di Antico Castello

22 luglio 2020

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Ne abbiamo scritto ampiamente, tra questi ci sono vini generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, anche certi vini che riescono, anno dopo anno, a far parte della vita quotidiana degli appassionati lasciando sempre buoni segnali, piacevoli ricordi.

Non è da meno questo delizioso Aglianico di Antico Castello che si merita, per quanto ci riguarda, una menzione assai speciale tra questi vini che definiamo ”da non perdere”, tra i rossi campani in circolazione. Un rosso che quando è nato, una decina di anni fa, faceva generalmente solo acciaio, mentre oggi non disdegna un passaggio in legno grande prima di un lungo affinamento in bottiglia, un periodo che contribuisce a mantenere nel vino un naso estremamente varietale, pulito e invitante mentre si sviluppa un sapore decisamente più complesso e succulento, fresco ma profondo, dal tannino sottile con un sorso di grande piacevolezza.

Poppano, località dove è nata e sta Antico Castello, non era certamente tra i primi posti dove andare alla ricerca delle terre d’elezione in Irpinia, pur situata a San Mango sul Calore, in pieno areale Taurasi docg, eppure qui Francesco e Chiara Romano hanno saputo, con forza e determinazione, dare vita ad una bellissima realtà, scegliendo di vinificare sin dal principio solo uve di proprietà, prevalentemente Aglianico, coltivate su terreni argillosi calcarei, con esposizioni ottimali sino a raggiungere in alcuni punti i 450 metri s.l.m., che si avvantaggiano anche del benefico effetto delle acque del fiume Calore a valle; tutto questo con una bella cantina funzionale, sempre aperta alle visite, dove oltre a dei buonissimi vini, come questo Magis duemilaquindici, sono capaci di tirare fuori dal cilindro anche alcuni prodotti molto particolari come l’Amarenico, un suggestivo liquore a base di Aglianico e foglie di amarene davvero delizioso (una sorta di Ratafià).

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Correva l’anno| Falerno del Massico rosso Ariapetrina 2009 Masseria Felicia

9 luglio 2020

Non è possibile raccontare questo vino senza averlo vissuto sino in fondo, non solo sino all’ultimo coinvolgente sorso nel bicchiere, le due ultime dita nella bottiglia, bensì ritornando alla sua nascita, ripercorrendo questi anni.

Bisognerebbe quindi cominciare da là, tornando indietro nel tempo, a quell’anno, provare per quanto possibile a riavvolgere il nastro della nostra vita e ricordarlo quel tempo, quei mesi, certi giorni, alcuni momenti in particolare.

E’ stato un anno importante il duemilanove, segnato da cambiamenti epocali, per la storia del mondo e in qualche maniera, a piccoli sorsi, per chi scrive: a gennaio Barack Obama giurava da 44º Presidente degli Stati Uniti, davanti a più di due milioni di persone che avevano letteralmente invaso Washington DC per assistere al giuramento del primo Presidente americano di colore; il 6 Aprile invece l’Italia è sottoshock: alle 3:32 una scossa di terremoto di magnitudo 6.3 fa tremare la Provincia dell’Aquila (e non solo) causando vittime, feriti, sfollati e il crollo di molti edifici. Una tragedia immane che ha risvegliato in molti italiani paure e traumi mai spariti del tutto, ma anche orgoglio e dignità.

Qualche settimana più tardi, una scossa più o meno della stessa intensità scuoterà invece la mia vita professionale, provavo a rimettermi profondamente in discussione approdando a Capri (Leggi Qui). Ad ogni modo, fatte ovvie le giuste proporzioni, fu quello un anno particolarmente intenso!

Proprio a novembre di quell’anno, a fine stagione, torno a Masseria Felicia, a Carano, in località S. Terenzano, una piccola frazione di Sessa Aurunca, il primo comune per estensione della provincia di Caserta (e della Campania) per ritrovare Maria Felicia e i suoi splendidi Falerno del Massico. Una casa dei primi del novecento che il nonno rilevò nel dopoguerra, vi era stato per tanti anni colono ed unico conduttore dei terreni, così il papà di Maria Felicia, Alessandro Brini, si convinse che era venuto il tempo di riscattare la storia di quegli anni e consegnarla nelle mani della giovane figlia; il susseguirsi delle stagioni, con i suoi ritmi, ha poi tracciato lentamente  il solco famigliare sino ai giorni nostri.

Maria Felicia fa sostanzialmente un solo vino, il Falerno del Massico, che assume varie anime nella rincorsa alla natura di questo territorio straordinario, Bianco perchè tratteggiato con i colori della Falanghina, Rosso quando animato dall’Aglianico e dal Piedirosso, nella versione giovane (e sfrontato) col nome Ariapetrina, mentre diviene irreprensibile e immortale con l’Etichetta Bronzo¤. Oltre questi qua, nulla di stravagante, poche, pochissime bottiglie di altro ma giusto per dare libero sfogo ad uno studio approfondito sul potenziale delle tre varietà impiantate in azienda, un esercizio tecnico sul tema autoctono che conduce talvolta a utili micro vinificazioni, colmate dalla passione, per esempio del Piedirosso in purezza, anche qui capace di ritagliarsi, di tanto in tanto, il suo piccolo ruolo da solista.

Eccola invece la forza evocativa di questo Ariapetrina duemilanove, lo scugnizzo di casa per Maria Felicia; il rosso giovane e sfrontato che a sentirlo oggi, a distanza di quasi 11 anni, pare proprio non temerlo il tempo, le stagioni, i suoi ritmi, ci arriva così nel bicchiere maturo ma sicuro di sé, della sua storia, della sua stoffa, del suo talento capace di attraversare le insidie degli anni migliorandosi. Non è mera celebrazione, tutto sembra scorrere chiaramente in ogni bicchiere, riempiendo i calici di frutta e sensazioni odorose delle più ampie ed eteree, con sorsi asciutti e caldi, con ancora tanta piacevole freschezza gustativa, tratto distintivo di tutti i vini di Masseria Felicia, con quella spalla acido-tannico utile per abbracciare abbinamenti con molti piatti della nostra cucina tradizionale regionale, con la certezza di ritrovare ad ogni sorso almeno un pezzo di noi stessi, di averla vissuta proprio tutta la nostra storia di questi anni, ma che bello rivederla! 

Leggi anche Falerno del Massico Etichetta Bronzo 2013 Qui.

Leggi anche Piccola Guida ragionata al Falerno del Massico Qui.

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