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Il ventennio… bianchista!

22 luglio 2025

Il ventennio bianchista a cui mi riferisco va perlopiù dal 2005 ai giorni nostri, periodo durante il quale ne abbiamo viste di belle e bevuti grandi vini, alcuni incredibili, altri buonissimi, pur se talvolta non ripetuti nel tempo, altri ancora hanno fatto una grande fatica nell’emergere sino a scomparire del tutto dalla scena commerciale.

Un lungo periodo questi vent’anni caratterizzato inizialmente dal fiero rigetto del legno (più o meno eh), per taluni male incurabile per anni, sentimento affiancato poi dall’orgogliosa riscoperta dell’autoctono nudo e crudo, anche quando ”imbevibile” nei suoi primi 4 o 5 anni dall’uscita; in certi posti, dopo decenni e migliaia di ettari piantati a chardonnay, sauvignon e in minima parte viognier e amenità del genere appariva infine sacrilegio il sol nominare questi vitigni a discapito degli amati, storici, bombino, vermentino e passerina, per dirne qualcuno, tanto dal rivalutarne il ritorno.

Siamo passati poi alla fascinazione delle ossidazioni, degli ”oranges” dagli affinamenti più creativi – cemento, anfora, ceramica, sott’acqua – e l’imperterrita continua lotta (non ho scritto ‘’lotta continua’’, ndr) tra i puristi, i naturali, i tecnici e gli anarchici fighetti a vario titolo sull’onda di una dittatura acidistica via via smorzata con la riscoperta della fermentazione malolattica e, in molti casi, a colpi di reni e mannoproteine.

Per anni la censura di certi protocolli – si fa, ma non si dice – ci ha condotti a vini pronti, di grande piacevolezza, col dubbio amletico ”ma siamo certi che saranno capaci di attraversare il tempo?”. E non (solo) perché sia quella la loro destinazione d’uso, non tutti i vini bianchi nascono per durare nel tempo, più semplicemente mi domando se questo periodo ci lascia una solida esperienza o solo tempo perso, macerie, perchè nel frattempo molte aziende hanno chiuso, passato la mano o più semplicemente non sanno più a che Santo votarsi, qui in Campania e altrove. Intanto l’Alto Adige regna, con i suoi profumi, la freschezza, le sue acidità, i suoi volumi.

L’Arcante – riproduzione riservata

Abbiamo il pane, non i denti. Che morti di fame!

29 settembre 2014

‘C’è in Italia un patrimonio inesauribile di vini e territori che meritano molto di più di quanto ricevono in termini di attenzione ed apprezzamento. Certi vini sono straordinari, pare difficile ma non serve andare a Montalcino per bere un grande sangiovese o a La Morra e Serralunga d’Alba per un nebbiolo che ti prenda l’anima: in Valtellina ho bevuto bottiglie indimenticabili. E poi qui, come si fa a non rimanere a bocca aperta davanti a questo palcoscenico, che buoni questi fiano, quel Costa d’Amalfi di ieri, la falanghina‘.

‘…temo però sia necessaria una rivoluzione culturale, è incredibile il disastro di certi luoghi, tenuti malissimo, le strade rotte quando non completamente chiuse per giornate intere, l’ignoranza di certi Sindaci, con la gente che non se ne preoccupa, anzi, assiste inerme, subisce in silenzio. Che morti di fame!’

‘…c’è forse un disegno preciso che non vuole farci emergere? Perché il sabato a mezzogiorno non posso visitare l’Anfiteatro Flavio e poi andarmene a pranzo in un ristorantino tipico sul porto di Pozzuoli? Perché per andare a visitare La Sibilla Cumana viene più complicato che entrare al Louvre, al Louvre Angelo è più facile, capisci?’

Pozzuoli, Luglio 2003, fine serata con amici a L’Arcante davanti a quel che rimaneva di due bottiglie di Fiano di Avellino Terredora e Colli di Lapio ed un Piedirosso Riserva Montegauro di Grotta del Sole.

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