Archive for the ‘Puglia’ Category

Cinque vini che servono a Natale

8 dicembre 2020

Non è sempre necessario stilare una classifica di quali siano i vini migliori o i più buoni da servire in tavola durante le festività di Natale e l’ultimo dell’anno, ci sono però alcune etichette che si distinguono per qualità non senza una certa continuità anno dopo anno.

Non vogliamo però sottrarci alle consuetudini di questi giorni, ecco perché, spulciando tra le centinaia di bottiglie assaggiate durante quest’anno così particolare e le etichette passateci per mano per tutto il venti-venti proviamo lo stesso a suggerirvi cinque grandi vini che secondo noi potrebbero veramente salvare il Natale a molti, in giorni durante i quali tutti rincorrono la migliore bottiglia possibile da regalare o regalarsi.

Franciacorta Brut Dosaggio Zero 2015 Arcari+Danesi. Questo Dosaggio Zero dumeilaquindici, di cui si sono state prodotte circa 20.000 bottiglie, viene fuori da Chardonnay per il 90% e per la parte restante Pinot Bianco. In tutte le fasi di lavorazione dei vini base e delle cuvée qui si utilizza solo zucchero autoprodotto (sotto forma di mosto congelato), facendo a meno quindi dell’utilizzo di zuccheri esogeni come ad esempio saccarosio o mosti concentrati rettificati.

Nel calice ci arrivano bollicine fini, con un bel naso fragrante e ampio, integro e caratteristico: sa di agrumi, fiori gialli, un lieve ma gradevole accenno balsamico. Il sorso è fresco e gratificante, forse un po’ ”verde” per quanto ricordassimo delle precedenti uscite, rimane però gustoso, sapido, piacevole e di buona persistenza. Etichetta di sicuro approdo, per un’azienda in forte crescita di consensi, tutti ben meritati.

Da bersi praticamente sopra tutto, ideale per scaldare il cuore tra una chiacchiera e l’altra prima di accomodarsi a tavola, perfetto su crudi di mare e le varie immancabili tartine della cena della vigilia!

Vernaccia di San Gimignano 2018 Panizzi. Marchio storico e azienda toscana di grande prestigio. Il vino possiede un bel colore giallo paglia, ben luminoso. Il naso è fine, il profumo è delicato con sentori subito floreali e fruttati in primo piano, vi si colgono gelsomino, tiglio e mela golden, cui s’aggiungono un refolo balsamico e un sentore di polvere di pomice. Il sorso è decisamente asciutto, armonico, sapido, con un finale di bocca che sa lievemente di mandorla amara. Non è difficile immaginarne progressione e capacità di affinamento, possiede struttura, ampiezza e buona persistenza gustativa.

Di quei bianchi meravigliosi che potreste servire un po’ su tutto il menù della vigilia, perfetto con le paste con sughi di mare ma anche su fritti e pesce al forno.

Lazio igt Abbuoto Filari di San Raffaele 2018 Monti Cecubi. Una bella scoperta di quest’anno e una piacevole raccomandazione. L’Abbuoto di Monti Cecubi proviene dalle vigne di San Raffaele di Fondi, nel comune di Latina, nel basso Lazio, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre un vino intenso, fresco e particolarmente suggestivo, che abbiamo trovato veramente molto buono!

E’ un rosso di colore amaranto, pieno e vivace, con sentori di melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di caffè e cioccolato, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, 13% di alcol in volume in etichetta, ben misurato il passaggio in legno che consegna al palato un tannino vellutato, nessuna spigolatura, solo tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso.

Uno di quei rossi da bere alla giusta temperatura, intorno ai 14°, per goderselo appieno sul ricco pranzo di Natale, con gli antipasti di salumi e formaggi (anche freschi) ma anche pasta al ragù e secondi di carne con contorni caldi!

Primitivo di Manduria Es 2016 Gianfranco Fino. Per quanto bizzarro come nome, Es venne scelto perché rappresenta il principio freudiano del piacere della passione pura che fugge completamente alla ragione, l’istinto di ciò che è primordiale. Ed è proprio così che ci si avvicina a questo duemilasedici di Simona Natale e Gianfranco Fino, un piccolo capolavoro di concentrazione estrema, un rosso di grande pulizia olfattiva e di enorme fascino sensoriale: il colore è rubino vivace, fitto ed elegante, il naso è un trionfo di marasca sotto spirito, prugne in confettura, spezie dolci, polvere di cacao, il sorso è pieno, potente ma vellutato, di finissima tessitura acido tannica che ben riesce ad armonizzare il 16,5% di alcol in etichetta, non certo trascurabile.

E’ questa la grande bottiglia da mettere a tavola nelle ricorrenze speciali dei prossimi giorni, merita piatti all’altezza della migliore tradizione culinaria italiana.

Passito di Pantelleria Ben Ryé 2016 Donnafugata. Un grande classico sempre attuale! Ben Ryé duemilasedici ha un colore oro-ambra luminosissimo, di gran fascino. Il naso è davvero un portento, assai intenso e persistente, ne viene fuori un quadro aromatico ricco di note e sensazioni fruttate passite, di macchia mediterranea, con sfumature eteree particolarmente suggestive che ne arricchiscono il profilo olfattivo: vi si colgono albicocca e scorze d’arancia candita, garighe e miele, accenni di cipria. Il sorso è certamente dolce, intriso però di freschezza, di lunghissima persistenza e piacevolezza.

Naturalmente vocato agli abbinamenti con desserts dolci, dal Panettone Milanese ai biscotti di Prato sino ai Roccocò, alla Cassata siciliana, è però su alcuni formaggi (anche) erborinati che si misura alla grande in tutta la sua complessità.

Leggi anche Vini che servono a Natale Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

L’Es di Gianfranco Fino e il principio del piacere come passione pura

21 febbraio 2020

Correva l’anno 2006, durante una delle mie prime partecipazioni alle degustazioni di Vitigno Italia a Napoli, allora si teneva alla Mostra d’Oltremare di Fuorigrotta, mi venne raccomandato, tra gli altri, di non perdermi un assaggio, uno straripante Primitivo pugliese; successivamente, la stima e l’affetto di Salvatore Martusciello mi concesse addirittura di poter godere di una intera bottiglia di quel vino, l’Es di Gianfranco Fino, credo fosse annata 2004.

Quel vino, assolutamente sconosciuto, devo essere sincero, mi trovò oltremodo impreparato; non tanto da un punto di vista professionale, in quanto nonostante fossi ai miei primi anni da Sommelier un po’ di bottiglie di un certo spessore le avevo già aperte e con un po’ di fortuna mi ero avviato a camminare diverse vigne qua e là in Italia e incontrare tanti ottimi produttori che mi avevano aiutato con il loro sapere. Questo vino di Gianfranco Fino, allora mi pare fosse un collaboratore di Luigi Veronelli in Puglia, segnava chiaramente uno spartiacque, almeno tra i rossi pugliesi conosciuti dal grande pubblico di appassionati sino ad allora e per quel territorio in particolare. Mai approcciato qualcosa di simile prima di allora, ne rimasi folgorato.

In quegli anni spirava un vento ”buono” e diverso in quella regione, Manduria e più in generale quelle terre sembravano acquisire un ruolo sempre più decisivo nelle sorti produttive pugliesi, areale non più relegato alla mercé dei numerosi imbottigliatori del nord che qui venivano a fare mercato ma finalmente protagonista di un processo di sviluppo concreto che vedeva di anno in anno grandi gruppi investire e sbarcare direttamente sul territorio, riuscendo al contempo lasciar emergere nuove piccole realtà che avrebbero saputo affiancare i nomi ”storici” e lasciare, a loro modo,8 un segno indelebile.

Così è stato se vogliamo per Gianfranco Fino e Simona Natale, partiti con una manciata di piante in Agro di Manduria e un grande sogno nel cassetto sino ad arrivare a mettere su, a suon di sacrifici e di successi, una splendida realtà che conta oggi tra Sava e Manduria 22 ettari di vigna di cui almeno la metà di vigne vecchie, recuperando inoltre, con un lungo lavoro certosino, le preziose viti ad alberello sposando appieno una filosofia di coltivazione della terra sostenibile e di grande autenticità.

Per quanto bizzarro come nome, Es viene scelto perché rappresenta il principio freudiano del piacere della passione pura che fugge completamente alla ragione, l’istinto di ciò che è primordiale, e così ci si avvicina a questo duemilasedici, un piccolo capolavoro di concentrazione estrema, un rosso di grande pulizia olfattiva e di enorme fascino sensoriale: il colore è rubino vivace, fitto ed elegante, il naso è un trionfo di marasca sotto spirito, prugne in confettura, spezie dolci, polvere di cacao, il sorso è pieno, potente ma vellutato, di finissima tessitura acido tannica che ben riesce ad armonizzare il 16,5% di alcol in etichetta, non certo trascurabile.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Primitivo di Manduria Sessantanni 2010 (Magnum) Feudi di San Marzano

12 febbraio 2014

L’impressione che ho ogni qualvolta mi ritrovo a bere un primitivo così buono è che sia stato fatto in pochi anni tutto quanto sembrava impossibile nei precedenti 30: ridare dignità ma soprattutto rinnovata identità ad un vitigno che sa dare vini davvero impressionanti.

Primitivo di Manduria 60 anni 2010 Feudi San Marzano - foto A. Di Costanzo

La culla com’è noto rimane la Puglia, il Salento, più in particolare il versante tarantino e l’areale qui storicamente più conosciuto qual è Manduria. Da queste terre asciutte, di origine calcaree e coperte da argille rosse viene fuori il 60 anni di Feudi di San Marzano, un Signor primitivo.

Il 2010 è forse un po’ meno carnoso dei passati assaggi¤ ma l’impronta olfattiva è piacevolissima, avvenente ricca espressione di piccoli frutti neri e note balsamiche e speziate. Certo il formato Magnum ne aiuta la lenta maturazione; il sorso ha slancio e buona progressione, un po’ più sottile come accennavo pocanzi, se così si può dire nonostante la stoffa e il buon tenore alcolico, più fruibile, maggiormente godibile azzarderei.

L’epoca dei rossi abboccati e grossolani è finita da un pezzo, è vero, il Primitivo di Manduria oggi è tutta un’altra storia, eppure val bene chiedersi se, in fin dei conti, prima dei signori vini a cui ci stanno abituando i vari Attanasio, Fino, MilleUna¤, la stessa Feudi di San Marzano giusto per citarne solo alcuni, bevessimo ‘veramente’ lo stesso vino oppure chissà cos’altro.

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Cerignola, Mille Ceppi 2011 Michele Biancardi

12 novembre 2013

Mille Ceppi 2011- foto L'Arcante

Il nero di Troia è uno di quei vini che mi dà sempre piacevoli sensazioni e continuo a pensare sia vittima di un equivoco storico che l’ha relegato troppo spesso a fare da controfigura al primitivo. Quando ben interpretato invece e tenuto conto con coscienza dei limiti della varietà che pur ci sono riesce a dare vini di valore assoluto, non necessariamente da lungo invecchiamento e, come in questo caso, particolari e a dir poco sorprendenti.

Non conosco molto dell’azienda di Michele Biancardi, Vigne Daune¤ di Cerignola, in Contrada Viro, ma quando Giulio¤ mi ha fatto dono di questa bottiglia ero certo che mi stesse regalando una bella opportunità di scoprire qualcosa di nuovo ed interessante. E così è stato, mi pare.

Mille Ceppi 2011 viene affinato esclusivamente in anfore di terracotta, passaggio questo che riesce a contenere in maniera sublime tutta la sua verve esaltandone frutto e freschezza gustativa. Il colore è di uno splendido viola con accenni porpora, imperscrutabile. Naso classicheggiante che sa di viola e frutti neri macerati, mirtillo e amarena anzitutto, ed accenni balsamici in sottofondo. Ma è il frutto a rimanere costantemente in primo piano, croccante, integro e polposo anche in bocca, qui la beva è esemplare, scorrevole e ben viva sorso dopo sorso grazie anche a un tannino minuto e preciso. Gran-bella-scoperta.

Assaggi| Baciami ancora estate…

1 luglio 2013

Io me li porterei sempre dietro prima di partire per una vacanza. Anche solo appuntati su di un foglietto. Pochi vini, giusto qualche etichetta che non riesco a fare a meno di segnalare come i vini di questa mia estate (di lavoro) 2013. A cominciare da qualche buon assaggio di rosati 2012…

Speciale turismo estate

Sono proprio questi¤ quelli da bere con semplicità, magari in compagnia e senza troppe fisime; quei vini capaci di sollazzare il palato, accompagnare a dovere quattro chiacchiere ed una cucina che in estate si alleggerisce parecchio senza però perdere il gusto della precisione e della territorialità.

Uno di quelli da mettere nero su bianco con una certa sottolineatura è il rosato di quest’anno di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli. Il loro Costa d’Amalfi 2012 è fine ed elegante, ha un naso avvincente di viola e di ciliegia; è secco, piacevolissimo, soave sul finale di bocca. E rimanendo da queste parti non male anche il rosato di Tenuta San Francesco, su a Tramonti, solo un poco più ‘carico’ e asciutto, con quel pizzicore amaro sulla chiusura di bocca.

Molto buoni continuano imperterriti ad essere il Negroamaro rosato di Rosa del Golfo, ormai una certezza assoluta per chi beve rosati da anni come pure il Chiaretto Rosamara di Costaripa. Là in Salento la formula è immutata: un vino schietto e verace con tutto il sapore dolce e croccante dei frutti rossi della bella stagione. Mattia Vezzola invece l’ha indovinata ancora una volta e il suo Chiaretto si può dire ormai a tutti gli effetti il vero antagonista ai classici provenzali: dal colore tenue, ha naso sottile ed intrigante intrecciato persino di aromi lievemente speziati ed un sapore avvenente e delicato, tanto da richiamare continuamente il sorso.

Poco più su, in Alto Adige – ne ho già scritto qualche tempo fa -, m’è parsa una bella scoperta La Rose 2012 di Manincor¤. Un vino dalle tante sfumature eppure essenziale e piacevolissimo. Sempre sugli scudi il Pinot Nero Rosé di Franz Haas, già al terzo anno di successi con la vendemmia 2012 e, da segnalare, la buona uscita del Lagrein Rosé 2012 di Terlan.

Ritornando ai ‘nostri’¤, qualche appunto in chiusura: Peppino Pagano, San Salvatore, ha tirato fuori un Vetere 2012 un po’ più alleggerito; sinceramente mi è piaciuto meno del 2011 (per non dire dello strepitoso 2010¤), va detto però che tiene bene la freschezza e la gradevolezza della beva. Tra i tanti altri campani mi riservo invece di dedicare più attenzione alle bevute del Vado Ceraso 2012 di Vestini Campagnano, del Pedirosa 2012 di Vincenzino Di Meo e, non ultimo, il Rosalice¤ 2012 di Maria Felicia Brini, ‘versione aglianico’ stavolta, di cui conservo ancora buoni ricordi sin dal suo esordio. Il loro primo assaggio mi è parso assai interessante, d’altronde l’estate è appena cominciata…

Del Primitivo Tretarante 2009 di MilleUna

10 giugno 2013

Dario Cavallo mi è venuto a trovare. Di solito vale l’inverso, come è giusto che sia, però che piacere conoscerlo e scambiarci due chiacchiere.

Dario Cavallo i una delle sue vigne - foto Archivio

Mi ha raccontato un po’ della sua terra, delle sue vigne, qualcuna parecchio vecchia, dei suoi vini. Dei primitivo anzitutto. Di MilleUna, l’azienda che conduce con il figlio là in Puglia, nel tarantino, ne avevo già letto in giro qualcosina: di solito certe buone notizie fanno il giro alla larga, ma poi arrivano.

E’ rosso poderoso il Tretarante 2009, di sfacciata consistenza e lunghezza. Il colore è praticamente impenetrabile, quasi inchiostro. Il naso sparge a ventaglio note molto invitanti di frutti neri e confettura di prugna, poi nuances di tabacco, caffè ed un piacevole rimando cioccolatoso. Il sorso è notevolmente caldo, balsamico, sinceramente appagante e rotondo, condito da una buona freschezza.

Un modo per goderne a pieno in questi giorni di afa – perché lo merita, credetemi – è giocare un po’ di fino abbassandone la temperatura di servizio di quel tanto che basta tenendolo una mezz’ora in frigo, giusto sino ai 14°. Così, il suo 18% in alcol viene di sentirlo ‘attenuato’ e la croccantezza del frutto diviene magistrale e godibilissima. Tutto il resto è un piacevolissimo danzare sul velluto.

Alezio, Spumante Brut Rosè Rosa del Golfo

16 aprile 2012

Ci siamo riempiti la bocca coi rosati della famiglia Calò di Alezio, senza dubbio tra le più valide aziende vitivinicole pugliesi e tra le più brillanti sulla tipologia da almeno 40 anni.

Il Salento, il negroamaro, un territorio collinare di particolare vocazione intriso di argilla e ferro, il clima temperato, le vigne storiche: tutti elementi che fanno la differenza e che, all’unisono, si sentono tutti nel Rosa del Golfo come nello splendido Vigna Mazzì, i due rosati tra i più amati dagli italiani (cit.); ma anche, sorpresa delle sorprese, in questo nuovo delizioso spumante rosé per il quale si rischia davvero la dipendenza.

Realizzato secondo il metodo classico, con la seconda fermentazione che avviene quindi in bottiglia, rimane sui lieviti per almeno 24 mesi. La liqueur è preparata col vino base del Vigna Mazzì, il loro negroamaro rosato affinato in legno. Il prodotto finale non subisce dosaggio, magari solo un rabbocco dopo la sboccatura. Il risultato? Molto invitante, già dal colore, rosa tenue ma assai brillante. Il perlage non gode di particolare intensità però è piuttosto fine e di buona insistenza. Così anche la spuma. Il naso è molto delicato, soffre inizialmente del classico “effetto primordiale”, sa cioè di crosta di pane e ancora minimamente di lievito, ma tutto svanisce in poco più di un attimo; arrivano quindi sentori di petali di rosa, lampone e mora, chiaramente riconoscibili già al primo naso e caratteristici del varietale predominante, il negroamaro appunto (il saldo è chardonnay). In bocca è secco ma invita a sorsi copiosi, non impone carattere richiamando particolare serbevolezza ma bensì bevibilità e morbidezza estrema. Tiene molto bene diversi abbinamenti, in particolar modo con carpacci o crudi di pesce più in generale; ha tra l’altro un tenore alcolico nella media della tipologia, pertanto in due la bottiglia scivola via che nemmeno te ne accorgi. O quasi.

Lucera, Cacc’ e Mmitte 2009 Cantina La Marchesa

20 febbraio 2012

Ci sono (quasi) sempre piacevoli sorprese dietro una bottiglia di vino; e più è curiosa, diciamo “particolare”, l’etichetta o la sua storia, più è grande poi il piacere della scoperta e del racconto quando il vino è buono.

Il nome Cacc’ e Mmitte di Lucera fu scelto allorquando si decise per la doc, nel 1975, per i vini prodotti in questo bel pezzo di Puglia. Questa espressione, di chiara origine dialettale locale, ha una storia abbastanza curiosa e questa etichetta non manca di svelarla nella sua retro: dovete sapere che un tempo, qui come in tanti altri luoghi dell’Italia meridionale, la vinificazione avveniva nei cosiddetti “palmenti”, delle arcaiche strutture di produzione agricola, in pietra e calcestruzzo, di notevole rilevanza per l’economia rurale locale e, generalmente, utilizzate da più coltivatori, magari anche dello stesso latifondo. Così, in tempo di vendemmia, capitava che vi fossero tutto un susseguirsi di vari utilizzatori che, una volta portato a termine la propria di vinificazione, dovevano lasciare il “palmento” a disposizione di chi seguiva. Da qui Cacc’ e Mmitte, dove Cacc’ sta pertira fuori” il mosto dal palmento…” e Mmitte per “metti” nel palmento l’uva di chi segue…

La doc qui di per sé non è certo un vanto della produzione vitivinicola, fosse solo perché nel disciplinare, praticamente, non ci si è fatto sfuggire proprio nulla dei varietali più appetiti dagli imbottigliatori di ogni dove degli anni ’60 e ’70, dal nero di Troia al montepulciano, ma anche sangiovese, malvasia nera e bianca, trebbiano, bombino bianco e chi più ne ha, più ne metta, ma non per questo si può dire che manchino esempi di pregevole qualità e seria interpretazione territoriale. Esecuzioni cioè franche e piacevolmente suggestive, proprio come questo Cacc’ e Mmitte di Lucera 2009 di Cantina La Marchesa che, a parte un’etichetta poco felice – giocata ostinatamente sull’oro e il viola, in tutta onestà un tantino kitsch -, mi è parso senza ombra di dubbio un degno e gradito compagno in tavola.

Un rosso interessante, da quel che leggo composto in buona parte proprio da nero di Troia e montepulciano, ma anche, in piccola parte, da bombino bianco. Curioso no? Un vitigno bianco complementare a due rossi, un po’ come accadeva un tempo anche nel Chianti. Cose d’altri tempi insomma. L’assaggio invece rivela una certa vivacità tutta nostra, figlia del nostro tempo; il primo naso non è dei più immediati ma con la giusta attenzione si colgono chiare fresche note di violetta e frutta rossa, polposa, sentori di ciliegia, mirtilli, un bouquet ancora caratterizzato da una certa vinosità. Ben dosato anche il legno, assolutamente non invadente, e affatto banale, che ne tratteggia un corpo solido, rotondo e snello. E la conferma non tarda ad arrivare: il sorso è franco e vigoroso, apparentemente più dei suoi tredici gradi, e secco, caldo, scorrevole, il primo ne richiama subito un’altro. Un buon rosso dal nome sicuramente curioso, se vogliamo uno dei più autentici della mappatura enoica italiana, un souvenir quasi, però di quelli da bere e non da lasciare impolverare su di una mensola.

San Marzano di San Giuseppe, il Primitivo di Manduria Sessantanni 2007 Feudi di San Marzano

6 settembre 2011

Il progetto Feudi di San Marzano si deve all’intuizione che ha unito nel 2003 le Cantine San Marzano a Farnese Vini, colosso abruzzese da oltre dieci milioni bottiglie l’anno che qui aveva intenzione di creare il più grande polo produttivo di vini di qualità pugliesi in regione. Oggi l’azienda produce sei milioni e mezzo di bottiglie, e cammina da sola.

Questo vino nasce ogni anno da vecchie vigne di primitivo di più o meno di sessant’anni d’età, piantate per lo più ad alberello su terreni argillosi a tessitura fine e generalmente caratterizzati da affioramenti rocciosi di natura calcarea. Poi si sa, qui le condizioni climatiche sono quelle che sono, austere sino alla criticità in certe annate, abbondanti oltremodo (pochissime per la verità) in talune altre; comunque vada, a quanto pare, vi è richiesto tanto lavoro in vigna e doviziosa cernita delle uve in cantina. O almeno così ci raccontano gli annali. Sta di fatto che l’assaggio di questo Primitivo di Manduria Sessantanni 2007 mi ha regalato quest’anno una delle più solide esperienze degustative della stagione: così invitante, affascinante, potente com’è. Un vino rosso decisamente robusto, per dirla alla vecchia maniera didattica dell’Ais. Ma c’è senz’altro di più, e tanto.

Il colore è assai avvincente, rosso/bluastro con floride nuances ancora in bilico tra il porpora e il granato intenso, praticamente impenetrabile. Il primo naso offre immediatamente nitidi sentori di classici piccoli frutti rossi e neri in confettura, ma anche interessanti spunti speziati, di tabacco e cioccolato che man mano vanno affinandosi e amplificandosi sino a definire un profilo olfattivo complesso e significativo. In bocca è poderoso, scorre energico e florido, l’imprinting è terragno, sanguigno, autentico insomma; i tannini sono soffici, superati energicamente da una struttura glicerica vigorosa e nerboruta, la beva è quindi solida, debordante, succosa, grassa ma intransigente. Nessuna traccia di legno nonostante la barrique, il frutto sopra tutto. Da bere certe sere in inverno, coccolati dalla neve.

L’altro aglianico, Bocca di Lupo Tormaresca

14 novembre 2009

Deg. Bocca di Lupo

Aglianico&Aglianico 2009, con Pasquale Porcelli a condurre la verticale.

Diciamoci la verità, quando il Marchese Piero Antinori diede il via libera all’acquisizione delle tenute Bocca di Lupo a Minervino Murge e Masseria Maìme a S. Pietro Vernotico non pochi produttori pugliesi mossero dubbi sulla validità di questa discesa in Puglia del grande marchio toscano del vino, già in preda al panico del rinnovamento a fatica iniziato qualche anno prima ed impauriti com’erano del rischio di una colonizzazione soprattutto alla mercè di un mercato internazionale sempre più pressante, all’epoca, riferimento assoluto non solo della blasonata famiglia fiorentina che vanta oltre 26 generazioni di vignaioli alle spalle. La paura però ha avuto corso breve, il timore si è da subito trasformato in opportunità e molti di quegli stessi produttori oggi applaudono Tormaresca per la dinamicità con la quale è riuscita, in poco meno di un decennio, a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama enologico italiano, facendo da traino per il loro stesso territorio, in particolare per l’areale di Castel del Monte che ha sempre posseduto grandi qualità elettive ma poche opportunità di penetrazione sul mercato, fatte le poche eccezioni del caso, vedi la storica azienda Rivera tra l’altro acquisita da poco dal colosso Gancia. A Minervino Murge, nel cuore del Parco nazionale dell’alta Murgia e della doc Castel del Monte si estendono i 130 ettari dell’azienda Tormaresca, piantati perlopiù ad aglianico, chardonnay ed altre varietà bianche e rosse pugliesi tra le quali il nero di Troia ed il Moscato di Trani. Terroir che risente positivamente dell’influenza del vicino Vulture ad ovest e del mare poco più in là verso Bari e la costa adriatica.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2006, è il vino che più mi è piaciuto, per impatto visivo ed olfattivo, per gradevolezza del frutto, per un equilibrio gustativo certo a breve ma di buona godibilità già adesso. Prodotto da uve Aglianico 100% da vigne di circa 8 anni di età, nasce da una vendemmia abbastanza regolare, terminata in vigna nella prima decade di ottobre, ha superato un periodo di 15 mesi di affinamento in barriques di rovere francese e legni ungheresi ed altri 12 in bottiglia. Colore rubino netto, con buona vivacità e media trasparenza nel bicchiere. Il primo naso è invitante, ampio, note floreali di garofano, fruttate di piccoli frutti rossi maturi, una lieve sensazione gradevolmente balsamica accompagna la fase di retrolfazione. In bocca è secco, caldo, abbastanza morbido, ha una trama acido-tannico evidente ma di qualità fine e di grande prospettiva. La beva rimane piacevole dal primo all’ultimo sorso, buona anche la profondità gustativa che concede sul finale di bocca una discreta sapidità marcando di nuovo un ritorno balsamico che adesso riporta nitidamente alla liquerizia. Da provare su quaglie laccate al miele e purea di zucca gialla al pepe nero, nessuno degli astanti avrà di che lamentarsi.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2004, è il primo riferimento “old style” per così si può dire. Nel senso che l’azienda sino al duemilaquattro era propensa a produrre questo vino con massima parte aglianico, tra vecchi e nuovi impianti appena entrati in produzione con un saldo di Cabernet Sauvignon. L’idea era naturalmente di salvaguardare l’autenticità e la continuità della denominazione, pur utilizzando uve da vigne giovanissime (con tutte le crude conseguenze) ma maritandole con l’opulenza del cabernet (ammesso dal disciplinare d.o.c.) sempre di grande aiuto per stemperare, in questo caso acidità molto spinte e o tannini poco addomesticabili se non attraverso un affinamento estremamente lungo e complesso. Rosso rubino molto carico, con sfumature lievemente tendenti al granato, impenetrabile. Il primo naso è intenso e complesso, varia dal fruttato in confettura, prugna, ciliegia, ribes nero a note balsamiche e speziate: la liquerizia qui è nitida accompagnata anche da un sentore pepato gradevole ed avvolgente. In bocca è secco, decisamente caldo, mediamente tannico e di buona profondità. Rimane a lungo una percettibile sensazione di masticabilità del frutto, segno di grande estrazione e buona evoluzione nel tempo che ha ben amalgamato tutte le componenti del vino. Equilibrato, pieno, assolutamente da bere adesso. Su Canestrato stagionato e noci.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2003, ovvero quando meno te l’aspetti hai da rivedere alcune convinzioni, che ormai radicalmente vedono l’annata duemilatre come calda, siccitosa e madre di vini surmaturi, poveri di acidità e probabilmente poco longevi. Val bene le prime due affermazioni, smentite a mani basse le ultime, un pareggio dal quale, stranamente, ne esce vincitore questo bellissimo vino, inaspettatamente vivo e voglioso di confrontarsi con il tempo e con il palato dei più fini. Rosso rubino, carico di materia, poco trasparente e vivacità cromatica invidiabile. Il primo naso è intenso, marcato sì su note evolute, secche, passite, in confettura, ma non banali: viene fuori una prima nota di dragèe al lampone, crema di cassis, garofano appassito, liquerizia. In bocca è secco, caldo, ricco e di ottima intensità e persistenza gustativa, equilibrato tra i volumi tannici e glicerici chiudendo su una sapidità evidente ma non stucchevole. Una gran bella bevuta, magari sorretta da costolette d’agnello Kleftiko ed un buon amico a cui raccontare il mare di Naxos.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2001, ovvero l’origine, vigne vecchie già segnate da un destino certo, allevate per anni, prima, sovraccariche di frutti e stressate da sistemi tradizionali poco avvezzi alla qualità. La rieducazione dei sesti d’impianto ha dettato i temi futuri, il completo reimpianto di qualche anno dopo, la certezza di aver fatto le scelte giuste e di aver imbroccato la strada maestra. Aglianico e cabernet sauvignon per un blend segnato dal tempo, dal colore rubino carico ma non franco dall’aver ceduto materia al passar degli anni, comunque integro. Il primo naso e surmaturo, evidentemente evoluto su note di frutta cotta, note di burro di cacao, poi di terra bagnata. In bocca è secco, caldo, lungamente persistente ma monocorde su note tendenzialmente dolci; il frutto appare risoluto, coscritto, probabilmente arrivato al traguardo del suo percorso evolutivo. Evocatico del primo step che fu, opportuno avere anche un duemilatre a portata di mano ed amici comprensivi.


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