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My name is Tannino

4 febbraio 2019

La lunga esperienza professionale e le molte bevute alle spalle ci hanno lasciato scoprire e apprezzare nel tempo tanti vini tratteggiati e caratterizzati talvolta in maniera decisiva dal tannino, bottiglie che in qualche maniera abbiamo poi imparato ad amare oppure deciso di lasciar perdere perché (troppo) lontane dal nostro gusto. Di vini ‘’tannici’’ ve ne sono in giro per l’Italia molti, alcuni memorabili, altri meno ma in larga parte caratteristici e coinvolgenti.

Si pensi ad esempio ai grandi Nebbiolo di Barolo¤ e della Valtellina o ai più classici Sangiovese che danno vita a certi Brunello di Montalcino o Nobile di Montepulciano. Qualcuno ha mai provato un Pignolo o un Tazzelenghe¤ friulani? O un Sagrantino di Montefalco¤? Invero, già nella nostra amata Campania Felix vini con ‘’tannino da vendere’’ ne abbiamo eccome, basti pensare all’Aglianico, o al Tintore¤ di Tramonti per citarne giusto un paio.

Ma cosa sono i tannini? Ebbene, appartengono alla famiglia dei polifenoli e sono i principali responsabili del carattere astringente dei vini; sono suddivisi in tannini condensati (propri dell’uva), tannini idrolizzabili o ellagici (derivanti principalmente dal legno). Sono generalmente presenti nel raspo, nei vinaccioli e nella buccia dell’uva e sono diversi i fattori che concorrono alla sua forma e sostanza.

Raspo. Sono generalmente ricchi di composti fenolici più o meno polimerizzati e a forte potere astringente.

Vinaccioli. Sono fonte importante di composti polifenolici per quanto concerne la vinificazione in rosso; contengono dal 20 al 55% dei polifenoli totali dell’acino, in funzione della varietà. Nel corso della maturazione aumenta il loro livello di polimerizzazione. I vinaccioli raggiungono la loro dimensione definitiva prima dell’invaiatura, momento in cui raggiungono la loro maturità fisiologica. Osservare e assaggiare i vinaccioli nelle fasi finali del ciclo della vite è fondamentale per determinare anche empiricamente la maturità fenolica dell’ uva.

Quando l’uva non è sufficientemente matura, i vinaccioli sono verdi e ancora ricoperti da sostanze pectiche o mucillaginose (come una sorta di placenta a protezione dell’embrione), all’assaggio sono amarissimi e provocano decisa astringenza; in questa fase i tannini hanno un basso grado di polimerizzazione e sono pertanto molto reattivi e presentando carica elettrica negativa, reagiscono facilmente con le glicoproteine della saliva, caricate positivamente, facendoci percepire la sensazione gustativa amaro-astringente.

Quando l’uva è mediamente matura, presenta vinaccioli che dal verde virano al marrone, lo strato protettivo inizia a staccarsi, all’assaggio sono mediamente astringenti e amari ma non eccessivamente, in quanto in questa fase i tannini presentano un grado di polimerizzazione intermedio e la reattività con le proteine inizia a diminuire.

Quando l’uva è matura, i chicchi presentano vinaccioli che da marrone tendono al nero, si svuotano all’ interno, i tannini hanno un alto grado di polimerizzazione e pertanto la loro reattività è quasi o del tutto nulla con le glicoproteine della saliva.

Per dirla con parole semplici e non entrare oltremodo in meccanismi biochimici complessi e difficili da comprendere, possiamo affermare che nel frutto immaturo i tannini sono scarsamente polimerizzati e con il progredire della maturazione la polimerizzazione aumenta per cui il sapore tannico, quella sensazione allappante, si attenua fino a scomparire a fine maturazione.

Per capire meglio i tannini e le sostanze polifenoliche in generale, dobbiamo sempre tener presente che la vite non porta avanti la maturazione del frutto e quindi del vinacciolo per farci fare il vino buono, ma per un concetto spesso sottovalutato o per niente considerato ovvero la sua riproduzione, per la continuità della specie. Non a caso quando l’uva non è matura è anche acida, ha poco zucchero e le sostanze fenoliche hanno un ruolo perlopiù di difesa e di repellenza, per scoraggiare cioè gli uccelli a magiare l’uva rendendola quindi sgradevole all’assaggio, in quanto il seme non è ancora maturo.

Non è così a fine ciclo, quando l’uva diviene dolce, quindi poco acida, la repellenza pertanto svanisce (si abbassano le difese) per invitare gli uccelli a beccare gli acini e portare i semi in giro attraverso le loro deiezioni, appunto con l’obiettivo della riproduzione. In buona sostanza volendo non è necessario il rifrattometro, o il mostimetro, analisi particolari per avere l’idea della maturità dell’uva, talvolta basterebbe osservare il colore dei vinaccioli e un assaggio per coglierne la maturità, con l’aiuto poi di api e uccelli che quando iniziano a mangiare gli acini ci danno indicazione che siamo (quasi) pronti per raccogliere.

Buccia. I composti fenolici presenti si ripartiscono nelle cellule dell’epidermide e nei primi strati della sotto epidermide. I tannini presentano strutture complesse ma il loro grado di polimerizzazione varia poco durante la maturazione e il loro potere astringente tende man mano a diminuire; essi sono molecole con proprietà colloidali a differenza dei tannini di raspo e vinaccioli. E’ risaputo che i tannini delle bucce sono meno astringenti di quelli dei vinaccioli causa probabilmente di un loro maggior grado di polimerizzazione (circa 15 unità rispetto a un media inferiore a 10 unità per quelli dei vinaccioli) oltre al fatto che essi sono spesso presenti in forma di complessi tannini-polisaccaridi e tannini-proteine che conferiscono morbidezza al vino.

La quantità e qualità di questi composti sopraccitati dipende sia dalla varietà sia dalle tecniche colturali utilizzate in campo, sia dalla scelta dell’epoca di raccolta ed anche dalle tecniche di ammostamento e vinificazione.

Diraspatura e Pigiatura. Da studi (Ribereau-Gayon) emerge che la presenza di raspi aumenta i polifenoli totali (tannini compresi ovviamente) ma diminuisce l’intensità colorante e questo pare dovuto a un effetto adsorbente da parte dei raspi nei confronti degli antociani. Considerando l’evoluzione del colore grazie anche alla copigmentazione si è osservato come vini non sottoposti a diraspatura diano nel tempo vini più colorati, anche se inizialmente l’effetto è esattamente opposto.

In primis, arrivata in cantina, l’uva è sottoposta spesso a una pigia-diraspatura o viceversa a una diraspa-pigiatura. Considerando che i tannini localizzati nei raspi sono a forte potere astringente e quindi i meno nobili, l’utilizzo di pigiadiraspatrice ha come rischio principale quello che i raspi siano schiacciati e quindi rilascino succo vacuolare amaro e astringente. Compiendo invece una diraspa-pigiatura non s’incorre in questo spiacevole inconveniente ma si rischia di aver una minor resa causata da una perdita di prodotto in fase di diraspatura; ovviamente non è condizione del tutto necessaria e difatti in alcuni casi questo passaggio viene eliminato come ad esempio quando s’intende effettuare una macerazione carbonica, in cui l’integrità del grappolo è fondamentale.

Macerazione. Operazione di dissoluzione nella parte liquida dei composti localizzati nelle parti solide dell’uva ottenuta per rottura degli acini durante la pigiatura. La fase fondamentale di una vinificazione in rosso è la cosiddetta macerazione; essa apporta fondamentalmente composti fenolici per struttura e colore del nostro prodotto finale oltre che per quanto riguarda la componente aromatica e altre importanti sostanze. Come abbiamo visto in precedenza nel grappolo si ha una vasta gamma di tannini ognuno con un “sapore” proprio, i quali si localizzano in determinati siti. Lo scopo della macerazione è quindi quello di far si che vengano estratti i componenti migliori per aroma, sapore e struttura cercando di non far passare nel prodotto sostanza con nota vegetale, amara, erbacea ecc.

I Fattori coinvolti sono molteplici: il tempo, maggiore è il tempo di contatto, maggiore è l’estrazione; la temperatura, più è alta, più si contribuisce all’estrazione; il contatto liquido-solido, più lungo è il contatto, piu alta è l’estrazione; l’anidride solforosa, dosi eccessive decolorano, dosi mirate hanno azione estrattiva; l’alcol, più siamo in presenza di alcol e maggiore sarà l’estrazione tannica in quanto l’alcol è per natura un solvente; infine l’enzimaggio, termine un po’ curioso ma che in sostanza ci suggerisce che con l’aggiunta di enzimi macerativi si aumenta l’estrazione del colore e dei tannini.

Ci sono varie tecniche di macerazione che si differenziano sostanzialmente per epoca (pre-fermentativa, fermentativa, post-fermentativa), temperatura, durata che contribuiscono all’estrazione del tannino. Tra queste è bene ricordare:

Macerazione Pre-Fermentativa a freddo (MPF). Questa tecnica consiste nel ritardare l’avvio della fermentazione dei mosti rossi per un tempo variabile dall’una alle due settimane. Essa si basa sul principio di raffreddamento del pigiato (una forma più elaborata prevede il raffreddamento attraverso CO2 liquida o neve carbonica) in modo tale da favorire, attraverso lo choc termico, la rottura delle cellule e la liberazione di succo molto tintoreo. Si ottiene quindi un’estrazione che privilegia il colore attenuando l’estrazione della componente tannica. Dopo questo primo periodo di estrazione a freddo la temperatura viene riportata a livelli idonei per l’inizio della classica fermentazione in rosso.

Macerazione Post-Fermentativa. E’ di solito riservata ai vini destinati a un lungo invecchiamento poiché ha lo scopo di estrarre i tannini dei vinaccioli che andranno con il tempo a interagire con altre sostanze contribuendo alla rotondità del vino. La macerazione è accompagnata spesso da rimontaggi che favoriscono l’aerazione del mezzo e un continuo contatto tra vinacce e parte liquida omogeneizzando la massa.

Macerazione Carbonica. Viene utilizzata frequentemente per vini di pronta beva come i Novelli ma non solo, favorisce la degradazione dei tessuti vegetali; i composti fenolici, antociani e sostanze azotate diffondono più velocemente dalla buccia. L’estrazione di tannini e dei pigmenti polimerici è minore rispetto alla vinificazione classica; ne consegue un vino con minore intensità colorante ma con una componente aromatica imponente. Le caratteristiche di questi vini sono generalmente:
• Colore vivace, non molto intenso;
• Profumo intenso e particolare (fruttato) di durata limitata;
• Tannicità e acidità fissa contenuta;
• Estratto secco non elevato;
• Morbidezza e rotondità di gusto.

Fase di affinamento in legno. In questa fase entrano in gioco un altro tipo di tannini, i tannini idrolizzabili, derivanti dal legno (botti o surrogati). Essi possiedono molti gruppi ossidrilici (OH) suscettibili a essere ossidati e quindi hanno un forte potere antiossidante nei confronti di altri composti presenti nel mezzo. Fanno parte di questa categoria i tannini ellagici e i tannini gallici poiché idrolizzati liberano rispettivamente acido ellagico e gallico. I tannini svolgono anche varie funzioni secondarie tra le quali:
– Combinazione con le proteine;
– Combinazione con i polisaccaridi: questo legame comporta una diminuzione dell’aggressività dei tannini interferendo nel legame sopraccitato tannini-proteine salivari e conferendo quindi una maggior morbidezza al prodotto;
– Polimerizzazione;
– Chelazione dei metalli eliminandoli dal mezzo;
– Condensazione: uno dei fenomeni più complessi a cui partecipano i tannini è la condensazione con gli antociani (frazione colorante).

Tannini aggiunti. Oggigiorno esistono in commercio innumerevoli preparati di tannini ognuno con uno scopo preciso, in base alla composizione (siano essi tannini di vinaccioli, bucce, ellagici, di quercia, castagno, di the, di limone, da mimosa, di tara, di galla, di quebracho, di frutti rossi, di rovere, ecc) e al momento in cui questi vengono aggiunti al vino.

In linea del tutto generale si può dire che sia per la stabilizzazione proteica sia per la protezione del colore siano preferibili i tannini proantocianidinici mentre per quanto concerne il loro potere antiossidante siano più indicati i tannini idrolizzabili.

In conclusione, ripensando alla componente polifenolica del vino che viene condizionata da fattori quali il vitigno, le caratteristiche pedoclimatiche del luogo di coltivazione e le tecniche di coltivazione, vinificazione, invecchiamento e/o conservazione applicate ci viene da fare un’ultima considerazione: che senso ha eliminare i vinaccioli dalla macerazione e poi dopo aggiungere tannini da vinacciolo di un’altra varietà? Che senso ha la pressatura soffice per eliminare immediatamente le bucce e poi dopo aggiungere tannini di buccia estratti da vinacce fresche, ad esempio di Chardonnay? Che senso ha quindi aggiungere, più in generale, se la miglior cosa da fare appare essere togliere?

Togliere e non mettere quindi, questo dovrebbe essere il motto, o meglio lavorare con i buoni propositi di preservare quanto di meglio ci sta nel frutto, a partire da una materia prima sana ed eccellente, figlia di una viticoltura di precisione, per grazia di Dio di una buona annata e di un’enologia non necessariamente sottrattiva a causa di chiarifiche o filtrazioni spinte, senz’altro non additiva ma bensì conservativa di tutto quanto di buono naturale vi è nell’uva e che dovremmo ritrovarci poi nel nostro bicchiere di vino!

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Elogio della bevibilità

28 gennaio 2019

Vi è negli ultimi anni una ricorrente deriva acidistica¤ a cui molti tra appassionati e bevitori esperti continuano a strizzare l’occhio certificandola come una sorta di avanguardia enoica non più trascurabile, anzi, quasi una tendenza irrefrenabile mentre il mercato, quello che rappresenta una buona fetta delle movimentazioni di vino in tutti canali distributivi, continua ad apprezzare e a preferire le morbidezze e le dolcezze.

‘’Leggerezza” e “bevibilità”, termini sino a qualche tempo fa appannaggio di vini di basso profilo o comunque di secondo e terzo piano, sembrano invece ritornare parole di un certo spessore nel vocabolario tecnico-descrittivo anche degli esperti più ascoltati. Pensandoci, questo tipo di vini sono sempre stati parte della cultura italiana del vino ed in particolar modo di quella partenopea, c’è una immagine che non possiamo scordare, ben fissa nella memoria di tutti noi, quella del vino rosso bevuto fresco, se non freddo, talvolta con le percoche e quando troppo “tosto” (tannico, alcolico) con l’aggiunta di ghiaccio e gassosa per diluirne la struttura ed aumentarne la bevibilità.

Erano i tempi in cui il capo famiglia, seduto a capotavola, alla domenica, gestiva da sé la damigianella da 5 litri di fianco al tavolo facendo da coppiere distribuendo il vino ai commensali, indicando a tizio e a caio quando e perché fosse necessario un tot di diluizione. Possiamo quindi affermare senza ombra di dubbio che la tendenza è sempre stata a favore dei vini leggeri, caratterizzati da bassa gradazione alcolica e più o meno scarichi di colore in relazione al vitigno o agli assemblaggi di provenienza, di certo poco tannici.

Si arrivava a certi vini per vie traverse, anzitutto a causa le rese altissime per ettaro, le macerazioni brevi (quando non brevissime), l’assenza di tecniche enologiche capaci di garantire maggiori estrazioni (oggi si lavora anche con enzimi macerativi, attenzione alle temperature, i rimontaggi), soprattutto perché tranne in rari casi i legni di rovere francese e americano non si usavano affatto, quindi i tannini presenti nei vini erano pochi e perlopiù provenienti dall’uva e non rilasciati al vino tramite il contatto con il legno o altro.

La necessità di leggerezza è quindi una eco che arriva da molto lontano, non è una moda contemporanea o una tendenza lanciata dai nuovi intenditori; la ricerca, la voglia, il desiderio di vini oggi considerati moderni perché leggeri, luminosi perché (talvolta) trasparenti, godibilissimi perché caratterizzati da grande bevibilità, equilibrati e non pesanti, addirittura da bere freschi mettono proprio tutti d’accordo, appassionati, fini esperti degustatori e bevitori comuni. Restano forse figli di un Bacco minore, come erano considerati fino a dieci, vent’anni fa questa tipologia di ‘’vinelli’’, se paragonati ai grandi vini internazionali o ai Super qualchecosa, perchè concentrati, scuri, fitti, impenetrabili, alcolici, suadenti, voluttuosi e ricchi, quasi sempre affinati in legno pregiato, anzi, barriccati.

Stiamo pertanto assistendo ad un lento ma inesorabile cambiamento del fronte, ora la situazione si è praticamente ribaltata, assistiamo cioè ad una inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, dalle gradazioni alcoliche contenute; per dirla con parole dinamiche non più vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.

Non ce ne vorranno alcuni ma riteniamo una fortuna questa decisiva virata, una variazione sul tema che consegna una idea quantomeno diversa del ’’vino modello’’ cui ispirarsi e al quale molti produttori tendevano spesso più per inerzia che per intuizione, talvolta ‘’conciando’’ i loro vini – proponendo cioè tagli con vini più tannici, intervenendo sulla gradazione alcolica, aggiungendovi varietà tintorie, o tannini esogeni, trucioli, gomma arabica, per dire -, al fine di renderli appetibili dal mercato perché simili a, somiglianti a, poiché la critica era massivamente orientata proprio a prediligere vini così fatti, concentrati e alcolici, in qualche maniera ‘’costruiti’’.

Un cambio di rotta che lentamente spinge oggi taluni esperti addirittura a storcere il naso davanti a questi vini quasi sempre uguali a se stessi e lontani anni luce dalla quotidianità dei comuni bevitori.

Questo passaggio epocale è merito di molti e un po’, diciamocelo, una piccola vittoria per quella realtà tanto sollecitata dai tanti movimenti naturali, bio e biodinamici che per quanto divisivi e contrastanti – talvolta incomprensibili – hanno però avuto il merito di stimolare anche i produttori cosiddetti convenzionali nel rivedere le loro scelte agronomiche e di vinificazione, rivolgendosi ad un modo di fare il vino in maniera più semplice, accorciando la filiera e gli interventi in vigna come in cantina; appare quindi fondamentale oggi più che mai mettere in bottiglia un vino sincero, identitario, una sorta di cartina tornasole del vitigno in relazione alle condizioni pedoclimatiche del territorio di provenienza, senza ricorrere necessariamente a maquillage eccessivi, ad una sorta di chirurgia plastica con il rischio di ritrovarci nel bicchiere vini talvolta caricaturali.

In natura ci sono vitigni che hanno queste caratteristiche, il Pinot Nero, il Gamay, il Piedirosso, il Rossese di Dolceacqua, la Schiava, per citarni alcuni tra i più comuni in Francia e in Italia. Anche se oggi non è poi così difficile trovare sul mercato dei Merlot, dei Cabernet Franc che sono stati messi, per così dire, a dieta per rispondere alle esigenze di un consumatore più attento alla bevibilità che alla sostanza, così aumentando le rese in vigna (meno zucchero, quindi meno alcol e meno tannino), anticipando il raccolto per ottenere un’acidità totale più alta e un ph più basso, abbandonando il legno non avendo più necessità di un effetto distensore per la parte tannica preferendovi una tecnica enologica più immediata che contribuisce ad ‘’alleggerire’’ i vini, come le macerazioni più brevi, a temperature al di sotto dei 22-24 gradi, macerazioni pre-fermentative a freddo o la macerazione carbonica delle uve totale o parziale.

Insomma, possiamo dire che se prima si faceva di tutto per estrarre quanta più sostanza possibile da certi vini, tannini compresi, oggi la tendenza è di estrarre il meno possibile, o quanto meno il giusto necessario per godere di vini territoriali, identitari e di carattere ma agili e vibranti, finanche serbevoli talvolta, vini che quando sono pienamente centrati rappresentano un vero elogio della bevibilità di cui non possiamo che continuare a parlarne un gran bene.

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

L’acidità, il pH e quel maledetto gusto personale: che ne dite, è il caso di fare un po’ di chiarezza?

12 febbraio 2013

I sapori dolci sono popolani mentre quelli acidi conservano un non so ché di quasi intellettuale. Più di qualcuno la pensa così, non sempre a ragione. Tant’è che l’argomento mi appassiona, così ho chiesto all’amico Gerardo Vernazzaro¤ un suo piccolo contributo sulla questione della “deriva acidistica” ripresa qualche post in là¤. Quanto segue non è certamente del tutto esaustivo sulla faccenda, mi pare però chiarire alcuni aspetti e quindi di larga utilità per chi ci legge. [A.D.]

Gli acidi organici contribuiscono in modo determinante alla composizione, alla stabilità microbiologica e chimico fisica ed alle qualità sensoriali di tutti i vini; l’altro parametro fondamentale in relazione all’acidità è il pH, che esprime la “forza acida” di un alimento, nel nostro caso, del vino. E’ fondamentale definire dei valori medi di acidità totale e di pH nei vini prima di introdurre termini quali “basso”, “elevato”, “sostenuto” ecc.

Possiamo affermare che l’acidità media di un vino può essere compresa tra 4,5 – 8 grammi per litro ed il pH può essere compreso tra 3 e 4. Qui va chiarito un punto: mentre l’acidità è espressa in grammi litro (g/l), quindi più comprensibile, il pH è adimensionale ed appare spesso come astratta e teorica in quanto definita matematicamente come logaritmo negativo a base 10 della concentrazione di ioni d’idrogeno associati a molecole di acqua: pH=-log 10 [H3O+]; ai fini pratici dunque, per una maggiore comprensione del ph, diremo più semplicemente che esso esprime la “forza acida” di un vino, tenendo conto che la scala del pH va da 0 a 14, con la neutralità a 7, definendo quindi le sostanze acide in un intervallo compreso tra 0 e 6,99 e le sostanze basiche nell’intervallo da 7,1 a 14.

Il vino ha mediamente un ph compreso tra 3 e 4 e fa parte quindi della famiglia delle sostanze acide. Più alto è il valore di acidità, più basso è il pH (più si avvicina a 3), più l’acidità è bassa più il pH è alto (più si avvicina a 4). Si aggiunga che un vino bianco con acidità totale 6,5 – 7,5 g/l e pH 3,10 – 3,30 ha maggiore potenziale di conservazione e quindi maggiore longevità; un vino bianco invece con acidità totale pari a 4,5 – 5,50 g/l e pH 3,40 – 3,70 avrà minore potenziale di conservazione, meno longevità quindi, ma sicuramente una maggiore godibilità nell’immediato.

Il pH gioca un ruolo fondamentale in enologia anche ai fini della selezione microbica durante la fermentazione alcolica in quanto intorno al valore 3 si adattano e lavorano meglio i lieviti, mentre intorno al 4 sono anzitutto i batteri che trovano un ambiente favorevole al proprio sviluppo; così in un mosto con una acidità elevata ed un pH basso prossimo a 3 come valore, durante il processo fermentativo saranno favoriti i lieviti, mentre a pH alti, prossimi  a 4 ad esempio, saranno favoriti batteri lattici, quelli acetici ed altre famiglie che vanno confondendosi ai lieviti; la fermentazione così non risulterà “pulita” col primo rischio di trovarci in presenza di fermentazioni miste di lieviti e batteri ottenendo quindi vini sommariamente “sporchi”, con effetti chiaramente negativi sulla qualità e sulla finezza espressiva; rischio questo che in annate particolarmente calde, col pH che tende a valori alti, conduce inevitabilmente ad un abbassamento della qualità dei profumi varietali a favore di quelli post-fermentativi; in definitiva mosti con ph bassi e acidità totali elevate danno garanzia di pulizia fermentativa conservando un’accentuata naturale capacità di sfidare il tempo.

Per quanto riguarda i vini rossi va aggiunto che ben sopportano acidità più basse e pH più alti in quanto i composti fenolici in essi contenuti ne accentuano il gusto acido e contribuiscono ancor più alla loro tenuta nel tempo. Ovviamente, per il loro reale potenziale evolutivo contribuiscono alla causa anche l’alcol ed i polifenoli totali.

Ma quali sono questi acidi? I principali acidi organici dell’uva sono l’acido tartarico, l’acido malico e l’acido citrico. L’acido tartarico è il più rappresentativo dei mosti e dei vini ed è poco diffuso in natura al di fuori dell’uva; diluendolo in acqua e degustandolo siffatto presenta una sensazione strenuamente amara, nei mosti e nei vini il suo quantitativo varia da circa 3 a 6 g/l in base alla zona di produzione (nord o sud), l’annata (calda o fresca) e la tipologia di suolo. L’acido malico si riscontra in tutti gli organismi viventi ed è abbondante sopratutto nelle mele verdi da cui il suo nome, quindi il suo gusto è da associare alla sensazione della mela acerba, quindi  un acido “tagliente”; la sua concentrazione è variabile da 1 a 5 g/l e la sua presenza viene compromessa soprattutto nelle annata particolarmente calde.

Per i vini bianchi la tendenza attuale è quella di preservare l’acido malico per garantire al vino una maggiore freschezza e giovinezza, mentre per i vini rossi nella maggior parte dei casi viene fatta svolgere ad opera dei batteri lattici la cosiddetta fermentazione malolattica, che altro non è che la trasformazione dell’acido malico in acido lattico: per ogni grammo di malico si generano 0,67 circa di lattico, quindi assistiamo ad un calo del contenuto di acidità e sopratutto al cambiamento della qualità sensoriale, in quanto l’acido lattico è un acido che potremmo definire più “dolce” o “morbido”. L’acido citrico è molto diffuso in natura, ad esempio negli agrumi, sopratutto nel limone, tant’è che il suo gusto è da associare proprio a quello del limone acerbo; è il meno rappresentativo e il suo quantitativo medio è compreso tra 0,5 – 1 g/l.

Per meglio completare il quadro acidico di un vino dobbiamo fare un breve accenno anche agli altri acidi organici che si generano in fermentazione, primo tra questi è l’acido acetico prodotto soprattutto per l’attività dei batteri acetici dopo la fermentazione ed il suo quantitativo nei vini sani può variare tra 0,2 a 0,6 g/l, con casi particolari dove può raggiungere anche 1 g/l, soprattutto nei vini rossi di lungo invecchiamento dove l’acido acetico può giocare un ruolo sensoriale positivo e complessante. Vi è quindi l‘acido lattico nelle forme D e L: il primo di origine batterica, il secondo prodotto dal metabolismo dei lieviti, l’acido succinico il cui tenore nei vini si aggira intorno a 1 g/l, l’acido butirrico, l’acido propionico ed altri.

In enologia si parla di acidità totale sommando la gran parte degli acidi presenti in un vino, l’ acidità volatile espressa in g/l di acido acetico e l’acidità fissa che si ottiene sottraendo il valore dell’acidità volatile dall’acidità totale. Queste “tre forme dell’acidità”  unitamente al pH hanno una grande  influenza sensoriale e giocano un ruolo importante nella formazione degli equilibri gustativi con le sensazioni dolci (zuccheri e alcoli, glicerolo, mannoproteine) e con le sensazioni amare (composti fenolici); quindi non dovremmo parlare di bella acidità ma più precisamente di “equilibrio acidico” in quanto una acidità elevata con un pH basso, non bilanciata da un buon contenuto di glicerolo o di polisaccaridi da lievito o da legno, potrebbe avere un effetto poco piacevole sul piano sensoriale o quantomeno sbilanciato. L’acidità dunque va sempre valutata in rapporto ad altre numerose sostanze presenti nel vino e dal suo bilanciamento ed equilibrio con queste.

Così, come in musica le note devono essere ben bilanciate per comporre una buona armonia, anche nel vino non dovrebbero esserci note stonate, anche se ultimamente più di qualche addetto ai lavori sembra lodare ad oltranza “l’acidità” di un vino senza precisarne i canoni, creando così tanta confusione tra le varie legioni di appassionati chiaramente non sempre, o non tutti bevitori esperti, lasciandoli così in balìa di tutta una serie di considerazioni che poco aiutano a fare chiarezza, anzi, confondono oltremodo.

Gerardo Vernazzaro, enologo e viticoltore a Cantine Astroni¤.

Viaggio in Sud Africa, questa è la storia

4 giugno 2012

L’amico Gerardo Vernazzaro, compagno di tante bevute oltre che bravo enologo a Cantine Astroni – e curatore di una rubrica su questo blog -, è stato in Sud Africa per capire cosa succede da quelle parti. Questa è la storia…

Con una tradizione storica di circa 350 anni, in Sud Africa si produceva vino molto prima che in California o in Australia e, tra l’altro, il paese è oggi l’ottavo produttore di vino del mondo. Nonostante il paese mostri un lieve ritardo rispetto agli altri produttori vinicoli del mondo, principalmente dovuto agli avvenimenti politici dello scorso secolo, il Sud Africa si propone al mondo con interessanti vini bianchi e rossi e le premesse per un rapido e importante sviluppo enologico di qualità fanno ben sperare per la produzione futura.

La produzione vinicola è ancora fortemente caratterizzata dalle cooperative, tuttavia si sta registrando, a partire dalla metà degli anni ‘80, un crescente numero di nuovi produttori vinicoli che puntano essenzialmente sui vini di qualità. La zona dove principalmente si produce gran parte del vino è il Capo di Buona Speranza, nella parte più a sud, vicino a Città del Capo.

La storia dell’enologia ha inizio verso la metà del 1600 ad opera di quello che è da tutti considerato come il padre della vitivinicoltura sudafricana: Jan van Riebeeck. Nell’intento di realizzare un punto di ristoro e di sosta per le navi della Compagnia delle Indie Olandesi in rotta verso i paesi dell’estremo oriente, questo giovane chirurgo olandese, che non aveva nessuna nozione né di viticoltura né di pratiche enologiche, intuì tuttavia la necessità di fare trovare vino e distillati agli equipaggi in sosta a Capo di Buona Speranza che avrebbero senz’altro gradito.

Fece quindi arrivare dalla Francia – non è certa l’esatta zona di origine ma con molta probabilità si trattava di chenin blanc e moscato d’Alessandria – alcune viti da piantare e, finalmente, dopo diversi tentativi andati male a causa di incendi appiccati ai vigneti da parte delle popolazioni locali che si aggiunsero agli assalti dei famelici passeri ghiotti di chicchi d’uva, nel 1659 si registra la prima produzione di vino in Sud Africa. Nel diario di Jan van Riebeeck, nella data del 2 febbraio 1659, si trova scritto: «oggi, sia lodato il Signore, per la prima volta abbiamo fatto vino con le uve del Capo».

L’esultanza era certamente comprensibile, tuttavia un cronista dell’epoca ricorda che il vino era incredibilmente astringente, buono solamente per “irritare l’intestino”; non da ultimo, il vino spedito in Olanda veniva spesso rifiutato e rimandato al mittente. Nonostante lo scarso favore e, a quanto pare, i poco incoraggianti risultati dei primi esperimenti, la strada per l’enologia sudafricana era stata tracciata.

Di li a poco, accaddero due avvenimenti significativi che diedero particolare impulso all’enologia locale: il nuovo governatore Simon van der Stel, che arrivò in Sud Africa nel 1679, contrariato dalla forte acidità dei vini locali, decise di fondare nel 1685 la più prestigiosa cantina di tutta la storia del paese: Constantia, la cui fama negli anni arrivò persino a primeggiare con certi vini francesi dell’epoca e con i già celebrati Tokaji ungheresi. Mentre un altro avvenimento che contribuì al miglioramento della qualità del vino in Sud Africa fu l’arrivo, successivamente alla fondazione della cantina Constantia, di circa 200 rifugiati protestanti ugonotti francesi, in fuga dalle persecuzioni religiose dopo la revoca dell’Editto di Nantes, che portarono con loro l’esperienza, senz’altro provvidenziale, delle pratiche enologiche francesi.

I vini di Constantia rappresentarono un caso piuttosto singolare, in quanto erano gli unici del cosiddetto “Nuovo Mondo” a primeggiare, se non a superare, i vini prodotti in Europa e per molti anni preferito dalle Corti Reali d’Europa; lo stesso Napoleone infatti, in esilio all’isola di Sant’Elena, ordinava i vini di Constantia per alleviare il suo tormentoso destino. Erano vini dolci e prodotti nelle versioni rosso e bianco, quest’ultimo più pregiato e ricercato e prodotto perlopiù con Muscat à petit grains a cui veniva probabilmente aggiunto il moscato d’Alessandria e il pontac, un’uva a bacca rossa le cui origini non sono molto certe.

Il declino cominciò dopo l’occupazione delle truppe britanniche, in seguito alle guerre napoleoniche, oltre alla generale debacle di tutto il comparto vinicolo a partire dal 1861. E a rendere ancor più difficoltosa la decadente condizione, come in altri paesi produttori di vino dell’epoca, nel 1886 fece la sua comparsa la temibile fillossera che devastò progressivamente i vigneti del paese. Gli effetti post fillossera si fecero sentire per circa 20 anni e all’inizio del ‘900 i produttori locali ripresero a piantare vigneti, prevalentemente con uva cinsaut (o cinsault), cercando di ridare slancio all’enologia del paese che di fatto, per contro, diede luogo ad una sovrapproduzione che portò nuovamente ad una crisi economica dell’industria enologica del paese. Questa crisi finanziaria portò nel 1918 alla fondazione di una cooperativa di produttori sudafricani, la KWV – Koöperatiewe Wijnbouwers Vereeniging van Zuid Africa (Associazione Cooperativa dei Viticoltori del Sud Africa). 

Lo scopo di questa cooperativa era di fissare dei limiti di produzione, con lo scopo di evitare sovrapproduzioni, e di conseguenza i prezzi minimi del vino. Divenne in breve tempo un potente organismo e nessun vino poteva essere prodotto, venduto o importato in Sud Africa se non per mezzo del KWV. Nonostante questa cooperativa sia ancora attiva e controlli circa il 25% delle esportazioni dei distillati e del vino sudafricano, oggi ha perso molto del suo dominio e attualmente è ristrutturata come un gruppo di compagnie private. Nonostante si debba riconoscere il merito di questa organizzazione per avere contribuito alla stabilizzazione dei prezzi così come alla regolamentazione della produzione vinicola, KWV ha anche lasciato poco spazio alla creatività e all’iniziativa personale dei produttori, determinando, di fatto, un ritardo nelle tecnologie e nella qualità dei vini, che invece negli altri paesi stava procedendo in modo spedito e determinante. Il cambiamento in favore della qualità è iniziato verso la metà degli anni ’80, quando si è assistito ad un cambiamento radicale dell’industria enologica in favore dei piccoli produttori rispetto a quello che era invece la norma fino a quei tempi, cioè le cooperative. 

Le zone di produzione: il centro della produzione vinicola è circoscritto nel cosiddetto “Capo”, nella parte più a sud del paese, in prossimità di Città del Capo e del Capo di Buona Speranza. Le regioni di principale interesse sono certamente Paarl e Stellenbosch, dove si produce anche la maggiore quantità di vino del paese. Qui si producono sia vini bianchi che vini rossi e, non da ultimo, vini fortificati e metodo classico (Cap Classique). Il clima è favorito dalla vicinanza con i due oceani, Atlantico e Indiano, condizioni che consentono la produzione di vini di qualità e, non a caso, i migliori vini del Sud Africa provengono proprio da queste zone. 

La zona di produzione più antica rimane Constantia, nel distretto di Capo di Buona Speranza; un luogo che beneficia sia di un clima fresco sia della vicinanza dell’oceano Atlantico. La zona è famosa per il suo celebre vino dolce, ma si producono anche vini fermi da uve chardonnay e sauvignon blanc, oltre a vini rossi da cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot. A circa 45 chilometri ad est di Città del Capo, si trova un’altra celebre zona vinicola del paese, Stellenbosch, prestigiosa città universitaria. Tradizionalmente viene considerata fra le più antiche zone di produzione del paese, dopo Constantia, oltre che fra le più importanti, sia per produzione che per qualità. Il clima di questa zona è piuttosto temperato dalle correnti provenienti dall’oceano Atlantico e le uve coltivate sono il cabernet sauvignon, il merlot, il syrah e il pinotage (pinot nero x cinsault). In questa zona si producono inoltre anche buoni vini fortificati nello stile “Porto” e vini bianchi prodotti con uve chardonnay e sauvignon blanc. Ancora più a nord di Stellenbosch, c’è Paarl. 

Qui oltre a vini bianchi e rossi, ci sono ottime espressioni anche di vini liquorosi, spumanti e brandy. In particolare i vini fortificati sono prodotti con le stesse tecniche con cui si producono i celebri Jerez in Spagna, e spesso la loro qualità viene considerata al loro pari. Le uve prevalentemente coltivate nella zona sono lo chenin blanc, lo chardonnay, il sauvignon blanc, il cabernet sauvignon e il merlot. Un’area molto rinomata di questa regione è Franschoek, originale insediamento degli ugonotti francesi, dove si producono interessanti vini di qualità, in particolare con uve sémillon. Altre zone di interesse sono Hermanus, a sud di Città del Capo, dove si producono interessanti pinot nero e chardonnay, Durbanville, ad ovest di Paarl, dove si producono in prevalenza vini bianchi. Altre zone sono Worcester, Klein Karoo, Mossel Bay, Elgin e Walker Bay.

Qui, sul wineblog di Luciano Pignataro, il bel racconto del viaggio.

Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #2

7 giugno 2011

Una faccenda simile a quella descritta nel finale del post precedente, che vuole cioè difetti originati da una cattiva gestione del vigneto o della vinificazione nonché dell’affinamento, proposti ed insidiati nell’immaginario collettivo come tipicità, è stata per anni propinata raccontando del nostro piedirosso dei Campi Flegrei, che ha, guarda caso, una spiccata tendenza sia alla riduzione, durante le fasi di lavorazione in cantina e, se le uve raccolte non godono di perfetta maturazione, al vegetale.

I napoletani e l’apologia del piedirosso. Per lungo e troppo tempo abbiamo sentito affermare che la puzzetta del piedirosso è un tratto caratteriale tipico del vitigno, o del territorio: affatto! Il carattere vegetale poi, come detto, è riconducibile solo ed esclusivamente ad una non corretta maturità dell’uva, derivante da una non ottimale gestione del vigneto (pirazine), mentre la riduzione è dovuta dalla produzione di idrogeno solforato (uova marce) e metantiolo (acqua stagnante, straccio bagnato) ad opera del lievito, sia esso indigeno o selezionato, quando è in condizioni di particolare stress per carenza di ossigeno o per carenza di azoto. I suoli vulcanici composti principalmente da sabbie sono terreni sciolti, poveri di azoto, tale macroelemento è indispensabile per il corretto metabolismo del lievito, quindi avendo valori di azoto prontamente assimilabile (APA) bassi – in media tra 80-120 mg/l quando solitamente ne occorrono circa il doppio -, non è difficile decifrare quale fosse l’origine del male di certi piedirosso sempre troppo sospesi tra l’inferno ed il purgatorio. A questo aggiungiamoci certe pratiche enologiche che definire scorrette è poco, dalla cattiva gestione dell’ossigeno, o un eccesso di anidride solforosa in fase di ammostamento, alla noncuranza delle uve in fase di pre-lavorazione con il doppio effetto negativo di produzione di esenoli – note erbacee – e l’eccessiva produzione di feccia vegetale che tende a sottrarre ossigeno al lievito. Bisogna fare pertanto attenzione quando si parla di tipicità e soprattutto di territorio. Il territorio negli ultimi quarant’anni ha subito notevoli trasformazioni, per di più il clima è cambiato, le buone pratiche di campagna abbandonate e le stalle, quelle vere, scomparse.

Il sovescio per esempio, veniva applicato sistematicamente in tutte le vigne del circondario flegreo, e qualcuno ancora riesce a mantenere, con non poca fatica, questa tradizione; consiste nel seminare in autunno leguminose, in modo particolare favino e lupinella, per interrarle poi in primavera; un sistema naturale atto ad arricchire il terreno anzitutto di azoto, ma anche di ferro grazie alla congiunta semina del rapestone. Il letame proveniente dalle stalle, stabulato e maturato, arricchiva il suolo di sostanza organica e carbonio, aumentandone così capacità di scambio cationico (C.S.C), cioè la capacità intrinseca del terreno di rendere disponibile i macro e i microelementi all’apparato radicale delle piante. Il letame, inoltre, ripristinava ogni anno la carica batterica del suolo fondamentale per rendere “vivo” il terreno.

Anziani contadini delle mie parti di sovente mi raccontano che il vino piedirosso presentava al tempo colore rubino brillante e spesso gradazioni alcoliche sostenute e buona struttura tannica, ovviamente il tutto in zone vocate e in particolare da vini prodotti con uve da viti vecchie.

Oltretutto le temperature erano più fresche e di conseguenza anche l’acidità era più alta ed il Ph più basso, ciò era molto interessante per tutte le ricadute microbiologiche e chimico-fisiche e per la capacità del vino di tenere nel tempo. Inoltre, il mosto veniva fermentato in tini di legno aperti con grande disponibilità di ossigeno per i lieviti indigeni, aspetto di fondamentale importanza per quanto detto prima. Infine, l’affinamento, anzi, a quel tempo era un mero stoccaggio in previsione di un trasporto che avveniva generalmente in fusti di castagno e ciliegio, non certo quindi per velleità ma per necessità; tra l’altro, il ciliegio a poco alla volta andava sostituito nel corso del tempo dal castagno, a causa della sua elevata porosità e quindi incidente sulla diminuzione di quantità di vino. In ogni modo anche questi legni conferivano tipicità al prodotto.

Il castagno, se ben stagionato, conferiva struttura e probabilmente al primo passaggio anche una nota amarognola e mentolata, con il tempo di sicuro il suo contributo migliorava perché meno aggressivo e comunque restava la capacità di ossigenare il vino attraverso il cocchiume e le doghe, cosa sicuramente positiva per l’evoluzione. Il ciliegio, fintanto che è stato presente nella filiera, in perfetto equilibrio con il castagno, donava dolcezza e frutto. Oltre a queste perdite naturali che hanno definito in passato la cosiddetta tipicità del piedirosso, un forte aggravio lo si è avuto dall’introduzione dell’acciaio in cantina. Il vitigno, si può dire quindi, è vittima del mal d’acciaio. Essendo l’acciaio un contenitore inerte, non traspirante, incide notevolmente sulla tendenza che ha il vitigno alla chiusura ed alla riduzione, talvolta irreversibile se non si ha l’accortezza di gestire bene i travasi, oppure adoperando la tecnica della micro ossigenazione; il per e’ palummo vinificato in acciaio è come un uomo stretto da una morsa al collo, che ha non poche difficoltà a respirare.

Come si evidenzia da quest’ultimo breve periodo, tante cose sono cambiate, ma una appare chiaramente non mutata nel tempo, la fretta del napoletano. Il napoletano è fast, comprende poco o nulla della cultura Slow, vive di precarietà da secoli e l’aforisma Carpe Diem pare cucitogli addosso in maniera calzante: poco, maledetto e subito!

Così per il vino, un prodotto da consumare subito, entro l’anno. Per fortuna oggi c’è qualche segnale di cambiamento, c’è qualcuno, qualche mosca bianca che inizia a rallentare ad andare più Slow, a sperimentare quell’arte di “saper attendere” anche sulla produzione dei vini. Questi segnali sono più che evidenti nell’ultimo decennio, tangibili nelle aziende storiche flegree come pure in quelle piccole realtà venute fuori negli ultimi tempi; di questi ci sono alcuni piedirosso, nomi e cognomi alla mano, La Sibilla, Contrada Salandra, Agnanum, dei quali godere appieno, e nessuno di questi caratterizzato, pur rappresentati come espressioni tipiche del territorio, da quella “tipica puzzetta” fastidiosa e certamente ben lontana, per quanto detto, dal varietale e dai Campi Flegrei; evidentemente quindi tutti lavorati bene e figli della scienza e di una enologia pulita. Si, perché dietro ad ognuna di queste aziende c’è un bravo enologo: a Bacoli, a La Sibilla c’è il giovane e bravo enologo di famiglia Vincenzo Di Meo, Giuseppe Fortunato di Contrada Salandra si avvale dei preziosi consigli di Antonio Pesce, che tra l’altro con i vini delle sabbie vulcaniche ha grande dimestichezza, mentre Raffaele Moccia, Agnanum, ha potuto beneficiare dell’imprinting iniziale dello start-up del vulcanico, competente ed estroso Maurizio De Simone.

In definitiva, il piedirosso incarna forse anche la marginalità di Napoli, a volerlo dire con una espressione greca usata nelle scritture apocalittiche, Napoli e il piedirosso si trovano sempre Parà ta éscheta ovvero prossimi ai limiti estremi, vicini alle cose ultime, sull’orlo dell’abisso, in bilico, sempre a un passo dalla resurrezione ma anche ad un passo dal precipizio. Infatti, uno dei grandi problemi irrisolti di questo vitigno è la scarsa produttività e quindi la definizione di un modello viticolo moderno, capace di esaltarne le peculiarità limitandone le avversità; intanto i contadini, proprio per questo motivo lo stanno estirpando, sostituendolo nella migliore delle ipotesi con la falanghina, di certo più plastica e generosa; quindi è d’obbligo lanciare un appello al mondo della ricerca, della produzione e della comunicazione, per lavorare uniti al fine di preservare il valore assoluto di questo straordinario vitigno, l’orgoglio agricolo nonché ancora di salvezza, rinascita viticola della nostra città. Save the piedirosso!

 Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte prima.

Qui l’articolo in versione integrale  su www.lucianopignataro.it.

Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #1

7 giugno 2011

Premessa: il vino è storia e cultura, è arte e poesia, ma soprattutto è natura; è però – indiscutibilmente – anche scienza.Il naso. Fiori freschi bianchi, colorati, fiori appassiti e secchi, frutta fresca, matura, cotta e secca; profumi erbacei, vegetali, aromatici, speziati, pungenti o meno, ma anche minerali, tostati, animali; terragni, eterei.

Quando si parla di vino non si può non parlare anche di naso. Questi è uno strumento di precisione infallibile, o quasi; un software collegato ad un hardware ancora più complesso e potente qual è il cervello. Mille e più recettori differenti di cui ognuno di noi è capace al massimo di attivarne appena un centinaio, e a livello assai differente tra loro in quanto è scientificamente provato che esiste una predisposizione genetica all’olfazione, e che in ognuno matura e migliora solo attraverso un continuo allenamento e non di certo dall’oggi al domani. Le cellule nervose olfattive hanno inoltre la capacità di rigenerarsi con una certa frequenza tant’è che si può dire che in media ogni tre mesi abbiamo un naso del tutto “nuovo”; può capitare infatti che dopo uno shock, come ad esempio un forte raffreddore, per riacquistare una completa funzionalità dei recettori olfattivi dobbiamo attendere almeno 2-3 mesi.

Ma cosa sentiamo quando avviciniamo le narici al calice? Come anticipato, non tutti hanno la capacità di cogliere tutte le sfumature, il 50% degli individui per esempio non percepisce nemmeno il più semplice dei sentori, quello di violetta per esempio, o il succoso lampone (β-ionone); senza dire poi della fatica a ricordare il tabacco, l’amarena matura, figli di quel β-damascenone caratteristico dei vari Syrah, Gamay e non ultimo Pinot Nero? Una gran faticaccia! Tali composti varietali, tra l’altro presenti in tutte le varietà a bacca rossa, sono derivanti dalla degradazione dei carotenoidi ad opera della radiazione luminosa; ai fini strutturali non sono molto importanti per la loro espressione aromatica diretta, dato che difficilmente raggiungono concentrazioni superiori alla soglia di percezione, ma, anche a basse concentrazioni, sono in grado di funzionare come esaltatori di aromi primari fruttati. La loro concentrazione aumenta con l’aumento dell’esposizione dei grappoli alla luce, per questo motivo, non è blasfemico, ma scientificamente provato, poter ritrovare in dei vini bianchi prodotti da uve sovraesposte dei sentori che ci rimandano ai frutti rossi.

Altra molecola aromatica interessante è il 4-metilmercaptopentanone (4MMP), che appartiene alla famiglia dei tioli – il Sauvignon Blanc ad esempio -; questi, a basse concentrazioni corrisponde alla nota fruttata di frutto della passione, o all’erbaceo del bosso, mentre ad alte concentrazioni è spesso associato alla nota pungente della pipì di gatto – nota non sempre apprezzata – caratterizzante certi particolari sauvignon blanc della Loira, di Sancerre in particolare, dove sono state identificate per la prima volta, seppur presenti, in minor concentrazioni in molti altri vini europei. Le molecole aromatiche variano in base alla soglia di percezione che corrisponde alla quantità minima di una singola molecola che viene percepita da almeno il 50% di un campione in condizioni standard, la soglia può variare da qualche nanogrammo/litro fino ad alcuni milligrammi/litro per le molecole più pesanti.

Un altro fattore interessante da non sottovalutare, che incide talvolta non poco, è la pre-percezione che sovviene ad opera di altri sensi che partecipano all’analisi organolettica di un vino, come nel caso della vista; si, perché già il solo colore tende ad influenzare notevolmente la verbalizzazione; in un recente esercizio di degustazione, un bianco tra i più classici, colorato di rosso per l’occasione, ha condotto immediatamente tutti a riconoscere in quel vino aromi tipici di frutti e fiori rossi; altro esempio calzante è quello dell’idea che va maturando l’opinione pubblica della piccola cantina a confronto di una più grande, e non solo in relazione a termini numerici: una chiara pre-percezione di piccolo è bello e grande industriale; decisamente negativo per la seconda. Lo stesso vino inoltre – è noto – degustato in un posto evocativo, magari con il produttore presente, ha un sapore diverso da quello bevuto magari in altre occasioni meno suggestive: risulta decisamente più buono!

Ritornando alle molecole, altro elemento davvero interessante è 2-metossi-3-isobutilpirazina (IMBP) che è di sovente responsabile del carattere vegetale avvertito nei vini; il vegetale va distinto dall‘erbaceo che è generato invece da altre molecole aldeidi ed alcoli a 6 atomi di carbonio (esanale – esenale), che si formano con l’eccessivo maltrattamento dell’uva in fase di lavorazione (cattiva vendemmiatrice, cattiva pigiadiraspatrice, eccessiva pressatura). Fortunatamente la concentrazione di tali molecole è spesso inferiore alla loro soglia di percezione pertanto hanno un’influenza limitata. Il carattere vegetale è dunque da associare nella maggior parte dei casi alle pirazine piuttosto che agli esenoli. Il carattere vegetale, spesso riscontrato nel cabernet sauvignon, franc, merlot e sauvignon blanc, corrisponde al peperone verde, all’ortica, alle fave crude, ha una soglia di percezione di 15 nanogrammi/litro e la sua concentrazione diminuisce con l’avanzare della maturità dell’uva. Quindi in generale tutte le uve a bacca rossa se non ben mature generano vini vegetali. Il vegetale come già anticipato, si degrada con l’esposizione diretta alla luce, ma è anche presente nei vini prodotti da uve provenienti da zone calde dove la vigna non è stata opportunamente gestita (parete fogliare troppo espansa, eccessivo ombreggiamento dei grappoli) o l’annata è stata eccessivamente fredda e piovosa. In alcune zone viticole impossibilitate ad eliminare “il carattere vegetale” a causa delle avverse condizioni climatiche in cui si opera, si è addirittura arrivati a sbandierare questo “difetto” quale tipicità del territorio quando non peculiarità di quel determinato prodotto.

Stessa cosa è avvenuta ed avviene ancora in parte in alcune zone viticole per un’altra categoria di molecole odorose: i fenoli volatili (divisi in vinil-fenoli ed etilefenoli) di origine microbica prodotti dal lievito Brettanomyces. I vinil-fenoli che corrispondono a note farmaceutiche, di medicinali, di cerotto sono più presenti nei vini bianchi; mentre gli etilfenoli associati all’odore di sudore di cavallo, alla stalla, sono più presenti nei vini rossi. I fenoli sono sempre negativi, perché coprono l’aroma del varietale! In un viaggio di alcuni anni fa fatto in Spagna nella zona della Rioja buona parte delle cantine visitate presentavano vini con altissime concentrazioni di etilfenoli, questi per loro erano “vini tipici”, quegli aromi di stallatico ci venivano enunciati come markers del territorio, ma in realtà erano solo frutto dell’inquinamento delle botti da loro utilizzate ad opera del Brettanomyces. C’è da aggiungere che le molecole fenoliche purtroppo creano assuefazione, e dopo un certo tempo se si ha un inquinamento ambientale sarà difficile identificarle soprattutto per chi lavora da anni in quella stessa cantina.

Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte seconda.

Qui l’articolo in versione integrale  su www.lucianopignataro.it.

Professione Sommelier, il Sauvignon blanc

9 agosto 2010

Diamo ufficialmente il benvenuto su questo blog a Gerardo Vernazzaro¤, giovane enologo napoletano tra i più preparati e attivi della nouvelle vogue nonchè mio Amico di Bevute. A lui, una pagina dedicata nella rubrica IL VINO DEGLI ALTRI, dalla quale ci illustrerà tecnicamente cosa e come nasce ciò che ci ritroviamo a raccontare nel bicchiere. Questo è L’Arcante¤ diario enogastronomico, una passione in grande crescita! (A.D.)

Il Sauvignon blanc (detto anche Blanc Fumé) è un vitigno a bacca bianca, proveniente originariamente dalla zona francese di Bordeaux. Il nome deriva dalla parola francese sauvage (“selvaggio”), aggettivo dovuto alle sue origini di pianta autoctona del sud-ovest francese. Grazie alla sua capacità di adattamento, è coltivato estensivamente in Francia, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, California e Sud America, con una piccola quota anche in Italia. È impiegato (fino ad un massimo del 30%) anche nella produzione di uno dei più famosi vini dolci al mondo, il Sauternes.

A seconda del clima, le uve sauvignon possono dare vini con sentori erbacei o di frutta fresca. In ogni caso i vini risultanti sono destinati ad un veloce consumo, dato che l’invecchiamento superiore ad alcuni anni, non dà effetti migliorativi sulle caratteristiche organolettiche nella maggior parte dei casi. Hanno generalmente un aroma caratteristico che li distingue da tutti gli altri vini, generalmente poco marcato nel mosto, ma decisamente singolare che si sviluppa in particolar modo nel corso della fermentazione alcolica.

I vini prodotti da uve sauvignon presentano un vasto ventaglio aromatico in cui i principali descrittori sono il peperone verde, il bosso, la ginestra, l’eucalipto, la gemma di cassis, il rabarbaro, la foglia di pomodoro, l’ortica, il pompelmo, il frutto della passione, la scorza di agrumi, l’uva spina, il frullato di asparagi, la ginestra e la pietra focaia. Le migliori bottiglie di alcuni vini, dopo qualche anno di affinamneto sviluppano sentori di affumicato, pietra focaia e perfino di tartufo.

Dunque alcuni sentori più vegetali, altri più floreali per finire con quelli più evoluti e di tipo minerale. Fino a poco tempo fa si ignoravano quasi completamente i composti volatili responsabili di queste differenti note (tioli volatili). Si sapeva solamente, grazie ai lavori di autori come Augustyn ed Allen, che il carattere di peperone verde del sauvignon è dovuto a metossipirazine, in particolare all’isobutilmetossipirazina. Questo odore vegetale piuttosto sgradevole è molto marcato nei mosti e nei vini quando la maturità dell’uva è insufficiente, esso è anche tipico dei vini di Cabernet provenienti da vendemmie non molto mature o prodotte da vigneti troppo vigorosi la cui alimentazione in acqua ed azoto è eccessiva. Le metossipirazine non rappresentano dunque gli aromi più tipici e ricercati dei vini di Sauvignon.

Gli enologi sanno chiaramente che i profumi caratteristici sono talvolta difficili da ottenere ed in seguito da mantenere nei vini. Soprattutto nei climi caldi il Sauvignon è un vitigno difficile da vinificare. Il materiale vegetale (clone), terroir, maturazione dell’uva, data di vendemmia, condizioni di estrazione dei succhi, ceppo di lievito responsabile della fermentazione alcolica, metodi di affinamento sono tutti fattori che ne possono influenzare l’espressione aromatica. Infine, anche nelle zone di produzione più vocate, la qualità aromatica dei vini Sauvignon è irregolare da un’annata all’altra e da una vasca all’altra. Per tutto questo insieme di motivazioni è importante fare un piccolo approfondimento sulla natura chimica degli aromi tipici di questo vitigni e sui meccanismi e fattori che li possono influenzare.

La prima molecola scoperta come composto caratteristico dell’aroma di Sauvignon è il 4-mercapto-4-metilpentan-2-one (4MMP) identificato nel 1993. Questo mercaptocetone, che possiede uno spiccato odore di bosso e di ginestra, è olfattivamente molto attivo, la sua soglia di percezione in soluzione modello è di 0,8 ng/l. Il suo ruolo nel vino è indiscutibile dato che il suo tenore nei Sauvignon tipici può raggiungere i 40 ng/l.

In seguito sono stati identificati nel Sauvignon molti altri tioli volatili odorosi da parte di T. Tominaga e D. Dubourdieu tra il 96 ed il 98: l’acetato di 3-mercaptoesan-1-olo (3MHA), il 4-mercapto-4-metilpentan-1-olo, il 3-mercaptoesanolo-1-olo (3MH) ed il 3-mercapto-3-metilbutan-1-olo. L’acetato di 3-mercaptoesan-1-olo è il responsabile di un odore complesso che evoca non solamente il bosso, ma anche la scorza di pompelmo ed il frutto della passione. La sua soglia di percezione è di 4 ng/l ed in certi sauvignon ne possiamo trovare alcune centinaia di ng/l. Anche il 3-mercaptoesanolo ha un aroma che richiama quello del pompelmo e del frutto della passione. La sua soglia di percezione è dell’ordine di 60/ ng/l ed è sempre presente nel sauvignon con tenori che raggiungono qualche centinaio di ng/l, a volte perfino alcuni mg/l.

In definitiva il ruolo organolettico del 4-mercapto-4-metilpentan-1-olo, con odore di buccia di agrumi, è più limitato. La sua concentrazione nei vini supera raramente la sua soglia di percezione (55 ng/l) tuttavia questo valore può essere raggiunto in qualche vino. Il 3-mercapto-3-metilbutan-1-olo, con odore di pera cotta, è molto meno odoroso, la sua soglia di percezione è di 1500 ng/l, valore che non viene mai raggiunto nei vini.

Gerardo Vernazzaro, enologo e viticoltore a Cantine Astroni¤.

C’è davvero ben poco da aggiungere a questo post, da rileggere più e più volte per chi volesse capirne di più su questo particolare vitigno d’oltralpe, se non un paio di considerazioni personali. Da un punto di vista strettamente “commerciale” il sauvignon non gode certo dello stesso successo che ha fatto dello chardonnay una icona dell’internazionalizzazione omologazione del gusto mondiale, e questo è dovuto più che al suo gusto “eccentrico” alla sua limitata capacità di acclimatarsi in vigna; non manca però di un certo appeal soprattutto se considerato alla giusta maniera ed abbinato, a tavola, ai piatti giusti: pesci mediamente grassi, primi piatti iodati, carni succose, formaggi giovani a pasta molle, anche erborinati. La seconda considerazione è quasi una soffiata: molti, qua e la nel mondo, sono soliti usare piccole quantità di sauvignon come “saldo” negli uvaggi di vini bianchi generalmente poco espressivi, spesso non menzionandolo nemmeno, proprio per la sua capacità di “sostenere” una certa carica aromatica senza stravolgere oltremodo, a piccole dosi, l’equilibrio gustativo. 🙂

Consiglio, a chi volesse masticare di riconoscimenti di molecole presenti nel vino, di riprendere questa lettura sui ‘difetti del vino’¤ (A.D.).

© L’Arcante – riproduzione riservata


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