Archive for the ‘Pensieri e Parole’ Category

Emergenza risorse umane, cominciamo a parlarne con considerazione e rispetto

1 novembre 2022

Viviamo in un contesto storico davvero particolare, dove parole come ‘’considerazione’’ e “rispetto”, quale che sia il posto di lavoro in cui le persone si trovino a vivere, vieppiù in ambito di un settore nevralgico come l’accoglienza turistico-alberghiera, assumono connotazioni particolarmente importanti.

Ma che cosa vuol dire lavorare con considerazione e rispetto? Ci sono sicuramente molti modi per affrontare la questione, e tutti potenzialmente validi. L’aspetto economico? Sì, resta un principio fondamentale, per quel che mi riguarda però, occupandomi io di risorse umane in maniera approfondita da circa 10 anni, vorrei porre attenzione su un concetto spesso trascurato poichè ritenuto secondario e che invece resta prioritario, manifestato (anche) attraverso le parole di tutti i giorni.

Si, perchè le parole che diciamo sul posto di lavoro, ai nostri collaboratori, le parole con le quali accogliamo i nostri clienti, le parole con le quali, giorno dopo giorno, svolgiamo le nostre interazioni con il mondo intorno a noi possono assumere peso e significati specifici ma debbono avere sempre un minimo comune denominatore che le contraddistingua: considerazione e rispetto.

E’ necessario considerare con estrema attenzione il contesto in cui ci muoviamo, lo stato d’animo con cui agiamo, quello delle persone con le quali ci confrontiamo, chi ha responsabilità di gestione non può concedersi sfoghi inappropriati, un leader lo è sempre, nel bello e cattivo tempo.

Usare, per così dire, maniere forti, toni decisi, fermezza non sono da escludersi se lo si fa con rispetto, chiarezza e secondo coscienza, solo così, partendo dal presupposto che la situazione emotiva e chimica delle persone con le quali entriamo in contatto è certamente delicata e sempre unica si riescono ad ottenere ottimi risultati dal team. Il vero lusso di questi tempi resta infatti l’interazione.

Un ambiente di lavoro sereno e sano, far star bene le persone con le quali si lavora, rendergli considerazione e rispetto è l’imperativo più urgente che le comunità si debbono imporre. E per farlo si possono, si devono utilizzare ogni giorno le parole giuste, una piena consapevolezza emotiva che ci porti a trattare gli altri con garbo e comprensione, la conoscenza delle dinamiche ambientali, psicologiche e comportamentali che letteralmente trasformano la percezione della realtà delle persone che ne entrano in contatto.

Ricordiamoci sempre che quando dei collaboratori ci lasciano, il più delle volte non lasciano il posto di lavoro, lasciano le persone con cui lavorano.

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Ambizione o arrivismo?

22 ottobre 2021

Abbiamo necessità di riappropriarci della “scoperta di sé”, quella cioè di individuare in se stessi i propri desideri e i propri principi autentici, liberi dalle influenze e dalle aspettative della società e dell’ambiente in cui viviamo che, pur con le migliori intenzioni, talvolta possono condurre fuori strada, o meglio, fuori dalla propria strada.

Ciascuno ha un proprio bagaglio di talenti, specialità, desideri, sogni, valori che lo rendono unico. Nutrire questa ambizione è doveroso, forse più che un diritto. E nulla va lasciato per strada, intentato. Attenzione però, ambizione non è arrivismo!

Se la persona porrà attenzione alla propria unicità, ricercando intenzionalmente ciò che la contraddistingue dagli altri, coglierà senz’altro ciò che ha bisogno di fare o di non fare per essere felice, vocato, si sentirà spinto in quella direzione, chiamato a compiere determinate scelte e a mettere in atto determinati comportamenti per riuscire nell’ambizione, per non restare ingabbiato nella propria comfort zone.

Ciò detto, la parola vocazione potrebbe apparire un concetto ridondante, magari lontano dalla vita quotidiana, dalla vita reale di ognuno, eppure, lasciando stare questioni filosofiche o astratte sarebbe bene precisare che la la vocazione riguarda il fare, quel qualcosa di estremamente utile e pratico funzionale a migliorarsi, crescere, andare avanti, per non lasciare nulla per strada, intentato. Ma attenzione, l’ambizione non sia arrivismo!

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Torniamo a lavorare per il nostro futuro!

31 dicembre 2020

A vent’anni il lavoro non lo scegli, lo fai e basta. Ne senti il bisogno, come l’acqua, per nutrire tutti i tuoi desideri.

Non ci pensi alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno. Ti fai bastare quello che hai perché è quello che ti serve.

Per quelli come me, per quelli della mia generazione, per tutti quelli cresciuti nel mio quartiere, il Rione Toiano a Pozzuoli, tra gli anni ’80 e ’90, il lavoro ha rappresentato una conquista preziosa che ha salvato in molti, ha reso possibile a molti lasciarsi alle spalle un’infanzia difficile e un’adolescenza a dir poco complessa, tra insidie e sbandate pericolose; certo io mi sono salvato molto prima, anzitutto grazie all’esempio di mio padre e alla mia famiglia: non c’è un giorno che comincia in cui non ho un pensiero di gratitudine per tutti loro!

Il mondo in cui vivi, soprattutto fuori dalla famiglia, ti porta facilmente a guardare ogni volta con occhi diversi la vita davanti. Gli anni passano, i tempi cambiano, mutano gli scenari, continui a non pensare alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno, assumono però via via peso e significati sempre più consistenti: dopo l’amore, quello della vita, arrivano magari i figli, nuovi progetti, ambizioni, sfide, sconfitte, fallimenti; aumentano talvolta le distanze, il vuoto, la solitudine, i silenzi e i sacrifici diventano significativi e le responsabilità superano di gran lunga i desideri. Ecco, capita che a trent’anni il lavoro che fai, quello che magari manco pensi di aver scelto, ti è entrato dentro, ha preso possesso della tua vita ed è pronto a farne quello che vuole.

E’ proprio in questo momento che si cresce, che si sposta avanti con forza il tempo, si abbattono barriere, si superano ostacoli solo apparentemente insormontabili, è qui che bisogna metterci tutta l’energia possibile per crescere, migliorarsi, senza porsi limiti, perché alzare l’asticella costa ma mai quanto restare fermi e impassibili davanti alla vita che scorre senza mai afferrarla, senza nemmeno provare a portarla dalla tua parte. Ed è il lavoro a permetterti tutto questo, di andare avanti, perché se non ci pensi più alla fatica, alle ore lavorate, alle rinunce, alle corse, ai tanti momenti mancati e quelli persi che non ritorneranno, è perché tutto ritorna, in un modo o in un altro tutto ritorna, perché tutto arriva a chi sa aspettare.

Voglio salutare quest’anno e tutti i miei e i nostri carissimi amici con solo questo auspicio, che presto possiamo tutti riprenderci le nostre vite ma soprattutto il nostro posto nel mondo grazie al nostro lavoro!

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Quel che ho imparato, ancora una volta

30 ottobre 2020

Il mondo corre veloce, va avanti, tutto quello che ci gira intorno ci sembra inarrestabile, la società, le tecnologie, il lavoro tutto intorno a noi evolve e si trasforma continuamente. Non di meno chi lavora nel food&beverage sa molto bene cosa significa stare al passo coi tempi, chi sta in sala e in cucina, dietro a un banco, alla porta si nutre ogni giorno di nuove esperienze ed ha l’obbligo professionale di essere sempre all’altezza, per ciò non può restare fermo a guardare, perché altrimenti si resta indietro o peggio ancora, esclusi. La dimostrazione pratica è che c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare, o qualche conoscenza da migliorare o aggiornare.

Ecco perché negli ultimi mesi ho ripreso a studiare forte, ho ripreso con ferma volontà tutto il percorso fatto sino ad oggi, riletto voracemente libri consumati nel tempo dalla passione, convinto di trovarvi dentro risposte ed insegnamenti preziosi; ho rispolverato vecchi appunti di viaggio e nuovi scritti, i diari, i manuali e gli standards, mi sono cimentato con eventi formativi, webinar, corsi on line, qualcuno anche parecchio impegnativo, diciamo capace di schiarire certe idee: si evolve, anzitutto per noi stessi, non solo perché capita, talvolta, di avere la sensazione di “quel qualcosa” che ci manca, ma perché serve competenza, oggi più che mai è necessario fare la differenza, quale che sia il ruolo nel mondo food&beverage.

Se c’è un insegnamento che emerge perentorio in questo momento storico così particolare, che ha sostanzialmente messo un po’ tutti in riga più o meno sulla stessa linea di partenza, in particolar modo in ambito professionale, è proprio che è la competenza a fare la differenza!

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Irpinia Campi Taurasini Cretarossa 2012 I Favati

12 ottobre 2020

Una delle prime volte che ci siamo ritrovati davanti a una bottiglia di Campi Taurasini ci sono venute in mente non poche domande, tutto nasceva ovviamente da un pregiudizio che nonostante gli anni trascorsi, e le tante bottiglie aperte, continua ad aleggiare e ritornarci in mente di tanto in tanto: l’istituzione di questa sottozona, fu vero successo?

Proviamo a spiegarci meglio: in quel tempo, dopo il 2005, d’un colpo, ci ritrovammo sin da subito con il prezzo aumentato di molte bottiglie, sino ad allora degnissime seconde e terze etichette di produttori spesso riconosciuti sì per il loro Taurasi ma solo dopo l’entry level Aglianico, vero pass-partout per entrare nel cuore e sulle tavole di molti appassionati, in particolar modo in certi locali dove meglio funzionavano soprattutto al calice, cioè Winebar ed Osterie tout court con una cucina all’altezza; posti ben frequentati, magari da una clientela meno danarosa ma sempre molto disponibile a lasciarsi consigliare e ”scoprire” nuove proposte.

L’istituzione della Doc Irpinia, in data 13 settembre 2005, poneva le basi per una riorganizzazione delle produzioni di qualità in provincia di Avellino, nello specifico, per la Sottozona Campi Taurasini, nel territorio dei comuni di Taurasi, Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre le Nocelle, Venticano, Gesualdo, Villamaina, Torella dei Lombardi, Grottaminarda, Melito Irpino, Nusco e Chiusano San Domenico, cioè proprio là dove l’Aglianico esprime grandissime qualità organolettiche sin da giovane, vieppiù con la giusta maturazione.

Da questo momento, in molti, soprattutto tra i piccoli produttori di cui ci siamo innamorati in questi anni, hanno sistematicamente rinunciato a dare spazio a vini per così dire ”base”, puntando quasi esclusivamente a fare vini ”Premium o Top di gamma” o da lungo affinamento abbandonando un poco alla volta la produzione di Aglianico destinato ad un consumo più immediato che, tra l’altro, è sempre stato quel vino che maggiormente ha contribuito alla loro iniziale crescita nonché a conquistare appassionati e professionisti in molti casi fidelizzandoli proprio su certe etichette. Una scelta, quella di alzare l’asticella ovviamente legittima, un riconoscimento doveroso all’impresa, al lavoro e al sacrificio quello di spuntare prezzi più alti, ciononostante la domanda resta: a conti fatti, fu vero successo?  

È innegabile quanto avvenuto negli anni, l’omologazione verso il basso di molte etichette, talvolta proposte a prezzi ingiustificati, invero già palpabile laddove non c’era quell’esperienza necessaria per gestire il vitigno ed il vino per una produzione proiettata nel tempo, non ultimo lo smarrimento evidente che ci prendeva un po’ a tutti davanti a certi bicchieri dove a dominare avrebbe dovuto essere l’uva, semmai il territorio, la sua anima, pure la scienza e la bravura di chi le governa, ma non certo il tempo o più banalmente il prezzo.

Per contro, per fortuna, parallelamente a questa scia c’è traccia di chi ha continuato a lavorare duro per metterci un po’ più di concretezza dentro una bottiglia di Irpinia Campi Taurasini, non un piccolo Taurasi, il rischio resta dietro l’angolo, ma un Aglianico capace di esprimere anche a distanza di qualche anno sfaccettature di freschezza e vivacità gustative ancora molto interessanti.

Riflessioni queste sulle quali ci siamo ritrovati davanti a questo splendido vino, il Cretarossa duemiladodici di Rosanna, Giancarlo e Piersabino Favati. Un rosso, manco a dirlo dopo 8 anni, con ancora tanta strada da fare, dal colore esemplare, rubino appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere, fruttato, certamente balsamico, speziato ma pienamente succoso, nerboruto, pieno di stoffa, il buon rosso che ci aspettavamo insomma, dall’Aglianico, da quel territorio di provenienza, qui siamo a Montemarano e Venticano, dalla passione e dal manico di chi li ha governati.

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L’abbiamo scampata bella!

11 settembre 2020

C’è già da un po’ di anni grande entusiasmo intorno ai vini campani, certi bianchi in particolare, un rinnovato e straordinario entusiasmo che fa della Falanghina, del Fiano e del Greco (ma anche del Pallagrello, per dire) vini molto ricercati ed apprezzati, come mai prima, e non solo dagli appassionati ”locali” ma finalmente da tutto il mondo.

Una lunga scia di grandi successi non ha tuttavia mancato di generare di tanto in tanto un po’ di confusione, un’ascesa che ha spinto alcuni produttori nel seguire, quasi come un mantra, alcuni modelli interpretativi sballati e in certi casi superati dal tempo pur di compiacere questo o quel winemaker di grido o, peggio, l’enostrippato di turno.

Alcuni vini, certi Greco di Tufo ad esempio, che cito non a caso, risultavano spesso sovraestratti, talvolta pesanti, addirittura ostici da berli a tavola, violentando il varietale e sacrificandone le peculiarità e l’originalità nel nome di chissà cosa, quale trip vinnaturale o bioqualchecosa; insomma, con l’dea di spostare di qualche centimetro in là l’asticella, che pur ci sembra del tutto legittima, non si è pensato alle conseguenze della poca esperienza, al pericolo di incappare in una banale omologazione, un copia incolla scontato e sicuramente lontano dagli obiettivi di qualità che meritano invece un territorio straordinario pur nella sua eterogeneità e una denominazione di prestigio come quella del Greco di Tufo Docg.

Ne raccontammo proprio Qui, ve lo ricordate? Bene, a distanza di qualche anno, a quanto pare, possiamo dire che l’abbiamo scampata bella, almeno a ”sentire” i tantissimi assaggi fatti di recente delle vendemmie ultime in bottiglia, evviva!

Per fortuna non c’è stata quella deriva stilistica che sapevamo non avrebbe condotto da nessuna parte. Tufo, per restare sul vino che più ci sta a cuore, non è Loreto Aprutino, o Oslavia, e per quanto nobile potesse risultare l’accostamento a certi vini e per quanto evocativi potessero essere certi frugali assaggi di una moltitudine di vini fatti più o meno seguendo lo stesso protocollo, con le stesse tecniche con cui si fanno certi Trebbiano in Abruzzo e Ribolla nel Collio, il risultato ci appariva sempre troppo uguale tra loro stessi, con poco o nulla di ancestrale, vini dal sorso fluido, appesantito, con poco o niente riconoscibilità varietale per non parlare di quale territorialità, liquidi talvolta opachi, altri sovraestratti più per imperizia che altro, più vicini alla tradizione brassicola che a quella enoica. Perchè di vino, in fondo, si sta parlando.

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Segnalazioni| La crisi reclama nuove idee

8 settembre 2020

Riprendiamo e pubblichiamo la lettera aperta di Angelo Gaja apparsa su Seminario Veronelli¤; il grande produttore di Barbaresco, di cui spesso e ben volentieri su L’Arcante abbiamo lasciato traccia dei suoi straordinari vini e raccontato il suo modo di vedere il mondo del vino da un’angolatura certamente particolare con, tra l’altro, alcune Chiacchiere Distintive – leggi Qui – che hanno fatto decisamente la storia di queste pagine.

di Angelo Gaja

Nei mercati internazionali il futuro prossimo del vino è tutt’altro che roseo, avendo le aziende vitivinicole d’ogni continente enormi giacenze di prodotto. Che fare? In attesa di tornare alla normalità, occorrono idee nuove: utilizzare solo ed esclusivamente gli strumenti del passato non sarà di grande giovamento. E se fosse il 2021 la continuazione dell’anno orribile del vino italiano? Le premesse non mancano.

In Italia si suonano le trombe per la vendemmia 2020 che promette di essere la più ricca di uva al mondo. Non è un primato invidiabile in presenza di una crisi dei consumi senza precedenti che si abbatte su tutti i mercati e coinvolge tutte le cantine del mondo gonfiandone le giacenze. Per fronteggiare la quale la ministra Bellanova aveva stanziato misure di distruzione dell’uva e del vino (distillazione) finanziabili con 150 milioni di euro di denaro pubblico, giunti però in ritardo e utilizzati appena per un terzo. 

L’errore non è affatto della Bellanova, bensì dei suggeritori esterni che fanno capo ad associazioni varie e presenziano alle tavole di concertazione. Quelli che dapprima non volevano sentire parlare di distillazione, per poi concederla ai soli vini da tavola, mentre ad averne necessità sono i vini IGP e DOP. Quelli che preferivano misure in favore dello stoccaggio, incoraggiando ad accumulare scorte in cantina confidando nella rapida fine della crisi e pronta ripresa dei consumi, che invece non ci saranno e si prolungherà l’agonia. Quelli che avanzavano mille riserve, rallentando e rendendo intempestiva l’entrata in vigore delle misure di intervento pubblico facendole perdere di efficacia. 

Il comparto del vino conoscerà una crisi più lunga legato com’è all’Ho.Re.Ca e al turismo. Fino ad ora è stata una pioggia di numeri reali-stimati-probabili-farlocchi, anche da fonti autorevoli, a commentare il procedere della crisi. Solo a fine anno si conosceranno le giacenze totali di vino nelle cantine italiane e si attendono pessime notizie in merito. 

Sempre a fine anno, a fronte del preoccupante calo in volume, si registrerà il più drammatico e vistoso calo in valore dell’export del vino italiano. A piangere saranno i fatturati. Quando nella primavera 2021 verranno resi pubblici i bilanci delle mega cantine italiane e verranno svelati i numeri veri, si evidenzierà che per molte di esse le perdite di fatturato rispetto al 2019 supereranno il 20%. 

A perdere di più, però, saranno i viticoltori venditori di uva e le cantine artigianali dalle dimensioni piccole e medio piccole, il settore più numeroso e fragile. È a questi che la ministra Bellanova deve pretendere di destinare maggiori risorse durante il confronto che condurrà con i suggeritori esterni. 

In questo momento di grave emergenza occorrono misure straordinarie. La prima preoccupazione deve essere quella di cercare di riequilibrare il mercato dando la priorità a un ampio-e-mai-visto-prima progetto di distillazione che includa anche i vini IGP e DOP, da avviare subito per consentire il recupero già entro il 2020 dei quasi 100 milioni non spesi nella misura precedente, per poi concluderlo nel 2021. Prendendo ispirazione da quanto saggiamente aveva già fatto prima di noi la Francia. 

Sarebbe utile inoltre introdurre in Italia per i prossimi due-tre anni il divieto di impiego del Mosto Concentrato Rettificato, che costituisce per chi ne fa uso l’incentivo per eccellenza a produrre maggiori volumi di uva in vigneto.

Bene la richiesta di maggiori finanziamenti per la promozione consentendone l’accesso anche ai progetti di investimento contenuto. Non scordando che, nei prossimi due-tre anni, sarà baraonda sui mercati internazionali perché le cantine di tutto il mondo avranno il vino che uscirà loro dalle orecchie e saranno sui mercati per cercare di collocarlo. Occorrono idee nuove, pensare di utilizzare solamente gli strumenti del passato non sarà di grande giovamento prima del ritorno alla normalità. 

© Angelo Gaja, tratto da Seminario Permanente Luigi Veronelli¤.

Leggi anche Uno straordinario Barbaresco Sorì Tildìn 1990 di Gaja Qui.

Leggi anche Langhe Alteni di Brassica 1998 di Gaja Qui.

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Riprenderci il passato per conquistare il futuro

12 aprile 2020

Non sono mancate nelle ultime settimane innumerevoli analisi e teorie alla base di questa tremenda emergenza sanitaria mondiale dentro la quale sembrano essersi smarrite tutte le certezze e le sicurezze che ognuno, ovunque nel mondo, sembrava certo di poter mantenere indipendentemente da cosa accadesse in giro nel mondo.

Sino a che non mi tocca, non mi riguarda, si pensava. Così non è, così non è mai stato. Si è fatto quindi largo sin dalle prime battute un grande spirito di ottimismo, #andràtuttobene è diventato velocemente lo slogan dietro al quale tutti, ovunque in Italia e negli altri paesi colpiti dal Covid-19, ci siamo velocemente ritrovati, uno slogan dal suono matrigno, quasi ancestrale: un hashtag, tre parole tre, unite da un grande arcobaleno e piene di significato.

Ma andrà-tutto-bene? Ecco, restando a quel che più ci compete e ci appassiona, parliamo di vino e cibo da queste parti, senza entrare nel merito economico e politico, men che meno in quello sanitario visto il numero di analisti, statisti e scienziati che sin dalle prime battute di questa emergenza hanno visto bruciare i loro studi, le loro proiezioni, le loro certezze in men che non si dica, mi piacerebbe, più semplicemente, riportare su queste pagine una personale breve riflessione, ma non su quello che ci aspetta domani – davvero si pensa che ci sia qualcuno capace realmente di farlo? – bensì su come ci siamo potuti ritrovare a questo punto, a questo preciso momento storico, evidentemente nudi davanti alla realtà.

In principio l’obiettivo era proporsi al mercato, conquistare spazio, con qualità e professionalità. Un vino con una storia da raccontare, quel vitigno unico, un territorio preciso, le persone giuste, le storie famigliari. Un prodotto o un cibo da preservare, promuovere a nuova vita, rilanciare la sua storia, il valore della sua tipicità, delle persone capaci di tramandarne la tradizione. Così un posto, un’Azienda, un Negozio, una Trattoria, un Ristorante, un’Osteria, una Pizzeria con delle idee chiare nel costruire una storia, un piano di sviluppo, un progetto da seguire per affermare dei valori concreti e non, soltanto, dei numeri, avevano tutti, ognuno, il proprio spazio dove proporsi sul mercato, dove costruire relazioni, legami, il proprio futuro.

Poi è arrivata la globalizzazione, non una parola qualsiasi ma quel fenomeno basato sull’intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale che, a partire dalla fine del XX secolo è diventato un mantra tanto inarrestabile dal creare sempre maggiore interdipendenza tra le economie nazionali ma anche e soprattutto sociali, culturali, politiche e tecnologiche con i suoi innumerevoli effetti positivi ma anche, inevitabilmente, con enormi strascichi negativi sul breve e lungo termine.

Abbiamo così inseguito la velocità delle comunicazioni e della circolazione delle informazioni, una nuova grande opportunità di crescita per chiunque avesse carte da giocarsi, e da un punto di vista strettamente economico un trampolino di lancio incredibile per alcuni paesi a lungo rimasti ai margini dello sviluppo economico mondiale, vedi ad esempio proprio paesi come la Cina o l’India, con benefici sostanziali di cui poi tutti abbiamo potuto godere direttamente o indirettamente, vedi la riduzione dei costi di tantissimi prodotti grazie all’incremento della concorrenza commerciale da questo momento da considerare su scala planetaria.

Abbiamo però continuato a trascurare gli aspetti negativi, sottovalutandoli, e probabilmente continueremo a farlo: lo sfruttamento, il degrado ambientale, l’aumento delle disparità sociali, la perdita delle identità locali, in qualche caso la riduzione delle sovranità nazionali e le autonomie delle economie locali. La sovrabbondanza di conquiste ci ha talmente abbagliati che non ci ha fatto cogliere a pieno il reale costo della cessione di tutte queste libertà, un eccesso di fiducia in questa straordinaria onda economica che più che renderci sazi ci ha resi obesi e ciechi.

Sul tema strettamente enogastronomico le influenze e le deficienze sono sotto gli occhi di tutti. Il vino ha vissuto momenti di grande slancio economico rilanciando interi territori, creandone dei nuovi e affermando nuove tendenze, qui l’eccesso è stato però puntare a stravolgere ben oltre quanto sia stato valorizzato, con molti protagonisti votati più a fare e imbottigliare di tutto, anziché specializzarsi, pur di levare spazio e quote di mercato ad altri, ed anche tante piccole realtà non sono certo passate indenni dal vino Rosato o lo Spumante pur di avere una referenza in più in catalogo, disperdendo il più delle volte valori e capitali.

Un crack ancora più evidente nella ristorazione, in un paese di grande storia e tradizione culinaria, con un patrimonio incredibile di materie prime e produzioni alimentari che nessun altro paese al mondo può vantare. Abbiamo ceduto con incredibile velocità alla globalizzazione, disperdendo altrettanto velocemente un patrimonio enorme, quello delle Osterie, delle Trattorie, finanche delle Pizzerie sino a pochi anni fa e dei Ristoranti che hanno fatto scuola per decenni nel nostro paese, ognuno con la propria storia identitaria, una vocazione precisa, imitati e replicati – anche in maniera grottesca se vogliamo, ma genuina – ovunque nel mondo, formando cuochi e camerieri che hanno segnato profondamente la storia dell’ospitalità e dell’accoglienza italiana. Un crack che abbiamo accettato scientemente, certificandolo ridimensionando un po’ alla volta le storie dietro questi straordinari luoghi della memoria.

Sbaglia chi pensa che lo abbiamo fatto cedendo ai ristoranti cinesi, alla cucina giapponese, ai locali etnici. Sbaglia chi è certo che andava fermato lo straniero, il Kebab o il Ceviche. O almeno in parte. Il reale declino si è acuito quando abbiamo cominciato a pensare che le Osterie potessero fare bene anche a proporre Kebab o Sushi, che le Trattorie diventassero, come poi anche le Pizzerie, avamposti Gourmet a basso costo purché forniti di una cantina di tutto rispetto, mentre i Ristoranti, in quanto balocchi ed elevati nel nome dello chef, non necessariamente con una storia, potessero ambire legittimamente non più, non solo, al sogno Stellato da costruire anno dopo anno ma puntare, a suon di fragorosi gingilli e senza limiti temporali, al firmamento planetario.

Ecco, non è forse questo rincorrere modelli drogati e volti prevalentemente a levare agli altri spazio e sostanza che ci ha di fatto disorientati e privati di riferimenti? Nel nome della domanda l’offerta enogastronomica si è talmente globalizzata sino a smarrire identità. Più che domandarsi quindi se #andràtuttobene sarebbe forse il caso di ripartire da qui: riprenderci il passato per conquistare il futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su Luciano Pignataro Wineblog.

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E’ necessario un gesto di responsabilità comune: #iorestoacasa

10 marzo 2020

Il nostro futuro, il futuro dell’Italia è nelle nostre mani. E’ necessario che ognuno faccia la sua parte, rinunciando a qualcosa per il bene della collettività. In gioco c’è la nostra salute e quella dei nostri cari, #iorestoacasa, fermarsi per qualche giorno, sino a quando sarà necessario è un gesto di grande responsabilità e segno di profondo senso civico. E’ necessario fermarsi per ripartire più forti di prima!

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Ci ha lasciati Michele Moio

29 gennaio 2020

Ci ha lasciati oggi, all’età di 91 anni, Michele Moio¤. Con la sua storia, i suoi vini, è stato un riferimento assoluto del vino campano, per tutti il papà del Falerno, grande interprete del Primitivo, suo uno¤ dei vini più amati e conosciuti dagli appassionati, il rosso Moio 57, nato sotto il segno di quella straordinaria annata nell’Ager Falernus e, con il Taurasi, tra i primi vini rossi campani a varcare i confini regionali.

Alla figlia Rosa e ai figli Bruno e Luigi che hanno continuato sulla sua strada e a tutta la famiglia Moio il nostro profondo cordoglio per la perdita di un uomo che tanto ha dato alla storia del vino campano.

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Buoni propositi, la cattedra e il piedistallo

4 gennaio 2020

E’ cosa buona e giusta, anche se non più tanto di moda, che chi s’accinge a salire in cattedra faccia bene, un attimo prima, a scendere dal piedistallo.

 

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Campi Flegrei, Utopia compie 25 anni

3 settembre 2019

Tra un mese esatto, il 3 Ottobre prossimo, la doc Campi Flegrei¤ taglierà il nastro dei suoi primi 25 anni di vita, tanti sono quelli passati dal 1994 ad oggi, da quando cioè fu approvato il Decreto Ministeriale e poi decretata la denominazione di origine controllata sulla Gazzetta Ufficiale.

Avremmo voluto si fosse lavorato durante tutto questo lungo periodo anche per una formulazione di un assetto politico, sociale, produttivo maggiormente condiviso tra tutti i Comuni flegrei coinvolti, le istituzioni, i viticoltori e i produttori ma alla conta dei fatti, ahinoi, non lo riusciamo proprio a cogliere nella realtà. Ci troviamo invece a subire costantemente l’incapacità di fare sistema per colpa di qualcuno, quell’atavica propensione alla forzatura per spirito di sopravvivenza, del piccolo abuso per necessità, invisibile agli occhi di chi guarda perché ritenuto essenziale, la colpa degli altri come paracadute per se stessi.

Numeri alla mano stiamo parlando di nemmeno 1 milione di bottiglie, provenienti da poco più di 150 ettari vitati con terreni di forte caratterizzazione vulcanica, in larga parte piantati con varietà a bacca bianca tra le quali emerge perentoria la Falanghina, quella verace, poi il Piedirosso; un vino, quest’ultimo, sempre più protagonista delle tavole degli appassionati e per i critici più attenti non più figlio di un Bacco minore al cospetto delle altre produzioni regionali e nazionali. In entrambi i casi ci arrivano nei bicchieri vini di ricchi di personalità, identitari e distintivi e (quasi) sempre capaci di attraversare il tempo con discreta disinvoltura.

Stiamo parlando di un territorio abbastanza circoscritto, eppure ci sembra di vivere costantemente nell’utopia, abbagliati dall’ideale e strenuamente aggrappati alla storia antica, resistenti nella speranza di un progetto che però non riesce ad essere sino in fondo corale, scaldare profondamente gli animi, talvolta relegato a una più modesta aspirazione di pochi singoli se non del Masaniello di turno che, alla fine, alla resa dei conti, non riesce ad avere che una sua parziale, risicata, personalissima soddisfazione. Perché?

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Cosa rimane del blasone dello Champagne (buono)

6 agosto 2019

Ci si avvicina alle vacanze, l’estate impazza, la sete vira su vini leggeri, talvolta poco impegnativi da bere in maniera spensierata e senza troppe fisime. Poi però c’è lo Champagne, che in un modo o in un altro ti mette sempre davanti ad una scelta: so sempre buoni, ma meglio quelli di marca o quelli misconosciuti di piccoli produttori?

Negli ultimi anni, questo va detto, quale che sia lo Champagne nel bicchiere si può affermare oltre ogni ragionevole di dubbio che è più buono di quello degli anni passati e che fiumi di bulles continuano ad alimentare un mercato fiorente e costantemente in crescita nei numeri, per alcuni, davvero impressionanti.

Tutto ciò ha dato la stura ad interessi economici molto importanti che hanno dato una vera e propria scossa, oltre che alle storiche Maisons, per fare meglio¤ o inventarsi altro¤, anche a tanti piccoli vignaioli e commercianti di uve e vini che si sono spinti finalmente ad intraprendere strade nuove che in più casi hanno portato a delle affermazioni importanti di tanti nuovi marchi di successo.

I fattori che hanno contribuito a questa crescita qualitativa sono molteplici, legati ad esempio ad una migliore interpretazione della viticoltura, ai passi in avanti in alcune tecniche di cantina e, non ultimo, ai cambiamenti climatici che negli ultimi vent’anni hanno indubbiamente reso questa regione un posto ancor più vocato per la produzione di vini contribuendo di fatto a ridurre e stabilizzare alcune ataviche problematiche di maturazione dell’uva che a queste latitudini hanno sempre creato non pochi problemi.

Ecco spiegato il successo di piccoli vignerons, quei Récoltant Manipulant di cui poco si sapeva e conosceva oltre i confini nazionali francesi, talvolta oltre gli stessi confini della Champagne. E questo è senz’altro un valore aggiunto per l’appassionato che ha più possibilità di scoperta e di godere di tante (nuove) buone bottiglie, anche di facile reperibilità e il più delle volte a prezzi più che onesti.

E’ questa una generazione di produttori probabilmente più attenta e preparata di quella che l’ha preceduta, in particolar modo nel coltivare la vigna e fare vino, più che assemblare cuvée. Un valore aggiunto? Chissà, forse più un rischio, non è ancora del tutto chiaro, al centro di tutto vi è una ricerca spasmodica, quasi un’ossessione per la territorialità, l’unicità come un mantra che rischia però di condurre a bottiglie sicuramente di grande personalità ma talvolta un poco meno rappresentative della tipologia. Alla fine, per noi, tra quelli di marca o quelli misconosciuti di piccoli produttori ci va bene tutto, purché buoni, ma, soprattutto, che siano però Champagne e non vino con le bolle!

Leggi anche L’Eau de roche Qui.

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Il periodo Rosa

25 luglio 2019

Dal 1905 alla fine del 1906, successivamente il ”Periodo Blu”, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa, che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il “Periodo Rosa”. Il populismo amaro del Periodo Blu ha lasciato il posto a un mondo più idillico e sereno, ispirato prevalentemente alla vita del circo.

Acrobati, bambini, figure corpulente di clowns e di fragili ballerine si dispongono nei quadri di questo periodo con una grazia di balletto, ubbidendo a ritmi armoniosi che la lieve, elegante grafia asseconda e accentua, e il colore si avvale delle sfumature più tenere e chiare la cui dominante cromatica conserva sempre un valore decisamente emozionale.

Ecco, dopo tanto tribolare ci pare la volta buona anche per i vini rosati d’Italia che sembrano finalmente riscuotere il giusto gradimento da parte degli appassionati, dopo anni di oblìo trascorsi alla ricerca della ricetta giusta: ”territoriali e fin troppo corpulenti”, ”originali ma vetusti”, ”gustosi ma pesanti, finanche alcolici”, ”delicati e senza anima” sono solo alcune delle considerazioni più comuni che hanno accompagnato negli ultimi vent’anni i tanti tentativi di affermare un Think Pink made in Italy degno di nota ma che invero necessitava sicuramente di un po’ più di esperienza e che chi si cimentava ci credesse seriamente con una più giusta proiezione a lungo termine su certe varietà e produzioni.

Nelle ultime settimane ci sono capitate a tiro alcune bottiglie davvero originali, e senza per forza doverne fare una classifica di merito proviamo a suggerirne, tra queste, qualcuna molto interessante da portare in tavola in questo specifico periodo; restiamo convinti infatti che questa tipologia di vini abbia proprio nell’estate il suo momento clou e chi sa, o ha saputo ”leggere” bene la vocazione, l’originalità e la tradizione del proprio territorio come questi produttori, riesce a portare in bottiglia un vino rosato, fermo o spumante, di grande qualità e meritevole della vostra attenzione.

Valtènesi Chiaretto RosaMara 2018 Costaripa. Si ritorna sempre con grande piacere sui vini di Mattia Vezzola¤ prodotti sulla sponda di ponente del Lago di Garda, in provincia di Brescia. RosaMara nasce dall’uvaggio classico di questo lembo di terra dal clima mediterraneo, nel cuore della Valtènesi, dove si producono, sotto l’egida di questa nuova denominazione, sostanzialmente due varianti, Rosso e Chiaretto con le uve Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera. In questo caso ci troviamo di fronte a un Chiaretto dal colore delicato, invitante e dai profumi floreali intensi e persuasivi, dal sapore asciutto, inebriante, sapido. Pronto da bere, portatelo in tavola ben freddo come aperitivo, per accompagnare magari degli Spiedini con pomodori ciliegini e mozzarelline oppure con un ricercato Carpaccio di Branzino.

Cerasuolo d’Abruzzo Superiore Spelt 2018 La Valentina. Siamo a Spoltore, in provincia di Pescara, Abruzzo. Ottenuto dalle stesse uve Montepulciano d’Abruzzo di cui il Cerasuolo rimane una sua variante molto apprezzata, Spelt ha un gradevole colore ciliegia, profumi piacevolissimi di fiori e frutta rossa, sa di rosa e fragoline, ed ha sapore decisamente fruttato, dal sorso asciutto e un finale di bocca morbido e sapido. Provatelo ben fresco con gli Arrosticini oppure con Scamorza affumicata alla piastra e zucchine grigliate.

Spumante Metodo Classico Rosé Brut 50Mesi 2013 Terrazze dell’Etna. L’azienda di Nino Bevilacqua è una splendida realtà di circa 40 ettari nel comune di Randazzo, più precisamente in località Bocca d’Orzo, sull’Etna, con vigne collocate tra i 650 e i 900 metri s.l.m.. Il Rosé Brut 50 Mesi viene fuori da una cuvée di Pinot Nero al 90% e Nerello Mascalese per la restante parte a saldo. Ha una bellissima veste rosa tenue, è brillante e vivace, la spuma è densa e le bollicine sono abbastanza fini, il naso sa anzitutto di erbette, agrumi e piccoli frutti rossi, il sorso è asciutto, ben fresco, piacevolmente vibrante e coinvolgente. Dopo l’esordio di qualche anno fa, la strada tracciata appare davvero entusiasmante, provatelo con piccoli assaggi di mare, ad esempio con Cozze ripiene al forno oppure Gamberi in pastella con alghe di mare!  

Credits Dinamico2.

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Il vino al calice, attenzione agli scarti di cantina

23 luglio 2019

Opportunità spesso mancata, il vino al calice rimane una pratica di grande valore all’interno di un locale, che sia un Bar con aperitivi oppure attività più strutturate come Osterie, Wine Bar, Pizzerie e Ristoranti, siano questi ”Gastronomici” oppure no.

Opportunità da saper gestire però con estrema attenzione. Proporre vini al calice non significa (necessariamente) dare fondo alla cantina o propinare all’avventore qualsiasi cosa pur di svuotare lo scaffale e il frigo ad ogni costo, soprattutto, è necessario stare attenti a non provare mai a darla a bere, persino all’ultimo arrivato.

Saremo più chiari. Mettete che una sera, siamo in piazza, seduti alla tavola di un Bar di buona fama con una proposta ampia e ben strutturata di cibi dolci e salati e bevande, con una discreta proposta di drink ed alcuni vini al bicchiere di una nota azienda campana, tra cui uno spumante metodo classico e tre ottime referenze di bianchi. L’avventore, piacevolmente rapito da quell’offerta, dopo aver ordinato piccole cose da mangiare, chiede di bere un calice di vino spumante, ben freddo. Il giovane cameriere, preso l’ordine si congeda con educazione e si allontana.

Al momento del servizio, con le altre cose, arriva – già versato – il calice di vino, fermo. Cosa che non passa certo inosservata; richiamata l’attenzione del cameriere, questi appare sorpreso ma nemmeno poi tanto, si scusa, aggiungendovi però che ”sì, purtroppo lo spumante ci è terminato, ho pensato potesse piacerle questo…”. L’avventore, non proprio l’ultimo arrivato, apprezza lo spirito d’iniziativa e sorseggiato il vino, chiede di vedere la bottiglia di vino. ”Eccola qua, è questa!”. Il risultato? Un disastro totale!

La bottiglia portata a tavola era chiusa e a temperatura ambiente, presa evidentemente dallo scaffale; non era, non poteva essere, quel vino anonimo servito nel bicchiere al posto dello spumante senza aver chiesto prima cosa ne pensasse l’avventore. Insomma, senza tirarla per le lunghe, la pezza si è rivelata molto, ma molto peggio del buco. Morale della favola: non tutti gli Spritz serviti nel mondo sono necessariamente desiderati!

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Comunicare il vino, con tutto l’amore possibile!

8 Maggio 2019

Crediamo nelle belle persone che abbiamo incontrato in questi dieci anni sulla nostra strada, camminandoci assieme le vigne e girando per cantine, stappando e assaggiando (tantissime) bottiglie, correndo tra i tavoli dei ristoranti dove abbiamo avuto la fortuna di lavorare rincorrendo clienti dei più diversi e, grazie a questi, e ai loro buoni consigli, vivere tante belle esperienze umane utili ad insegnarci come poter stare al mondo, in questo mondo del vino e del cibo che ci appassiona sempre più e che richiede rispetto, ogni giorno di più.

Ci crediamo nei cronisti del vino, non certo nei guru, ancor meno in quelli autoreferenziali, guardiamo con attenzione, talvolta anche con una discreta ammirazione e rispetto, agli “industriali del vino”, quando per industriali s’intendono quelli con due, tre, a volte cinque o sei generazioni di vitivinicoltura alle spalle; crediamo nei loro vini, corretti, puliti, acquistabili un po’ ovunque, vini che sono stati, indiscutibilmente, un esempio e un modello, anche di contrasto, per i tanti piccoli e grandi produttori nati successivamente capaci di emularli se non addirittura superarli: ci pensate ad una Irpinia senza i Mastroberardino, ai Campi Flegrei senza i Martusciello oppure, allargando il giro, alla Toscana senza gli Antinori o i Frescobaldi, la Sicilia senza i Planeta?

Crediamo infine nella biodiversità, ma non quella che ci hanno voluto propinare certi soloni, strumentalizzandone all’inverosimile il senso, precisandola ogni volta con tutte le sigle del mondo o le fisime del momento, fossero pure ancestrali o contro-culturali. Crediamo quindi in una diversità biologica certamente possibile ma che rispetti l’originalità e preservi l’autenticità di quello che ci arriva nel bicchiere, con tutti i limiti eventualmente ad essi legati purché corretti, puliti, acquistabili, vieppiù da piccole produzioni. In fondo stiamo sempre parlando di vino, o no? Meglio quindi se buono, e magari da poterlo raccontare a qualcuno, con tutto l’amore possibile!

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Ci ha lasciati Gianfranco Soldera

16 febbraio 2019

Da sempre Gianfranco Soldera e i suoi vini dividono appassionati e critici di tutto il mondo suscitando, nel bene e nel male, passioni, discussioni e tensioni più di ogni altro produttore lì a Montalcino. 

Gianfranco Soldera¤ non c’è più, il suo cuore purtroppo ha cessato di battere questa mattina, pare mentre era alla guida della sua auto sulla strada di Santa Restituta, a pochi passi dalla sua tenuta. È stato, a suo modo, un grandissimo riferimento. Che la terra gli sia lieve. È per noi un giorno particolarmente triste.

Conserviamo di lui e tra gli altri di un altro grandissimo del firmamento ilcinese, Franco Biondi Santi, scomparso nel 2013, ricordi straordinari di alcuni dei momenti più belli ed emozionanti della nostra vita professionale legati al vino e a quei luoghi speciali che sono Montalcino, Case Basse¤ o la Tenuta Greppo che abbiamo più volte provato a raccontare su queste pagine.

Leggi anche Giro di vite a Montalcino, Gianfranco Soldera¤.

 

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Elogio della bevibilità

28 gennaio 2019

Vi è negli ultimi anni una ricorrente deriva acidistica¤ a cui molti tra appassionati e bevitori esperti continuano a strizzare l’occhio certificandola come una sorta di avanguardia enoica non più trascurabile, anzi, quasi una tendenza irrefrenabile mentre il mercato, quello che rappresenta una buona fetta delle movimentazioni di vino in tutti canali distributivi, continua ad apprezzare e a preferire le morbidezze e le dolcezze.

‘’Leggerezza” e “bevibilità”, termini sino a qualche tempo fa appannaggio di vini di basso profilo o comunque di secondo e terzo piano, sembrano invece ritornare parole di un certo spessore nel vocabolario tecnico-descrittivo anche degli esperti più ascoltati. Pensandoci, questo tipo di vini sono sempre stati parte della cultura italiana del vino ed in particolar modo di quella partenopea, c’è una immagine che non possiamo scordare, ben fissa nella memoria di tutti noi, quella del vino rosso bevuto fresco, se non freddo, talvolta con le percoche e quando troppo “tosto” (tannico, alcolico) con l’aggiunta di ghiaccio e gassosa per diluirne la struttura ed aumentarne la bevibilità.

Erano i tempi in cui il capo famiglia, seduto a capotavola, alla domenica, gestiva da sé la damigianella da 5 litri di fianco al tavolo facendo da coppiere distribuendo il vino ai commensali, indicando a tizio e a caio quando e perché fosse necessario un tot di diluizione. Possiamo quindi affermare senza ombra di dubbio che la tendenza è sempre stata a favore dei vini leggeri, caratterizzati da bassa gradazione alcolica e più o meno scarichi di colore in relazione al vitigno o agli assemblaggi di provenienza, di certo poco tannici.

Si arrivava a certi vini per vie traverse, anzitutto a causa le rese altissime per ettaro, le macerazioni brevi (quando non brevissime), l’assenza di tecniche enologiche capaci di garantire maggiori estrazioni (oggi si lavora anche con enzimi macerativi, attenzione alle temperature, i rimontaggi), soprattutto perché tranne in rari casi i legni di rovere francese e americano non si usavano affatto, quindi i tannini presenti nei vini erano pochi e perlopiù provenienti dall’uva e non rilasciati al vino tramite il contatto con il legno o altro.

La necessità di leggerezza è quindi una eco che arriva da molto lontano, non è una moda contemporanea o una tendenza lanciata dai nuovi intenditori; la ricerca, la voglia, il desiderio di vini oggi considerati moderni perché leggeri, luminosi perché (talvolta) trasparenti, godibilissimi perché caratterizzati da grande bevibilità, equilibrati e non pesanti, addirittura da bere freschi mettono proprio tutti d’accordo, appassionati, fini esperti degustatori e bevitori comuni. Restano forse figli di un Bacco minore, come erano considerati fino a dieci, vent’anni fa questa tipologia di ‘’vinelli’’, se paragonati ai grandi vini internazionali o ai Super qualchecosa, perchè concentrati, scuri, fitti, impenetrabili, alcolici, suadenti, voluttuosi e ricchi, quasi sempre affinati in legno pregiato, anzi, barriccati.

Stiamo pertanto assistendo ad un lento ma inesorabile cambiamento del fronte, ora la situazione si è praticamente ribaltata, assistiamo cioè ad una inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, dalle gradazioni alcoliche contenute; per dirla con parole dinamiche non più vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.

Non ce ne vorranno alcuni ma riteniamo una fortuna questa decisiva virata, una variazione sul tema che consegna una idea quantomeno diversa del ’’vino modello’’ cui ispirarsi e al quale molti produttori tendevano spesso più per inerzia che per intuizione, talvolta ‘’conciando’’ i loro vini – proponendo cioè tagli con vini più tannici, intervenendo sulla gradazione alcolica, aggiungendovi varietà tintorie, o tannini esogeni, trucioli, gomma arabica, per dire -, al fine di renderli appetibili dal mercato perché simili a, somiglianti a, poiché la critica era massivamente orientata proprio a prediligere vini così fatti, concentrati e alcolici, in qualche maniera ‘’costruiti’’.

Un cambio di rotta che lentamente spinge oggi taluni esperti addirittura a storcere il naso davanti a questi vini quasi sempre uguali a se stessi e lontani anni luce dalla quotidianità dei comuni bevitori.

Questo passaggio epocale è merito di molti e un po’, diciamocelo, una piccola vittoria per quella realtà tanto sollecitata dai tanti movimenti naturali, bio e biodinamici che per quanto divisivi e contrastanti – talvolta incomprensibili – hanno però avuto il merito di stimolare anche i produttori cosiddetti convenzionali nel rivedere le loro scelte agronomiche e di vinificazione, rivolgendosi ad un modo di fare il vino in maniera più semplice, accorciando la filiera e gli interventi in vigna come in cantina; appare quindi fondamentale oggi più che mai mettere in bottiglia un vino sincero, identitario, una sorta di cartina tornasole del vitigno in relazione alle condizioni pedoclimatiche del territorio di provenienza, senza ricorrere necessariamente a maquillage eccessivi, ad una sorta di chirurgia plastica con il rischio di ritrovarci nel bicchiere vini talvolta caricaturali.

In natura ci sono vitigni che hanno queste caratteristiche, il Pinot Nero, il Gamay, il Piedirosso, il Rossese di Dolceacqua, la Schiava, per citarni alcuni tra i più comuni in Francia e in Italia. Anche se oggi non è poi così difficile trovare sul mercato dei Merlot, dei Cabernet Franc che sono stati messi, per così dire, a dieta per rispondere alle esigenze di un consumatore più attento alla bevibilità che alla sostanza, così aumentando le rese in vigna (meno zucchero, quindi meno alcol e meno tannino), anticipando il raccolto per ottenere un’acidità totale più alta e un ph più basso, abbandonando il legno non avendo più necessità di un effetto distensore per la parte tannica preferendovi una tecnica enologica più immediata che contribuisce ad ‘’alleggerire’’ i vini, come le macerazioni più brevi, a temperature al di sotto dei 22-24 gradi, macerazioni pre-fermentative a freddo o la macerazione carbonica delle uve totale o parziale.

Insomma, possiamo dire che se prima si faceva di tutto per estrarre quanta più sostanza possibile da certi vini, tannini compresi, oggi la tendenza è di estrarre il meno possibile, o quanto meno il giusto necessario per godere di vini territoriali, identitari e di carattere ma agili e vibranti, finanche serbevoli talvolta, vini che quando sono pienamente centrati rappresentano un vero elogio della bevibilità di cui non possiamo che continuare a parlarne un gran bene.

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

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Comfort Wines, ad esempio il Fidelis di Cantina del Taburno e il Rubrato di Feudi di San Gregorio

22 gennaio 2019

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Irpinia Aglianico Rubrato 2017 Feudi di San Gregorio - foto l'Arcante

Ne abbiamo già scritto qui, sono generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, alcuni vini che lentamente, anno dopo anno, sono letteralmente entrati a far parte della vita quotidiana di appassionati e non. 

Due esempi a noi molto cari sono il Rubrato di Feudi di San Gregorio e il Fidelis di Cantina del Taburno, entrati con pieno merito nella quotidianità dell’appassionato che oggi fa la spesa al supermercato, domani magari va ospite a pranzo a casa di amici, al sabato sera gli tocca scegliere il vino al Wine Bar oppure al Ristorante. Due nomi che vanno ben oltre la rappresentazione dell’azienda stessa che li produce, qualcuno lo ricorderà ma non di rado sono stati percepiti addirittura come una denominazione a se stante mentre per molti, possiamo dirlo senza temere smentita, continuano ad essere un investimento sicuro, moneta sonante per far girare velocemente la cantina.  

Il Rubrato viene prodotto ininterrottamente dal 1994, un Best Seller che ha pochi eguali in Campania dove continua a registrare i numeri più importanti tanto sul mercato Ho.Re.Ca quanto su quello della Grande Distribuzione Organizzata, oggi ribattezzata ”Canale Moderno”. Un rosso da uve Aglianico sempre all’avanguardia, dal colore vivace, franco ed espressivo al naso come al palato, dal sorso preciso e immediato come questo duemiladiciassette, un classico passpartout per entrare nelle corde di chi volge i primi passi con il vino, l’abbinamento cibo-vino o mostra le prime attenzioni ai varietali tradizionali dell’entroterra campano rifuggendo però dalle astringenze classiche dell’Aglianico.     

Aglianico del Taburno Fidelis 2015 Cantina del Taburno - foto l'Arcante

Alla stessa maniera dobbiamo dire del Fidelis di Cantina del Taburno, altro campione di vendite che ci accompagna praticamente da sempre. Se ne imbottigliano mediamente circa 150.000 bottiglie l’anno, anche qui Aglianico ma di provenienza dell’areale del Taburno; il vino base fa fermentazione malolattica in botti grandi da 50 e 100hl e quindi viene lasciato affinare in barriques generalmente di secondo e terzo passaggio. Venduto in larga parte in GDO non manca però quasi mai nelle migliori carte dei vini di Ristoranti e locali che hanno a cuore una scelta mirata di vini da proporre soprattutto al bicchiere.

Siamo rimasti piacevolmente soddisfatti da questo duemilaquindici, un rosso dal colore rubino e dai profumi gradevolissimi di piccoli frutti neri, dal naso ampio che ricorda toni scuri di grafite e sottobosco, finanche di tabacco. Il sorso è asciutto e profondo, il lungo percorso di affinamento lo alleggerisce dalle austerità caratteristiche dell’aglianico di queste terre beneventane consegnandogli però buon equilibrio e tipicità, unite a vivacità gustativa e piacevole persistenza.

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Niente di più. Niente di straordinario!

12 gennaio 2019

Qualche giorno fa, qui, scrivevamo la nostra su quanto sia di fondamentale importanza la salvaguardia del territorio perché alle imprese straordinarie dei privati viticoltori e produttori di vino flegrei degli ultimi vent’anni si affianchi sempre più il sostegno da parte di amministrazioni ed enti locali per la tutela del paesaggio con interventi preventivi su brutture urbanistiche e nel disinnescare quei segnali di dissesto geologico che puntualmente presentano il conto alle prime pioggie invernali. Ci sentiamo per questo pienamente partecipi con quanto manifestato dai Vignaioli Cirotani.

L'appello vignaioli cirotani - Vinocalabrese.it

Nel mese di ottobre 2018 più di 800 mm di pioggia sono caduti sul territorio cirotano. I danni conseguenti sono stati ingenti Vigneti alluvionati e rasi al suolo dall’esondazione dei torrenti; tutte le strade poderali in condizioni pietose, alcune completamente franate; briglie e opere di contenimento dei torrenti distrutte; la strada provinciale 12 (Cirò M.- Melissa) chiusa al traffico perché franata in due punti, isolando di fatto il comune di Melissa.

Gli eventi meteo certamente sono stati eccezionali, ma le cause del dissesto idrogeologico non sono da imputare solo a Madre Natura. Lo stato attuale delle campagne cirotane sono l’epilogo di una storia che corrisponde ad anni di abbandono e incuria, senza il minimo intervento di manutenzione ordinaria, su opere realizzate più di 50 anni fa! È arrivato il momento che il comparto vitivinicolo del Comprensorio Cirotano lanci il suo grido di rabbia e disperazione; perché è paradossale che soprattutto gli enti locali, lascino in balia degli eventi le aziende del più importante distretto vitivinicolo calabrese, unico ed ultimo vanto di questo territorio.

Se è vero che il comparto vitivinicolo regge l’economia di questo territorio, se è vero che le vigne rappresentano una risorsa paesaggistica, sociale e culturale, allora non è più ammissibile il silenzio e l’apatia delle istituzioni di fronte alla prospettiva che molte piccole aziende chiuderanno ed i vigneti, già da decenni al limite della sostenibilità economica, saranno abbandonati. Un silenzio che lascia basiti per quanto è chiaro che al declino della viticoltura cirotana corrisponderà l’inesorabile fine economica e sociale di questo territorio. Perchè finita la risorsa viticoltura non esiste altro.

È necessario risolvere l’emergenza, visto che a breve si ricomincia con i lavori in vigna, chiediamo però ai Comuni e agli altri Enti preposti di andare oltre l’emergenza, di dare il giusto peso all’importanza economica e sociale della vitivinicoltura del cirotano. L’invito rivolto a tutti i viticoltori è di far sentire la propria voce, per non scomparire nell’indifferenza generale, per dire alle istituzioni che DEVONO interessarsi alle sorti delle vigne del Cirò, alle sorti del Cirò. Basta fare il proprio dovere.
Niente di più. Niente di straordinario!

I Vignaioli cirotani Cataldo Calabretta, Francesco De Franco, Mariangela Parrilla, Assunta Dell’Aquila, Sergio Arcuri, Francesco Fezzigna, Vincenzo e Francesco Scilanga, Cristian Vumbaca e Francesco Scala.

Credits VinoCalabrese.it

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Stanno tutti bene ma non tutto va bene

4 gennaio 2019

Nelle ultime settimane abbiamo passato in rassegna un bel po’ di assaggi delle ultime annate prodotte dalle nostre parti qui nei Campi Flegrei, dobbiamo dire in larga parte tutti i vini si sono rivelati davvero molto interessanti e proiettati nel futuro con l’approccio giusto per franchezza, freschezza e leggerezza  espressiva. Non mancano certo piccoli capolavori¤, ma questi solo il tempo li rivelerà del tutto. E’ proprio il caso di dire che stanno tutti bene.

Di alcuni ve ne abbiamo già dato conto¤, e non può che farci piacere notare come certi nomi¤ apparentemente sottovalutati negli ultimi anni, vadano rapidamente recuperando lustro e ritornino in mente anche alla critica più gettonata, ne siamo molto felici, ciò non può che fare bene al racconto di un territorio straordinario che ultimamente pare però un po’ avaro di nuovi protagonisti.

Nelle prossime settimane ne racconteremo delle belle, frattanto invece, tronfi di averci messo le mani tra i primi e certi di non aver mai smesso si sostenere, spronare, scrivere di tutti i produttori coinvolti ci viene quasi spontaneo far notare – lo sappiamo è un fatto di una banalità unica – come l’apprezzamento quasi unanime dei vini dei Campi Flegrei¤ non vada suscitando in nessun modo almeno un pizzico di orgoglio per le Amministrazioni e gli Enti Locali che poco o nulla fanno per la salvaguardia delle aree vocate e dei luoghi in prossimità di vigneti e cantine. Posti che dovrebbero richiamare enoturisti a frotte o quantomeno suscitare un certo rispetto ambientale ma che invece versano il più delle volte nel totale degrado ed abbandono, come dire Coscienza Ambientalista zero!

Condurre qui degli appassionati, un gruppo qualsiasi di enostrippati per alcuni è diventata una partita persa a tavolino, senza nominare tutte le difficoltà di chi deve accogliere clienti, importatori, giornalisti non senza disagio. Un territorio ampio e complesso quello flegreo, ne riconosciamo le difficoltà, il più delle volte definito odiosamente da molti “un conurbio suburbano”, cela però anche  bellezze e paesaggi suggestivi e struggenti, spesso misconosciute persino da chi ci vive figuriamoci cosa ne possa sapere chi lo visita e ne subisce superficialità e disinteresse pubblico. Peggio è, talvolta, intorno a quelle cosiddette ”vigne metropolitane” che dovrebbero rappresentare oasi di cultura e valori da preservare ad ogni costo, degli avamposti a salvaguardia di un patrimonio dal valore inestimabile ma che, ahinoi, rischiano di divenire spot di propaganda e niente di più. Questo non va per niente bene!

Senza andare troppo in là sognando modelli tipo “La Strada del Vino dell’Alto Adige¤” ci sentiamo in dovere di ricordare a questi signori Amministratori e rappresentanti di Enti Locali che ci sono voluti oltre vent’anni di grandi sacrifici in vigna e in cantina per portare in bottiglia vini degni di raccontare una storia credibile, dalle origini fortissime e uniche, i protagonisti di questa lunga maratona li conosciamo tutti, dalla famiglia Martusciello¤ ai vari Varchetta, Babbo, Farro, dai Palumbo ai Quaranta, Zasso o i Carputo sino agli ultimi Moccia¤, Di Meo¤, Schiano e Fortunato, ecco non lasciamoli soli, mai più soli. 

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A Natale ci beviamo

20 dicembre 2018

Non abbiamo certo bisogno di rifilare una nuova classifica dalla quale tirare per i capelli i vini più buoni da servire in tavola durante le festività di Natale e l’ultimo dell’anno. Anche perché, nel frattempo, di guida in guida, classifica dopo classifica di bottiglie da parte se ne sono messe talmente tante aspettando l’occasione giusta che quando arrivano le Feste regna sovrana la confusione e si finisce il più delle volte sul ”o la va, o la spacca”.

Stupire, impressionare, ancorché sembrino gli unici aspetti della faccenda non sempre risultano presupposti azzeccatissimi, e in tempo di crisi, con budget ridotti, conta infatti mettersi a ragionare di giustezza per non sprecare tempo e soprattutto denari.

Per i regali un consiglio che vale sempre oro è quello di affidarsi alle enoteche specializzate, oggi più che mai, perché al di là dei soliti stereotipi, chi è sopravvissuto a questa lunga crisi è veramente appassionato del suo lavoro e sa come si fa, quindi, ad accontentare il cliente sul serio. Inoltre, cosa di non poco conto, sempre più cantine si aprono al pubblico con la vendita diretta, un motivo in più per fargli visita, conoscere persone, toccare con mano e magari risparmiare qualche euro.

Tornando alla tavola, la sera della Vigilia ed il pranzo di Natale, come pure il cenone dell’ultimo dell’anno, rappresentano momenti di ritrovata familiarità, serenità e quiete (più o meno, ndr), aspetti questi da non sottovalutare quando si sceglie una bottiglia da portare in tavola. Nei menu delle feste, sempre ricchi ed abbondanti, vi si nascondono insidie micidiali per l’appassionato seriale: una sequela di stuzzichini, mezzi antipasti, veri antipasti, primi piatti, inframezzi, secondi, pause, dolci, coccole e ”spasso” che sembrano non finire mai e in realtà, a dirla tutta, non finiscono proprio mai. Ecco perchè tutto questo vuole vini non troppo vincolanti, che siano cioè buoni, coinvolgenti, magari piacioni ma meglio se poco impegnativi.

Ecco allora la riscossa dei bianchi giovani, gradevoli e ”leggeri” al palato: per restare in regione, hanno la meglio Biancolella, Falanghina e Coda di volpe, anche provenienti dal Vesuvio con i suoi meravigliosi Lacryma Christi, o dai Campi Flegrei, l’Asprinio d’Aversa per i palati più attenti. Per i più temerari ci scappa il Pallagrello bianco e la Forastera d’Ischia, un gradino più su conduce a pensare al Fiano e al Greco. Tra questi bianchi non male alcune uscite in versione spumante, Asprinio e Greco di Tufo per esempio soprattutto quando Metodo Classico.

Sui rossi ci piacerebbe, come spesso ripetiamo da tempo ormai, che ci possa essere un momento di forte rilancio per alcuni dei nostri vini del cuore come l’Aglianico irpino, non necessariamente nelle sue versioni più ridondanti o il Falerno del Massico rosso. Non manchino certo bottiglie di Piedirosso, meglio se dei Campi Flegrei, e qualche buon rosso da fuori regione – Etna, Vittoria in Sicilia, Conero dalle Marche, Dogliani in Piemonte, Teroldego in Trentino -, ma anche qui, come per i bianchi, prima di aprire etichette un po’ più impegnative val la pena pensarci su due volte. Così è in effetti, gira che ti rigira non è mai questo il momento indicato per tirare il collo ai “gioielli di famiglia”.

Sia chiaro, nulla e nessuno vieta di stappare bottiglie di un certo rango, un grande vino lo è sempre, purché gli si conceda un parterre adeguato e la giusta attenzione. Per farla breve, diciamo che aprire uno Chassagne-Montrachet di Girardin o Barolo Brunate-Le Coste di Rinaldi non è mai occasione sprecata purché si eviti di servirli sull’insalata di rinforzo o quando, in tavola, è tempo di Struffoli e Roccocò.

Così un consiglio chiaro e immediato sarebbe quello di bere cose semplici, interessanti certo, ma comprensibili a tutti i commensali. E giusto per rimanere sul pezzo, tanto va a finire sempre che inzuppi il Roccocò nell’ultimo bicchiere di rosso o che, sugli Struffoli, ti ricordi di quel Moscato d’Asti lasciato là sotto al mobile del salone da almeno tre quattro anni e che, puntualmente, rimetti al suo posto perché ”imbevibile”, ecco. Serene festività a tutti voi quindi, Buon Natale e che il prossimo sia, finalmente, un buon anno davvero.

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Comfort wines, most unwanted!

4 novembre 2018

Come per i Comfort Food ovvero quei cibi a cui ricorriamo per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici così vi sono i Comfort Wines, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, che riportano talvolta con malinconia ad un tempo che fu.

Message in a bottle - foto dal web

Senza scomodare i cugini francesi e lo Champagne, di cui tutti ma proprio tutti sono diventati connaisseurs raffinés e ghiotti consumatori a tutte le ore, ad ognuno le sue etichette del cuore: c’è chi punta dritto su vini corposi, morbidi e lussuosi come i Supertuscans oppure, rimanendo da quelle parti tra le province di Siena e Firenze, preferisce i toni più austeri garantiti da certi Chianti Classico o Brunello; c’è poi chi punta al Piemonte e ai suoi Barolo e Barbaresco, chi si affida invece al calore avvolgente del più classico degli Amarone e chi, in larga maggioranza e forse meno pretenziosi, s’accontenta e gode davanti al solito bicchiere di Ribolla, Soave, Verdicchio oppure di Barbera, Valpolicella, Morellino di Scansano che ne so di Piedirosso, oppure Aglianico, Primitivo, Nero d’Avola.

Vini, in particolare questi ultimi, che continuano ad essere tra i più consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con successo soprattutto al calice, sicuramente perché economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. E’ questa una mezza verità che andrebbe sicuramente indagata e spiegata meglio, eppure proprio questi vini sembrano quasi completamente spariti dai radar di chi beve, racconta, suggerisce il vino da cercare, comprare, bere. Perché?

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Segnalazioni| Il vino raccontato ai tifosi

27 ottobre 2018

Il Napolista

Da qualche settimana sul giornale on line ilNapolista c’è una nuova rubrica ”Un Calciatore, Un vino” a nostra firma; proviamo a raccontare il vino buono, quello autentico e che ha qualcosa da dire, ai tifosi del pallone.

Lo facciamo alla nostra maniera, in modo semplice e spigliato cercando di offrire qualche buono spunto per bere meglio (almeno) alla domenica. E i calciatori, anzitutto quelli del Napoli, con le loro gesta in campo, le loro storie ci danno la misura per suggerire l’etichetta del giorno. Se vi va, seguiteci¤!

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Il (tuo) vino tra web, social, Influencer

18 ottobre 2018

Vi è una sovrabbondanza di personaggi che vanno peregrinando con velleità da influencer del vino a destra e a manca. Non sono (tutti) giornalisti, né wine blogger, ché tra questi gli scappati di casa si conoscono ormai tutti e sono riconoscibili ad occhi chiusi.

Sapevamo che tecnicamente è influencer quella persona in grado di influenzare scelte d’acquisto, politiche o decisionali di altre persone; gode, pertanto, nella vita reale o in quella virtuale, di autorevolezza ed è riconosciuta come esperta di un determinato argomento.

Queste sono invece generalmente persone che si fanno notare per il loro comportamento singolare, che raccontano come originale e bizzarro e per questo si ritengono seguitissimi. Hanno di solito frequentato o appena terminato qualche livello di corso per sommelier – che mettono ben inciso nel loro profilo -, hanno meno di trent’anni ma si sentono decisamente dei millennials, tendono infatti a mescolarsi tra loro, pare per distinguersi. Mah…

Godono certamente di bella presenza, magari hanno quattro soldi e li spendono tutti per vanità, non hanno problemi a mostrarsi sui loro profili social eleganti, piene di fascino sino all’ammiccante quando indossano certi abitini succinti, oppure aggressive e fatale, a seconda della bottiglia di vino che indossano e che mostrano alla stessa stregua dell’ultima giacca prêt-à-porter duemiladiciassette, di una borsetta griffata, un monile di bigiotteria. Bottiglia rigorosamente tappata. Con giusto tre quattro parole copiate ed incollate dal sito web dell’azienda che gliele ha fornite.

Il vino è senza dubbio altro. Senza scomodare Soldati¤ o Veronelli¤, in una bottiglia c’è la storia di una terra, della sua uva, di coloro i quali ci faticano per raccontarceli. Ci sono anni di duro lavoro, talvolta 10, 50 e passa vendemmie (!), pensieri e patemi, fallimenti e successi. Ci sono insomma emozioni che certi bicchieri di vino non bastano, figuriamoci un selfie. Mi fa rabbrividire solo il pensiero che tutto questo possa sentire il bisogno di questo (nuovo) modo di comunicare, fosse solo anche l’ultimo dei tentativi rimasti per rendere il vino ed il suo consumo più popolare e consapevole.

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Limoni amari igp

29 settembre 2018

L’allarme è stato lanciato da tempo e molte autorevoli voci ne hanno ripreso le grida cercando di capire le ragioni del sistematico abbandono delle colture con l’intento di spronare e aiutare a confrontarsi per trovare delle soluzioni, una via condivisa per la salvaguardia non solo di un comparto economico ormai in piena crisi ma di un territorio che rischia molto di più di qualche conto corrente in rosso!

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Limoneti in Costa d’Amalfi

Il progressivo abbandono dei limoneti, in particolar modo dei terrazzamenti più fitti e scoscesi comporta sostanzialmente il crollo dei muretti a secco alimentando così il rischio di frane che soprattutto in certi angoli della Costiera Amalfitana può risultare fatale soprattutto durante il lungo inverno con il rischio che pioggia e fango possano avere effetti devastanti per alcune località in particolare.

Le ragioni sono presto spiegate: molti degli agricoltori locali hanno ormai raggiunto un’età media di 60/65 anni e non vi è traccia del tanto agognato ricambio generazionale, ciò non favorisce certo una visione prospettica positiva. I giovani si sa preferiscono andare via in cerca di fortuna e chi resta, per mille ragioni, pare accontentarsi di lavorare nel turismo o nella ristorazione, anche solo come stagionale pur di non levare le tende. A questo, come si è detto, vi si aggiungono tutte le difficoltà evidenti del comparto che di certo non aiutano: il commercio dei limoni è diventato sempre più difficile, depredato del suo valore di autenticità di territorio ed origine a favore delle numerose varietà importate da altre nazioni e per giunta a molto meno.

A conti fatti ”Sfusato di Amalfi¤” e ”Limoni di Sorrento¤” rischiano seriamente di rimanere piacevoli rimandi letterari e nient’altro, tutto infatti sembra prendere un sapore decisamente amaro!

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Quel che resta non siano briciole

30 dicembre 2016

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L’intuizione, la creatività, il talento, l’arte di un grande Chef non puoi certo delegarla, un suo piatto però sì. Vi sono mille ragioni per discuterne per giorni, eppure, a pensarci bene, è già così da sempre, in particolar modo nelle cucine cosiddette d’autore o più semplicemente gurmé.

Per contro, il talento, la passione, la personalità, l’arte dell’accoglienza di un Cameriere o di un Sommelier di quelli bravi no, resta affare un tantino più difficile e complesso: in certi casi, quando lui non c’è in sala, si vede e come.

Un mestiere quello di stare in sala in chiara difficoltà, provato da molteplici fattori, la fretta del nostro tempo anzitutto che non concede tregua alcuna. Così siamo profondamente in ritardo e non c’è ricambio generazionale da aspettare. Un mestiere, questo, su cui bisogna tornare ad investire soprattutto del tempo, più che le chiacchiere di molti.

In mezzo al dibattito l’Italia degli ormai mille e più cronisti del gusto, o del food, come amano definirsi ultimamente. Il nostro è un paese dal destino segnato: oltre a Santi, Poeti e Navigatori finirà per avere più cronisti enogastronomici che ristoranti e vini da raccontare. Certo prima o poi il buffet finirà, qualcuno avrà già in serbo un nuovo indirizzo a cui fare visita qualcun altro saprà riadattarsi, campo ce n’è e vi è sempre il mestiere di allenatore che più o meno, è risaputo, è alla portata di tutti. In fondo uno che ti paga per farlo lo trovi sempre [cit.].

L’auspicio è che quel che resta non siano solo briciole, anche perché pure quelle sembra che nessuno più le voglia levare.

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Cuochi e Camerieri (Sommelieri compresi)

4 dicembre 2016

I Nuovi Mostri, Hostaria con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi - foto tratta dal web

Il cuoco è un artista, tocca fare i conti con il suo talento ogni giorno.
Il cameriere (Sommeliere compreso) è un fine cesellatore, è dentro ogni cosa e al di sopra di tutto.

Il cuoco è stato con ogni probabilità uno sguattero, le sue origini non mentono.
Il cameriere (Sommeliere compreso) è stato anche uno sguattero, le sue origini non mentono.

Il cuoco è un fine pensatore, spesso se ne sta sulle sue perché è indispensabile che lo faccia. La straordinaria vena creativa non avrebbe altra spiegazione.
Il cameriere (Sommeliere compreso) è diplomatico, non a caso sta sempre in mezzo alla gente.

Il cuoco sta al pass e non si perde un impiattamento.
Il cameriere (Sommeliere compreso) sa come si sta al pass, quanto è fondamentale un corretto impiattamento.

Il cuoco ne sa e come di cucina, materie prime, tecniche di cottura, porzioni scientifiche, architettura, tecnica di abbinamento cibo-vino.
Il cameriere (Sommeliere compreso) ne sa e come di cucine, materie prime, tecniche di cottura, tutto sulla tecnica di abbinamento cibo-vino. Solo talvolta si interessa di architettura.

Il cuoco beve vino. Ama lo Champagne.
Il cameriere (Sommeliere compreso) sa tutto sul vino, tutto tutto sullo Champagne e la Borgogna. E Bordeaux. E l’Alsazia. Li ama tutti. Dippiù quelli in omaggio.

Il cuoco dovrebbe ascoltare chi sta in sala, soprattutto i clienti scontenti.
Il cameriere (Sommeliere compreso) ascolta chi sta in sala, soprattutto i clienti scontenti. Risolve i problemi e riporta – non sempre fedelmente – al cuoco.

Il cuoco esce in sala quando acclamato.
Il cameriere (Sommeliere compreso) entra in cucina solo quando autorizzato.

Il cuoco sa tutto sul pesce e sulla carne. Ma anche su tutto quanto il resto.
Il cameriere (Sommeliere compreso) sa tutto sul pesce, sulla carne e su tutto quanto il resto. Quando ha un dubbio o non sa, fa domande. Prima di tutto al cuoco.

Il cuoco dovrebbe sapere tutto sul servizio in sala.
Il cameriere (Sommeliere compreso) sa tutto sul servizio in sala.

Il cuoco e il cameriere (Sommeliere compreso) non si parlano abbastanza, non di rado si accontentano dello stretto necessario.

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Il respiro del vino

21 ottobre 2016

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[…] Il profumo forse è l’aspetto sensoriale più straordinario del vino, perché è anche il linguaggio della sua composizione, della sua storia, delle sue tradizioni, dei territori in cui nasce e dei microclimi che ne accarezzano i giorni. Il vino è la sintesi sorprendente dei profumi di tutto ciò che ci circonda, perché ha nella sua natura più profonda le tracce della terra, dei fiori, dei frutti, delle spezie, del mare, della montagna, del vento, della luce e di tante altre cose che nobilmente rappresenta. (Luigi Moio)

Questo libro – non ho il minimo dubbio -, diverrà presto un best seller! Mi sento davvero fortunato di aver condiviso con Luigi, il prof. Luigi Moio¤, tante chiacchiere e bevute in questi ultimi anni che mi hanno insegnato tanto e aperto ad un approccio al vino e al suo mondo estremamente significativo.

Il Respiro del Vino

”conoscere il profumo del vino per bere con maggiore piacere”

Luigi Moio, 2016 © Mondadori

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Degustatio Praecox

6 ottobre 2016

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Capita talvolta di aprire una bottiglia e rimanere spiazzati dal suo profilo organolettico. Capita per vini giovanissimi non ancora “pronti”, più spesso per quei vini stipati per lungo tempo: il naso arranca “muto”, il sorso pare avere qualche problema, talvolta disarmonico, può darsi pesante.

Attenzione! Prima della cattiva idea di sparare a zero talvolta basta aspettare un po’, a certi vini basta davvero poco per rivelarsi invece pienamente espressivi. Qualcun’altro farà un po’ più fatica, e allora bisognerà dargli più tempo, anche un giorno o due se necessario. E’ così che si nutre la passione, così ci si rifà la bocca su preconcetti e pregiudizi.

© L’Arcante – riproduzione riservata 


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