Archive for the ‘Resto del Mondo’ Category

Segnalazioni| Porto Late Bottled Vintage 2015 Burmester

24 luglio 2020

Ci trovi dentro aromi delicati e vari, il colore rossiccio è una finestra sul tempo, sembra ritrovarci bacche e uva completamente mature, si resta impalati sugli aromi di cacao, cioccolato e legno tostato, caffé, liquerizia. Il sorso è denso e profondo, conserva una bella freschezza gustativa, denota ovviamente un tono alcolico deciso eppure pienamente integrato nel vortice di cioccolato, frutta nera e un po’ di spezie dal sapore antico. Dona suggestioni straordinarie.

La storia della “Feitoria*” Burmester è simile a tantissime altre del panorama produttivo dei Porto ma la qualità dei suoi vini è comparabile a pochissime altre etichette in circolazione; Henry Burmester, originario della Germania, si era stabilito con la sua famiglia a Londra agli inizi del settecento dove aveva avviato in poco tempo una compagnia di commercio di cereali da e per il Regno Unito. Arrivato a Vila Nova de Gaja, in Portogallo, per tutt’altri affari, si accorse immediatamente del grande potenziale di questo delizioso vino che tanto lo aveva inebriato ma che tanto sembrava soffrire delle difficoltà di distribuzione commerciale sul mercato mondiale: è il 1750, nasce così la Burmester Port Wine Company che ancora oggi sfoggia vini dall’eccezionale valore degustativo e tipicità.

*Feitoria, è l’equivalente di azienda agricola.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Rioja Viña Tondonia Reserva 2006 Lopez de Heredia e il sapore contemporaneo della storia

18 ottobre 2019

Stappare una bottiglia di Viña Tondonia può rappresentare un’esperienza da ricordare e fermare nel tempo, e in effetti lo è stato. Si ha, infatti, l’impressione di affrontarlo e attraversarlo il tempo, con lentezza e serenità d’animo, in buona compagnia, in un viaggio nel passato per godere del presente.

Siamo in Rioja, regione che prende il nome dal fiume Oja, ”rio Oja”, che attraversa la regione della Spagna settentrionale, poco più a Sud di Bilbao. Una collocazione geografica che ha molto influito sulla storia vitivinicola della regione caratterizzata da forti influenze francesi, sin dalla metà del XIX secolo, quando qui arrivarono in centinaia tra viticoltori e commercianti bordolesi alla ricerca di fortuna dopo che la fillossera aveva distrutto i loro vigneti e azzerato quasi il loro commercio di vini.

Anche Don Rafael López de Heredia y Landeta ne è rimasto irrimediabilmente affascinato dai francesi, si è infatti formato a Bayonne e ha continuamente provato a ”rubare” ai francesi arrivati in regione i loro segreti, la tecnica, prima di avviare la sua bodega, aiutato nel successo fulminante anche per un cambio repentino nelle tasse e nelle politiche doganali locali che pian piano rendeva sempre più costoso esportare vino in Francia dalla Rioja, tanto che i négociants francesi ripresero via via a rientrare in Francia.

E’ il 1877 quando ad Haro, capitale della Rioja Alta, nasce la Bodega R. López de Heredia Viña Tondonia, ancora oggi uno dei nomi che ispira maggior rispetto e ammirazione tra le aziende produttrici di “vino fino”.

L’azienda ha saputo costruire una storia straordinaria e unica, conta oggi su un vigneto di proprietà di 170 ettari, coltivati perlopiù con Tempranillo, Vernaccia, Graciano e Mazuelo – leggi Qui -; sono oggi nomi ridondanti quelli di Viña Tondonia, Viña Cubillo, Viña Bosconia e Viña Gravonia che danno il nome alle etichette storiche divenute negli anni immortali. Contribuiscono certamente al mito anche alcuni aspetti di una rarità se vogliamo sorprendente ai giorni nostri: l’azienda conserva tutt’oggi un carattere fortemente familiare, ne detiene infatti le redini Mercedes López de Heredia; altro significativo segno distintivo è che Viña Tondonia sia tutt’ora un’azienda davvero unica anche perchè utilizza solo botti costruite artigianalmente nella sua proprietà, con legni provenienti dai Monti Apalaches, negli USA.

E’ una bellissima bevuta quella che regala questo vino, annata duemilasei, non solo per la freschezza e la vibrante animosità gustativa nonostante i tredici anni alle spalle, un nonnulla per la longevità dei vini di Lopez de Heredia, ma soprattutto perchè il millesimo viene definito dagli annali aziendali ”atipico” e ”tremendamente moderno”, come se il sapore contemporaneo della storia fosse venuto fuori quasi inaspettatamente, in questa bottiglia più che mai.

Di colore rosso rubino ancora intenso e con vivi riflessi granato sull’unghia del vino nel bicchiere, il naso si rivela lentamente, fine, seducente, elegante; sa di frutta matura, richiama alla mente erbe officinali, sottili spezie fini, liquirizia. Il sorso è pacato, raffinato, ha buona tessitura e freschezza, è morbido ed equilibrato, regala in fondo una beva di rara eleganza, un sorso di personalità, suggestioni, gratitudine.

Bodegas R. López de Heredia Viña Tondonia
Av. de Vizcaya, 3 Barrio de la Estación
26200 Haro – España
Telefono: +34 941 310 244E
mail: bodega@lopezdeheredia.com
Sito web: http://www.lopezdeheredia.com/
 

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Oakville, Napa Valley Chardonnay ’12 Far Niente

20 agosto 2014

Stiamo parlando di una delle più importanti aziende americane, tra le prime a piantare vigne in Napa Valley sin dal 1885.

Napa Valley Chardonnay Far Niente 2012 - foto A. Di Costanzo

Un’azienda florida e già conosciutissima ad inizio secolo scorso che a causa del proibizionismo dovette chiudere i battenti e vedere sciupate le vigne di proprietà, poi reimpiantate a fine anni settanta dalla famiglia Nickel che ne detiene attualmente la proprietà.

I vini di Far Niente¤ non sono proprio così a portata di portafogli, il loro Cabernet Sauvignon¤ ad esempio ha un prezzo assai improbabile per il nostro mercato, stiamo parlando di circa 90 euro franco cantina – e per la verità nemmeno mi ha convinto così tanto -, mentre questo Chardonnay¤ pare avere già più chance di appassionare pur collocandosi in una fascia di prezzo comunque abbastanza alta per la media europea, qui siamo sui 40 euro sempre franco cantina.

Ad ogni modo il 2012 mi è parso davvero molto buono, senza alcun dubbio tra i più buoni chardonnay che abbia mai provato proveniente da quelle parti, tra i pochissimi con una spinta tale, un senso di compiuta eleganza e sostanza da rimandare a vini come quelli che nascono ad esempio in Francia.

La cremosità ed il boisè sono appena accennati, il primo naso ha un gran frutto che si arricchisce via via con note piacevolmente dolci. Buccia di mandarino, melone, ma anche ananas, sono chiarissimi, così come un profumato sentore di felce. Il sorso ha una gran progressione, conquista e convince sorso dopo sorso.

Penso alle migliaia di bottiglie sparse nel mondo che in qualche maniera tentano di riportare alla mente terre e vini di Borgogna; alla cieca, in questo caso, non sarebbe poi così da sciocchi avvicinarlo a un ben più quotato bianco di Puligny, per dirne una.

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Durbach, Baden Riesling 2011 Alexander Laible

28 settembre 2012

Un bianco sorprendente quello di Alexander Laible, giovanotto poco più che trentenne che da qualche anno sta facendo letteralmente impazzire (almeno lì in Germania) molti degli appassionati del riesling e non solo.

Con molta probabilità Durbach non sarà mai Turkheim, o Kaysersberg, come è quasi certo che il Baden difficilmente potrà mai essere scambiato per l’Alsazia, però una cosa è chiara, dalle vigne di Laible, dal duemilasette, continuano a venire fuori vini di grande riconoscibilità, piacevolezza e compattezza.

Il Trocken 2011 di Alexander Laible è un gran bel riesling, di carattere, ben strutturato, compatto e di delicata acidità. Invitante è il colore, tendente sì al verdolino ma vivace e luminoso. Il primo naso è un manifesto alla freschezza, sbarazzino, aromatico e minerale; immediatamente agrumato, offre quindi un ventaglio olfattivo di gran finezza, di frutta gialla, pesca, albicocca e deliziose dolci note di mela cotogna. Poi si fa ancora più aromatico, di erbe di montagna, ficcanti e balsamiche, poi ancora, pian pianino diviene tostato, quasi fumé. In bocca è un tripudio di contrasti, eppure sottile, fresco, irrequieto quasi, salino. Manca forse di quella profondità che spesso caratterizza certi riesling alsaziani o, restando nel paese, della vicina Rheingau, nonostante i tredici gradi in alcol contribuiscano ad un certo spessore, ma chissà che non sia solo una questione di tempo. Del resto il giovane Alexander è appena salito in rampa di lancio, proprio come i suoi – m e r a v i g l i o s i – vini!

Curiosità: Laible ama segnalare le migliori selezioni tra i suoi vini appuntando in etichetta delle stelle. Si va dai “vini base” con 1 stella alle “prime scelte” indicate invece con 3 stelle (come in questo caso in etichetta).

Marlborough, Sauvignon 2011 Cloudy Bay (!) (!!)

30 giugno 2012

Di una bottiglia vorremmo sapere tutto, del terreno da dove nasce, delle piante, dei chicchi e dell’ambiente dove maturano le uve. Per non parlare di quanto sia indispensabile sapere cosa accade in cantina: inoculi, fermentazioni, macerazioni (anche quelle più spinte, quando ci sono), chimica e assemblaggi, affinamenti e passaggi vari.

E magari che pure l’etichetta sia gradita, meglio se non troppo appariscente, kitsch, però nemmeno troppo desueta. E ci crediamo tanto, talmente tanto che proviamo a starci dietro a tutto questo pur di raccontare le cose come stanno. Ci piace, e come.

In verità però – suvvia, diciamocelo -, capita talvolta che non ce ne può fregar di meno. E quasi sempre a ragione, come in questo caso. Eh sì, perché vale tanto sapere dell’insolita vendemmia in Marzo, della maniacale cura della forma di allevamento e della meticolosa raccolta da vigne vecchie 20 anni, della cantina iper tecnologica e anche dell’idea che molti hanno dei vini di questo pezzo di nuovo mondo – che in parte è anche la mia, cioè vini “costruiti” e certe volte anche molto poco “significativi” da un punto di vista “territoriale”; provate però a mettere nel bicchiere questo sauvignon neozelandese…

New Zealand, Cloudy Bay

Marlborough dove, vi chiederete? Nuova Zelanda, può essere? Beh, il sauvignon di Cloudy Bay è un gran bel bere, piaccia o no ha una timbrica impressionante, una spinta gustativa sferzante e pure avvenente anche per i palati meno allenati.

Ha colore paglierino pallido ma uno spettro olfattivo incredibilmente variopinto, che va dall’impronta balsamica al frutto croccante con la stessa velocità con la quale graffia il palato e scorre via, imprendibile, in bocca. Gratificante. Profuma (come nessun altro vino mai così espressivo) di frutto della passione, di kumquat, burro di nocciole e bergamotto, ma anche di foglia di pomodoro e mentuccia. Il sapore è citrino e sapido, sferzante come detto, coinvolgente e dissetante, insolito e rinfrancante.

Costruito? Oggi mi va bene così, desideravo proprio bere un vino fatto apposta per me, per questo momento di ricercata spensieratezza!

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Newberg, Estate Pinot Noir ’05 Patricia Green

4 febbraio 2012

Generalmente riesco a farlo con una certa convinzione, non che mi metta a definire un calendario, sia chiaro, sarei un tantino esagerato se lo facessi. Però aspettare, saper aspettare un vino, rimane una di quelle belle cose che donano senz’altro al vino e al suo mondo quell’irresistibile fascino per cui merita d’essere raccontato.

Avevo questa bottiglia da più o meno cinque anni, conservata là, nella cantinetta dei miei coups de coeur; un regalo prezioso ed apprezzato da parte dei miei amici Steve e Tammy, prima della loro partenza definitiva per gli states. Se ne tornavano a casa, o su di lì. E ci tenevano ch’io saggiassi, prima o poi, questa etichetta, che ritenevano tra le più “vere” espressioni del pinot nero in Oregon.“Patty Green fa vini con uno stile ben definito, non è difficile che ad alcune persone non piacciano, ma vale la pena provarli”, mi dissero. Così decisi di tenerla lì per un po’, non senza, lo ammetto, una sana curiosità che già altre volte mi avrebbe tentato nell’aprirla.

Sapevo che Ribbon Ridge è letteralmente un “nastro” collinare lungo il quale si sono insediate negli anni alcune delle migliori aziende produttrici dell’Oregon, fuori dalla Borgogna uno dei luoghi per elezione per il pinot noir; pensate, per dirne una,  che qui viene coltivato con ben oltre 42 selezioni clonali differenti. Un posto dove le particolari condizioni dei suoli, di chiara origine sedimentaria marina, e l’unicità dell’ambiente pedoclimatico con le montagne Chehalem sullo sfondo, conferiscono ai vini qui prodotti molto altro che quel frutto tanto ricercato nei pinots del cosiddetto “nuovo mondo”, che sanno solitamente di rosa, lampone e ciliegia giusto tal quale un succo o una caramella alla frutta.

Questo vino ha poco o nulla per apparire piacione o alla mano, tutt’altro. Il timbro degustativo è senz’altro borgognone, ma di quelli veramente autentici, che non fanno sconti nemmeno a favore dell’eleganza. Il colore infatti è bruno, con già nuances aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere, ma vivo e limpido. Il naso è composito, i sentori fruttati sono solo una reminescenza, ciò che lo contraddistingue, profondamente, è il profilo quasi terroso, di sottobosco, macchia mediterranea, china che ne disegna il carattere austero, forse anche monolitico, ma sicuramente inconfondibile. E il sorso ne da subito conferma: ha tessitura fibrosa e minerale, sollazza il palato con insistenza e finisce chiaramente sapido. Per darvi idea della maniacalità con la quale si continua a fare ricerca da queste parti, Patricia Green produce addirittura 12 etichette diverse solo dei suoi pinot nero, talvolta una per ogni singola botte di vino in cantina, una sorta di single vineyard che più espressivo non può essere.

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Ribera del Duero ’06 Montecastro y Llanahermosa

30 novembre 2010

Terra caliente la Spagna, ci pensi e ti vengono in mente mille colori e sfumature, dalle spiagge bianche di Formentera alle luccicanti notti insonni di Ibiza, dal rosso fuego de la Plaza de Toros alle corse forsennate dei fedeli di San Firmino tra i vicoli di Pamplona. Per i cultori del bello poi se non bastano le maestose cattedrali madridiste per alzare gli occhi al cielo c’è il valore dell’arte assoluta dell’incommensurabile talento di Pablo Picasso oppure l’immane opera della Sagrada Familia di Gaudì.

Per gli afeçionados gourmet invece, proprio dalla Spagna si è assistito negli ultimi vent’anni ad una ondata di rivisitazione gastronomica che giorno dopo giorno, con una costanza mai registrata prima, ha visto l’esplosione di tanti giovani talentuosi chef affermare in cucina idee assolutamente innovative, talvolta rivoluzionarie, tanto dallo spingere l’asticella della discussione critica sino al vero e proprio contraddittorio, favorendo addirittura la coniazione di nuovi termini letterali per identificare chi, habituè di queste tavole-laboratorio, non era più identificabile come puro e semplice cultore della ricercata buona cucina ma bensì come un integerrimo gastrofanatico. Altro che tapas&paella a cui ci eravamo abituati dalle passeggiate sulle ramblas di Barcellona.

Dove invece la parola rivoluzione non ha ancora trovato nuovi profeti capaci di un colpo di coda pare essere proprio il mondo del vino spagnolo, sicuramente affascinante e ricco di esempi che danno lustro al comparto, ma a quanto pare sempre troppo conservatore per leggere per tempo i cambiamenti di un mercato internazionale che pur nel caos degli ultimi vent’anni ha comunque sempre dato ampi segnali su quale fosse la strada da percorrere per differenziarsi ed affermarsi come opportunità appetibile e soprattutto non omologabile. E questo vino, prodotto in una delle aree a denomination de origen più preziose, pare essere proprio l’esempio lampante di questa difficoltà. Il Ribera del Duero Montecastro 2006 è un vino tecnicamente ineccepibile ma che, a mio giudizio, è assolutamente incapace di colpire l’immaginario dell’avventore sulle sue specificità territoriali, un vino della Ribera che potrebbe però essere stato prodotto in qualsiasi altra parte del nuovo mondo, giusto per fare un esempio.

Prodotto da uve tempranillo in purezza, qui chiamato tinto fino, trascorre circa venti mesi di invecchiamento in barriques di legni diversi, in parte francesi (70%), in parte americani (25%) ed il restante 5% in rovere di Slavonia. Generalmente il tempranillo offre vini di grande generosità gusto-olfattiva, forse anche per questo le mie aspettative su questa etichetta non erano poche, tra l’altro leggendo successivamente qua e la sul web ho trovato pure belle recensioni a riguardo, con punteggi anche al di sopra dei 90/100 e certamente nel Duero, siamo a nord di Madrid, non mancano esempi di tutto rispetto sulla denominazione. Ma veniamo a noi: il timbro olfattivo, pur bevendo un vino di “appena” quattro anni, è estremamente maturo, a tratti marmellatoso, e nemmeno la forte incidenza dei diversi legni, che al palato si rivelano ancora piuttosto caratterizzanti, offrono sfumature speziate allettanti. In bocca è possente, carico di glicerina al punto da consigliare piccoli sorsi e ben distribuiti su tutta la cavità orale per non appesantire troppo la beva. Anche qui poco o nulla sulle sfumature acido tanniche, pur attese date le riconosciute caratteristiche del varietale nonché la forte connotazione argillosa–calcarea dei terreni, ma niente, nemmeno uno spunto terroso che spesso sopraggiunge come variazione sul tema sulla tipologia; Tutte note organolettiche evidentemente sovrastate, non poco, dalla carica alcolica, già dopo il secondo sorso piuttosto pesante.

Come detto un vino ben costruito, probabilmente anche appetibile per un approccio semplicistico alla tipologia, ma decisamente al di sotto delle mie aspettative. Stroncatura? Beh, senz’altro, ma ho solo aperto le indagini, vediamo dai prossimi approfondimenti cosa ne verrà fuori!

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Vila Nova de Gaja, Feitoria Burmester

13 giugno 2010

Qualche settimana fa ci siamo occupati del più prezioso ed antico vino portoghese raccontandovi brevemente dove e come nasce il vino di Oporto.

Appena ieri poi abbiamo assunto “l’obbligo” di raccontarvi di “vini mondiali” prendendo spunto da un gioco di assonanze, emozioni e colori dettati dalle nazionali partecipanti all’edizione sudafricana 2010 della più bella tra le manifestazioni calcistiche di sempre. Insomma, vini che meritano di essere scoperti, segnati in agenda e bere alla prima occasione, magari proprio tifando per la propria squadra del cuore.

La storia della “Feitoria*Burmester è simile a tantissime altre del panorama produttivo dei Porto ma la qualità dei suoi vini, alla luce degli assaggi dell’ultimo anno, è comparabile a pochissime altre etichette in circolazione; Henry Burmester, originario della Germania, si era stabilito con la sua famiglia a Londra agli inizi del settecento dove aveva avviato in poco tempo una compagnia di commercio di cereali da e per il Regno Unito.  Arrivato a Vila Nova de Gaja, in Portogallo, per tutt’altri affari, si accorse immediatamente del grande potenziale di questo delizioso vino che tanto lo aveva inebriato ma che tanto sembrava soffrire delle difficoltà di distribuzione commerciale sul mercato mondiale: è il 1750, nasce così la Burmester Port wine Company che ancora oggi sfoggia vini dall’ eccezionale valore degustativo e tipicità.

Porto Ruby, può essere questa l’arma vincente per avvicinare palati novizi ai vini di Porto. Se il Ruby nasce da una attenta selezione in vigna e da una grande passione per questa tipologia da parte del produttore non esiste rivale che tenga! Ha un colore rubino bellissimo, vivace, un naso accattivante e invitante. Questa tipologia di Porto si sa viene imbottigliato giovane per preservare la sua forza e la sua freschezza,  al naso si apre infatti con una gradevolissima vinosità e la fragranza di questo Ruby sorprenderà soprattutto per la continua eleganza con la quale manifesta i suoi dolcissimi e spiritati sentori fruttati e speziati. In bocca è riccamente dolce, per niente scontato, gioca di rimbalzo con una decisa acidità che gli conferisce un ottimo equilibrio degustativo; Da bere su dolci al cioccolato non troppo ricchi, o come consiglio di fare, ad una temperatura intorno ai 14 gradi, come aperitivo per papille poco inclini alle durezze.

Porto 20 Years Old Tawny, decisamente straordinario! Questo vino mi ha impressionato soprattutto per la grande qualità che esprime in tutte le fasi di degustazione, segno tangibile di un processo produttivo, dalla vigna alla cantina, senza mai tralasciare un solo particolare. Prodotto con l’assemblaggio delle migliori selezioni vendemmiali viene lungamente lasciato affinare in piccoli carati di rovere prima dell’assemblaggio finale. Ha un colore di gran fascino, ramato, cristallino, trasparente. Il naso è molto intenso e complesso, si fanno avanti note di frutta secca e vaniglia , la nocciola è nitidissima, quasi spalmabile, poi sensazioni mandorlate e di frutta candita. Un Porto di rara franchezza, finezza ed eleganza. In bocca entra con dolcezza prima di distendersi su note agrumate, addirittura quasi citrine, asciutto ed aromatico, dalla beva molto appagante, indimenticabile.

Porto 40 Years Old Tawny, come il vent’anni viene ottenuto dai migliori vini lasciati affinare in piccole botti di rovere con la differenza che il blend viene successivamente posto a maturare in grandi botti di legno datate 1864, praticamente antecedenti anche alla nascita della stessa Burmester Company. Il colore ricorda la buccia di cipolla ramata, con una  intensità di poco superiore a quello precedente. Al naso offre un ventaglio olfattivo molto complesso, particolarmente variegato, fiori secchi, miele, caramello, frutta secca, spezie e legno. In bocca è dolce, vellutato, la spiccata acidità è inizialmente coperta da una decisa dolcezza che pervade tutto il palato confondendo le papille gustative, nel finale di bocca ritornano le noti asciutte ed un finale di mandorla pestata molto piacevole. Da meditazione, cru di fondenti sudamericani alla mano.

Porto Colheita 1985, è una tipologia alla quale sono molto affezionato, decisamente poco conosciuta ai più sa esprimere invece Porto di grandissimo lignaggio. I Colheita possono essere vini della stessa singola annata di vendemmia ma provenienti da diverse vigne, spesso invecchiati in botte per almeno 7 anni prima dell’imbottigliamento e non di meno millesimati. Come detto godono di minore appeal rispetto ai Tawny ma solo perchè hanno un timbro, soprattutto gustativo, più ruffiano rispetto a questi ultimi. Di colore aranciato mediamente concentrato, ha un naso abbastanza ampio, note caramellate, tostate innanzitutto ed un gusto dolce, molto bilanciato e profondo, ogni sorso è accompagnato da piacere sublime, degno compagno per affogare rabbia e malumore, mai dolce più abbinabile di un soufflè meringato al caffè!

*Feitoria, è l’equivalente di azienda agricola.

Healdsburg, Alexander Valley Pinot Noir 2006

18 marzo 2010

Quando hai un “modello” piuttosto che assuefarti alle sue facili reiterazioni devi ricercare la sua massima espressione, o le tante che si possono cogliere in giro, anche fosse nel mondo. Così quando ho deciso che “il mio vino” sarebbe stato il Pinot Noir è iniziata la mia rincorsa, non verso la ricerca della perfezione, semmai ne esista una al di fuori della Borgogna e in quello stretto lembo di terra chiamato La Tache, ma alla scoperta della sua più alta considerazione ed interpretazione, identità possibilmente precise, certamente diverse, ma reali espressioni di un luogo, di una vigna, di un vigneron, e quando sono stato fortunato, di una singola bottiglia!

Ecco che entrano in corsa gli amici, quelli veri, quelli che sanno che più dell’orologio o del borsellino Louis Vuitton (chissenefrega!) può una buona bottiglia del beneamato noir, fortuna mia li vuole, questi cari, superbi Amici di Bevute, sparsi qua e là nel mondo, o quantomeno capaci di girare (tanto e più di me) luoghi da vigne fantastiche o città dalle enoteche da sogno.

Alexander Valley Vineyards nasce nel 1962, quando vengono piantate nel vigneto le prime marze,  come consuetudine, di Cabernet Sauvignon, poi qualche anno più tardi, nel 1975 viene costruita la cantina e via via diversificato il vigneto. La storia ci consegna l’epopea di Cyrus Alexander che sarà in tutto e per tutto “deus es machina” di un successo rinnovato ogni anno ad ogni vendemmia nonché artefice promotore della denominazione che oggi porta in giro per il mondo con i vini dell’omonima azienda, passata nel frattempo nelle mani della famiglia Wetzel. Siamo in California, nella omonima AVA interna alla Sonoma County, per intenderci, ad una ventina di chilometri dalla vicina Napa Valley, senza dubbio una delle regioni viticole più famose al mondo.

Il vino è di un colore bellissimo, rubino con accenni tendenti al granato sull’unghia, trasparente ma non troppo. Il primo naso è intenso e particolarmente complesso, finissimo, franco, pare infinito. Si succedono profumi floreali e fruttati, poi speziati, balsamici, minerali: rosa e viola, lamponi e mora, cannella e liquirizia, grafite, un susseguirsi di sensazioni prima lievi, poi fragranti, ma per tutto il tempo costantemente presenti, non una semplice ascesa ma una persistenza nitida, un timbro olfattivo preciso, lineare, perfettamente integrato. In bocca è secco, certamente caldo e non fa niente per nascondere i suoi 14 gradi, acidità, tannino e glicerina fuse all’unisono, ma non si può dire certo ovattato, in poche parole, non è per niente “americanizzato”, il legno, rovere francese nuovo e di primo e secondo passaggio, è ben dosato, quasi impercettibile nella sua percezione gustativa, onestamente, un gran bel vino. Bevuto con altri Amici di Bevute alla tavola di Sud, un venerdì di passione, gourmet, con un piatto di Fettucce con coniglio alle olive nere e spolverati di mandorle: da applauso, entrambi ovviamente!

Nota a margine: negli Stati Uniti, sugli scaffali intorno ai 25 $, se non è questo un affare!

Leiwein, M.S.R.* Bockstein Riesling auslese 1990

8 febbraio 2010

Ladies and gentlemen heres to you… the Riesling! meriterebbe una presentazione da standing ovation questo Auslese di St. Urbanhof. Provo a riportarne la descrizione post emozionale , anche per la curiosa differenza notata nelle tre bottiglie assaggiate; Per la verità, la seconda era evidentemente di tappo, pertanto non rendicontata seppur al di là dell’evidente difetto olfattivo ha mostrato comunque un notevole spessore gustativo.

St Urbans-Hof Oekonomierat Nic. Weis (nome completo dell’azienda) è una cantina che si trova nel comune di Leiwen (siamo quindi nel Bereich Bernkastel) in Mosella, regione viticola in Germania, fondata nel 1957 da Nicolaus Oekonomierat Weis (1905-1971) che volle intitolare la tenuta al santo patrono dei produttori di vino, S. Urbano (Papa Urbano I). Ad oggi, l’azienda St. Urban-Hof conta un vigneto di circa 35 ettari in siti diversi dell’areale tra i quali lagen Bockstein (ad Ockfen), Goldtröpfchen (a Piesport, area vocatissima), Laurentiuslay (Leiwen), Saarfeilser Marienberg (Schoden) e Schlangengraben (Wiltingen, anche questo è un vigneto prestigioso). E’ inutile dire che il vigneto è perlopiù a Riesling con alcune eccezioni per il muller thurgau ed il pinot bianco.

Dopo diversi anni di attente sperimentazioni su alcuni cru aziendali dal 1999 qui vengono effettuate esclusivamente fermentazioni con lieviti naturali indigeni utilizzando regolarmente tini di acciaio o legno secondo le esigenze. Le bottiglie tutte dell’annata 1990 hanno in calce in etichetta una numerazione che riprende un pò l’idea del lotto di produzione; Ecco quelle da me assaggiate e delle quali riporto le degustazioni.

Bottiglia 2401219: Il primo approccio, la prima bottiglia di tre comprate per me da Vanni a Lucca da alcuni miei amici americani che conoscendo la mia passione, tra gli altri, anche per i riesling non hanno resistito a questa bellissima etichetta del 1990. Colore giallo oro cristallino, nessun cedimento al tempo, vivo, abbastanza consistente. Primo naso coinvolgente ma non troppo, per sentire tutto il suo “dire” l’abbiamo atteso per tempo, a temperatura moderatamente bassa. Menta piperita, fiori secchi, frutti esotici, stecca di vaniglia, miele, zucchero caramellato di assoluta finezza e con una persistenza abbastanza lunga. In bocca è dapprima abboccato, nessuna cedimento nemmeno in questa fase, poi si apre su di una una mineralità profonda ed elegantissima ricordandomi che il vino quando vuole ( e quando lo sanno interpretare) ha davvero un’anima inarrivabile. Bellissimo vino, bellissimo davvero. Da meditazione, da servire intorno ai 14 gradi in calici mediamente ampi, se proprio si vuole accostarlo a qualcosa da mangiare, beh, io c’ho provato con una caponatina estiva, tutto un dire, ma degustibus…

Bottiglia 2401342: ahimè è di tappo, per altro inizialmente mascherato dalla forte mineralità dei profumi di questo vino che hanno indotto Steve e Tammy a pensare non al difetto tanto odiato quanto ad una diversa evoluzione del vino. Ma era tappo, e la temperatura di servizio appena un pò più alta ha manifestato tutto il suo male. In bocca c’è da dire che era difficile scorgere difetti, è sembrato quasi più potente del precedente, più caldo con una sovraestrazione minerale ancora più incisiva e persistente.

Bottiglia 2401137: Colore ancora una volta inappellabile, bellissimo, oro splendente senza nessun segno di cedimento, abbastanza consistente nel bicchiere. Il naso, come e più di prima è ampio, finissimo, elegante, complesso e persistente. Qui la mineralità marcata ha sovrastato a lungo le sensazioni fruttate, eteree e speziate prima di lasciare il posto ad una sottile e piacevole rotondità mentolata. In bocca è fresco, profondamente godibile, pare masticare dolce acidità, è lungamente persistente.

*Mosel Saar Ruwer – nella foto una delle anse del fiume Mosella

Denver, Colorado Cabernet Franc 2001

30 dicembre 2009

Spero Winery nasce nel 1996 quando June, moglie di Clyde Spero eredita un piccolo appezzamento di terra proprio a ridosso di Denver. Si decide, piuttosto che costruire immobili, di piantare un vigneto con la prospettiva di mettere su, nel tempo, una vera e propria azienda vitivinicola, ripercorrendo in qualche modo le tracce storiche della tradizione familiare paterna. La prima vendemmia arriva nel 2000, ed ai primi assaggi, tutto fa pensare a che si sia fatto un gran bel lavoro. I vini base risultano di particolare pregio, le uve selezionate, perlopiù vitigni internazionali mostrano di avere fittezza di aromi e carattere da vendere, pertanto la via maestra è imboccata.

La storia della famiglia Spero è per certi versi la stessa di tante famiglie italiane che agli inizi del secolo scorso hanno lasciato il nostro paese in cerca di fortuna negli Stati Uniti; Tutto nasce da Gaetano Spero, originario di Potenza, che ha appena 13 anni quando assieme a due amici, anch’essi poco più che adolescenti sbarca a Nuova York, con appena 5 dollari in tasca. Inizia qui il lungo viaggio che lo porterà ad attraversare praticamente tutti gli stati confederati dall’east coast sino in Colorado, dove grazie all’aiuto di alcuni lontani parenti che l’avevano preceduto, riuscirà a trovare lavoro in una miniera di carbone. Come da manuale, con il passare degli anni sono tante le ricorrenze e le tradizioni attraverso le quali si cerca di conservare un forte legame con le proprie origini, e Gaetano, le sue origini vulturine le vuole conservare seriamente tanto che lo portano di anno in anno, tra le altre cose, a produrre, in proprio, discrete quantità di vino (da uve internazionali) per il consumo familiare. Fare vino è un’arte che sa bene come interpretare: scegliere le uve, valutarle, vinificarle nella giusta maniera vengono affrontati con una tale perizia e maestria tanto da dover in più di una occasione rifiutare interessanti proposte di avviare una seria commercializzazione avanzategli da diversi amici-rivenditori locali. Clyde Spero, non ha fatto altro, qualche anno più tardi, che riprendere le fila di questa tradizione e la bontà dei suoi vini ne sono oggi tangibile testimonianza.

Il Cabernet Franc (conosciuto in giro per il mondo anche con i nomi Bouchet, Breton, Carmenet, Grosse-Vidure) predilige ambienti pedoclimtici freddi, è una varietà apprezzatissima se vinificata in uvaggio, soprattutto con il cugino Cabernet Sauvignon, che tende generalmente a stemperarne molto le sue note varietali soprattutto erbacee e vegetali, che ne fanno per questo un vitigno poco ambìto alla lavorazione più o meno al 100% (fatte le dovute eccezioni, una su tutte il mitico Chateau Cheval Blanc di Saint Emilion che è, per gran parte, proprio Cabernet Franc).

Nel bicchiere un vino rosso rubino con unghia granata appena accennata, è vivace e per niente trasparente. Il primo naso è molto invitante, appare subito intenso e complesso, fine; subito note di frutti rossi e fiori secchi, si riconoscono su tutti, sentori caramellati di lampone e amarena, poi lavanda, noce di cocco, poi ancora note balsamiche di liquerizia, cuoio. In bocca è importante, materico, profondo: è secco, molto caldo, possiede discreta acidità e poco tannino, scorre via in una beva di corpo, quasi robusta, con un finale di buona sapidità ed armonia. Un vino quasi masticabile, dal finale dolcemente equlibrato e lungamente piacevole. Da servire, dopo un’attenta ossigenazione, in ampi calici di cristallo per esaltarne tutte le sfumature organolettiche, su piatti importanti, bolliti come “dio comanda” o maialino cotto a bassa temperatura, piatti insomma di buona grassezza e succulenza da vendere, anche con intense aromaticità.

Rochioli 2001, Pinot Noir californication

21 novembre 2009

California patria di chardonnay e terra eletta del cabernet sauvignon, ma anche terroir eccezionale, nella Russian River valley per il pinot noir. Siamo nel cuore della Sonoma County, lungo le sponde del fiume Russian che da il nome all’Ava (american viticultural area) che denomina questo superbo vino. Difficile pensare ad un Pinot Noir con questa materia estrattiva, e pensare che anche in Italia ci hanno provato in molti, aldilà dell’areale che molti vedono come maggiormente vocato nel nostro paese come l’altipiano di Mazzon, in Alto Adige: da Antinori a Castello della Sala al Gruppo Italiano Vini nella tenuta di Machiavelli nel cuore del Chianti Classico, Fontodi nella stessa Toscana piuttosto che Maurizio Zanella in Lombardia ma i risultati sono sempre stati poco entusiasmanti.

Il ragionamento di base è quasi sempre lo stesso, terreni più o meno avvicinabili per caratteristiche di natura e composizione simili, la scelta delle migliori marze spesso di origine borgognone, condizioni climatiche con non poche similitudini, esperienza da vendere dei vignerons ma ahimè il risultato non è mai stato così scontato come appare. Il Pinot Noir ha forse bisogno di qualcos’altro, forse di quell’alchimia che non è possibile prevedere, che non è assolutamente possibile creare artificialmente, replicare schiacciando magari un bottone: ecco, forse come nascono i grandi Pinot Noir!

Questo vino è sinceramente buonissimo, nasce come detto in una delle aree più vocate al mondo fuori dal vecchio mondo; Quando, nel 1938 la California è stata inondata di tagli bordolesi solo qui si è pensato di dare respiro al sogno di una eleganza senza la grassezza del Cabernet o la vivacità del Merlot puntando alla subliminazione del vitigno principe, quel Pinot Noir così complicato da decifrare ma tanto affascinate, così austero quanto generoso nel tempo, magari tanto da concedersi alla stessa maniera dei grandi Volnay, Musigny, Richebourg ecc…

Il vino si presenta con un bel colore rubino tendente al granato, soavemente trasparente e di media consistenza. Il primo naso è davvero affascinante, le note olfattive sono in piena elevazione, la bottiglia è aperta da parecchio e le sensazioni dapprima fruttate mature virano costantemente su note tostate, caramellate, speziate, animali sino a sfumature di terra e lievemente ferrose. In bocca è secco, caldo e di buona profondità gustativa. Un vino costantemente appagante. Chi ama non può che lasciarsi amare da questo vino, hai voglia di pensare agli abbinamenti, non vi è nulla che non possa subliminare il piacere di girare questo nettare nel bicchiere. Utile come accennato aprire la bottiglia un paio d’ore prima, da servire in ampi balloon ad una temperatura intorno ai 16 gradi.

© L’Arcante – riproduzione riservata


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