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Cinque vini che servono a Natale

8 dicembre 2020

Non è sempre necessario stilare una classifica di quali siano i vini migliori o i più buoni da servire in tavola durante le festività di Natale e l’ultimo dell’anno, ci sono però alcune etichette che si distinguono per qualità non senza una certa continuità anno dopo anno.

Non vogliamo però sottrarci alle consuetudini di questi giorni, ecco perché, spulciando tra le centinaia di bottiglie assaggiate durante quest’anno così particolare e le etichette passateci per mano per tutto il venti-venti proviamo lo stesso a suggerirvi cinque grandi vini che secondo noi potrebbero veramente salvare il Natale a molti, in giorni durante i quali tutti rincorrono la migliore bottiglia possibile da regalare o regalarsi.

Franciacorta Brut Dosaggio Zero 2015 Arcari+Danesi. Questo Dosaggio Zero dumeilaquindici, di cui si sono state prodotte circa 20.000 bottiglie, viene fuori da Chardonnay per il 90% e per la parte restante Pinot Bianco. In tutte le fasi di lavorazione dei vini base e delle cuvée qui si utilizza solo zucchero autoprodotto (sotto forma di mosto congelato), facendo a meno quindi dell’utilizzo di zuccheri esogeni come ad esempio saccarosio o mosti concentrati rettificati.

Nel calice ci arrivano bollicine fini, con un bel naso fragrante e ampio, integro e caratteristico: sa di agrumi, fiori gialli, un lieve ma gradevole accenno balsamico. Il sorso è fresco e gratificante, forse un po’ ”verde” per quanto ricordassimo delle precedenti uscite, rimane però gustoso, sapido, piacevole e di buona persistenza. Etichetta di sicuro approdo, per un’azienda in forte crescita di consensi, tutti ben meritati.

Da bersi praticamente sopra tutto, ideale per scaldare il cuore tra una chiacchiera e l’altra prima di accomodarsi a tavola, perfetto su crudi di mare e le varie immancabili tartine della cena della vigilia!

Vernaccia di San Gimignano 2018 Panizzi. Marchio storico e azienda toscana di grande prestigio. Il vino possiede un bel colore giallo paglia, ben luminoso. Il naso è fine, il profumo è delicato con sentori subito floreali e fruttati in primo piano, vi si colgono gelsomino, tiglio e mela golden, cui s’aggiungono un refolo balsamico e un sentore di polvere di pomice. Il sorso è decisamente asciutto, armonico, sapido, con un finale di bocca che sa lievemente di mandorla amara. Non è difficile immaginarne progressione e capacità di affinamento, possiede struttura, ampiezza e buona persistenza gustativa.

Di quei bianchi meravigliosi che potreste servire un po’ su tutto il menù della vigilia, perfetto con le paste con sughi di mare ma anche su fritti e pesce al forno.

Lazio igt Abbuoto Filari di San Raffaele 2018 Monti Cecubi. Una bella scoperta di quest’anno e una piacevole raccomandazione. L’Abbuoto di Monti Cecubi proviene dalle vigne di San Raffaele di Fondi, nel comune di Latina, nel basso Lazio, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre un vino intenso, fresco e particolarmente suggestivo, che abbiamo trovato veramente molto buono!

E’ un rosso di colore amaranto, pieno e vivace, con sentori di melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di caffè e cioccolato, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, 13% di alcol in volume in etichetta, ben misurato il passaggio in legno che consegna al palato un tannino vellutato, nessuna spigolatura, solo tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso.

Uno di quei rossi da bere alla giusta temperatura, intorno ai 14°, per goderselo appieno sul ricco pranzo di Natale, con gli antipasti di salumi e formaggi (anche freschi) ma anche pasta al ragù e secondi di carne con contorni caldi!

Primitivo di Manduria Es 2016 Gianfranco Fino. Per quanto bizzarro come nome, Es venne scelto perché rappresenta il principio freudiano del piacere della passione pura che fugge completamente alla ragione, l’istinto di ciò che è primordiale. Ed è proprio così che ci si avvicina a questo duemilasedici di Simona Natale e Gianfranco Fino, un piccolo capolavoro di concentrazione estrema, un rosso di grande pulizia olfattiva e di enorme fascino sensoriale: il colore è rubino vivace, fitto ed elegante, il naso è un trionfo di marasca sotto spirito, prugne in confettura, spezie dolci, polvere di cacao, il sorso è pieno, potente ma vellutato, di finissima tessitura acido tannica che ben riesce ad armonizzare il 16,5% di alcol in etichetta, non certo trascurabile.

E’ questa la grande bottiglia da mettere a tavola nelle ricorrenze speciali dei prossimi giorni, merita piatti all’altezza della migliore tradizione culinaria italiana.

Passito di Pantelleria Ben Ryé 2016 Donnafugata. Un grande classico sempre attuale! Ben Ryé duemilasedici ha un colore oro-ambra luminosissimo, di gran fascino. Il naso è davvero un portento, assai intenso e persistente, ne viene fuori un quadro aromatico ricco di note e sensazioni fruttate passite, di macchia mediterranea, con sfumature eteree particolarmente suggestive che ne arricchiscono il profilo olfattivo: vi si colgono albicocca e scorze d’arancia candita, garighe e miele, accenni di cipria. Il sorso è certamente dolce, intriso però di freschezza, di lunghissima persistenza e piacevolezza.

Naturalmente vocato agli abbinamenti con desserts dolci, dal Panettone Milanese ai biscotti di Prato sino ai Roccocò, alla Cassata siciliana, è però su alcuni formaggi (anche) erborinati che si misura alla grande in tutta la sua complessità.

Leggi anche Vini che servono a Natale Qui.

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Comfort Wines, Il Frappato 2017 di Arianna Occhipinti

11 marzo 2020

Si ritorna sempre ben volentieri su certe bottiglie, vale la pena farlo quando etichette come questa di Arianna Occhipinti, dimostrano progressivamente crescita e slancio, offrendo ogni volta, ad ogni nuovo millesimo, delle belle rappresentazioni varietali e territoriali.

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Il Frappato di Arianna Occhipinti entra così, in maniera prepotente, tra i nostri Comfort Wines. E’ un vino subito invitante quello della giovane e talentuosa vignaiola siciliana, sin dal bel colore rubino granato, luminoso e bello a vedersi; stuzzicante l’olfatto, intriso di tante piccole deliziose note e sfumature che vanno rincorrendosi chiare e coinvolgenti.

E’ un carnet lieve, floreale, fruttato e terragno, ci riconosci subito sentori di rosa e violetta, ”cerase” e prugna, ma ciò che convince maggiormente di questo vino è la sua capacità di farti ritornare, sorso dopo sorso, nuovamente al bicchiere per coglierne ancora i profumi che nel frattempo virano, risaltano, spaziano in lungo e in largo nel calice. Appena tannico, sui 12,5% in volume alcolico, ha sapore coinvolgente e appagante, punta dritto al cuore e alla pancia.

E’ insomma uno di quei vini che ci piace inserire dentro ”la lista del cuore”, dove ci vanno a finire piccole e grandi bottiglie che rappresentano un vero e proprio elogio della bevibilità¤, che non smettono di raccontarsi consegnandoci ogni volta qualcosa di nuovo, imperdibile, irripetibile.

Leggi anche Vittoria, il Frappato 2010 di Arianna Occhipinti Qui.

Leggi anche Vittoria, il Cerasuolo Grotte Alte 2006 di Arianna Occhipinti Qui.

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Comfort Wines, Passito di Pantelleria Ben Ryé 2016 Donnafugata

19 gennaio 2020

Un vino, ad ogni sorso, straordinariamente sorprendente! E’ bene dirlo subito, giusto per rendere chiara l’idea di quanto ci fa piacere lasciare traccia su queste pagine di questo vino, un po’ per noi ma anche per chi, non amando la tipologia oppure, più semplicemente, preferisce trascurarla, stia lì a pensarci ancora senza aver mai bevuto da questo calice.

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

E’ forse il vino passito per antonomasia il Ben Ryé di Donnafugata, di certo tra i più popolari tra gli appassionati, di grande successo commerciale nonché di critica, mai confondibile con i tanti altri vini passiti prodotti a Pantelleria, la culla più vocata d’Italia per la nascita di questi meravigliosi bianchi dolci.

Va riconosciuto all’azienda di aver lavorato sempre negli anni per far sì che lo Zibibbo di Pantelleria, questa etichetta, nonostante il considerevole successo di mercato, potesse rimanere estremamente fedele ad una precisa identità territoriale prima che produttiva, un grande vino grazie al quale potersi affacciare su un mondo che rimane ancora profondamente misconosciuto, certamente lontano dal blasone dei grandi Sauternes, o di alcuni storici nettari mitteleuropei, ma che non manca di fornire come in questo caso, ancora una volta, vette emozionali e picchi di piacevolezza di notevole valore.

Il varietale, originario del nord africa, si è poi velocemente diffuso nel bacino del Mediterraneo e in particolare qui a Pantelleria grazie all’intensa coltivazione nei territori conquistati al tempo dagli arabi come uva da tavola e da essiccare. Il nome Zibibbo infatti richiama l’arabo “Zabīb” che significa, appunto, uva secca. E’ proprio qui a Pantelleria, con il suo clima caldo, siccitoso e ventoso dell’isola siciliana di origine vulcanica che lo Zibibbo, allevato ad alberello, sembra trovare le condizioni ideali per dare uva con un patrimonio di zuccheri incredibile e in grado di dare vini di finissima tessitura ma anche capaci di sviluppare profumi ed aromi caratteristici e particolarmente complessi.

Ben Ryé duemilasedici ha un colore oro-ambra luminosissimo, di gran fascino. Il naso è davvero un portento, assai intenso e persistente, ne viene fuori un quadro aromatico ricco di note e sensazioni fruttate passite, di macchia mediterranea, con sfumature eteree particolarmente suggestive che ne arricchiscono il profilo olfattivo: vi si colgono albicocca e scorze d’arancia candita, garighe e miele, accenni di cipria. Il sorso è certamente dolce, intriso però di freschezza, di lunghissima persistenza e piacevolezza. Naturalmente vocato agli abbinamenti con desserts dolci, è su alcuni formaggi (anche) erborinati che si misura alla grande in tutta la sua complessità.

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Non è Natale senza bere bene, non è Natale senza le nostre dieci bottiglie (+1) da portare in tavola durante le feste

9 dicembre 2019

Salvare il Natale da bevute sconsiderate è possibile! Quante magre figure si rischiano, e quanti dubbi ci assalgono: avrò scelto bene? Gli piacerà? E…  c-o-s-a  c-i  a-b-b-i-n-o  m-a-i alla cena della vigilia? E a Natale?

Auguri di Natale 2019 - L'Arcante

Sono queste domandone dalle risposte critiche, tanto più quando si spendono cifre blu per pesci e carni che quasi sempre rischiano di rimanerci… sullo stomaco, tanto la colpa, si sa, andrà al vino “troppo acido o alcolico”; proviamo allora a stigmatizzare le paure e le fisime mettendo in riga dieci etichette – +1 -, provate durante tutto quest’anno e che, tra le tante, meriterebbero un posto a tavola durante le prossime festività natalizie.

Asprinio d’Aversa Spumante Extra Brut I Borboni. L’azienda di Lusciano, in provincia di Caserta, rimane un riferimento assoluto per la denominazione e da sempre in prima linea nel lavoro di salvaguardia della produzione di Asprinio. Di quanto siamo innamorati del varietale e di questa denominazione è ben noto, e fa piacere che il numero di produttori in campo si stia allargando sempre di più a si stia puntando soprattutto sulla qualità; riteniamo fondamentale inoltre che non si disperda il patrimonio di esperienze delle famiglie storiche presenti sul territorio, proprio come nel caso dei Numeroso, capaci di regalarci sempre, tra gli altri, uno Metodo Charmat lungo dalle bolle fini, un vino spumante dal quadro aromatico lieve ma suggestivo, dal sorso seducente e vivace da spendere a tavola a tutto pasto.

Spumante Metodo Classico Rosé Brut 50Mesi 2013 – Terrazze dell’EtnaL’azienda di Nino Bevilacqua è una splendida realtà di circa 40 ettari nel comune di Randazzo, più precisamente in località Bocca d’Orzo, sull’Etna, con vigne collocate tra i 650 e i 900 metri s.l.m.. Il Rosé Brut 50Mesi viene fuori da una cuvée di Pinot Nero al 90% e Nerello Mascalese per la restante parte a saldo. Ha una bellissima veste rosa tenue, è brillante e vivace, la spuma è densa e le bollicine sono abbastanza fini, il naso sa anzitutto di erbette, agrumi e piccoli frutti rossi, il sorso è asciutto, ben fresco, piacevolmente vibrante e coinvolgente. Dopo l’esordio di qualche anno fa, la strada tracciata appare davvero entusiasmante, provatelo con piccoli assaggi di mare.

Falanghina dei Campi Flegrei 2018 – La Sibilla. Un bianco terragno e autentico che profuma di terra vulcanica, dal sorso schietto e vibrante, capace di accompagnare degnamente tutta la cena della vigilia con tutte le sue prelibate preparazioni di mare fredde a calde; un calice appagante quello dei Di Meo, che torniamo a raccomandare non senza un pizzico di orgoglio per aver visto nascere, crescere, affermarsi una delle più belle realtà flegree che si appresta a mettere alle spalle i suoi primi 20 anni di straordinaria resilienza.

Falanghina del Sannio Serrocielo 2018 – Feudi di San GregorioSerrocielo nasce dalla migliori uve provenienti dai vigneti del Sannio – area tra le più vocate in Campania per il vitigno -, condizione questa che anche in presenza di annate particolarmente complesse, come ad esempio la  scorsa duemiladiciassette, consente di fare scelte importanti e mirate alla sola qualità. E’ questo un bianco democratico, capace di conquistare immediatamente gli appassionati alle prime armi e i palati più attenti ed esigenti. L’impronta olfattiva è graziosa, netta ed immediata, ha carattere tipicamente varietale e suggestivo di piacevoli sentori floreali e frutta a polpa bianca. Il sorso è asciutto e gradevole, rinfranca il palato ed accompagna con piacevole sostanza tutti i buoni piatti di mare della cucina delle feste.

Calabria igt Zibibbo Benvenuto 2017 – Cantine Benvenuto. E’ un bianco profumatissimo, insolito e per questo inconfondibile per il suo tratto aromatico e spiazzante, per il sorso secco e il corpo nerboruto. Va detto che a primo acchito non è un vino proprio semplice da abbinare a tavola ma vale la pena provarlo e raccontarlo, proprio durante queste festività perchè al naso diverte ed invita a giocare con i riconoscimenti (bergamotto, pesca, sandalo) e ogni sorso poi non lascia certo indifferenti, anche in questo caso si tratta di una pietra miliare da salvaguardare e consegnare in mani davvero appassionate.

Fiano di Avellino Clos d’Haut 2017 – Villa Diamante. Ma che bei vini provengono da questo pezzo d’Irpinia, sempre coinvolgenti, unici, straordinari! Dobbiamo dire di un duemiladiciassette piacevolissimo questo di Diamante Renna-Gaita, invitante e seducente al naso quanto caratterizzato da particolare freschezza, sapidità ed avvolgenza al palato. E’ incredibile quanto sia facile tirarvi fuori chiarissimi riconoscimenti di nespola ed albicocca, di solito un po’ forzati in certe degustazioni ma qui espressi in maniera quasi disarmante, così come i sentori di mango e ananas subito sospinti da gradevoli note balsamiche e fumé. Il sorso è franco, sapido, avvolgente, regala una bevuta decisamente ben al di sopra dei canoni di un’annata non proprio felicissima per la denominazione.

Penisola Sorrentina Gragnano Ottouve 2018 – Salvatore Martusciello. Non può assolutamente mancare sulle tavole di questi giorni di festa, a Natale soprattutto; il Gragnano è il vino della gioia e della spensieratezza, con quel suo colore porpora vivace, quella soffice corona di spuma evanescente, dal naso vinoso e sfacciatamente fruttato, conserva il sapore asciutto e ammiccante della tradizione popolare nobilitato dalla frutta rossa croccante, dal lampone e i ribes neri. E’ di prossima uscita l’annata duemiladiciannove ma la grande qualità in bottiglia non faccia temere una bottiglia dell’annata precedente, in questo momento ancor più succosa e polposa.

Chi ha vissuto e può raccontare a suo modo gli ultimi quindici/vent’anni di viticoltura nei Campi Flegrei sa bene che era necessario solo attendere e continuare a stimolare vignaioli e produttori nel fare meglio, il successo dei vini flegrei, presto o tardi, sarebbe arrivato; la distanza che li separava dal resto del mondo del vino, quel gap soprattutto di mentalità, certi difetti dei vini, originati soprattutto da una cattiva gestione del vigneto, della vinificazione o dell’affinamento, talvolta proposti addirittura come tipicità, sono stati per anni un fardello pesantissimo da portarsi dietro ma finalmente sono da considerarsi (quasi) del tutto superati. Ecco allora che non possono mancare anche due belle ”sorprese” di quest’anno da proporre soprattutto sulla ricca tavola del giorno di Natale.

Piedirosso Campi Flegrei 2017 – Cantine del Mare. Ne abbiamo scritto a lungo di Cantine del Mare e ne riscriviamo ancora volentieri oggi davanti a questo splendido Piedirosso. Il colore è rubino vivace, luminoso come fosse sacro fuoco, il naso è ancora timido, quasi sussurrato, con tanto ardore dentro, se ne coglie al palato tutta la velleità di farsi largo e lungo tra i suoi migliori pari, niente più legno, solo frutto: vibrante, polposo, teso. E’ ormai da qualche mese in bottiglia, praticamente a due anni dalla vendemmia, prontissimo per arrivare in tavola!

Piedirosso Campi Flegrei 2017 – Mario Portolano. Siamo a Toiano, in un’area periferica del comune di Pozzuoli, cuore della denominazione di origine controllata Campi Flegrei; anche qui il Piedirosso regna sovrano, sempre più sorprendente questo vino che si sta facendo apprezzare per le sue caratteristiche organolettiche uniche e rare che ne fanno uno dei rossi campani più ricercati e apprezzati negli ultimi anni. Anche qui vengono fuori vini di particolare carattere, e questo duemiladiciassette ne rappresenta forse una delle prime punte di eccellenza. Veste di un bel rubino dal tono gioviale, il naso è fitto e intriso di sensazioni floreali e fruttate dolci e invitanti, sa di violetta e piccoli frutti rossi, poi un accenno speziato, il frutto è carnoso, ben espresso, il sorso è gradevole e morbido e dal finale di bocca misurato e sapido.

Terre del Voltuno igt Casavecchia Centomoggia 2015 – Terre del Principe. Peppe Mancini e Manuela Piancastelli con il duemilaquindici ne hanno tirato fuori forse uno tra i migliori di sempre, capace di lasciare a bocca aperta tanto fragoroso è il frutto esaltato in maniera ineccepibile (anche) dal legno, dalla misura del suo impiego, capace di esaltare e affinare una grande materia viva. Ha un colore rubino-porpora e al naso è intenso, avvolgente, profuma anzitutto di more e mirtilli cui s’aggiungo per distacco spezie e balsami. Il sorso è pronunciato, fitto e saporito, tredici gradi di assoluto piacere per le papille gustative.

Champagne Blanc de Blancs – Alain Thiénot. E’ l’Asso di Cuori da giocare nel momento più opportuno durante le feste. Si tratta di un vino composto per l’80% di vini Riserva ai quali viene aggiunto un 20% di vini dell’annata. Stiamo parlando di Chardonnay provenienti dagli areali maggiormente vocati di Avize e Vertus sul versante sud della Cote des blancs e più a nord da Villers-Marmery, verso la Montagna di Reims, qui dove Alain Thiénot, da oltre 30 anni tira fuori grandi vini per le sue cuvée più prestigiose tra le quali il millesimato Vigne aux Gamins e l’assemblaggio di millesimati Cuvée Stanislas.

Uno Champagne davvero notevole, di colore giallo paglierino brillante, una volta nel bicchiere è subito invitante e coinvolgente, la spuma è delicatissima, le bolle fini e regolari, intense, persistenti. Al naso rivela immediatamente tutta la sua anima vivace e intrigante, vi si colgono sentori di agrumi di limone e pompelmo, caratteristiche note floreali e di pasticceria. Il sorso è asciutto e generoso, teso il giusto, con carbonica misurata e un finale di bocca freschissimo e sapido.

Detto questo, ci auguriamo che arrivino serene festività per tutti voi, Buon Natale e che l’anno che verrà possa essere, finalmente, un buon anno davvero!

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Il periodo Rosa

25 luglio 2019

Dal 1905 alla fine del 1906, successivamente il ”Periodo Blu”, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa, che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il “Periodo Rosa”. Il populismo amaro del Periodo Blu ha lasciato il posto a un mondo più idillico e sereno, ispirato prevalentemente alla vita del circo.

Acrobati, bambini, figure corpulente di clowns e di fragili ballerine si dispongono nei quadri di questo periodo con una grazia di balletto, ubbidendo a ritmi armoniosi che la lieve, elegante grafia asseconda e accentua, e il colore si avvale delle sfumature più tenere e chiare la cui dominante cromatica conserva sempre un valore decisamente emozionale.

Ecco, dopo tanto tribolare ci pare la volta buona anche per i vini rosati d’Italia che sembrano finalmente riscuotere il giusto gradimento da parte degli appassionati, dopo anni di oblìo trascorsi alla ricerca della ricetta giusta: ”territoriali e fin troppo corpulenti”, ”originali ma vetusti”, ”gustosi ma pesanti, finanche alcolici”, ”delicati e senza anima” sono solo alcune delle considerazioni più comuni che hanno accompagnato negli ultimi vent’anni i tanti tentativi di affermare un Think Pink made in Italy degno di nota ma che invero necessitava sicuramente di un po’ più di esperienza e che chi si cimentava ci credesse seriamente con una più giusta proiezione a lungo termine su certe varietà e produzioni.

Nelle ultime settimane ci sono capitate a tiro alcune bottiglie davvero originali, e senza per forza doverne fare una classifica di merito proviamo a suggerirne, tra queste, qualcuna molto interessante da portare in tavola in questo specifico periodo; restiamo convinti infatti che questa tipologia di vini abbia proprio nell’estate il suo momento clou e chi sa, o ha saputo ”leggere” bene la vocazione, l’originalità e la tradizione del proprio territorio come questi produttori, riesce a portare in bottiglia un vino rosato, fermo o spumante, di grande qualità e meritevole della vostra attenzione.

Valtènesi Chiaretto RosaMara 2018 Costaripa. Si ritorna sempre con grande piacere sui vini di Mattia Vezzola¤ prodotti sulla sponda di ponente del Lago di Garda, in provincia di Brescia. RosaMara nasce dall’uvaggio classico di questo lembo di terra dal clima mediterraneo, nel cuore della Valtènesi, dove si producono, sotto l’egida di questa nuova denominazione, sostanzialmente due varianti, Rosso e Chiaretto con le uve Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera. In questo caso ci troviamo di fronte a un Chiaretto dal colore delicato, invitante e dai profumi floreali intensi e persuasivi, dal sapore asciutto, inebriante, sapido. Pronto da bere, portatelo in tavola ben freddo come aperitivo, per accompagnare magari degli Spiedini con pomodori ciliegini e mozzarelline oppure con un ricercato Carpaccio di Branzino.

Cerasuolo d’Abruzzo Superiore Spelt 2018 La Valentina. Siamo a Spoltore, in provincia di Pescara, Abruzzo. Ottenuto dalle stesse uve Montepulciano d’Abruzzo di cui il Cerasuolo rimane una sua variante molto apprezzata, Spelt ha un gradevole colore ciliegia, profumi piacevolissimi di fiori e frutta rossa, sa di rosa e fragoline, ed ha sapore decisamente fruttato, dal sorso asciutto e un finale di bocca morbido e sapido. Provatelo ben fresco con gli Arrosticini oppure con Scamorza affumicata alla piastra e zucchine grigliate.

Spumante Metodo Classico Rosé Brut 50Mesi 2013 Terrazze dell’Etna. L’azienda di Nino Bevilacqua è una splendida realtà di circa 40 ettari nel comune di Randazzo, più precisamente in località Bocca d’Orzo, sull’Etna, con vigne collocate tra i 650 e i 900 metri s.l.m.. Il Rosé Brut 50 Mesi viene fuori da una cuvée di Pinot Nero al 90% e Nerello Mascalese per la restante parte a saldo. Ha una bellissima veste rosa tenue, è brillante e vivace, la spuma è densa e le bollicine sono abbastanza fini, il naso sa anzitutto di erbette, agrumi e piccoli frutti rossi, il sorso è asciutto, ben fresco, piacevolmente vibrante e coinvolgente. Dopo l’esordio di qualche anno fa, la strada tracciata appare davvero entusiasmante, provatelo con piccoli assaggi di mare, ad esempio con Cozze ripiene al forno oppure Gamberi in pastella con alghe di mare!  

Credits Dinamico2.

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In vacanza al sud, cinque vini bianchi d’amare questa estate

10 luglio 2019

Negli ultimi mesi non sono stati pochi i vini che abbiamo raccontato su queste pagine, ebbene, volendone tirare fuori una cinquina, tra i tanti buonissimi bianchi assaggiati, ci piace riproporvi alcune etichette come suggerimenti ”sicuri” per le vostre prossime bevute in vacanza, a cominciare da questi…

Falanghina Campi Flegrei 2017 Cantine del Mare. Non è più così difficile scegliere bene tra i buonissimi bianchi dei Campi Flegrei, sono ormai tanti i nomi ”sicuri” sui quali puntare ad occhi chiusi e qui, su questo pezzo di costa flegrea l’uva sembra davvero baciata da Dio, con la terra che sembra beneficiare di un microclima straordinario: il mare è lì, a due passi oltre la scarpata, la vigna gode dei venti che spazzano costanti il Canale di Procida che contribuiscono ad arieggiare il catino naturale intorno al quale insistono i terrazzamenti da dove nasce questo delizioso bianco di Alessandra e Gennaro Schiano, in questo momento in splendida forma. Un bianco da spendere a tavola sopra tutto!

Fiano di Avellino Clos d’Haut 2017 Villa Diamante. Dobbiamo dire di un duemiladiciassette piacevolissimo, invitante e seducente al naso quanto caratterizzato da particolare freschezza, sapidità ed avvolgenza al palato. E’ incredibile quanto sia facile tirarvi fuori chiarissimi riconoscimenti di nespola ed albicocca, di solito un po’ forzati in certe degustazioni ma qui espressi in maniera quasi disarmante, così come i sentori di mango e ananas subito sospinti da gradevoli note balsamiche e fumé. Il sorso è franco, sapido, avvolgente, regala una bevuta decisamente ben al di sopra dei canoni di un’annata non proprio felicissima per la denominazione. La memoria liquida di Antoine Gaita non smette mai di stupire, un bianco dal profilo ”nordico” proveniente dal sud che ci piace, l’Alta Irpinia! Da metterci vicino tanti piccoli assaggi di crudo, marinato e sott’olio di mare.

Calabria bianco Benvenuto Zibibbo 2017 Cantine Benvenuto. Virando ancor più verso sud, ecco un bianco profumatissimo, inconfondibile per il suo tratto aromatico e spiazzante per il sorso secco e il corpo nerboruto. Va detto che a primo acchito non è un vino proprio semplice da abbinare a tavola ma vale la pena provarlo e raccontarlo, al naso diverte ed invita a giocare con i riconoscimenti (bergamotto, pesca, sandalo)  ogni sorso poi non lascia certo indifferenti, magari una struttura alcolica meno pronunciata – il duemiladiciassette ha 14% in etichetta! – potrebbe aiutarlo ad incontrare maggiore apprezzamento tant’è rimane una pietra miliare da salvaguardare e consegnare in mani davvero appassionate. Non solo sul pesce alla brace, o un trancio di tonno scottato e aromatizzato ma anche con carni bianche e formaggi poco stagionati.

Terre Siciliane Grotta dell’Oro 2017 Hibiscus. Restiamo su questo straordinario varietale questa volta proveniente dall’isola di Ustica dove ogni anno si producono poco più di 13.000 bottiglie di vino, tra le quali questo delizioso bianco secco. Il Grotta dell’Oro 2017 è uno Zibibbo caratterizzato da uno splendido colore paglierino, ha un primo naso immediatamente gradevole, avvenente, richiama subito note dolci e ammiccanti, poi evoca sentori di agrume e fiori di zagara, di rosa ed erbette aromatiche. Il sorso è secco, scivola via asciutto ma sul finale di bocca ripropone quella dolce sensazione di moscato che tanto fa piacere al naso. Da servire freddo, anche freddissimo, da bere magari affacciati sul mare di Ustica che chissà forse per una volta, almeno una volta, volgendo lo sguardo all’orizzonte possa evocare solo buoni pensieri senza lasciare quel solito non so ché di amaro in bocca. Da aperitivo, o conversazione, tra un boccone e l’altro di fritto di pesce azzurro o gamberi in pastella.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2015. Siamo ad Orschwhir, nel sud dell’Alsazia. Questa è la prima annata vestita con la nuova bottiglia disegnata apposta per il Domaine Zusslin, non più una classica renana ma ispirata ad una borgognotta dal collo un po’ più allungato. Il duemilaquindici è buonissimo, un vero lusso per il palato, nel bicchiere il colore paglierino carico è splendido, luminoso, invitante. Il naso ha bisogno di tempo per aprirsi del tutto, dissolte le particolari sensazioni idrocarburiche viene fuori agrumato, floreale e speziato. Nessuna nota rimanda al legno grande utilizzato. Sa anzitutto di cedro e bergamotto, poi di fiori ed erbe di montagna. Il sorso è secco, teso e serrato, dal finale di bocca vibrante, asciutto e caldo. Semmai vi dovesse capitare a tiro una duemilatredici (in foto) non fatevela scappare. A tavola ci sta senza timori reverenziali, è uno di quei vini da scegliere al di là del cibo che si ha in mente di mangiare. 

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Il Cerasuolo di Vittoria 2017 di Planeta

16 marzo 2019

Ci sono vini rossi siciliani e poi c’è il Cerasuolo di Vittoria, un successo enorme per questa denominazione quasi del tutto misconosciuta sino a poco più di una quindicina di anni fa. Dopo il riconoscimento della docg, nel 2005, tutto il territorio ha vissuto un salto di notorietà straordinario proprio grazie all’arrivo in zona dei grandi nomi del vino siciliano, tra i quali la famiglia Planeta, qui dal 2001.

Cerasuolo di Vittoria 2017 Planeta - foto L'Arcante

I Planeta erano già annoverati tra i protagonisti del rinascimento del vino siciliano e in particolare Diego che a lungo aveva ricoperto un ruolo decisivo lavorando per altre aziende vitivinicole sino a quando, nel 1995, decide di fare impresa per conto proprio. Oggi, a distanza di quasi 25 anni l’azienda è una S.p.a. guidata dai cugini Francesca, Alessio e Santi Planeta.

L’azienda oggi conta 6 diverse tenute di proprietà in Sicilia, è presente a Sambuca di Sicilia, dove tutto è iniziato con la Tenuta Ulmo, poi a Menfi, Vittoria, Noto, Castiglione di Sicilia e Capo Milazzo, sono oltre 350 gli ettari gestiti con circa 98 ettari di uliveti collocati nella Tenuta Capparrina, vicino alle spiagge di Menfi.

Questo rosso nasce dalle campagne di Dorilli, a Vittoria, qui ci sono 34 ettari di terra rossa caratterizzati perlopiù da sabbie con un substrato di tufo, piantati con Nero d’Avola e Frappato. Vi si producono tre vini: un Frappato in purezza, il Cerasuolo di Vittoria Classico Dorilli e questo Cerasuolo, il primo ad essere messo in bottiglia qui da Nero d’Avola per il 60% e Frappato per la restante parte. Il timbro è di quelli invitanti, è un vino immediatamente riconoscibile, già il colore rubino-porpora dice tanto, trasparente, elegante, con il naso ciliegioso che sa anche di fragola e melograno; il sorso è subito seducente, secco ma godurioso, gradevole al palato, succoso, con il finale di bocca morbido. E’ un rosso che regala una gran bella bevuta!

Leggi anche Il Nero d’Avola Santa Cecilia 1999 di Planeta Qui.

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Messina, Faro 2015 Bonavita

12 dicembre 2018

I produttori di questa doc siciliana si contano perlopiù sulle dita di una mano, Giovanni Scarfone con i suoi 7 ettari di proprietà di cui due e mezzo vitati si è guadagnato negli ultimi 10 anni una posizione di primissimo livello con i suoi vini, annata dopo annata sempre precisi e pienamente espressivi del terroir messinese di provenienza.

L’areale del Faro doc si estende sulle colline e lungo le coste che si affacciano sullo Stretto di Messina, in un territorio ventilato, luminoso e particolarmente vocato per le varietà Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera prevalentemente utilizzate negli assemblaggi, alle quali eventualmente si possono aggiungere Nero d’Avola (Calabrese), Gaglioppo e Sangiovese, da soli o congiuntamente. I vini qui prodotti richiamano alla mente quelli del vicino comprensorio dell’Etna, sono forse talvolta meno profondi e complessi di questi ma hanno eleganza da vendere.

Il Faro di Bonavita viene fuori da una vigna ad alberello con alcuni ceppi che arrivano a 60 anni, piantata su suoli ricchi di argilla e tufi calcarei. Il vino matura generalmente per un anno e mezzo in tini troncoconici di rovere da 30 hl, poi una volta in bottiglia vi rimane almeno sei mesi prima di arrivare sul mercato.

Questo duemilaquindici è una gran bella versione, è stato davvero avvincente l’approccio al bicchiere poiché ci siamo ritrovati praticamente lanciati in una degustazione alla cieca e l’abbiamo colto quasi al primo colpo, così affascinante il colore, così franco e caratterizzato da toni scuri il naso, con sentori di prugna e nuances aromatiche di macchia mediterranea. E l’annata calda sembra non aver interferito in alcun modo con il taglio gustativo: il sorso è sottile e invitante, slanciato ed elegante, con un finale di bocca davvero saporito e appagante. Non una sorpresa, di grande soddisfazione!

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Ustica, Grotta dell’Oro 2017 Hibiscus

29 ottobre 2018

Hibiscus¤ è una bellissima realtà sull’Isola di Ustica di proprietà della famiglia Longo da tre generazioni, fu negli anni settanta che Nicola provò con tenacia a dare un futuro al vecchio palmento di famiglia ora destinato ad uno splendido agriturismo di circa 10 ettari pienamente immerso nella natura suggestiva isolana tra scenari brulli e coltivazioni verdeggianti.

Hibiscus 2017 Grotta dell'Oro - foto L'Arcante

Oggi l’azienda è nelle mani della figlia Margherita e del suo compagno Vito che proseguono con risolutezza la conservazione di un pezzo di territorio unico qui a Ustica, luogo che ci rievoca immediatamente una ferita ancora aperta nella storia del nostro paese ma che in fondo non ha mai smesso un giorno di continuare a vivere nella normalità più assoluta, secondo cultura, tradizioni ed origini qui assolutamente ben radicate.

Tutto avviene tra le Contrade Spalmatore e Tramontana, qui la terra è di origine vulcanica, di medio impasto, composta perlopiù da argilla e sabbie, i vari appezzamenti sono praticamente tutti affacciati sul mare che da qui dista non più di 200 metri, oltre una complessa cintura di muretti a secco tirati su con gran fatica, un po’ per rendere i terreni meglio coltivabili, un po’ per difenderne le colture a mo’ di frangivento.

Dono prezioso di questa terra sono ad esempio le lenticchie di Ustica Presidio Slow Food®. Mentre nei tre ettari di vigneto a guyot sono piantate perlopiù varietà autoctone siciliane: catarratto, grillo, inzolia e zibibbo che danno vita a tre vini bianchi tipicamante usticesi, profumati, sottili, sapidi; mentre il nero d’Avola, con il merlot, danno vita all’unico rosso aziendale. Stiamo parlando di viticoltura isolana, che desta sempre grande fascino e suggestione, alle prese con mille difficoltà come abbiamo imparato nei numerosi passaggi a Capri¤ e sull’isola di Ponza¤, dove i vini sono necessariamente caratterizzati da una sorta di irripetibilità che li rende praticamente unici. Ustica non è da meno, non a caso Hibiscus è l’unica cantina a vinificare sull’Isola grazie ad una lenta e graduale modernizzazione della cantina avviata a fine anni ’90.

Sono poco più di di 13.000 le bottiglie prodotte tra le quali questo delizioso vino bianco secco da uve Zibibbo. Il Grotta dell’Oro 2017 è caratterizzato da uno splendido colore paglierino, ha un primo naso immediatamente gradevole, avvenente, richiama subito note dolci e ammiccanti, poi evoca sentori di agrume e fiori di zagara, di rosa ed erbette aromatiche. Il sorso è secco, scivola via asciutto ma sul finale di bocca ripropone quella dolce sensazione di moscato che tanto fa piacere al naso. Da servire freddo, anche freddissimo, da bere magari affacciati sul mare di Ustica che chissà forse per una volta, almeno una volta, volgendo lo sguardo all’orizzonte possa evocare solo buoni pensieri senza lasciare quel solito non so ché di amaro in bocca.  

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Bronte, Vinujancu 2012 I Custodi dell’Etna

2 febbraio 2015

L’Etna conserva grande fascino e continua ad essere al centro di molte attenzioni tra gli appassionati, e sembra giocarsi, nel bene e nel male, le sue migliori carte.

Vino da tavola Vinujancu 2012 I Custodi - foto A. Di Costanzo

Un successo probabilmente ancora poco conosciuto al grande pubblico ma questo, forse, non è proprio un male visto come sono andate a finire le cose in Sicilia col nero d’Avola. Chi sa bere e sa cogliere le giuste suggestioni in vini così unici e profondi certe emozioni non le dimentica facilmente.

Anche per questo mi è piaciuto tanto il Vinujancu 2012 de I Custodi dell’Etna, un bianco avvenente, slanciato ed agile, fresco e sbarazzino, pronto da bere nonostante il dna dall’impronta vulcanica. Viene prodotto a Bronte, pochi filari, poco meno di mezzo ettaro piantato nel 2005 ad alberello etneo a circa 1200 mt s.l.m. sul versante nord-ovest del vulcano, da carricante, riesling renano, grecanico e minnella. Poche bottiglie che vale la pena andarsi a cercare.

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Il nero d’Avola è morto, il nero d’Avola è vivo. Il Santa Cecilia 1999 di Planeta ci dice qualcosa…

10 settembre 2014

I ricordi vanno ai primi anni del duemila, di nero d’Avola ne erano già piene le enoteche ed i ristoranti, sulle riviste specializzate otto pagine di pubblicità su dieci erano appannaggio di aziende siciliane. Un fenomeno in piena espansione, un’inarrestabile successo del vino italiano.

Sicilia rosso Santa cecilia 1999 Planeta - foto A. Di Costanzo

Così gli anni a seguire. L’Italia e il mondo avevano riscoperto il piacere di bere vino tutti i giorni, fioccavano i Wine Bar, non ve n’era uno che non ne offrisse almeno un paio al calice. Mettici che il nero d’Avola a dispetto dei ben più noti vini italiani presenti anche nei supermercati riusciva ad offrire una così vasta fascia di prezzi che il gradimento popolare era assoluto. C’era di che godere già a tremila lire. Sotto le sei/settemila lire ti portavi a casa un successo assicurato, con dieci/dodicimila lire ti prendevi, anche al supermercato, il top di gamma. A cena con gli amici non sbagliavi un colpo, quando toccava a te portare il vino con una bottiglia di queste o Cusumano, Morgante, Donnafugata – giusto per citarne qualcun’altra – facevi cappotto garantito!

E con l’euro, parlo dei primi due-tre anni, il cambio rimaneva comunque favorevole. Poi però alcune cose sono cambiate repentinamente: il peso della crisi, i consumi del vino in Italia sono continuati a scendere, la gente ha cominciato a guardare al vino con un approccio un po’ più snob, l’avvento del web ed il vino che diviene faccenda seria (faccino preoccupato), per espertoni insomma; nel frattempo un po’ tutti sono diventati sommelier in cerca di durezze, acidità, lenta maturazione e ‘solo vini bioqualchecosa’ così il nero d’Avola ha finito per perdere appeal proprio là in quella fascia di consumatori ‘trendy¤’ che l’aveva lanciato nell’olimpo del vino italiano per almeno una decina di anni.

Certo taluni produttori c’hanno messo del loro proponendo vini per tutte le stagioni, alcune promo in certi momenti dell’anno erano una martellata sui denti più che un aiutino commerciale. Tant’è, un po’ tentando la fortuna, un poco l’azzardo, soprattutto all’estero, alcuni hanno subìto il tracollo finendo per scomparire letteralmente dalle cronache enoiche rimanendo da soli col cerino in mano e con la cantina piena.

Ma effettivamente cosa si sa di questo splendido varietale siciliano? Si siciliano, sfatiamo anzitutto il luogo comune che si tratti di un vitigno di origine calabrese come erroneamente riportato da molti. Si sa che già nel 1500 vi è notizia di un vino detto calavrisi, ‘coltivato nell’agro di Catania, vino fatto con uve dall’acino rotondo’. Ma calavrisi, poi italianizzato in calabrese non dice correttamente delle sue origini. Tracce sull’evoluzione linguistica locale conducono a che certe uve venute da Avola, che oggi sono conosciute come nero d’Avola appunto, si diceva fossero scese da Avola, cioè ‘calate da Avola’, quindi: Calau Avulisi, divenuto poi Calaurisi e nei passi successivi Calavrisi, Calabrisi, Calabrese. Quindi dal vitigno originario da Avola, diviene nei secoli calabrese, per semplice assonanza, tipica dell’evoluzione linguistica.

Retro Santa Cecilia 1999 Planeta - foto L'Arcante

Il vitigno viene considerato particolarmente adatto all’invecchiamento, un riscontro potremmo averlo solo nei prossimi anni quando si cominceranno a stappare – con una certa continuità – bottiglie di 15/20 anni. Un po’ come si auguravano i Planeta nelle loro prime retro del Santa Cecilia, quando avvicinavano con un certo moto di orgoglio il nero d’Avola ai ben più noti nebbiolo e sangiovese (Barolo e Brunello, ndr). Eppure la sua tipicità che lo rende da sempre facilmente riconoscibile rimane la sua giovane freschezza, che non vuol dire ‘d’annata’, sia chiaro, ma riconducibile a vini dal colore rosso sempre molto pronunciato immediatamente riconoscibili, invitanti, suggestivi, che sanno di frutta rossa (prugna e mora), che hanno sì toni balsamici ma tannini morbidi, dolci si dice.

Poi certo c’è la prova del tempo, e andiamoci allora indietro negli anni. E cominciamo proprio con una delle più apprezzate etichette in giro, il Santa Cecilia dei Planeta¤, vino che nasce proprio nelle terre storicamente riconosciute tra le più vocate per il nero d’Avola in Sicilia, tra i comuni di Noto e Pachino nel siracusano. Qui nel 1998 la famiglia Planeta comprò la Tenuta Buonivini¤, 51 ettari tutti votati al nero d’Avola e il moscato bianco. Qui, per dire, nasce il Santa Cecilia ed il loro Moscato di Noto (dolce e passito).

Tenuta Buonivini Planeta - foto Planeta.it

Terreni bianchi, perlopiù calcarei, con frazioni di scheletro abbondante e di piccole dimensioni, una tessitura fine con frazioni argillose anch’esse di colore chiaro. Impianti fitti manco a dirlo, tanta selezione in vigna ed una cantina più che all’altezza.

La ’99 è stata la terza annata prodotta di questo vino. Diciamo subito che siamo di fronte ad una splendida bottiglia, il sughero è perfetto, nessun cedimento, il colore rubino è cangiante, appena più sfumato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è allettante e suggestivo, un baule di esperienze vissute: è preciso e minuzioso di frutta e aromi balsamici, di un floreale passito e spezie fini; sa di composta di prugna e ciliegia, mirto, cioccolato, polvere di caffè. Il sorso è caldo, avvolgente, polputo, ha ancora tanta roba per deliziare il palato; non sorprenda la bontà del sorso nonchè la piacevolissima bevibilità, un piacere atteso quindici anni come nulla (o quasi) fosse cambiato. Il nero d’Avola di Planeta è decisamente vivo!

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E poi c’è lo Chardonnay 2011 Tasca d’Almerita…

7 febbraio 2014

Dimenticate l’opulenza e la burrosita’ di certe uscite passate, se avete voglia di bere uno chardonnay che abbia tensione e sostanza questo qui di Tasca d’Almerita rimane tra le ultime migliori espressioni del varietale trapiantato un Italia.

Chardonnay 2011 Tasca d'Almerita - foto A. Di Costanzo

Spesso additato, odiato dai più, non è che lo chardonnay se la passi un gran bene nell’indice di gradimento della critica più attenta, eppure fuori dal nostro paese i più grandi vini bianchi in circolazione nel mondo continuano ad essere in larga parte a base proprio di chardonnay.

Che poi, presi dalle infinite discussioni su vocazione, legni, affinamenti, sommersi da luoghi comuni e banalizzazioni delle più esotiche, in fondo si conosce veramente ben poco dei tratti distintivi di un vino che più di tutti ha sconvolto gli equilibri colturali nel mondo.

Ha un bellissimo colore oro questo 2011, un naso subito avvincente, verticale ed intrigante. Le prime sensazioni sono di buccia di limone, narciso ma anche ananas, che si fanno dopo un po’ più complesse, gessose quasi, e salmastre. Il sorso è gustoso, sostenuto, ben lontano, manco a dirlo, da certi stereotipi stucchevoli come talvolta capita di riscontrare in certe interpretazioni. A dirla tutta lo metto appena una spanna sotto il 2010 che ricordo un tantino più vibrante anche se questo appare più compiuto.

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Contea di Sclafani Rosso del Conte 2007 Tasca d’Almerita, o di un viaggio lungo quasi 40 anni!

4 marzo 2013

E’ curioso come un vino possa praticamente da solo rappresentare la storia degli ultimi 40 anni di tutta un’azienda, ancor più quando questa è tra le più rappresentative di un territorio, la Sicilia, al centro di un vero e proprio moto rivoluzionario negli ultimi anni in tema vitivinicolo.

Contea di Sclafani Rosso del Conte 2007 Tasca d'Almerita - foto A. Di Costanzo

Quel vino è il Rosso del Conte. Ciò che oggi ritorna nel bicchiere passa infatti attraverso le tante tappe vissute in Tasca d’Almerita. Un vino sicuramente tra i più conosciuti tra quelli siciliani eppure tra i più controversi e discussi per il continuo cambiar pelle negli anni da quando, nel 1970, fu pensato come fiore all’occhiello della produzione a Regaleali, la Riserva del Conte, per dare valore aggiunto alle splendide vigne ad alberello di nero d’Avola di San Lucio, cui s’aggiunsero negli anni quelle di Cordicella , Girato, Cozzo Ginestre, Piana Gelso e Rossi.

Numerose le evoluzioni, quindi, dalle uve messe in bottiglia ai diversi accorgimenti sull’affinamento; non a caso, a detta dei più fortunati, una verticale di Rosso del Conte, diciamo pure solo di quindici/venti annate, più che raccontare il vino in se è capace di raccontare tutto quanto successo in azienda, se non in Sicilia, negli ultimi 40 anni: dai primi timidi passi da protagonista del nero d’Avola sul mercato degli anni settanta all’introduzione massiva sull’isola dei cosiddetti vitigni internazionali, sino all’odierna riscoperta degli autoctoni isolani, perricone tra tutti. Per non parlare poi di quanto fatto e disfatto coi legni di vario genere e sperimentazioni in cantina.

Ma veniamo a questo 2007. Bello il colore rubino porpora vivace e profondo. Naso invitante, che sa di confettura di prugna e frutti neri, balsami e liquerizia, con un richiamo finissimo di arancia rossa. Il sorso ha respiro e tanta sostanza: è secco, fluido e avvolgente, solo sul finale di bocca chiude appena dolce. Conserva tannini ben integrati, che graffiano un po’ meno ad esempio rispetto al sontuoso 2006, ha buona spalla alcolica ma non è ingombrante, sicché se ne giova la beva che rimane sostenuta e piacevole ad ogni sorso. Un Rosso del Conte di immediata bellezza.

Vittoria, Il Frappato 2010 di Arianna Occhipinti

21 gennaio 2013

Ritorno sempre volentieri su certe bottiglie, così come vale la pena fare quando delle etichette continuano un progressivo slancio in avanti offrendo ogni volta, ad ogni nuovo millesimo nuove e stimolanti indicazioni sul varietale ma soprattutto sulla crescita della qualità del lavoro messo in campo da tutta un’azienda.

Sicilia Il Frappato 2010 Arianna Occhipinti - foto L'Arcante

Non v’è dubbio che il frappato sia da sempre un vitigno assai nelle mie corde. Dona di sovente vini estremamente riconoscibili, freschi e quando lavorati nella giusta dimensione – senza sovrastrutture inutili -, dotati di una identità molto precisa, un’impronta territoriale davvero inconfondibile. Tra l’altro di grande duttilità a tavola riuscendo, talvolta a mani basse, in quello che molti azzardano come un matrimonio infelice, coniugare cioè abbinamenti di pesce ai vini rossi. 

Di Occhipinti rimane ancora insuperato il vivo richiamo allo splendido Grotte Alte ‘06¤, il suo Cerasuolo di Vittoria – parte frappato e parte nero d’Avola – che tanto mi è piaciuto ad ogni riassaggio durante tutto l’anno scorso. Ma il salto di qualità Arianna sembra averlo fatto definitivamente su tutta la sua linea produttiva; sono infatti ormai lontanissimi quei suoi vini degli esordi, sicuramente sinceri, veri anche, ma sempre un po’ troppo imprecisi per coglierne a pieno la bontà. Senza dubbio un cambio di marcia riuscitissimo, e questo vino, Il Frappato 2010, ne dà piena testimonianza. Un vino che qualcuno potrebbe far suonare come uno squillo d’avanguardia ma che io mi permetto di sottolineare come un piccolo gioiello di modernità. 

E’ subito molto invitante, sin dal bel colore rubino granato. Stuzzicante l’olfatto, curioso e sovrapposto, non appena ci metti il naso dentro ti si apre un mondo: certo è floreale, riconosci subito quei sentori di rosa e violetta, come pura didattica appaiono la ciliegia e la prugna, ma ciò che colpisce di questo vino è la sua capacità di farti ritornare, sorso dopo sorso, a dare attenzione ai profumi che nel frattempo virano, risaltano, spaziano in lungo e in largo ad ogni approccio.

Succede così di sentirlo un po’ incipriato, poi belloccio e facile ma anche che pizzica di noce moscata e chiodi di garofano, un continuo rimando a qualcosa di nuovo puntualmente rinfrescato da copiosi sorsi dal timbro gustativo appena tannico, molto poco alcolico, dritto e circoscritto ad una sana godibilità.

Pantelleria, Entelechia ’03 della Tenuta Rekale

6 Maggio 2012

Entelechia, per dirla con Aristotele, è la sostanza che ha perfettamente attuato tutte le sue potenzialità. Bicchiere alla mano, mai nome per un vino fu più azzeccato.

Non v’è molto da aggiungere sull’origine e la produzione del vino, che in fin dei conti richiama una tradizione ormai secolare a Pantelleria, un rito davvero unico. Ma anche del territorio isolano, ormai conosciutissimo ai più e passato ai raggi x in ogni suo minimo anfratto, si è già raccontato il lungo e in largo; i valori assoluti rimangono quelli di sempre: il particolare microclima, la maniacale ricerca della purezza da parte dei vignaioli panteschi nonché l’anima preziosa di un vitigno generoso e tanto trasversale come solo il moscato d’Alessandria, alias zibibbo, sa essere. 

Magari val bene spendere due righe, appena due, sull’azienda; quella Miceli che nonostante le mille e più difficoltà ed il continuo peregrinare nel rinnovamento degli ultimi anni, almeno sui vini della splendida Tenuta Rekale a Pantelleria non ha mai smesso di garantire investimenti e qualità assoluta, talvolta inarrivabile. Così mentre l’Yrnm, sin dalla sua vendemmia nel 1998 continua a rimanere l’unico riferimento seriamente attendibile del moscato secco, l’Entelechia è, assieme a pochissimi altri sull’isola, quel “nec plus ultra” imperdibile della denominazione in versione dolce. 

E’ puro nettare quindi, e si intuisce sin da subito. Il colore ha certamente perso un poco di smalto, e brillantezza, nove anni sono in verità sempre nove anni anche per un campione della meditazione come questo. Adesso il timbro è quasi “ruggine”, rimane però il fascino delle sfumature ancora ambra sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco e finissimo ed offre un ventaglio di aromi e sentori preziosissimi. C’è il varietale, con quella sferzata di agrumi canditi e albicocca secca, ma c’è molto di più: frutta secca, cioccolato fondente, caramella d’orzo, chiodi di garofano, liquirizia. Ricchezza e concentrazione di aromi sostenuti da un sorso pieno e vellutato, naturalmente dolce, mieloso eppure non affatto stucchevole grazie anche alle sfumature accorse grazie alla lenta maturazione in legno e gli ultimi anni in bottiglia. Diciamo pure però che l’abbiamo “preso per i capelli” come si suol dire, da bersi subito quindi, mo’ mo’!

Vittoria, Cerasuolo Grotte Alte 2006 Occhipinti

13 febbraio 2012

Premessa: Barbaresco ’82 Gaja, Barolo Riserva ’82 Borgogno, Hermitage La Chapelle ’88 Jaboulet Ainé, Barolo Riserva Gran Bussia ’99, Taurasi Riserva Centotrenta ’99 Mastroberardino, Chianti Classico Giorgio I ‘01 e ’09 La Massa, Barbaresco ’02 La Spinetta, Chianti Classico Le Trame ‘05 Giovanna Morganti. E’ chiaro che in qualche modo bisognava rinfrescare il palato, sollazzare le papille, avrà pensato Nando…

Ce lo siamo detti subito, l’ho detto appena nel bicchiere: è davvero un rosso sorprendente questo Grotte Alte 2006. Del resto il nero d’Avola e il frappato sanno parlare direttamente all’anima quando ben fusi, espressivi, puliti, chiari come in questo caso, beccati, alla cieca, praticamente al primo naso, al primo sorso. Non che sia così difficile, ma qui lo cogli subito il felice tratto olfattivo, il sottile piacere della beva; e poi, molto poi riesci anche a leggerne la sfera ideologica, intima quasi di chi l’ha pensato, cullato, messo in bottiglia. Certo si dovrebbe dire che questo Cerasuolo di Vittoria è anzitutto sano: sicuramente, ma conosciamo bene, sin dai suoi primi passi, la lettera-manifesto di Arianna Occhipinti a Gino Veronelli. Ma poi?Ecco, questo vino è soprattutto bello, e poi buono: bello nel vero senso della parola, vestito di porpora, luminoso, pieno di vivacità, quella che t’aspetti, desideri da una terra solare come la Sicilia. E poi, come detto, è buono, franco, e ha freschezza da vendere: è asciutto, saporito, mediterraneo, ci senti per esempio l’arancia rossa, e quell’acidità, quella sostanza che ricerchi da sempre nei vini di queste parti. Per troppo tempo vanamente. Una sostanza, detto fuori dai denti, mai colta prima d’ora così chiaramente in un vino di Arianna. Nulla o quasi a che vedere con le antiche velature, quelle fastidiosissime volatili alte, quelle variopinte ‘imprecisioni’ talvota sottolineate, maldestramente direi – e per la verità più da certi soloni che scrivono di vino che dalla stessa produttrice, precisiamo -, come ‘espressioni concettuali’ ma che in verità, più semplicemente, disvelavano svarioni tecnici e, se vogliamo, ancora una giovane fattiva esperienza sul campo.

Bene, e meglio quindi. Ma che la musica stesse davvero cambiando da queste parti era evidente già nelle ultime uscite dei cosiddetti secondi vini, l’SP68 e il Siccagno 2008 per esempio (ma anche Il Frappato 2009) ‘dicevano’ chiaramente che si cominciava a suonare con spartiti più chiari e, finalmente, leggibili; e l’uscita di questo splendido Cerasuolo non fa che confermarlo. Adesso però speriamo che certi ‘pipponi’ non se la prendano a male…

Chiaramonte Gulfi, Nerojbleo 2007 Gulfi

1 febbraio 2012

Quando ti passano migliaia di bottiglie l’anno tra le mani potresti certamente vantarti quantomeno di vederne tante, e “darla a bere” come e quando vuoi. Però va da se che oltre il banale esercizio di autocelebrazione – niente male, no? – ciò che fa la differenza, sempre, non è tanto il numero quanto la qualità delle bottiglie che maneggi, che decidi poi di raccontare, e che, soprattutto, trovano conferme.

Non so se l’avete già dimenticato, ma c’è stato un momento, più o meno una decina di anni fa, che vide il nero d’Avola sbancare ovunque. Un successo incredibile, tale che a Napoli, come a Milano o Roma, per qualche anno in tutte le Osterie, Winebar ma anche nei ristoranti di rango, non si beveva altro, sempre e solo “nero siciliano”, fiumi di nero d’Avola, dai 3 ai 5 euro al litro, dai 2 agli 8 a calice, dai 10 ai 50 euro a bottiglia e, chiaramente, per vini non sempre all’altezza. Ma tant’è che si vendeva.

Un fenomeno inarrestabile, che appariva impossibile, ma tale era il successo di questo vino che dal niente, ogni anno, dalla Trinacria, venivano fuori aziende come funghi; e aziende venete, per dirne una, invece di continuare a comprarlo sfuso – per “tagliare” per esempio i loro Valpolicella, se non certi Amarone -, odorando l’affare, si industriarono subito per etichettarlo così com’era, made in Sicily, investendo talvolta direttamente sull’isola acquisendo marchi se non intere tenute agricole. E tale era il successo di questo vino che addirittura pure certe aziende campane – cose mai viste prima, o quasi -, per vendere per esempio Taurasi, non battevano ciglio alle richieste di importatori americani o di Singapore che chiedevano di ricevere con l’austero e fine aglianico irpino anche una o due pedanine di nero d’Avola. “No problem, my friends. Il confine del resto è un pezzetto di mare, è comunque south Italy!”.

Poi, come accade alla fine di un incanto, tutto s’è ridimensionato, lentamente fermato, sino a inchiodarsi. La colpa? Si certo, la crisi, il mercato, la legge dell’imponderabile. Ma più hanno potuto l’incoscienza, la cabernetizzazione o merlotizzazione che si voglia, e soprattutto una mal celata incapacità di dare subito a questo vino una propria identità precisa, un profilo autentico, un’anima, che non fosse solo il fascino di “una botta e via”, replicato a mo’ di bevanda, un semplice ingrediente, quasi con la stessa inerzia con la quale si produce cola. Ciò che in effetti pare riproporsi, se qualcuno non se ne fosse già accorto, sempre in Sicilia, pur con dimensioni (al momento) ridotte, con questa storia dei vini dell’Etna in salsa bourguignonne.

Ma tutto questo bailamme avrà pure avuto un senso? Certo che sì. Anzitutto ha contribuito a un rilancio della viticoltura siciliana, una rinascita, se così la vogliamo chiamare, auspicata e sentita, dove ognuno, nel bene e nel male, ha avuto modo di esprimere la propria idea di vino. E naturalmente poi, il suo destino.

Detto ciò ritorno volentieri su Gulfi e i vini di Salvo Foti, e l’occasione, imperdibile, è  questa bella bottiglia di rosso, indubbiamente una delle più autentiche facce del nero d’Avola di queste terre, della Val Canzeria, a Chiaramonte Gulfi. Il Nerojbleo 2007 si fa qui, su 4 ettari di vigna con esposizione est-ovest e una densità di impianto che quasi da sola suggerisce come la famiglia Catania ha ben inteso il suo impegno nel vino: circa 9.000 (!) le viti piantate per un ettaro, con il risultato, in vendemmia, di appena una manciata di grappoli per ceppo. Il colore è materia viva, di un rubino vivace con ancora con nuances porpora sull’unghia del bicchiere. Il timbro olfattivo è immediato, affascinante, subito intrigante: vinoso, balsamico, di respiro mediterraneo. Il primo naso suggerisce piccoli frutti come mirtillo e ribes nero; ma si aggregano anche note di arancia rossa e delicate sensazioni di erbe officinali, un sottile speziato e una distinta nota iodata, quasi salmastra. Il sorso è asciutto e mai pesante, tutt’altro: il vino entra in bocca succoso, con nerbo acido ben teso e un tannino praticamente diluito; avvincente il finale di bocca, lungo e piacevolmente sapido.

Sclafani Bagni, Nozze d’Oro ’10 Tasca d’Almerita

6 gennaio 2012

Un claim che ha fatto storia recitava: “quante storie può raccontare un vino? Talvolta una storia d’amore lunga 50 anni…”. Beh, non fa una grinza.

Quella con in etichetta il 2010 è la ventiseiesima edizione di questo storico bianco siciliano, uno di quei vini con il quale sei sempre sicuro di fare centro. Più di un quarto di secolo di storia a testimonianza di una bontà lanciata sul mercato per celebrare le nozze d’oro, appunto, del conte Giuseppe Tasca d’Almerita con la sua signora; era il 1984, poteva sembrare una delle tante trovate estemporanee che talvolta, a certi livelli, accadono. Era invece l’inizio di un sodalizio forte, sempre più rappresentativo e che oggi racconta candidamente un piccolo pezzo di preziosa storia enologica isolana. E lo fa con la stessa grazia a tutto il mondo.

Ho la fortuna di conoscere piuttosto bene l’azienda, e di certo nonostante le tante referenze, non sono pochi i vini che si possono tranquillamente raccomandare. Il Nozze d’Oro però è una garanzia assoluta, e quando così ben interpretato, così espressivo, vale assolutamente la pena non perderselo. C’è spesso stata confusione sulla sua composizione varietale, nonostante l’azienda si ostinasse a definirne un profilo del tutto autoctono, pur se a molti di difficile lettura. Certo che con gli anni, ormai, si parla tranquillamente di varietà Tasca, quella originale selezione clonale di sauvignon blanc arrivata li a Regaleali nel dopoguerra e perfettamente adattatasi al terroir e al microclima della tenuta tanto da perdere alcune delle peculiarità tipiche del sauvignon originario per acquisire caratteristiche aromatiche del tutto particolari. Con essa, l’inzolia, altro vitigno da sempre considerato tipico dell’areale.

Il colore paglierino è molto invitante, direi luminosissimo. Il primo naso è pimpante di fiori di zagara, bosso e salvia, ma il corollario si arrichisce quasi subito anche di piacevoli rimandi agrumati. Poi vengono fuori note olfattive lievemente più dolci, di mela limoncella, frutto della passione e una discreta eco di macchia mediterranea. Il sorso è asciutto e sobrio, posato su buon nerbo acido che ne suggerisce una beva sottile ed efficace. E’ un vino che potremmo pure definire di facile lettura, ma assai franco e piacevole, e che ben si abbina a di tutto un po’ della classica cucina marinara; ha attraversato il tempo il Nozze d’Oro, le tendenze, le mode, trovando però sempre una sua dimensione ideale, e forse, proprio con questo fortunato millesimo, quei 12 gradi e mezzo giusti per colpire, ancora una volta, direttamente al cuore senza far male alla testa. Davvero un piacevole ritorno.

Chiaramonte Gulfi, Carjcanti 2008 Gulfi

8 settembre 2011

Scrivi carricante e t’immagini l’Etna, così il pensiero va subito al Pietramarina, il piccolo gioiello di Giuseppe Benanti che (mi) ha aperto questo vitigno a letture organolettiche sino ad allora inesplorate. E ogni anno sempre con maggiori attese ed attenzioni.

Carjcanti invece è il vino di Gulfi, l’azienda fondata da Vito Catania, oggi nelle mani del figlio Matteo, e portata e raccontata in giro per il mondo – con la sua “I Vigneri” – dall’enologo Salvo Foti, uno dei massimi studiosi nonché conoscitori dei vitigni autoctoni siciliani e mostro sacro dell’enologia isolana; manco a dirlo, lo stesso di Benanti.

Sull’Etna le vigne si levano dalla cenere, e si sa che qui, come forse in nessun altro posto al mondo, più che il vitigno è il microclima, particolarissimo, a contribuire in maniera decisiva a produrre vini di altissima espressività territoriale. Ma pure a Chiaramonte Gulfi, siamo in Valcanzjria, nel ragusano, 150 chilometri più a sud, pare farsi strada un ottimo clone, arrivato proprio dalle pendici del vulcano e per niente lontano da quel modello già apprezzato nei bellissimi bianchi etnei.

Il Carjcanti 2008, con un piccolo saldo di albanello, altro vitigno autoctono locale, richiama immediatamente alla mente le tracce lasciate impresse dalle precedenti vendemmie: vivida brillantezza nel colore, naso costantemente irrorato da sentori minerali e palato di grande sapidità e nerbo acido; il tutto al servizio di un fuoriclasse lanciato spedito nella rincorsa del tempo. La Vigna Campo è per lo più caratterizzata da terreni calcareo-argillosi, impiantata ad alberello, proprio come sull’Etna – con un sistema però meccanizzato, alla borgognona – con una densità di circa 9000 viti per ettaro; il vino tendenzialmente affina parte in acciaio e parte in barrique da 225 litri e in fusti da da 500 litri. Il colore è di un bellissimo dorato acceso, il primo naso è figlio del sole, con sentori fruttati di mango e pesca e scorzette di limone, poi i profumi si distendono in ampiezza e profondità, foraggiati continuamente da reminescenze balsamiche e speziate, sentori erbacei, quindi minerali, e sul finale canditi, di infinita eleganza, finezza e acutezza. In bocca l’ingresso è deciso, spicca inizialmente per l’essenza acida tipica del varietale, ma il sorso viene subito sopraffatto dall’insistente sapidità e carezzato continuamente da morbida mineralità. Dodici gradi e mezzo di pura estasi degustativa, e senza nessuna preclusione per l’abbinamento: si può bere tranquillamente prima di tutto e, quando necessario, dopo tutto.

Pro e Contro

21 giugno 2011

Il rosso e il nero, il sole e la luna, l’alba e il tramonto. Chi per l’uno, chi per l’altro. Così il vino, di spessore o sottile. Spesso, diciamocelo, certe scelte sono dettate esclusivamente da pura vanità intellettuale, altre volte, giustamente, da un gusto personale imprescindibile, altre ancora, comprensibilissimo, la predilezione del momento.

Quindi un’imbarcata dinanzi ad un vino florido, ricco, abbondante, copioso, robusto, ci può stare. Perché un vino splendido rimane tale, sempre. Un rosso dal naso fittissimo, copioso, etereo, cioccolatoso; palato pieno, sano, sfarzoso, sontuoso ma al tempo stesso regale, significativo, tangibile, brillante, polposo, vigoroso, procace, fitto, più orizzontale che verticale, di gran soddisfazione comunque; solo corvina e rondinella per l’Amarone della Valpolicella 2007 Le Vigne di S. Pietro.

Per contro, la sottile, acuta, filiforme veste di questo splendido altro bicchiere. Primo naso fine, flessuoso, dapprima leggero, lieve, longilineo, poi quasi rarefatto, sagace e profondo, echeggiante passaggi aridi di gariga e note di macchia mediterranea e terra nera. No, affatto una beva difficile, asciutta sì, penetrante, fitta, stretta a note austere e minerali ma minuziose, pure, sofisticate: un vino, concedetemelo, micrometrico. Si parla di nerello mascalese e dell’ Etna rosso Archineri 2009 di Pietradolce.

A rischio di passare per qualunquista, oggi mi sento tanto pro quanto contro.

Moscato di Pantelleria Kabir 2004 Donnafugata, dolcezza al naturale di una sconfinata giovinezza!

17 Maggio 2011

Un vino straordinariamente sorprendente! E’ bene dirlo subito, giusto per rendere chiara l’idea di cosa sto per raccontare, soprattutto a chi, non amando la tipologia, possa pensare di soprassedere appena dopo aver letto le sole prime quattro parole di questa recensione.

Un vino dolce naturale il Kabir, tra i più popolari, ma non per questo confondibile con i tanti altri moscati prodotti a Pantelleria; invero, se c’è un merito da affibbiargli anzitutto, gli va riconosciuto quello di essere rimasto, negli anni, sempre estremamente fedele ad una precisa identità territoriale prima che produttiva.

Un sorso di Kabir, quale che sia l’annata, parla direttamente all’anima, ma questo duemilaquattro, pur inaspettatamente, la conquista e la rapisce definitivamente; così la butto lì, perché anche sui vini dolci (da meditazione e compagnia cantando) non sarebbe male, di tanto in tanto, aprire una piccola finestra dalla quale affacciarsi su un mondo che rimane ancora profondamente misconosciuto, certamente lontano dal blasone sauternais, o di certi deliziosi nettari mitteleuropei, ma che non manca di fornire, come questo vino testimonia, spunti emozionali decisamente interessanti di cui non si può non tenerne conto.

Prima di passare ai fatti, superato l’annoso empasse che lo vuole perennemente fratello minore del ben più noto e ambìto Ben Ryè, ho dato una scorsa ad alcuni dati forniti dall’azienda sul suo sito – che devo dire risulta essere tra i più gradevoli e funzionali visitabili in rete quanto a spot aziendali – giusto per avere una idea da dove questa bottiglia sia partita prima di scivolare oggi nel mio paffuto bicchiere: il 2004 viene indicato come un millesimo rigido e lineare, partorito da un inverno ed una primavera piuttosto piovosi (rispetto alla media siciliana) e un’estate, contrariamente alla consuetudine isolana, dalle temperature decisamente miti. Ne deduco, come suggerito tra l’altro tra le righe, una maggiore finezza aromatica ed una minore polposità e concentrazione del frutto, quindi di zuccheri residui, così di alcol.

Poi c’è la pregiudiziale del tempo, l’imponderabile evoluzione di certi vini dolci, la probabile contrazione del nerbo acido quando meno te l’aspetti. Sei pronto quindi ad un vino più che maturo, dal colore cupo e sopito, con crepe ossidative olfattive, una scontata e stucchevole caduta palatale. Tutt’altro! Il colore è invece splendido, giallo paglierino cristallino con nuances dorate e di una lucentezza quasi abbagliante; il naso offre un effluvio di note dolci, tracimanti, in una consequenzialità da manuale: dalle più labili e sottili note florali e fruttato di pompelmo, a quelle più nette, e man mano accentuate, di agrumi canditi e miele di zagara. Il gusto, poi, è coinvolgente: intenso, ricco, fine e persistente, presenta un finale di bocca lunghissimo, avvolgente, continuamente rinfrescato da una spinta acida ancora presente e fondamentale nel renderne perfetto l’equilibrio degustativo. In definitiva, un bellissimo vino.

Invito, chi ne conservasse ancora una bottiglia, a non rammaricarsi del millesimo così lontano nel tempo, questo Kabir è il sorso più delizioso che vi possa capitare a tiro, ideale per suggellare una sincera stretta di mano o da spendere alla fine di un pasto da ricordare, un momento da fissare nella mente, oppure ancora – perché no! – per consacrare un amore di sconfinata giovinezza!

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Diario di una Bevuta, Faro 2005 di Palari

13 novembre 2009

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Non è certamente così facile dire “I love Sicilians” così come presentano spesso gli americani l’alto gradimento dei rossi siculi negli Stati Uniti, ed il dubbio diviene sempre più certezza quando si va alla ricerca di quella materia autoctona siciliana  che esula dal Nero d’Avola “cabernetizzato” e capace di spiazzare profondamente; “cabernetizzare” ma talvolta anche “merlotizzare”, parole eccentriche lo so ma che rendono bene l’idea del fenomeno che tanto ha impazzato nell’ultimo ventennio sino ad ammorbidire e deacidificare (manco si trattasse di olio) ogni vino “tipicamente” italiano ed appiattire ogni qualsivoglia proposta di winebar, che soprattutto dalle nostre parti non hanno mai reso bene l’idea del nome che portano in dote, sostituendosi man mano grazie ad un’alchimia tutta da decifrare ai Pub, con la sola differenza che di fianco al panino con i crauti anziché una deliziosa Lager tedesca offrono l’imbarazzo della scelta tra gli italianissimi Fragolino, Raboso e per l’appunto Nero d’Avola cabernetizzato. Minchia verrebbe da dire!

Il fenomeno si è di molto ridotto, è vero, e meno male mi verrebbe da dire, ma è importante rilanciare l’idea di una terra, la Sicilia che è ricca di un’anima ancora inespressa, di un’anima non ambìta dai grandi imprenditori venuti dal nord a piantare centinaia e centinaia di ettari a Merlot, Syrah e Cabernet, per’altro stupidamente seguiti da molti produttori locali che hanno continuato a spiantare vitigni autoctoni per fare posto alla globalizzazione, a quell’internazionalizzazione che ben presto li ha lasciati avvinghiati in un mercato in crisi ed in una profonda crisi d’identità. Faro ha un valore aggiunto solo per questo, fuori dagli schemi voluti da chi la terra non l’ama ma la sfrutta e basta.

Faro è una delle denominazioni siciliane più piccole, estesa su di un’area molto evocativa che guarda proprio al continente di là dello stretto di Messina, qui Salvatore Geraci con l’aiuto dell’enologo Donato Lanati ha tirato su questo piccolo gioiello agricolo, votato al recupero ed alla valorizzazione di vitigni siciliani come il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Nocera ed alcuni altri dai nomi quantomeno stravaganti: core ‘e palumba, acitana, galatena, tutti rientranti nel disciplinare di produzione locale. In questa dimensione nascono due vini, Il Faro doc e l’igt Rosso del Soprano, quest’ultimo volutamente fuori dalla denominazione per consentire la produzione di un vino doc assolutamente espressivo del territorio, pertanto consentendo di concentrare sul primo le migliori selezioni di vigna e le migliori attenzioni possibili pur garantendo col secondo, un vino di qualità ( in alcune annate superbo) ma soprattutto di maggiore fruibilità commerciale.

Ha un colore molto affascinante, rosso rubino con tendenza al granato ed una piacevole trasparenza, si pone di media consistenza nel bicchiere. Il primo naso è assai intenso su note terziarie, balsamiche, si percepisce incenso, grafite. Lasciandolo aprire per bene vengono poi fuori note di frutta in confettura, di cacao, di caffè tostato chiudendo su di una decisa voluttà minerale. Mi piace l’idea di avere dinanzi a me un vino fine, estremamente elegante, profondo; Al gusto è secco, abbastanza morbido, i 18 mesi di legno nuovo sono perfettamente integrati in un sapore gustoso ed avvolgente, avvincente, vibrante e senza sbavatura alcuna, sorretto da una acidità ben legata. Ecco come si possa internazionalizzare un autoctono siciliano, sdoganare senza stravolgere un vino che bevuto alla cieca non può non portare in terre borgognone, eppure siamo a sud, nel profondo sud di una terra meravigliosa e straordinaria qual è la Sicilia. Chapeau!

© L’Arcante – riproduzione riservata


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