Napoli, Cantine Astroni – Foto di Gerardo Vernazzaro.
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Nelle scorse giornate del 26 e 27 Aprile delle gelate inaspettate hanno fatto un bel po’ di disastri nelle vigne di molte aree dell’Europa continentale, alcune di queste aree hanno subito perdite ingenti, in certe zone sino al 100% del raccolto 2016 nemmeno sbocciato, come in Stiria in Austria.
Anche in Italia si sono registrati problemi, in alcune zone più di altre come in Abruzzo, Molise, Toscana e Liguria ad esempio, e anche qui in Campania, in alta Irpinia, dove però sembra ancora presto per fare un bilancio dei danni.
Non si può dire la stessa cosa per la Francia, in particolar modo per alcune aree tanto care un po’ a tutti noi, in Loira e Provenza e ancora in Champagne e Borgogna, da Chablis a Meursault dove tra le varietà più colpite proprio lo chardonnay, notoriamente precoce ma anche nei comuni più a sud e per il pinot noir di prestigiose appellations come Volnay e Pommard. Qui le prime stime raccontano di danni tra il 60 e l’80% del raccolto 2016. Scontata e sentita la vicinanza a tutti i vigneron d’oltralpe.
Una delle rappresentazioni del momento che più mi ha colpito è questa foto scattata in Svizzera, nel Cantone dei Grigioni dove, proprio come in Borgogna, i viticoltori hanno trascorso notti insonni vegliando le vigne con piccoli fuochi per riscaldare le piante e scongiurare così il gelo.
Immagine che ha fatto il giro del mondo con la quale ripropongo un commento di François Despierre di Bourgognelive.com sul particolare momento francese. Da qui il nostro invito è di tenere duro e guardare avanti con forza e coraggio, Allez mes amis!!
“Quel contraste entre la beauté des photos et l’angoisse des vignerons qui ont passé plusieurs nuits à veiller sur leur trésor ! Pour l’avoir vécu à leur côtés ces photos reflètent bien ces nuits surréalistes […] la beauté des images et la dure réalité derrière, car tout le monde dans les vignobles de Bourgogne, de Loire, de Champagne, de Cognac et même de Provence n’a pu malheureusement éviter l’attaque du gel sur les jeunes bourgeons”.
”On connaitre la semaine prochaine un premier bilan officiel des dégâts mais à la vue des nombreuses photos postées cette semaine et des commentaires des vigneron(nes), cela risque d’être important”.
“On ne peut qu’être admiratif face à toutes ces personnes qui chaque année confient leur travail à la nature qui décide elle seule de donner ou de prendre”.
François Despierre, Bourgogne live¤.
Foto Silvain Ross, tratta dal web.
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È sempre un piacere venire da queste parti a trovare Antonio Papa¤ nella sua piccola cantina a Falciano del Massico, nel cuore dell’Ager Falernus, sentire come vanno le cose a lui che fa uno dei migliori primitivo in circolazione.
La sua famiglia coltiva la terra sin dal 1900 e basta buttare un occhio in giro qua è là per cogliere tanti piccoli segnali di una tradizione qui molto forte e radicata. Nei primi anni novanta la svolta e qualche anno più tardi, con l’ingresso di Antonio in azienda, si ha la definitiva consacrazione con le prime bottiglie di Campantuono¤ che spostano immediatamente l’attenzione di appassionati e critica da queste parti.
Scelte drastiche ed incisive, da vero artigiano del vino, di quelle che una volta fatte non si torna indietro. Dimezzare la resa per ettaro sino agli attuali 45-50 quintali non è stato certo facile, men che meno ‘vivere’ delle appena 12/15.000 bottiglie l’anno (quando tutto va bene); ma in fin dei conti, a questo punto della storia, ad ascoltare le parole di Antonio, mi pare che si sia raggiunto un buon equilibrio e che poco o nulla cambierà in futuro.
Anzi, a dire il vero qualcosa sembra bollire in pentola, ma Antonio ci sta ancora lavorando, tenendo conto di tutti gli aspetti produttivi che di anno in anno gli si stanno presentando in cantina: l’idea è di eliminare completamente il legno. Che poi qui il primitivo¤ è cosa seria, infatti non è che se ne faccia un uso massiccio, tutt’altro, tant’è che di millesimo in millesimo non se ne coglie nemmeno più il breve passaggio, ma la maturità raggiunta dalle vigne, la bontà dei frutti, ad ogni vendemmia sempre migliore consigliano da tempo di limitarne ancor più l’utilizzo. Così chissà che i prossimi Campantuono, diciamo già col 2010 visto che il 2009 forse non esce nemmeno, potremmo ritrovarceli in bottiglia dopo aver fatto solo acciaio.
Ci salutiamo con qualche assaggio dalle vasche: annata solida la 2012, matura bene, il 2013 invece mi pare sia stata un’annata così così, sottile, non così polposa ma in fin dei conti i vini sembrano maturare bene ed avere un certo appeal sin da subito. Tra un paio di mesi si deciderà il da farsi, i vari assemblaggi ecc., di certo, frattanto, si ha di che bere, il Conclave 2011 per esempio, il secondo vino di Antonio, che ha buona forgia e la giusta intensità per appassionare palati fini e meno esperti.
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Lo scorso 9 agosto è passato di qui Alfio Ghezzi¤ della Locanda Margon, il Ristorante della famiglia Lunelli in quel di Trento; con Andrea Migliaccio¤ han messo su una bella sequenza di piatti protagonisti di una serata a dir poco effervescente, a cominciare dai finger food…
Trentodoc¤ Ferrari Perlé 2006, con il Perlé Rosè 2007 protagonista dell’overture in Terrazza al Bar degli Artisti. 100% chardonnay il primo, pinot nero all’80% e per il resto chardonnay il rosé, sempre più sugli scudi!
Caprino e Caviale, un divertissement da manicomio (con l’originale mis en place sulle gabbiette del prestigioso Giulio Ferrari Riserva del Fondatore¤).
Poi Mozzarella in Carrozza. Una rivisitazione davvero niente male da buttare già in un sol boccone!
Polpetta fritta di Agnello con Uvetta, Scarola e Pinoli su crema di Cipollotto Nocerino. Sapori autentici che esaltano tutta la verve del Perlé Rosé, dal sorso un po’ meno teso delle precedenti uscite ma sempre impareggiabile per bouquet e piacevolezza di beva!
Pesce Bandiera marinato al Timo , crema di Zucchine a ‘Scapece’ e Pane Raffermo.
Sfoglie di Granoturco, Corniolo e Uova di Trota. Contrasto dolce-sapido sul filo di lana. Qui ritorna utile tutta la fragranza e la freschezza del Perlé Brut!
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Le foto sono di Umberto D’Aniello¤ per il Capri Palace Hotel&Spa¤ ©. Tutti i diritti di riproduzione, anche parziali, sono riservati.
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E’ uno dei ricordi più vivi della mia adolescenza il fritto di mare. Mia madre, al sabato e alla domenica ci passava ore intere davanti a quella cucina a friggere merluzzi, triglie, suace, alici, sogliole per papà e miei fratelli di ritorno dalla pesca.
Che poi sino a qualche anno fa lungi dall’essere tra i miei piatti preferiti a tavola. Magari i calamari si, tondini a frotte, ma il pesce proprio no, mi scocciava sporcarmi le mani (e non dite che voi la frittura di pesce la mangiate con coltello e forchetta, vi prego, è abominevole!). Questo qui è il fritto di Pasquale Torrente¤, ‘Al Convento’ di Cetara.
Il mare, la terra, una rincorsa senza tregua. Il Raviolo di Mozzarella con scarola e Palamita, sapori netti, unici, profondi, tra i nostri più tradizionali che fanno capolino in questo riuscitissimo piatto di Andrea Migliaccio, frutto del lavoro di un anno di prove e riprove.
C’è la sfoglia carezzata a mano, Mozzarella di Bufala senza eguali e quello sfondo verde, quella speranza che ognuno di noi merita di vedere oltre l’orizzonte; e poi il mare, la Palamita appena scottata, con quel sale in punta di forchetta che infonde vivacità ad ogni singolo assaggio. Armonia di colori da mangiare…
Così questo splendido bianco tirato fuori dalla terra che più terra non si può, non smette un momento di condurre proprio lì, a un passo dal mare. Un grande fiano di Avellino questo duemilaundici di Ercole Zarrella, di quelli che non finiresti mai di bere, offrire in qualsiasi momento, occasione, abbinamento.
Luminoso, verticale, trasversale. Tutto infiocchettato a dovere. C’è dentro tutta la forza di una terra straordinaria, c’è l’ebbrezza dello spazio infinito senza un filo di vertigini, c’è il sole riflesso a pelo sull’acqua che si colloca con precisione millimetrica nel mediterraneo più prossimo. E’ sferzante, balsamico e sapido, anzi, salato proprio. Formidabile! Fate spazio amici miei, giacché fosse tra i migliori adesso non basterà nemmeno metterlo semplicemmente tra i primi.
La storia, il ”blasone enogastronomico”, forse un po’ anche il look, possono pesare tanto, creare pregiudizio; ti aspetti infatti una donna cui l’anticipa il “personaggio”, apparentemente un po’ distante, per qualcuno con la puzza sotto il naso, la grande chef scesa a Capri a fare passerella, riverita dalla grande Maison e dalla stampa tutta. E’ pur sempre, non dimentichiamocelo, l’artefice del “3 stelle Michelin” italiano più conosciuto al mondo.
E invece no. Che straordinaria persona è invece Annie Féolde, che esempio di umiltà e disponibilità professionale. L’abbiamo capito subito, quando ce la siamo ritrovata, così d’emblé, all’ingresso delle cucine dell’albergo, con al suo fianco il fidato Italo Bassi intenti a scaricare i prodotti che han voluto portarsi dietro dalla Toscana per preparare i piatti della serata dell’indomani. Era un po’ provata Annie, accaldata ma con un bel sorriso smagliante stampato in faccia, e quando io le accenno un inchino ed il baciamano d’ordinanza, lei quasi vorrebbe darmi un pizzicotto per l’eccessiva riverenza: benvenuta al Capri Palace, Madame La Cuisine! Risata generale, abbiamo rotto gli indugi.
Questo giorno era scritto che dovesse arrivare, prima o poi; sin da quando, verso fine anni novanta m’era scattata la fissa del vino e della cucina. Lei, proprio lei e Giorgio Pinchiorri (G i o r g i o P i n c h i o r r i!) i primi riferimenti in assoluto, il primo ristorante da non perdere negli anni a venire, il primo libro di cucina comprato (nel 2004), divorato ogni giorno con quelle splendide ricette tutte da provare a replicare, magari vicine anche lontanamente! Poi il fascino del successo ogni anno sempre più fragoroso, con l’Enoteca Pinchiorri che assurge a icona assoluta ed un fatto quantomeno curioso, incredibile ma vero: lei francese, protagonista assoluta della scena mondiale della cucina made in Italy e lui, italiano, tra i più stimati e corteggiati sommelier del pianeta e grandissimo conoscitore e collezionista di bottiglie francesi (e non solo). Insomma, tanta roba pe’ i posteri.
Ho cercato così di cogliere l’occasione per farci quattro chiacchiere, almeno con lei, raccogliere di persona un po’ di riscontri storici, di esperienze personali, di vedute, prospettive. E Annie Feolde, garbatissima e disponibile, si racconta; e non basta certo un post, ma vanno bene queste poche righe per raccontarvi almeno l’emozione e il piacere dell’incontro.
Ci ha raccontato del suo arrivo a Firenze nel 1969, in verità per studiare l’italiano non certo per cucinare, ma conoscere Giorgio qualche tempo dopo le ha completamente stravolto i progetti di vita. Così nel ’72, con lui appena diplomato sommelier rilevano l’antica cantina del palazzo lì in via Ghibellina, dove cominciano come enoteca e dove lentamente, ma in crescendo, si vira su qualcosa che ci mette davvero poco a diventare un riferimento assoluto per l’intera città. I primi piatti cucinati arrivano nel ’74, con l’aiuto prezioso della madre di Giorgio in cucina, poi gli antipasti e i dolci a cura proprio di Annie. “Tutto secondo il proprio istinto, da perfetta autodidatta, con orgoglio e senza pregiudizio, traendo qua e là ispirazioni ma con il chiodo fisso della primaria qualità degli ingredienti, made in Italy e toscani anzitutto”.
Sembra che fare di testa propria allora sia stato un’intuizione decisiva, eh sì perché di là c’erano – ci sono – le origini francesi, la nouvelle cuisine che impazzava, mentre di qua una terra di adozione straordinaria, come la sua Francia ricca di storia ma soprattutto di una cucina tradizionale, soprattutto quella povera, ancora vivissima; quella cucina popolare che Oltralpe già la rivoluzione francese aveva praticamente spazzato via d’un colpo. Un eccidio continuato negli anni, si pensi ad esempio a quell’elemento che da sempre divide i due paesi in cucina: il burro di là, l’olio extravergine d’oliva di qua. Abbastanza facile scegliere, no?, sussurra. “E poi ci sono le verdure, le mille ricette sul tema, il pomodoro, l’Aceto Balsamico Tradizionale, il Parmigiano Reggiano”. Insomma, sulla varietà e qualità della materia prima non c’è storia, anche se bisogna sempre tenere bene a mente, sottolinea, che la scuola francese rimane un caposaldo per tecnica ed esecuzione.
Tanto curiosa M.me Féolde che l’indomani ci ha onorato della sua presenza durante tutto il briefing di pre-servizio serale: aveva piacere di stare con noi, condividere sino in fondo l’evento messo su in collaborazione con la Maison Vranken-Pommery (vedi qui) di cui è oggi Ambasciatrice in cucina. E come è stato splendido, a fine serata, fare le due del mattino in terrazza a continuare la bella chiacchierata, riprendere dove s’era interrotto. E quando s’è alzata per andar via, visibilmente stanca, c’ha tenuto a salutare e stringere le mani – uno ad uno – a tutto lo staff del ristorante riunito lì per un brindisi finale. Ineccepibile, Annie Féolde.
Ecco, Signora Annie – basta francesismi, a questo punto-, come si fa a rimanere sulla cresta dell’onda per 40 anni suonati? “E’ semplice, basta non fermarsi mai e cercare sempre di migliorare, non adagiarsi. C’è sempre qualcosa di meglio che si può dare agli ospiti. Ogni giorno”.
Enoteca Pinchiorri
Via Ghibellina 87 50122 Firenze
Tel.+39 055 242757 – +39 055 242777
Fax +39 055 244983
www.enotecapinchiorri.com – ristorante@enotecapinchiorri.com
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Era in coda tra le bozze da un paio di settimane almeno, mi è tornato in mente iersera durante una piacevole conversazione con un “appassionato” cliente-sommelier che trovava poco fattibile un abbinamento così azzardato. Retaggio culturale? Non solo e non sempre, eppure…
E’ il dessert proposto dal nostro Andrea Migliaccio all’evento di gala voluto da Pommery Italia a Napoli lo scorso 21 maggio (leggi qui); ai fornelli c’erano alcuni tra i più autorevoli rappresentanti della cucina campana, i Due Stelle Michelin Ernesto Iaccarino del “Don Alfonso 1890”, Tonino Mellino de “I Quattro Passi” e Alfonso Caputo de “La Taverna del Capitano”.
Il “Torrone ghiacciato” di Andrea è andato sul Grand Cru Cuvée Louise 1985. Ci abbiamo preso? A detta dei convenuti, sembrerebbe proprio di sì, così rimango dell’opinione che con certe bottiglie, a certe condizioni sì, si può fare.
Rimettere i piedi per terra, anzi letteralmente nella terra. Molti considerano Capri “il paradiso” – forse lo è -, ma dopo sette mesi sopra le nuvole era proprio necessario ritornare alla normalità, la mia normalità: camminare le vigne, respirare la terra.
Oggi è una splendida giornata, non poteva andarci meglio, e il paesaggio che si staglia all’orizzonte, in direzione Mirabella Eclano – nella più verde provincia irpina -, risulta ancora più gradevole e suggestivo di quanto normalmente possa apparire: il caldo sole, questa luce così splendente stamattina ne armonizza i colori ma al contempo esalta le sue forme, la sinuosa prospettiva di una terra unica: che bello!
A Quintodecimo¤ ci si arriva facilmente, appena una manciata di chilometri dopo l’uscita “Benevento” dell’autostrada A16, uno o due svincoli in direzione Taurasi, poi si prende per Mirabella Eclano. Cavolo! Ma come si fa a non tenere conto di quanto possono vedere, ammirare, rimanere stupiti, i propri occhi quando si arriva qui in contrada Cerzito. E lo senti già da prima – dall’aria che si respira, sottile, pungente, magica -, che qui è tutta un’altra storia.
E’ già tempo di vendemmia! Questa è la parte più bassa della vigna, quella che costeggia immediatamente la strada d’ingresso a Quintodecimo, in contrada Cerzito, sarà l’ultima ad essere raccolta ma comunque nella giornata di oggi. Quest’anno la vendemmia è anticipata, come del resto un po’ ovunque in Italia; i parametri analitici delle uve infatti dicono che sì, può bastare così; allora sotto con le cesoie e giù e su con il trattore.
Eccolo qua Felice, già una istituzione a Quintodecimo. E’ lui a scarrozzare per la vigna, di filare in filare a raccogliere le cassette di aglianico da portare subito in cantina per la cernita. “L’anno scorso è stata molto dura, la pioggia caduta pochi giorni prima del raccolto ci ha reso la vita impossibile, manco coi cingolati si poteva entrare in vigna”.
La collina infatti è particolarmente ripida, in alcuni punti scoscesa a tal punto da divenire persino pericolosa da girare in trattore; ma per fortuna quest’anno l’insistenza del bel tempo aiuta non poco le operazioni di raccolta e trasporto in cantina.
Eccolo qua l’aglianico di Quintodecimo. I frutti sono giunti a piena maturazione, più o meno con due settimane di anticipo sulle previsioni ma comunque perfettamente integri e polposi. Gli zuccheri premettono valori in alcol possibili intorno ai 14,5/15,5 gradi. “In genere – mi racconta Luigi – qui a Mirabella siamo sempre in anticipo di un paio di settimane rispetto ad altre località della denominazione, e questa vendemmia anticipata non fa altro che confermare la regola”. Così raccolti manualmente vengono adagiati in casse e subito portati in cantina dove avviene una cernita particolarmente minuziosa, talvolta spuntando acino per acino.
Ad oggi in cantina c’è già quasi tutta l’uva dell’azienda, manca in effetti di raccogliere solo il greco, mentre il fiano (di Lapio) è già tutto in casa, e oggi lo sarà anche tutto l’aglianico, come la falanghina. A tal proposito, mi piace segnalarvi che proprio di fronte all’azienda, Luigi e Laura hanno da poco rilevato un nuovo piccolo appezzamento dove a breve sarà piantata proprio della falanghina. Quando si dice migliorarsi.
Sapete, negli ultimi due-tre anni si è discusso molto dei vini di Quintodecimo, invero, a dirla tutta più per sbarcare il lunario che per altro. Tutti, ma proprio tutti – taluni addirittura a gamba tesa pur di smarcarsi, farsi notare -, si sono lanciati con una certa vis polemica, talvolta spudorata altre un po’ meno, rilanciando l’annosa questione “territorialità, autenticità e verità espressiva dei vini irpini” che qui – dicono – si farebbe fatica a cogliere. Ebbene, chi mai sarebbe il depositario della territorialità, dell’autenticità, di questa verità espressiva assoluta cui fare riferimento? Fuori il nome… Maddai…!
Come ho già avuto modo di dire altrove, io vedo Luigi Moio un po’ come Angelo Gaja, forte di una solida tradizione alle spalle – fatte le dovute proporzioni -, ma proiettato nel futuro con una propria idea chiara e precisa, millimetrica quasi, di ciò che esige dalle sue vigne ma soprattutto ciò che si aspetta dai suoi vini. Anche a costo di metterla in discussione per crearne una rinnovata, a suo modo, per sua idea, ancor più autentica.
Ma non è di questo che voglio parlarvi oggi, mettiamola così: adesso il più è fatto (più o meno)… adesso non rimane che aspettare. Sì Professore – dai! –, l’uva è finalmente in cantina, nelle tue mani, rimetti in moto la giostra delle emozioni che voglio sognare. Ancora una volta!