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Cinque vini che servono a Natale

8 dicembre 2020

Non è sempre necessario stilare una classifica di quali siano i vini migliori o i più buoni da servire in tavola durante le festività di Natale e l’ultimo dell’anno, ci sono però alcune etichette che si distinguono per qualità non senza una certa continuità anno dopo anno.

Non vogliamo però sottrarci alle consuetudini di questi giorni, ecco perché, spulciando tra le centinaia di bottiglie assaggiate durante quest’anno così particolare e le etichette passateci per mano per tutto il venti-venti proviamo lo stesso a suggerirvi cinque grandi vini che secondo noi potrebbero veramente salvare il Natale a molti, in giorni durante i quali tutti rincorrono la migliore bottiglia possibile da regalare o regalarsi.

Franciacorta Brut Dosaggio Zero 2015 Arcari+Danesi. Questo Dosaggio Zero dumeilaquindici, di cui si sono state prodotte circa 20.000 bottiglie, viene fuori da Chardonnay per il 90% e per la parte restante Pinot Bianco. In tutte le fasi di lavorazione dei vini base e delle cuvée qui si utilizza solo zucchero autoprodotto (sotto forma di mosto congelato), facendo a meno quindi dell’utilizzo di zuccheri esogeni come ad esempio saccarosio o mosti concentrati rettificati.

Nel calice ci arrivano bollicine fini, con un bel naso fragrante e ampio, integro e caratteristico: sa di agrumi, fiori gialli, un lieve ma gradevole accenno balsamico. Il sorso è fresco e gratificante, forse un po’ ”verde” per quanto ricordassimo delle precedenti uscite, rimane però gustoso, sapido, piacevole e di buona persistenza. Etichetta di sicuro approdo, per un’azienda in forte crescita di consensi, tutti ben meritati.

Da bersi praticamente sopra tutto, ideale per scaldare il cuore tra una chiacchiera e l’altra prima di accomodarsi a tavola, perfetto su crudi di mare e le varie immancabili tartine della cena della vigilia!

Vernaccia di San Gimignano 2018 Panizzi. Marchio storico e azienda toscana di grande prestigio. Il vino possiede un bel colore giallo paglia, ben luminoso. Il naso è fine, il profumo è delicato con sentori subito floreali e fruttati in primo piano, vi si colgono gelsomino, tiglio e mela golden, cui s’aggiungono un refolo balsamico e un sentore di polvere di pomice. Il sorso è decisamente asciutto, armonico, sapido, con un finale di bocca che sa lievemente di mandorla amara. Non è difficile immaginarne progressione e capacità di affinamento, possiede struttura, ampiezza e buona persistenza gustativa.

Di quei bianchi meravigliosi che potreste servire un po’ su tutto il menù della vigilia, perfetto con le paste con sughi di mare ma anche su fritti e pesce al forno.

Lazio igt Abbuoto Filari di San Raffaele 2018 Monti Cecubi. Una bella scoperta di quest’anno e una piacevole raccomandazione. L’Abbuoto di Monti Cecubi proviene dalle vigne di San Raffaele di Fondi, nel comune di Latina, nel basso Lazio, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre un vino intenso, fresco e particolarmente suggestivo, che abbiamo trovato veramente molto buono!

E’ un rosso di colore amaranto, pieno e vivace, con sentori di melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di caffè e cioccolato, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, 13% di alcol in volume in etichetta, ben misurato il passaggio in legno che consegna al palato un tannino vellutato, nessuna spigolatura, solo tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso.

Uno di quei rossi da bere alla giusta temperatura, intorno ai 14°, per goderselo appieno sul ricco pranzo di Natale, con gli antipasti di salumi e formaggi (anche freschi) ma anche pasta al ragù e secondi di carne con contorni caldi!

Primitivo di Manduria Es 2016 Gianfranco Fino. Per quanto bizzarro come nome, Es venne scelto perché rappresenta il principio freudiano del piacere della passione pura che fugge completamente alla ragione, l’istinto di ciò che è primordiale. Ed è proprio così che ci si avvicina a questo duemilasedici di Simona Natale e Gianfranco Fino, un piccolo capolavoro di concentrazione estrema, un rosso di grande pulizia olfattiva e di enorme fascino sensoriale: il colore è rubino vivace, fitto ed elegante, il naso è un trionfo di marasca sotto spirito, prugne in confettura, spezie dolci, polvere di cacao, il sorso è pieno, potente ma vellutato, di finissima tessitura acido tannica che ben riesce ad armonizzare il 16,5% di alcol in etichetta, non certo trascurabile.

E’ questa la grande bottiglia da mettere a tavola nelle ricorrenze speciali dei prossimi giorni, merita piatti all’altezza della migliore tradizione culinaria italiana.

Passito di Pantelleria Ben Ryé 2016 Donnafugata. Un grande classico sempre attuale! Ben Ryé duemilasedici ha un colore oro-ambra luminosissimo, di gran fascino. Il naso è davvero un portento, assai intenso e persistente, ne viene fuori un quadro aromatico ricco di note e sensazioni fruttate passite, di macchia mediterranea, con sfumature eteree particolarmente suggestive che ne arricchiscono il profilo olfattivo: vi si colgono albicocca e scorze d’arancia candita, garighe e miele, accenni di cipria. Il sorso è certamente dolce, intriso però di freschezza, di lunghissima persistenza e piacevolezza.

Naturalmente vocato agli abbinamenti con desserts dolci, dal Panettone Milanese ai biscotti di Prato sino ai Roccocò, alla Cassata siciliana, è però su alcuni formaggi (anche) erborinati che si misura alla grande in tutta la sua complessità.

Leggi anche Vini che servono a Natale Qui.

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Il ritorno al futuro del Vinum Caecubum

17 novembre 2020

E’ Monti Cecubi a riportare in auge il Vino Cecubo, il vino dell’Impero Romano famoso in tutto il mondo antico. L’azienda è rinata nel 1990 per volontà della famiglia Schettino, originaria di Santa Maria Capua Vetere, e conta oggi ben 150 ettari di cui almeno sei di uliveto e venti di vigneto, collocati in larga parte tra Itri e Fondi, in provincia di Latina.

Ne abbiamo raccontato qualche mese fa, dopo una nostra visita la scorsa estate presso questa splendida realtà itrana immersa nel verde dei Monti Aurunci laziali. Qui in vigna si coltivano diversi varietali, alcuni introdotti proprio nel ’90, per provarne il potenziale colturale, come ad esempio Montepulciano, Vermentino, Fiano e Falanghina, altri già presenti in queste terre con vigne vecchie e impianti risalenti al secondo dopoguerra; ceppi con i quali, in alcuni casi, si è provveduto a selezioni clonali mirate, come nel caso di alcune varietà autoctone come l’Uva Serpe e l’Abbuoto, uve a bacca nera già anticamente protagoniste del ”Vinum Caecubum” prodotto in quest’area sin dall’epoca Romana.

Ci siamo tornati su con il loro vino di punta, quello che qui a Monti Cecubi, guidati in cantina dall’ottima enologa Chiara Fabietti, considerano la rinascita del Vino Cecubo, il vino rosso molto pregiato già apprezzato al tempo dei Romani, vino che secondo il racconto di Plinio si produceva con le uve provenienti da queste terre dell’areale pontino – “Caecubae vites in Pomptinis Paludes madent…“ […] “… supra Forum Appii” -, proprio qui nel territorio dell’attuale Formia, fino a Fondi e Terracina.

Vinum Caecubum duemilasedici di Monti Cecubi rinasce grazie ad una selezione dei migliori grappoli di Abbuoto e Uva Serpe delle vigne di San Raffaele di Fondi, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre anche in questo caso un vino intenso, dal colore ricco e vivace, di grande complessità e tensione gustativa, un vino davvero molto originale, che riporta in etichetta l’indicazione geografica tipica Rosso Lazio.

E’ un rosso dal colore rubino, pieno ed esuberante, dal profumo floreale e fruttato intenso, con sentori di viola e melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di polvere di caffè e grue di cacao, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, nonostante il 14% in volume di alcol in etichetta, risulta molto ben misurato anche il passaggio di 1 anno in tonneaux, che consegna al palato un vino rosso dal tannino vellutato, senza spigolature, con tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso.

Leggi anche Itri, l’Abbuoto Filari di San Raffaele di Monti Cecubi Qui

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Itri, l’Abbuoto Filari di San Raffaele 2018 di Monti Cecubi

17 agosto 2020

Una bottiglia di vino per quanto sconosciuta deve suscitare curiosità, rendere piacevole un momento, lasciare un buon ricordo di se, al di là del prezzo segnato in carta, sta poi al palato più attento, all’appassionato cogliere l’opportunità di una nuova scoperta.

E’ sostanzialmente questo il motivo che ci ha spinti sin quassù nelle campagne di Itri, alla ricerca di Monti Cecubi, così recava in etichetta una seducente Falanghina bevuta alla tavola di un ristorante a Fondi qualche sera prima. Ci siamo trovati davanti una piacevole scoperta, un piccolo gioiello incastonato in mezzo alla terra rocciosa, circondato da vigne nascoste tra ulivi e boschi secolari e foreste di sughere, appena sopra la costa di Sperlonga.

L’azienda è rinata nel 1990 grazie alla famiglia Schettino di S.M. Capua Vetere, conta ben 150 ettari, di cui almeno sei di uliveto e venti di vigneto collocati in larga parte qui a Itri e poco più in là verso Fondi. Vi si coltivano diversi varietali, alcuni introdotti proprio nel ’90, per provarne il potenziale colturale, come ad esempio Montepulciano, Vermentino, Fiano e Falanghina, altri erano già presenti in queste terre con vigne vecchie di impianti risalenti al secondo dopoguerra, ceppi con i quali, in alcuni casi, si è provveduto a selezioni clonali mirate, come nel caso di alcune varietà come l’Uva Serpe e l’Abbuoto, uve a bacca nera già anticamente protagoniste del ”Vinum Caecubum” prodotto in quest’area in epoca romana.  

L’Abbuoto è stato ufficialmente censito nel Registro Nazionale delle Varietà di vite con pubblicazione del decreto di ammissione sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 17.06.1970 e in seguito inserito dalla Regione Lazio nella pubblicazione dell’A.R.S.I.A.L. delle “Varietà Locali Tutelate”, ovvero “Risorse genetiche sotto tutela” ai sensi della Legge Regionale 1 marzo 2000 n. 15. E’ un vitigno originario proprio di questo areale che va dalle campagne di Fondi sino alle zone della piana racchiusa dalla corona dei Monti Ausoni e Aurunci, sino in Campania. Il grappolo ha dimensioni medie grandi, semi-serrato, di forma cilindrica-conica, a volte con una o due ali. L’acino, grande e sferico, ha buccia spessa e pruinosa, di colore violaceo. La foglia, grande anch’essa, è pentalobata, di colore verde chiaro.

Qui a Monti Cecubi si parla chiaramente della rinascita del vino Cecubo, il vino rosso molto pregiato e parecchio apprezzato dai Romani che secondo il racconto di Plinio si produceva proprio da queste parti in areale pontino – “Caecubae vites in Pomptinis Paludes madent…“ – e le cui vigne si trovavano nella zona “… supra Forum Appii”, proprio quel territorio che dall’attuale Formia, si estendeva fino alle attuali Fondi e Terracina.

L’Abbuoto di Monti Cecubi proviene proprio dalle vigne di San Raffaele di Fondi, dove la terra bruna e rocciosa della dorsale itrana si arricchisce di argilla e sostanza organica e contribuisce, con l’esposizione, l’influenza del mare, l’escursione termica a produrre un vino intenso, fresco e particolarmente suggestivo, che troviamo molto buono con questo duemiladiciotto, un Lazio igt di cui sono state prodotte circa 6000 bottiglie! E’ un rosso di colore amaranto, pieno e vivace, con sentori di melograno, prugna e altri piccoli frutti neri in primo piano, sa anche di caffè e cioccolato, è lievemente balsamico. Il sorso è fresco e piacevolmente sapido, 13% di alcol in volume in etichetta, ben misurato il passaggio in legno che consegna al palato un tannino vellutato, nessuna spigolatura, solo tanto frutto ed un finale di bocca piacevolmente succoso. Di quei rossi da bere alla giusta temperatura, intorno ai 14°, per goderselo appieno!

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I Vini della Tenuta di Fiorano

31 Maggio 2019

Il luogo è incantevole, situato a ridosso dell’Appia Antica e dell’aeroporto di Ciampino, i suoi vini perlomeno inaspettati, intrisi come sono di storia e più di qualche mistero ancora oggi, più che mai, parte delle gesta della nobile famiglia del Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi.

Tutto nasce per volontà del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi, personaggio tutt’ora avvolto da un non so ché di leggenda e mistero che tra gli anni ’40 e ’50, mosso da una personalissima grande passione per i vini bordolesi si mise in testa di farne qualcosa di verosimile proprio da queste parti, piantando, tra i primi in Italia, vigne di Cabernet Sauvignon, Merlot e Sémillon oltre che un po’ di Malvasia di Candia.

Per la verità gli annali raccontano che a Fiorano il vino si cominciò a produrlo già qualche anno prima, sin dal 1930, ma da varietali già diffusi in zona, l’area dei Castelli Romani è ad un tiro di schioppo da qui. Ma è nel primo dopoguerra che il Principe decide di fare sul serio, assai poco convinto dalla qualità dei vini prodotti sino ad allora, a tal punto da affidarsi all’enologo Giuseppe Palieri che sin da subito propose di innestare su buona parte delle viti della tenuta alcuni varietali bordolesi, il Cabernet e il Merlot per la parte dei rossi, il Sémillon per farne i bianchi, in uvaggio con la Malvasia locale a sua volta sostituita poi con un altro varietale d’oltralpe, il Viognier. E a dare maggiore slancio alla ”visione” del Principe contribuì di lì a poco anche un misconosciuto Tancredi Biondi Santi venuto da Montalcino, chiamato successivamente la morte di Palieri per dare continuità al progetto enologico avviato.  

Una storia che subisce un improvviso stop nel 1998, quando si decide, apparentemente senza spiegazioni, di spiantare quasi tutto il vigneto e fermare la produzione di vino. Le vicende famigliari, più o meno sussurrate, accompagnate da timidi rilanci e nuove cadute nell’anonimato non hanno granché chiarito le ragioni di tale incredibile destino tant’è che il lungo silenzio commerciale seguito, se da un lato ha contribuito ad alimentare la leggenda, dall’altro ha certamente fatto sparire dai radar questa piccola rarità italiana che invece da qualche tempo, è il 2004, prova a riappropriarsi della ribalta, sfoderando, in certe degustazioni di vecchie annate, dei veri e propri piccoli capolavori enologici.

Oggi la Tenuta di Fiorano conta ben 200 ettari di proprietà di cui buona parte destinati a vigneto, a uliveto, alberi da frutto ed altre colture tra le quali grano ed altri seminativi. Sono terreni caratterizzati da una forte matrice vulcanica, con substrati di pozzolane violacee e sedimenti di varia natura tra le quali polveri di eruzione e di trasporto. Abbiamo provato le annate più recenti delle quali, con piacere, lasciamo traccia.

Vdt Fiorano bianco 2016, da Grechetto e Viognier pari quantità. Viene lasciato sur lies in botti di rovere e di castagno da 10 ettolitri. Il colore è paglierino carico, il naso è subito fruttato di pesca bianca e nespola, poi un po’ più ampio, anche buccioso, balsamico, sa di fiori e macchia mediterranea. Al palato ha buona indole, potremmo dire morigerata nonostante il buon corpo e il tenore alcolico (14% vol.), ha sapore equilibrato e morbido, nessuna particolare velleità acida ma tanta sostanza, con un finale di bocca ”vivace” e ben sostenuto, minerale, piacevolmente sapido. Di quei bianchi sorprendenti che durante tutto un pasto rivelano ad ogni sorso qualche sfumatura di cui poter raccontare.

Vdt Fiorano rosso 2013, da uve Cabernet Sauvignon e Merlot. E’ prodotto generalmente per 2/3 da Cabernet e lasciato maturare in vecchi fusti di rovere di Slavonia da 10 ettolitri. Il Colore è di un rubino vivo ed intenso, non di quelli particolarmente concentrati. Il corredo aromatico rimanda quasi subito a note austere e sentori tostati, il lungo affinamento però non distragga da gradevoli sensazioni di piccoli frutti rossi e neri, ribes e mirtilli che lentamente si riappropriano del naso, aggiustandone il tiro, dipingendo così un quadro olfattivo interessante ed elegante. Nonostante l’annata non sia stata proprio di quelle a cinque stelle, il sorso è pieno, forse non di quelli che riempono la bocca ma è giustamente misurato, con tannino di grana finissima e un gradito ritorno di frutto sul finale di bocca che gli rende una beva godibilissima e fluente.

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Fieno di Ponza bianco ’11 di Cantine Migliaccio

21 febbraio 2013

Ponza è un posto magico, vi si dovrebbe passare almeno una settimana l’anno della propria vita; non a luglio o ad agosto naturalmente, mesi in cui la calca dei turisti ingolfa la passeggiata del Porto e la caciara dei natanti le acque antistanti.

Lazio bianco Fieno di Ponza 2011 Antiche Cantine Migliaccio - foto A. Di Costanzo

Di quei luoghi ho ricordi bellissimi ed un grande unico cruccio, Palmarola, che non son stato capace di visitare, causa mare grosso, entrambe le volte che sono passato sull’isola e per tutta una intera settimana. Da sfigati insomma, ma mi rifarò.

Da uno dei promontori più suggestivi dell’Isola di Ponza, punta Fieno, arriva questo insolito e caratteristico bianco composto in massima parte da biancolella e falanghina, vino dal profumo vulcanico e dal sapore antico. Ci lavorano da un po’ di anni con una certa perseveranza ed ostinazione Luciana Sabino¤ e suo marito Emanuele Vittorio; ne avrete letto tra l’altro già qui¤.

Punta Fieno, le vigne sopra la collina

In cantina l’hanno condotto con mano ferma prima il bravo Maurizio De Simone, che ne ha saputo immediatamente leggere ed interpretare l’anima valorizzandone al massimo la “naturalità” espressiva e poi, oggi, con una visione prospettica altrettanto interessante Vincenzo Mercurio¤, capace di sottolinearne al meglio tutta la matrice minerale esaltandone il profilo organolettico decisamente sopra le righe.

Il Fieno bianco 2011 viene fuori da quei 2 ettari di vigna piantati per lo più nel tufo tra le sabbie dei muretti a secco lungo quella piccola collina che lega la splendida Chiaia di Luna al Faro, posto raggiungibile esclusivamente attraverso una stretta mulattiera; un luogo di una suggestione unica, che durante le estati più calde fa registrare temperature vicine ai 40-50 gradi, anche se rinfrescate nella notte da escursioni termiche altrettanto importanti. Ne viene fuori un bianco dal corredo aromatico molto particolare, per lunghi tratti sulfureo, salmastro, che sa di fieno (!) e genziana, dal sorso efficace e sgraziato. Un quadro organolettico certamente non banale e sostanzialmente assai tipicizzante un vino unico nel suo genere, insolito e da provare e riprovare anche nel tempo.

Isola di Ponza, Il “Tavel” 2008 di Punta Fieno

7 gennaio 2010

Nell’ultimo numero di deVinis¤, la rivista ufficiale dell’associazione italiana sommeliers, compare il bell’articolo scritto dall’amica sommelier Michela Guadagno sull’evento che abbiamo realizzato lo scorso 17 ottobre presso il prestigioso Capri Palace Hotel&Spa di Anacapri sui vini delle piccole isole del sud. In quell’occasione proponemmo in degustazione, ad una platea particolarmente edotta, alcuni tra i migliori vini prodotti nelle isole di Ischia, della stessa Capri, della splendida Pantelleria e di Ponza. Il risultato fu davvero sorprendente e tra i vini più interessanti ne venne fuori proprio quello prodotto sull’isola tanto amata da Strabone, il Fieno bianco 2008 delle Antiche Cantine Migliaccio, del quale potete trovare ampia descrizione storica ed organolettica sul sito di Pignataro¤ attraverso il racconto di Marina Alaimo¤ e di Michela Guadagno¤.

Antiche Cantine Migliaccio sopravvive esclusivamente grazie al forte legame che Luciana Sabino ed il marito Emanuele Vittorio nutrono per l’isola di Ponza ed in particolare per questo lembo di terra, in località Punta Fieno, che conserva un fascino incontaminato unico e raro in un isola da sempre depredata della sua vocazione rurale e naturalistica per fare posto al cemento delle case vacanza ed alle speculazioni dei burini arricchitisi con esse.  Appena 2 ettari di vigna allevati grazie ad un lungo lavoro di restauro di muretti a secco, abbarbicati su per la piccola collina che lega la splendida Chiaia di Luna al Faro,  raggiungibile esclusivamente attraverso una stretta mulattiera e con almeno 40 minuti di cammino che durante le estati più calde possono portare a dover sopportare temperature anche vicine ai 40-50 gradi.

Il Fieno Rosato nasce con l’intenzione di verificare le qualità tangibili delle uve rosse allocate in zona, piedirosso soprattutto, ma anche guarnaccia, montepulciano, barbera, tutti vitigni trapiantati sull’isola, in via sperimentale, dai vari contadini succedutisi nella conduzione dei vigneti nei decenni precedenti l’avvento della famiglia Migliaccio; uve, tutte, non certamente favorite da una condizione pedoclimatica davvero particolare, dato lo stress, soprattutto idrico, a cui sono sottoposte nel periodo di piena maturazione ed in prossimità dell’epoca vendemmiale. C’è da aggiungere a tutte queste, l’enorme difficoltà che si vive ad ogni raccolto, dato i mezzi tecnici a disposizione davvero essenziali a causa dell’ubicazione delle vigne e delle enormi difficoltà di strutturare il loco una vera e propria cantina, in effetti un piccolo cellaio restaurato, non senza ingenti sacrifici, dove grazie a piccoli fermentini trasportati addirittura in elicottero (!) comunque avviene tutta la fase di raccolta e vinificazione, in condizioni, per così dire, primitive.

Ciononostante mi ritrovo nel bicchiere un bel vino dal colore rosa tra il ramato ed il cerasuolo, per intenderci, appena una spanna sotto il chiaretto, di media consistenza nel bicchiere. Il primo naso va lasciato scivolare via poichè conserva una lieve nota di riduzione che con una giusta ossigenazione, due-tre minuti al massimo, va via lasciando spazio a sottili e gradevoli sentori floreali e fruttati. Note di petali di  rosa e geranio, ma subito dopo mora rossa e melograno. Caratteristiche distintive di un vino di difficile concepimento ma dal risultato encomiabile viste le difficoltà attraverso le quali nasce.

In bocca è secco, abbastanza caldo, una discreta acidità maschera bene il buon tenore alcolico che comunque raggiunge i 12 gradi e mezzo. La beva risulta gradevole ed il finale di bocca è piacevolmente ammandorlato. Da bere fresco ma non freddo, su pietanze saporite di mare ma anche su carni bianche al sugo, coniglio o pollo ruspante su tutte. Rimuginando, cercandone similitudini, mi è venuto in mente il Tavel,  tradizionale e classico rosè d’oltralpe prodotto nella a.o.c. omonima a sud della Valle del Rodano, vino emblematico di come i vini rosati possano essere amati ed apprezzati in tutto il mondo non solo come vini dal consumo veloce (di annata, per meglio capirci) ma anche da saper e poter aspettare per qualche anno prima di berli. Ecco, a volte, sacrificando mediocri vini rossi si possono tirare su, senza fasciarsi la testa e senza alzare troppo il tiro, piacevoli e rari vini ramati.


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