Formicola è un piccolo comune campano, in provincia di Caserta, con circa millequattrocento anime per quasi 600 famiglie. Per dargli una collocazione geografica, è bene riportare che sorge fra il Monte Maggiore e i colli della Callicola, nell’area montana che separa la bassa valle del Volturno da quella alta. L’origine etimologica del suo nome deriva con ogni probabilità da piccola forma, ossia un canale artificiale, con il suffisso diminutivo -icola. Altre ipotesi conducono all’ebraico Fhor-michol, ossia ruscello bollente, in riferimento a delle possibili strutture termali ritrovate in rovina, ma quest’ultima ha, a tutt’oggi, pochi riscontri plausibili.
Del casavecchia ne abbiamo già parlato ampiamente raccontandovi la bella favola di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini, ma ricordarne un po’ di storia antica, in una realtà rurale così in piena evoluzione non fa mai male. Il Trebulanum, come ci dicono gli scritti antichi, era il vino dei soldati, non ci sono tuttavia conoscenze certe sull’origine del vino casavecchia, esiste solo una leggenda tramandata tra i contadini che ne fa risalire la scoperta in un vecchio rudere, “’a casa vecchia”, appunto. Lì fu rinvenuto agli inizi del ‘900 un vecchio ceppo di circa 1 metro di diametro sopravvissuto sopra ogni probabilità alle epidemie di oidio e fillossera dell’800. Di qui la sua propagazione, che avvenne attraverso il taglio e l’impianto di talee così come descritto con “l’antico metodo della propaggine”, da Columella, con l’interramento cioè di un tralcio di vite finchè non sviluppa radici proprie.
Il casavecchia ha un grappolo di una forma cilindrica con più ali, è spesso molto spargolo e quindi più facilmente resistente alla peronospora e alla botrytis; è generalmente un vitigno molto vigoroso ma di scarsa produzione, condizione naturale grazie alla quale non c’è mai stato bisogno di indurre i contadini ad interventi o potature particolarmente drastici in vigna per ridurre le rese, visto che, come sappiamo, questi sono sempre poco avvezzi nell’accettare limiti, diciamo così, sovranaturali. La natura, quindi, ci ha pensato da sé, infatti è molto difficile riscontrare in colture di casavecchia rese che superino i 60 ql per ettaro.
Vigne Chigi, di proprietà della famiglia Chillemi, si è affacciata da poco sul mercato del vino, e come tutte le nuove aziende ne avrà di vendemmie davanti con le quali confrontarsi e quindi forgiare una solida esperienza produttiva: la materia prima, c’è da dirlo, è certamente di buona qualità e fittezza, ho bevuto, tra gli altri, un solido pallagrello bianco 2008, di buona esecuzione ma tendenzialmente troppo “caldo e robusto” per poter, alla lunga, sostenere tutto un un pasto. Da rivedere, quindi, nelle prossime uscite.
Il loro casavecchia 2008 invece, da pochissimo messo in bottiglia, è un vino dal bel colore rubino con netti riflessi violacei e mediamente consistente. Il primo naso è subito fruttato e lievemente floreale, poi speziato. Si riconoscono piacevoli sentori di piccoli frutti di bosco, di prugna e ciliegia, spezie fini. In bocca è secco, abbastanza caldo, con una buona freschezza ed un tannino abbastanza greve, poco sensibile, con una beva, quindi, equilibrata e piacevolmente legata ad una discreta sapidità. Non certamente un vino che possa durare nel tempo, ma giustamente pronto da bere adesso, con primi piatti al sugo di carne e pomodoro ma anche con calde zuppe di legumi e carni di maiale. Piccoli vitigni crescono, lasciamogli il loro tempo.