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Segnalazioni| A gennaio tre nuovi seminari #ASPIATHOME con Angelo Di Costanzo

16 dicembre 2020

Dal 26 Gennaio proseguono gli appuntamenti #aspiathome con 3 nuovi interessantissimi incontri sulla Campania Felix, alcuni dei suoi territori e i suoi vitigni, con Angelo Di Costanzo, Food&Beverage Manager e Sommelier. Durante gli incontri verrà degustato un vino che rappresenta le tipicità del vitigno o territorio oggetto della lezione, con l’intervento in diretta del produttore.

26 Gennaio – ore 20.30 – Le Terre del Fiano, con la Signora del Fiano Clelia Romano. Il racconto di uno dei vini di maggior successo dell’Irpinia, in provincia di Avellino, culla di tre straordinarie docg che proprio qui a Lapio serba una storia memorabile: una terra questa storicamente vocata all’aglianico ma che ad un certo punto si scopre vestita di bianco, sino a diventare patria e mito del Fiano di Avellino, grazie anche al coraggio e alla storia di donne del vino come Clelia Romano, per tutti la Signora del Fiano. Degustazione di Fiano di Avellino con Clelia Romano e Carmela Cieri.

2 Febbraio – ore 20.30 – Le Terre del Pallagrello e Casavecchia, c’era una volta un Principe. E’ una storia incredibile quella che proveremo a raccontare, proveniente dalla provincia di Caserta. Un viaggio che comincia proprio come una favola senza tempo, attraversando gli ultimi vent’anni immersi in un territorio unico e particolare, dalle tante anime, di cui racconteremo i vitigni Pallagrello bianco e Casavecchia. Degustazione del Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia di Terre del Principe, con Manuela Piancastelli e Peppe Mancini.

9 Febbraio – ore 20.30 – Il Taurasi, il giovane grande rosso dell’Irpinia. L’aglianico è un vitigno di particolare pregio che qui, in questo territorio straordinario, situato nel cuore dell’Irpinia, trova una casa ideale; il vino Taurasi ha una grande storia che Antico Castello prova a ripercorrere con un vino moderno e proiettato nel futuro. Degustazione di Taurasi di Antico Castello con il produttore Francesco Romano.

Non perdete questa occasione di avere un sommelier ed un produttore a casa vostra, fate domande, soddisfate le vostre curiosità affidandovi ai professionisti per il migliore approccio al vasto e meraviglioso mondo della sommellerie.

Iscrivendovi a questo percorso alla scoperta dei territori e dei vini della Campania riceverete comodamente a casa le tre bottiglie che degusterete insieme al sommelier. Questo percorso ha un costo di 105€ (90€ per i soci in regola con la quota 2021).

Iscriversi é molto semplice, basta mandare una mail a info@aspi.it che fornirà tutte le modalità per partecipare. Ad iscrizione confermata, vi verrà fornito il link a cui potrete seguire la diretta, nel giorno prestabilito, con l’app Zoom. Non perdete questo speciale approfondimento sulla Campania e continuate a seguirci, sono in arrivo altri interessanti appuntamenti.

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L’Arcante su il Napolista, questi gli articoli pubblicati nell’ultimo mese

9 dicembre 2018

Il Napolista

Da poco più di due mesi alcuni nostri contributi sono pubblicati sul giornale on line ilNapolista¤ dove ogni settimana proviamo a raccontare alcune tra le buone etichette campane prendendo spunto dai profili e dalle storie dei calciatori del Napoli¤, il nostro Napoli che continua ad incantare in Serie A¤ e Champions League¤.

Questi che seguono sono gli articoli pubblicati nell’ultimo mese che vi riassumiamo in pochi passaggi essenziali, se vi va dategli una occhiata e scriveteci pure cosa ne pensate, diteci la vostra ne saremmo davvero felici.

#5 David Ospina e il Lacryma Christi del Vesuvio rosso Vigna Lapillo 2014 di Sorrentino Leggi Qui.

#6 Allan Marques Lourerio e il Casavecchia Centomoggia 2013 di Terre del Principe Leggi Qui.

#7 Marek Hamsik e il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 di Quintodecimo Leggi Qui.

#8 Arkadiusz Milik e l’Ischia Forastera 2017 di Antonio Mazzella Leggi Qui.

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Caro Peppe Mancini ti scrivo

1 settembre 2018

Quanto manca un nuovo Peppe Mancini¤ al panorama enoico campano? Tanto, tantissimo! Persona di grande pragmatismo Peppe, mai una parola fuori posto, eppure non ha mai smesso di coltivare con grande passione ogni sua intuizione, come quella di aver portato gli occhi del mondo su un territorio perlopiù sconosciuto ai più come quello Caiatino.


Uno che alla fine degli anni ’80, da Avvocato e Principe del Foro rimette tutto in discussione e fa della sua casa di campagna a Castel Campagnano, che raggiunge perlopiù nel fine settimana, fucina di un grande progetto di rivalutazione territoriale che ha segnato la storia vitivinicola del nostro tempo.

Sono gli anni dei piccoli passi, del piccolo ‘’giardino di casa’’ piantato a uva e le prime vinificazioni con l’aiuto dei contadini della zona; poi, pian piano, quel ‘’giardino di casa’’ diviene un piccolo vigneto di circa 2 ettari, allevato con il sistema tradizionale della pergola casertana dove ‘’rinascono’’ il casavecchia¤ e la pallarella nera¤ e bianca¤; in realtà sono queste uve che nemmeno risultano negli albi ufficiali poiché spesso confuse con altre varietà autoctone campane già esistenti come, ad esempio, la coda di volpe nera e bianca. Si sta scrivendo la storia ma nessuno ancora lo sa.

Nel 1991 la prima vendemmia degna di questo nome, tutto in damigiane da 54 litri che vanno letteralmente a ruba, nel senso proprio del termine. Che disastro! Lui, Peppe, non si dà pace, anzi, si è convinto definitivamente di stare seguendo la via giusta, così nel 1992, durante una cena dove conosce Angelo Pizzi, allora alla Cantina del Taburno, uno dei più apprezzati enologi in circolazione, gli chiede una mano, dei consigli, suggerimenti per aggiustare il tiro. La Campania del vino da qui a poco dovrà imparare altri nomi da ricordare oltre l’Aglianico, il Fiano, la Falanghina e il Greco di Tufo: Casavecchia e Pallagrello nero e bianco!

Qualche anno più tardi l’incontro con il prof. Luigi Moio¤, siamo nel 1998, siamo già in rampa di lancio e la strada verso il successo è tracciata grazie anche all’incontro, da lì a poco, con la giornalista Manuela Piancastelli, tra le prime specializzate a caccia delle novità enogastronomiche campane e spesso riferimento in regione del buon Gino Veronelli che non lascerà mai più questi luoghi e Peppe Mancini.

Ecco, caro Peppe Mancini ti scrivo: la Campania del vino ha bisogno di tornare a sognare!

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Leggi anche Terre del Principe, la favola del Pallagrello¤

Leggi anche Centomoggia, il Casavecchia del Principe¤

Le Terre del Principe gentiluomo

10 luglio 2014

Siamo portati a ricordare il frate Dom Perignon come l’inventore dello Champagne. Un po’ come ai Biondi Santi viene riconosciuto il merito di aver creduto nel successo del Brunello di Montalcino ed alla famiglia Matroberardino, tutta, la conservazione ed il rilancio della viticultura campana in Italia e nel mondo.

Manuela Piancastelli e Peppe Mancini

A Peppe Mancini, fondatore di Terre del Principe, va dato atto della scoperta e la valorizzazione di vitigni pressoché sconosciuti fino agli anni ’90, il Pallagrello¤ bianco e nero¤ e il Casavecchia. Così ha dato il via alla rinascita di un intero territorio sino ad allora praticamente sconosciuto agli appassionati del vino. Un slancio che in pochi anni ha visto numerose aziende seguire le orme dell’azienda di Squille.

Ecco, ogni tanto non guasterebbe fermarsi un attimo, alzare la testa, guardare lontano, sussurrare un grazie.

Oggi nella mappa del vino campano c’è dell’altro, diversamente buono ed emozionante che va celebrato, magari sottovoce, in maniera semplice come piace fare da sempre a Peppe e Manuela a cui dedico questo mio piccolo pensiero dopo aver bevuto ieri l’altro un loro meraviglioso Centomoggia¤ 2006, assaggio che mi ha subito riportato alla mente una piacevole serata¤ dell’autunno 2008 passata assieme.

Grazie per aver consegnato agli annali la vostra bella storia d’amore e a noi i meravigliosi vini di Terre del Principe¤.

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Del Casavecchia Centomoggia 2009 di Terre del Principe: l’attesa, il ritorno, la grazia di sempre

27 aprile 2013

Ci si deve andare a Castel Campagnano, per capire bene, cogliere a pieno tutto lo splendore che certe bottiglie riescono solo appena a sussurrare.

Manuela Piacastelli - foto M. Fermariello

A Peppe Mancini e Manuela Piancastelli¤ sono occorsi diversi anni per chiarire per bene di cosa si parlava quando versavano copiosi calici pallagrello bianco e nero e casavecchia ai curiosi che si avvicinavano al loro stand in fiera; qualcuno li aveva vivamente consigliati di cercarseli e starli a sentire, di assaggiare e riprovare i loro vini – il Fontanavigna¤, il Le Sèrole, l’Ambruco¤, il Centomoggia¤-, che dalla Campania qualcosa di nuovo, diverso, davvero particolare sembrava venir fuori alla grande.

Un cammino lungo di cui oggi beneficiano in molti: la scoperta, la valorizzazione, la fermezza nel cercare di dare a questi vitigni misconosciuti pari dignità degli altri già da tempo sulla scena, una carta d’identità che addirittura per un momento sembrava impossibile potessero avere, additati come fuorilegge, trattati alla stessa stregua di sigarette da contrabbando.

Peppe Mancini e Manuela Piancastelli

Radici profonde e valori assoluti, oltre la bottiglia di vino, oltre questa o quella etichetta. Una lotta vera e propria. Vinta, per nostra fortuna. Anche per questo vale la pena passarci da queste parti, per respirarne l’aria, sentire l’odore di questa terra, assaporare quanta fatica, quanta anima, quanto carattere c’è dietro ognuna di queste bottiglie. Toccare con mano una realtà tanto solida quanto affascinante quando suggerita liquida. Pontelatone, Castel di Sasso un po’ come Radda o Castellina in Chianti: tutto può essere.

Il tempo l’anello mancante. Mancava a noi appassionati, non certo a Peppe e Manuela, o Luigi Moio che li segue da sempre in cantina. Loro sin da subito ci hanno creduto, alla buona prospettiva dei bianchi come e più dei rossi, dell’Ambruco, del Centomoggia. Vini di grande appeal sin da subito, deliziosi i bianchi, succosi i rossi ma ancora poco conosciuti al cospetto del tempo passato.

Le Etichette di Terre del Principe

Proprio su queste pagine appena qualche anno fa scrissi di una verticale se vogliamo storica per il Centomoggia¤, vissuta proprio assieme a loro e qualche altro amico là in cantina a Squille. Sei annate tra le quali però mancava proprio il 2009, ancora in affinamento nei legni; l’ho saggiato poi l’anno scorso, senza trarne francamente un giudizio definitivo: lo trovai ‘immaturo’, ‘incazzato’ quasi.

Oggi, dopo un anno, ha voluto dimostrarmi che non ce l’aveva con me; voleva solo starsene un po’ per conto suo. Sottile, invitante, mediterraneo, finissimo il naso: è balsamico, sa di violetta, marasca e liquerizia che ritornano perentorie all’assaggio. Il sorso è pacato, nerboruto ma senza le velleità di alcuni millesimi indietro, né l’increspatura colta l’anno scorso. Ecco, il valore del tempo, dell’attesa. L’indomani ho aperto un 2004, che se non fosse stato per una chiusura di bocca lievemente amara sarebbe là a giocarsela alla grande. Di raffinata piacevolezza, si dice in perfetto stato di grazia.

Verticali e Orizzontali

20 luglio 2011

Una settimana all’insegna dell’enigmistica, quella disegnatami da amici poco amici – in preda a tautologia compulsiva -, da avvenimenti che val la pena buttare subito alle spalle nonché da algoritmi incomprensibili, quelli che regolano il mondo 2.0, per me ancora troppo lontani dall’essere colti. Mi rimane da fare quello che son capace di fare: bere e raccontare.

Ci sono occasioni nelle quali ci si domanda cosa portare in tavola: fa caldo, tremendamente caldo, eppure bisogna rimediare con qualcosa. E’ il caso di magiare leggero, talvolta piatti freddi senza fronzoli né ambizioni particolari; un pomodoro, forse due, una mozzarella – o perché no -, dei filetti di tonno di quelli seri, una manciata di rucola, un filino d’olio extravergine e via così. Beh, semmai ci scappasse un tentativo – di quelli seri però – di vitello tonnato saremmo, come si dice, a cavallo; ma chi s’accontenta, si sa, gode lo stesso.

Opportuno non trastullarsi troppo per la scelta del vino, ma chi ha un pizzico di malizia non può non tentare l’asso nella manica, un rosato di quelli per niente banali da trattare oltretutto con i guanti: una scelta arguta, una giocata d’astuzia; un rosato color buccia di cipolla, delicato, esile a prima vista, ma fino e verticale nei profumi quanto nella vivace e ficcante beva. Quando bello fresco. No, non è affatto magro come si può pensare, qui il sangiovese è di quelli di primissimo piano, minuto ma di grandissima levatura, tanto da avere bisogno di stare a lungo in bottiglia, dice Franco Biondi Santi. Per contro rimane per poco, molto poco, nel vostro bicchiere. Si pensa al Rosato di Toscana Tenuta Greppo 2007 di Biondi Santi.

Invece certe sere a cena ti toccano piatti solidi, compositi, verrebbe da definirli variegati oltre che variopinti; vengono in mente linee orizzontali attraverso le quali si distendono moltitudini di profumi e sapori importanti ma non decisivi gli uni sugli altri; uno spartito complesso ma non di difficile esecuzione. Piatti ruvidi, talvolta salsati, che offrono spigolature accentuate pur senza eccessi sofisticati.

Si ha bisogno quindi di un vino florido, grasso, magnifico nel suo ego ma non raccapricciante per personalità; un rosso ricco, abbondante, copioso di frutta macerata e spezie fini, ferace di sensazioni uniche e votato a conquistare la pienezza gustativa, non necessariamente la profondità. Un sorso quasi principesco, snob per qualcuno, maledettamente efficace per altri; un bere disincantato prosperoso, robusto, quasi ammiccante. Si parla di casavecchia e pallagrello nero, in parte surmaturi, del Terre del Volturno Vigna Piancastelli 2008 di Terre del Principe.

L’estate in rosa, drink pink made in Campania

30 Maggio 2011

L’estate è alle porte. Converrebbe, come del resto avviene da sempre in Francia, accantonare per qualche tempo i grandi rossi – due/tre mesi, non di più – e pensare di dare più ampio respiro, oltre ai soliti noti ed insoliti bianchi, ai vini rosati (o rosé, che fa più chic!). A cercarne bene ultimamente se ne trovano di molto interessanti. In Campania così come altrove in Italia.Vi propongo quindi, in due uscite, una breve selezione maturata discorrendo delle bottiglie che più mi hanno conquistato in questo primo scorcio di stagione. Quest’anno, come nei programmi, ho continuato a dare ancora più spazio al bere rosa nei miei precetti, assaggiando e provandone parecchi, proponendoli oltretutto  in carta anche con una nuova posizione, nelle primissime pagine, cosicché da renderli tutti subito individuabili da parte dell’avventore appassionato alla tipologia; giuro che prima o poi la mia carta dei vini ve la presento, frattanto però eccovi tra le etichette prescelte, quelle che ritengo più interessanti e meritevoli della vostra attenzione.   

Aglianico del Taburno Rosato Le Mongolfiere a San Bruno 2010 Fattoria La Rivolta. Pensi al Taburno e la mente corre subito ad aglianico opulenti e indelebili; cominciamo col dire invece che questo rosato rappresenta ancora un colpo a segno per la splendida azienda di Paolo Cotroneo, riesce a coniugare forza evocativa e freschezza da vendere; prodotto da sole uve aglianico, del Taburno appunto, è vibrante ed efficace dal primo naso all’ultimo goccio calato nel bicchiere. Interessante anche in virtù del fatto che si propone non solo sul breve ma anche capace di reggere discretamente il tempo, anche un paio d’anni; buono da bere anche su piatti importanti. Il nome rievoca un episodio realmente accaduto a Torrecuso nel giorno di S. Bruno che vide piombare in Fattoria, in contrada La Rivolta, praticamente sbucate dal nulla, due mongolfiere planate dal cielo per toccare con mano – si disse – le splendide colline ammirate dall’alto. 

Campania Rosato Pedirosa 2010 La Sibilla. Eh sì, mi piace vincere facile; del resto quando si gioca in casa le probabilità di portare a casa il risultato sono sempre più alte. Piedirosso dei Campi Flegrei vinificato sapientemente in bianco con una brevissima macerazione del mosto sulle bucce, sicuramente uno dei più riconoscibili in riferimento al varietale; offre un naso rispettoso dei cardini classici del vitigno e della tipologia, inizialmente soave poi man mano più ampio e complesso: floreale passito, fruttato dolce e minerale, quasi sulfureo; la beva è carezzevole, giustamente secca, breve ma efficace. Da spendere sulla più gustosa delle zuppe di pesce del golfo. A trovarne naturalmente (di zuppa di pesce buona, intendo)!

Lacryma Christi del Vesuvio Rosato Vigna Lapillo 2009 Sorrentino. Benny Sorrentino non accetta compromessi, cosicché i suoi vini, quelli impressi nel fuoco dei lapilli vulcanici del monte Somma e nell’hinterland vesuviano, riposano almeno sei mesi prima di uscire sul mercato. Questo rosato duemilanove ha un colore piuttosto insolito per la tipologia, ricco e compatto, il vino è intriso di note di frutta rossa polposa e sbuffi di macchia mediterranea, si concede con un sorso intenso, ricco, minerale, che infonde al palato freschezza e consistenza. Ottimo lavoro direi, e gran bella beva; nasce da un marriage di piedirosso con una piccola percentuale di aglianico, lo consiglio di sovente sui carpacci di pesce o sul risotto agli agrumi, ma si può tranquillamente pensare di berlo anche con le carni, purché non stracotte o troppo sugose.

Paestum Aglianico Rosato Vetere 2010 San Salvatore. Poco o altro da aggiungere alla recensione già passata su queste pagine qualche settimana fa, se non l’efficace controprova avuta da allora dai numerosi clienti a cui l’ho proposto che hanno molto apprezzato soprattutto l’impostazione frutto/carattere voluta da Peppino Pagano e, naturalmente sottintesa, da Riccardo Cotarella. Aglianico di gran levatura allevato nei dintorni di Cannito, in pieno Cilento; anche in questo caso un vino polivalente, da non pensare di bere solo sul pesce, pur raccomandandone l’uso su quello grigliato.

Roseto del Volturno 2010 Terre del Principe. Pallagrello e casavecchia, non poteva essere altrimenti in casa di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini, abituati come sono – e come ormai ci aspettiamo che facciano – a fare le cose per bene e nei modi e nei tempi giusti. Ritorno volentieri a raccontare di loro, in verità l’avrei potuto anche fare prima, conservo infatti diversi appunti su una mini verticale di Vigna Piancastelli, ma aspetto di limarne qua e là alcuni concetti, ne scriverò quindi a tempo debito. Adesso spazio a questo delizioso vino uscito per la prima volta l’anno scorso e riproposto in gran forma con il 2010. Il colore è forse il più bello tra quelli presentati in questa batteria: ricco, luminoso, invitante. Il naso è un po’ sfuggente ma non manca certo sui fondamentali sentori floreali e fruttati; non facile da cogliere a freddo ma molto interessante la sottile linea speziata che si insinua non appena si alza di qualche grado la temperatura di servizio; ma, sia chiaro, pensateci solo per gioco: questo vino, come tutti gli altri raccomandati qui, beveteli belli freschi, l’estate è alle porte e vestire di rosa il vostro bicchiere sta a significare anche mettere per un po’ da parte le fisime dei sbevazzatori col termometro!

Una o due annotazioni in chiusura. E’ chiaro che la Campania può cimentarsi con buona capacità sulla tipologia, a patto però che non corra nella direzione sbagliata. Leggi banalizzazione ed omologazione. Per fare un buon vino rosato bisogna partire da un progetto serio e meticoloso, che guardi nel tempo ad una prospettiva certa e non solo al momento commerciale favorevole; quindi anzitutto uve sane e atte a tale scopo, poi tutto il resto che non sto nemmeno a sottilineare. Oltre ai vini segnalati in questo post vi sono altri che meriterebbero di essere raccontati ma ai quali era opportuno mettere avanti chi non avesse ancora avuto spazio su questo blog. Bene per esempio anche il Rosato di Tenuta San Francesco, e restando in tema tintore, pure quello di Alfonso Arpino di Monte di Grazia seppur ancora troppo scomposto nella fase gustativa: it needs time!

Qui il drink pink made in Italy.

Vendemmia 2010, le previsioni in provincia di Caserta nelle Terre del Volturno e Roccamonfina

16 settembre 2010

di Gennaro Reale, enologo di Fattoria Selvanova a Castel Campagnano, Masseria Starnali a Roccamonfina nonchè collaboratore in Vigna Viva.

L’annata 2010 si è manifestata un poco strana all’inizio ma poi pian piano sta venendo fuori molto bene. La maturazione delle uve si è lentamente evidenziata in maniera molto eterogenea, l’aglianico in particolare è emblematico per come si differenzia da areale in areale, si pensi per esempio che in Cilento credo che non si arriverà nemmeno alla fine del mese (settembre, ndr) mentre in Irpinia come è già noto si arriverà, in alcuni casi, sino a novembre inoltrato. Detto ciò, mi sento di affermare con certezza che per i bianchi sarà una gran bella annata, in alcune zone l’andamento fresco ha permesso una maturazione lenta ma particolarmente regolare, ed i ritardi, ove registrati, hanno permesso o stanno permettendo alle uve di giovarsi di importanti escursioni termiche tra giorno e notte che insistono tra l’altro già da qualche settimana.

Le Colline Caiatine e le Terre del Volturno, provincia di Caserta. I terreni qui sono ricchi di argilla con una buona dotazione calcarea ed organica (usiamo nutrire i suoli esclusivamente con gli scarti delle potature ed il letame bovino, il cosiddetto compost). Sono terreni molto resistenti alla siccità, ma nelle ultime tre annate – soprattutto ’07 e ’08 – abbiamo avuto notevole stress idrico che ha fatto andare in disidratazione soprattutto le piante più giovani mentre quest’anno l’andamento stagionale più fresco e piovoso ha permesso ai terreni di fare scorta d’acqua in abbondanza e quindi di essere rigogliosi ed equilibrati anche nel periodo più caldo agostano. Confido quindi in un grande pallagrello bianco, guardando al passato, mai sono riuscito a vendemmiare dopo il 15 settembre, per via dell’accumulo eccessivo di zuccheri ed il conseguente crollo dell’acidità, ma quest’anno invece il quadro analitico è equilibratissimo, e la maturità aromatica piuttosto spinta promettono un pallagrello bianco da ricordare negli annali, estremamente ricco e complesso: solo a vederne i mosti sono già contentissimo. Anche il pallagrello nero promette ottimi risultati, ma per il momento è opportuno rimanere alla finestra, sarà utile aspettare ancora qualche settimana per avere una perfetta maturità fenolica prima di raccoglierlo dalla pianta! L’aglianico sta benissimo, le poche spaccature dell’acino che c’erano si sono rimarginate rapidamente e queste belle giornate permettono ai grappoli la giusta areazione, importantissima per questa varietà tanto sensibile quanto prelibata.

Roccamonfina, provincia di Caserta: Masseria Starnali, di cui mi occupo, ha circa 30 ettari tutti a conduzione biologica di cui 6 vitati, in una delle zone più suggestive della denominazione, non a caso confinanti con Fontana Galardi, a circa 500 m slm e proprio alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. Qui  i terreni sono sciolti con affioramenti di roccia vulcanica e lapilli, denotando comunque una discreta percentuale di argilla. Sono terreni che soffrono molto le annate siccitose e che hanno invece goduto particolarmente di questa 2010 rivelatasi sufficientemente piovosa, quindi offrendoci vigne dalle pareti fogliari verdeggianti e frutti sanissimi. La vocazione è a falanghina ed aglianico, con una piccola parte anche di piedirosso. I tempi di maturazione sono più o meno simili a quelli Irpini, quindi è abbastanza presto per azzardare previsioni, credo si arriverà ad iniziare intorno al 20 settembre ottobre per la falanghina e fine ottobre-inizio novembre per aglianico e piedirosso. Anche qui mi aspetto una gran materia prima e non nego di aspettarmi delle belle sorprese!

In definitiva, guardando più in generale il quadro regionale, penso che sarà proprio un’ottima annata, in particolar modo sui vini bianchi e soprattutto per chi ha lavorato con buon senso ed equilibrio in vigneto. Aspettiamo i vini a conferma di tanto entusiasmo…

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Formicola, Casavecchia 2008 Vigne Chigi

29 dicembre 2009

Formicola è un piccolo comune campano, in provincia di Caserta, con circa millequattrocento anime per quasi 600 famiglie. Per dargli una collocazione geografica, è bene riportare che sorge fra il Monte Maggiore e i colli della Callicola, nell’area montana che separa la bassa valle del Volturno da quella alta. L’origine etimologica del suo nome deriva con ogni probabilità da piccola forma, ossia un canale artificiale, con il suffisso diminutivo -icola. Altre ipotesi conducono all’ebraico Fhor-michol, ossia ruscello bollente, in riferimento a delle possibili strutture termali ritrovate in rovina, ma quest’ultima ha, a tutt’oggi, pochi riscontri plausibili.

Del casavecchia ne abbiamo già parlato ampiamente raccontandovi la bella favola di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini, ma ricordarne un po’ di storia antica, in una realtà rurale così in piena evoluzione non fa mai male. Il Trebulanum, come ci dicono gli scritti antichi, era il vino dei soldati, non ci sono tuttavia conoscenze certe sull’origine del vino casavecchia, esiste solo una leggenda tramandata tra i contadini che ne fa risalire la scoperta in un vecchio rudere, “’a casa vecchia”, appunto. Lì fu rinvenuto agli inizi del ‘900 un vecchio ceppo di circa 1 metro di diametro sopravvissuto sopra ogni probabilità alle epidemie di oidio e fillossera dell’800. Di qui la sua propagazione, che avvenne attraverso il taglio e l’impianto di talee così come descritto con “l’antico metodo della propaggine”, da Columella, con l’interramento cioè di un tralcio di vite finchè non sviluppa radici proprie.

Il casavecchia ha un grappolo di una forma cilindrica con più ali, è spesso molto spargolo e quindi più facilmente resistente alla peronospora e alla botrytis; è generalmente un vitigno molto vigoroso ma di scarsa produzione, condizione naturale grazie alla quale non c’è mai stato bisogno di indurre i contadini ad interventi o potature particolarmente drastici in vigna per ridurre le rese, visto che, come sappiamo, questi sono sempre poco avvezzi nell’accettare limiti, diciamo così, sovranaturali. La natura, quindi, ci ha pensato da sé, infatti è molto difficile riscontrare in colture di casavecchia rese che superino i 60 ql per ettaro.

Vigne Chigi, di proprietà della famiglia Chillemi, si è affacciata da poco sul mercato del vino, e come tutte le nuove aziende ne avrà di vendemmie davanti con le quali confrontarsi e quindi forgiare una solida esperienza produttiva: la materia prima, c’è da dirlo, è certamente di buona qualità e fittezza, ho bevuto, tra gli altri, un solido pallagrello bianco 2008, di buona esecuzione ma tendenzialmente troppo “caldo e robusto” per poter, alla lunga, sostenere tutto un un pasto. Da rivedere, quindi, nelle prossime uscite.

Il loro casavecchia 2008 invece, da pochissimo messo in bottiglia, è un vino dal bel colore rubino con netti riflessi violacei e mediamente consistente. Il primo naso è subito fruttato e lievemente floreale, poi speziato. Si riconoscono piacevoli sentori di piccoli frutti di bosco, di prugna e ciliegia, spezie fini. In bocca è secco, abbastanza caldo, con una buona freschezza ed un tannino abbastanza greve, poco sensibile, con una beva, quindi, equilibrata e piacevolmente legata ad una discreta sapidità. Non certamente un vino che possa durare nel tempo, ma giustamente pronto da bere adesso, con primi piatti al sugo di carne e pomodoro ma anche con calde zuppe di legumi e carni di maiale. Piccoli vitigni crescono, lasciamogli il loro tempo.

Centomoggia, il Casavecchia del Principe

28 novembre 2009

Peppe Mancini sta al Casavecchia (e al Pallagrello) come Mastroberardino al Taurasi. Fatte le dovute proporzioni, il risultato minimo comune denominatore è la storia.

Tutto nasce alla fine degli anni ’80, l’avvocato che in questa storia poi diverrà Principe come consuetudine ama recarsi nella sua casa di campagna nel fine settimana per riprendersi dalle fatiche e le angherie del foro e rifarsi gli occhi ed il palato con i colori, i profumi e i sapori della terra dell’alto casertano che qui a Castel Campagnano sembrano acquisire tonalità uniche avvicinabili solo alle più famose colline del cosiddetto “Chianti shire” nella lontana Toscana. In quegli anni l’avvocato si diletta con la vigna e la vinificazione tanto che lasciandosi aiutare dai contadini della zona riesce pian piano a mettere su un piccolo vigneto di circa 2 ettari allevato con il sistema tradizionale della pergola casertana recuperando alcune marze di barbatelle di uve che qui tutti conoscono (vinificandole da tempo per consumo proprio) come casavecchia e pallarella nera e bianca ma che in realtà nemmeno risultano negli annali ufficiali degli albi poiché spesso confuse con altre varietà autoctone campane già esistenti come la coda di volpe nera e bianca.

Nel 1991 la prima vendemmia, conservata gelosamente in damigiane da 54 litri della quale però non si riuscirà a goderne del frutto poiché andate letteralmente a ruba, nel senso che vennero trafugate dalla cantinola di Peppe Mancini mentre lui era a Napoli per lavoro. Convinto però di stare seguendo la via giusta, nel 1992 durante una cena di piacere ebbe modo di conoscere l’enologo Angelo Pizzi, allora mentore della Cantina del Taburno che non fece mancare i suoi consigli per dare maggiore spinta, semmai vi fosse bisogno, al desiderio dell’avvocato di realizzare il sogno di tirare fuori da quei vitigni tanto sconosciuti vini che potessero conquistarsi un posto significativo nel panorama vinicolo campano al fianco dei già conosciuti Aglianico, Fiano, Falanghina e Greco di Tufo allora in piena evoluzione di gradimento sul mercato.

Il 1998 è l’anno dell’incontro con il prof. Luigi Moio che teneva a Caserta, presso la camera di commercio un convegno sui vitigni autoctoni campani e l’intuizione di Vincenzo Ricciardi di invitare Peppe Mancini a presentare i suoi vini si rivelò un coupe de teatre fenomenale che diede il via, di lì a poco alla realizzazione del sogno del neo vigneron, che si vide capitare tutto in un colpo sulla sua strada dapprima l’enologo giusto per la sua causa e dopo poco tempo anche la spalla giusta per dare lo slancio necessario al suo progetto: Manuela Piancastelli.

Giornalista de Il Mattino, tra le prime specializzate a caccia delle novità enogastronomiche campane, punto di riferimento in regione del buon Gino Veronelli che mai mancava di manifestare la sua stima per questa elegante, professionale e caparbia dama del buon gusto, Manuela cercò nel tempo di saperne di più su questo famigerato nuovo produttore campano che veniva fuori dal nulla con la storia di vitigni centenari recuperati dall’estinzione certa, che peraltro alimentava il mistero negandosi ad ogni richiesta di intervista sino a divenire coscritto dalla sua educata quanto spudorata insistenza: è un colpo di fulmine, è amore a prima vista.

Arrivano così i primi anni del duemila: l’avventura Vestini Campagnano, la prima azienda ad incarnare il progetto di Peppe Mancini è al suo capolinea; diversi i riconoscimenti già arrivati per il Casavecchia tra i quali alcuni di grande lignaggio ma la voglia di ripartire è tanta che subito con Manuela nel 2003 inizia l’avventura Terre del Principe, con Luigi Moio sempre al loro fianco ed una nuova storia da consegnare agli annali della viticoltura campana che annovera tra i suoi esponenti un’altra azienda a cinque stelle.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2008 L’assaggiamo direttamente dalle barriques, Peppe Mancini ci tiene a farci dare uno sguardo alla bottaia dove riposano i vini scrupolosamente stipati di carato in carato distinti per filare ed epoca vendemmiale nonché per caratteristiche post fermentative. Un lavoro maniacale che appartiene più al vigneron che all’enologo che vuole i suoi vini massima espressione distintiva di ogni singolo cru aziendale. Il colore è stupendo, viola melanzana che lascia sulla parete del bicchiere tracce cromatiche cristalline con sfumature inchiostro. Il naso è una esplosione di vinosità e succo di piccoli frutti neri, mirtillo, ribes e mora. In bocca è secco, caldo, l’assaggio dalle barrique ci consegna come prima sensazione una nota tostata leggera e ben miscelata con il tannino, comunque di latente imprinting a favore di una gradevole acidità, chiudendo ancora su di un frutto delizioso e persistente. Ne verrà un bellissimo vino.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2006 Il vitigno ha una origine ancora poco certa ma una cosa è acclarata e cioè che è presente qui nell’areale di Castel Campagnano da tempo immemore, forse il rinomato Trebulanum dell’epoca romana era composto proprio da questa uva che proprio per la sua alta resistenza alle malattie della vite è sopravvissuta al tempo ed all’uomo. Il colore è molto invitante, rosso rubino con netti riflessi violacei, poco trasparente, un biglietto da visita assai ammaliante per un vino di tre anni. Il primo naso è caratterizzato da note olfattive fruttate molto gradevoli e persistenti. Lasciandolo “aprire” mostra pian piano di avere anche note lievemente balsamiche e di burro di cacao; di buona beva, corpo e di buona profondità gustativa. Ideale se abbinato a primi piatti con ragout di carni, penso ad una bolognese o a carni bianche ricche di nerbo ai ferri. Indomabile la polposità del frutto che accompagna ogni fase della degustazione. 

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2005 Vendemmia particolare questa, la piovosità che ha accompagnato il ciclo di maturazione dell’uva ha creato non pochi problemi in cantina ed onde evitare vini con poco carattere si è dovuto intervenire (previo salasso, nda) cercando di concentrare maggiormente il frutto evitando di diluire oltremodo la materia estrattiva che è alla base della qualità di questo vino, prodotto già con bassissime rese per ettaro e con il giusto dosaggio di legni, questi ultimi sempre di secondo passaggio per non sovrastare oltremodo il frutto con i suoi tannini ellagici ceduti durante la fase di affinamento. Il colore permane su di un timbro rubino con piccole sfumature violacee, qui la trasparenza manifesta una sua minore concentrazione cromatica che trova conferma in una media consistenza nel bicchiere. Il primo naso è abbastanza persistente, caratterizzato sempre da note olfattive di piccoli frutti rossi che sembrano essere caratteristica distintiva del vitigno, il cosiddetto marker, quello dei mirtilli, mora e ribes che caratterizza il casavecchia in tutta la sua fase evolutiva. In bocca forse il suo punto debole, estremamente morbido, avvinghiato su una beva scorrevole ma senza particolare profondità. In questa fase non sarebbe male berlo su alcuni piatti di pesce salsati o in tempura (penso al Baccalà, ad esempio).

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2004 Ritorna un naso leggermente più complesso del millesimo precedente, certamente il fruttato, sicuramente più intenso e persistente ma non di meno note terziarie in piena evoluzione. Già il colore tende di nuovo ad una maggiore concentrazione, è più vivace, poco trasparente ed a retto bene i cinque anni alle spalle. Le sensazioni olfattive si fanno via via maggiormente intriganti, prima vengono fuori note balsamiche, poi erba aromatica, una nota soave di rosmarino che ritorna soprattutto dopo la beva. E’ secco, caldo, abbastanza morbido con una discreta acidità a sorreggere un vino abbastanza equilibrato. Lasciare ampiamente respirare questo vino, da accostare per esempio a formaggi pecorini freschi.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2003 Mi ha colpito molto questo vino, abbastanza lontano dai precedenti assaggiati e con una storia tutta sua: il 2003 è l’anno di nascita dell’azienda, quando ancora era in via di finitura la cantina con tutte le problematiche relative alla gestione della vinificazione e dello stoccaggio delle masse; peraltro in un millesimo non certo facile: l’annata la ricordiamo tutti per il caldo torrido che ha imperversato in lungo ed in largo, creando in molti casi i presupposti più per succhi di frutta che per vini degni di attenzione. Eppure questo Centomoggia sembra avere una marcia in più, il colore ha retto bene, conserva sempre quel timbro rubino netto e manifesta una certa consistenza. Il primo naso è subito su note terziarie, molto elegante e profondo, nuances balsamiche, liquerizia, erbe aromatiche, cuoio, terra bagnata che non smette mai di porre all’attenzione durante la beva. In bocca è secco, decisamente più austero dei precedenti, ha lasciato alle spalle brillantemente le note tostate cedute dal legno (all’epoca nuovi) e conserva un anima propria molto affascinate, altro segno che ci sono margini evolutivi possibili e tutti da scoprire anche per questo “nuovo” autoctono campano e soprattutto che probabilmente nulla gli vieta di superare il decennio di vita con la giusta brillantezza e profondità: benvenuto Casavecchia, tra i grandi vini italiani.

Terre del Principe, la favola del Pallagrello

10 novembre 2009

L’inverno quest’anno è stato assai rigido e ci ha consegnato tanta di quella pioggia che in certe giornate ci siamo sentiti quasi presi “a secchiate”; noi al sud, non siamo proprio abituati e nonostante tutti ci bombardano con il cambiamento climatico ormai in atto da anni proprio non riusciamo a farne a meno di lamentarci quando il sole non è lì, bello alto e caldo tanto da scaldarci dentro ed aprirci ai meravigliosi scenari fatti di mare e di terra che si stagliano lì all’orizzonte.

A. d. B. da TERRE DEL PRINCIPE 019

Oggi siamo stati fortunati, abbiamo beccato una giornata meravigliosa, non certo di solleone ma tanto bella e solatìa da consegnarci una decina di ore in aperta campagna in terra di lavoro come non capitavano da settimane, contornate dalla deliziosa ospitalità di Peppe Mancini e dalla straordinaria passione di Manuela Piancastelli profuse in quel di Terre del Principe .

Castel Campagnano è un luogo ameno, un angolo della provincia di Caserta che sembra lontano anni luce dalla calca senza freni del circondario della maestosa Reggia, chiuso come a proteggerlo dal Taburno da un lato, dal Matese dall’altro fatto di campi d’olivo e di vite e qua e là residenze di campagna che solo negli ultimi anni sembrano riprender vita. A camminar per queste stradine si respira subito la ruralità di questi luoghi, dai contadini quasi tutti ultrasessantenni che bazzicano sui trattori d’antan sù per i terreni ripidi e non manca di incontrare nel poco traffico tra un incrocio e l’altro vecchi carretti trainati da cavalli con carichi di verdure ed ortaggi diretti chissà dove.

Ci accoglie Manuela che assieme ai suoi due deliziosi cani Ortole e Pallagrella ci conduce all’atrio della bellissima cantina, contornato da vecchi tralci di viti interrotti qua e là dai vari riconoscimenti ricevuti dai vini aziendali in questo primo scorcio di vita e da una piccola teca dove troneggiano alcune bottiglie di “Vino Pallarello” e “Vino Spumante di Pallagrello” dei primi del Novecento: un segno tangibile del grande valore storico dell’ostinato lavoro di Peppe Mancini avviato nei primi anni novanta nella riscoperta e valorizzazione di questo vitigno ma anche del casavecchia, oggi espressioni altisonanti di un’altra viticoltura campana non più appannaggio, tra gli altri, solo di vitigni quali l’aglianico, il piedirosso, il fiano ed il greco.

Ci avviamo con Peppe in campagna a camminare le vigne, visitiamo dapprima vigna Piancastelli, appena 3 ettari rilevati da Manuela quasi come pegno d’amore appena dopo il loro incontro, impiantato a casavecchia e pallagrello nero con sistema guyot che confluiscono poi nel cru omonimo aziendale che esce solo nelle annate straordinarie e del quale ad oggi si annoverano solo le annate 2004 e 2005, quest’ultimo davvero di grande slancio interpretativo di una vendemmia non certo facile. Proprio di fronte vi è il vigneto Sèrole, un ettaro di pallagrello bianco destinato alla produzione del cru omonimo dove la polposità del frutto incontra il pregiato legno di rovere per un vino dal taglio ammaliante e coinvolgente.

Ci spostiamo in località Monticello dove vi è la parte più grande dei vigneti di proprietà, circa 7 ettari di filari questa volta impiantati con il sistema tradizionale della “pergola casertana” che contrariamente alle comuni convinzioni, ci dice Peppe Mancini, “se curato perbene in vigna e non sovraccaricato di frutti riesce a dare risultati addirittura superiori al guyot, almeno questi sono i riscontri che anno dopo anno cogliamo dalle vendemmie”. A guardare il panorama che si staglia dinanzi si apre uno scenario davvero suggestivo, siamo posti proprio di fronte dove sorge fisicamente, di là della vallata, la cantina maestosamente sovrastata in lontananza dal Matese con le cime innevate e con alle nostre spalle l’altrettanto maestoso monte Taburno, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal fiume Volturno oltre il quale la provincia inizia ad essere Benevento. Che magnifica terra!

Ritorniamo in azienda dove ci attende “il pranzo di Carnevale” magistralmente preparato da Maurizio, fratello di Manuela, a suo tempo chef e patròn, siamo nella seconda metà degli anni novanta, de “La Vineria del Mare” a Pozzuoli, locale antesignano dei moderni winebar lasciato poi per approdare alla “Tavola del Principe” per deliziare gli ospiti dell’azienda con le sue preparazioni; qui ci lasciamo rapire dal racconto di questa favola d’amore, nata per caso mentre Peppe Mancini cercava suffragio alla sua riscoperta del Casavecchia e del Pallagrello e Manuela – forse la prima giornalista (Il Mattino) dedicatasi alla cronaca enogastronomica – era alla ricerca di nuovi slanci dell’agricoltura campana. Una storia moderna che racconta di come la terra ed i suoi frutti possano decidere l’avvenire di due persone che ad un certo punto della loro vita si impongono di lasciarsi tutto alle spalle per rinvigorire una storia antica e proiettarla nel futuro, ad oggi grazie ai loro vini, straordinariamente affascinante e che invito a non perdere mai di vista. Grazie di esistere!


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