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Comunicare il vino, ovvero di cataloghi ed etichette bugiarde e sorrisi a denti stretti

14 gennaio 2010

Leggendo questo post  su  intravino mi sono ritornate alla mente le matite colorate con le quali la mia amata maestra alle elementari, la straordinaria Pina Buzzurro, era solita correggere i compiti in classe. Un colore per ogni tipo di errore, una diversa tonalità a seconda della sua gravità: il giallo ed il verde per quelli meno gravi, dettati magari dalla distrazione o dalla fretta di scrivere, il rosa, l’arancione per quelli da tenere in mente, da non ripetere, il rosso ed il blu a sottolineare quelli più gravi, quelli, diciamo così, imperdonabili, sui quali lavorare duramente e guai a ripeterli. Non di rado mi capita di ringraziare il cielo per averla avuta, una maestrina così.

L’errore è comunque sempre in agguato, guai ad ergersi a maestro della lingua e della grammatica, anzi, personalmente non posso che elogiare continuamente chi riesce a mantenere una certa “pulizia” di linguaggio, soprattutto grammaticale, lontana da quell’influenza popolana che proprio la velocità comunicativa del web ha costantemente attaccato rendendola spesso anacronistica. Il vino, il suo mondo, fa proprio della comunicazione, specializzata, settoriale, una sua arma irrinunciabile per arrivare al consumatore finale: riviste specializzate, almanacchi, guide ma anche eventi, incontri di degustazione che servono sempre (quasi) a far crescere attenzione ed attese su di una azienda, di un vino, di un territorio.

Qui con le parole si gioca tanto, la comunicazione è divenuta indispensabile, tutto, perchè puoi fare anche il miglior vino possibile ma se non lo sai comunicare rimarrà sempre misconosciuto o peggio, incompreso. Pertanto le bottiglie, le etichette, le loro retro, le brochures assumono un valore aggiuntivo importante e le fiere, i saloni del vino, le aste divengono sempre più palcoscenici fondamentali dove esaltare il proprio progetto, l’idea, il prodotto: attenzione però, da evitare assolutamente etichette bugiarde e lo scaturire di sorrisi a denti stretti.

Perchè? Perchè ci si ritrova talvolta tra le mani etichette e brochures bugiarde, pensate e soprattutto scritte da mani assolutamente a digiuno della materia, spesso quindi, con il “degustabolario” alla mano e con gli occhi chiusi, per non dire delle false verità che sembrano poi non avere più fine, tramandate di generazione in generazione diseducando, confondendo, distraendo sino all’inganno il consumatore finale.

Questa, in poche righe, la mia esperienza: ai primi tempi, alle richieste di alcuni clienti, di una buona bottiglia di Falanghina rossa piuttosto che all’insoddisfazione di trovare Taurasi solo rosso, sorridevo; Il giorno in cui svelai, tra le altre cose, la verità nascosta sul Fragolino qualcuno rimase interdetto, come quando iniziò ad essere ben chiaro il concetto che bere in uno stesso pasto vino bianco e rosso non era di per sé certezza di rimanere ubriachi o di cadere in stato confusionale.

In seguito, con pazienza, attenzione, sfatammo anche alcuni falsi miti come quello dell’ Asprigno d’Aversa o del Prosecco come sinonimo di spumantino scemo e potemmo così iniziare, tra le altre cose, a percorrere altri sentieri, come per esempio a discernere il Nobile di Montepulciano dal Montepulciano d’Abruzzo ed il Tocai friulano dal Tokaji ungherese. Venne poi il tempo di sviscerare le differenze clonali tra i sangiovesi Brunello, Morellino e Prugnolo, tra le varie anime del Nebbiolo della valtellina, di Barolo o di Barbaresco sino alla corretta pronuncia del “Ghevurztraminar” e dell’impronunciabile, per qualcuno, Quarz d’ Sciome.

Ecco, possiamo ritenerci soddisfatti di aver fatto un buon lavoro, non senza sbavature, ma il confronto ci ha sempre portato benefici, siamo per questo arrivati abbastanza lontani, e visto delle belle, non sufficienti però, evidentemente, a farci smettere di sorridere di fronte, ancora oggi, ad etichette bugiarde e strafalcioni di ogni genere, ai vini bianchi aromatici e leggeri e rossi fruttati per antonomasia, eleganti e fini per tradizione e, caratteristica tipica soprattutto dei vini rossi, quasi sempre corpulenti e robusti per vocazione, come il loro abbinamento con arrosti e cacciaggione.

Allora di cosa ci meravigliamo se un Richebourg di Madame Lalou Leroy diviene per magia un Rich Bourg Le Roi (un ricco borgo da re!!)? E’ vero, a certi livelli di conoscenza è complicato arrivarci, ma almeno una casa d’aste che sta per battere bottiglie per un valore complessivo a cinque-sei zeri non dovrebbe esimersi dal pagare quattro soldi ad un sommelier qualunque per tentare di descrivere esattamente i vini in catalogo, anche perchè, magari, queste bottiglie saranno pure capitate per sbaglio, per eccesso di vanità, per puro pavoneggiarsi nelle cantine del fu riccone di turno, ma chi le dovrà acquistare, quantomeno dovrà essere consapevole di stare spendendo cifre blu sorridendo alla leggerezza o alla rabbia.

© L’Arcante – riproduzione riservata


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