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Serralunga d’Alba, Barolo Vigna Lazzarito ’96

20 ottobre 2011

Chiariamo: tre giorni sono pochi – pochissimi – per cogliere tutte le sfumature che questa straordinaria terra sa offrire di se. Per questo, presto – molto presto – vi tornerò ancora; mi si è aperto un mondo davanti che sento valga seriamente la pena d’esser camminato, ovunque mi porti…

Ma cosa si può raccogliere in soli tre giorni? Beh, anzitutto i colori: siamo stati davvero fortunati, mai in ottobre il tempo è stato così clemente, con quell’aria quasi agostana che ci ha accolti a Barolo e ci ha fatto sentire subito a nostro agio, così come nella splendida Serralunga d’Alba. Ma c’è dell’altro, molto altro. Le colline tutt’intorno, un paesaggio splendido; qui si rischia davvero di lasciarci l’anima; solo a Vosne-Romanée ho provato la stessa unica sensazione di sentirmi in “un altro mondo”. Ma la dolcezza delle linee, ben definite, che si stagliano continuamente all’orizzonte non hanno nulla o quasi a che vedere con la pur amatissima Borgogna.

Qui, più che la mano di Dio ha potuto la fierezza dell’uomo, capace, pur tra mille difficoltà – nonostante qualche intuizione a dir poco esecrabile -, a difendere strenuamente un paesaggio finemente scolpito nella terra viva tra La Morra, Barolo, Castiglione Falletto e Serralunga, giusto per citare alcuni dei comuni del circondario a portata di mano. E poi le persone, certe storie, con alcuni dei loro vini assolutamente indimenticabili, tali da riempire decine e decine dei prossimi post. Leggerete.

A Serralunga d’Alba un passaggio tra i più felici di questa “treggiorni in langa”, tra i filari di uno dei crus più apprezzati dagli appassionati di Barolo di tutto il mondo: Lazzarito; poco più di otto ettari collocati in una conca naturale che arriva a circa 400 m slm con una esposizione sud/sud-ovest ed un profilo territoriale unico, con terreni poveri di materia organica e di origine sedimentaria marina ricco però di marne calcaree dal colore biancastro.

Qui, Fontanafredda, proprietaria di gran parte del vigneto (poi ci sono Vietti e Germano, credo), ha la sua vigna più preziosa, che tra l’altro, col millesimo 2007 esce in questi giorni sul mercato rispolverando un altro marchio storico di queste terre, Casa E. di Mirafiore, dalle chiare origini reali e svanito durante il secolo scorso, ma pur sempre all’origine di quella che è diventata prima Tenimenti di Fontana Fredda e Barolo e Fontanafredda poi.

Ma ritorniamo al Lazzarito così com’era: non è stata un’annata eccezionale la ’96, ma l’andamento climatico di quella estate, e in settembre inoltrato, nonostante non abbia risparmiato temporali e piogge, ha comunque consegnato in tempo utile nelle mani dei viticoltori della buona uva, e chi ne ha saputo fare buon uso in cantina ha tirato fuori comunque dei piccoli capolavori. Come questo. Certo, quindici anni per un Barolo non sono per niente l’eternità, tutt’altro, e anzi i tre lustri sono forse il limite minimo richiesto oltre i quali intravedere il reale potenziale di una bottiglia; ecco perché mi sento di dire che questo assaggio si è mostrato davvero speciale, una sorpresa da fissare nella memoria, imprevedibile appunto, ed estremamente rappresentativo.

Il colore è di un bel rosso granato netto, limpido, conserva ancora una certa vivacità, addirittura sull’unghia del vino appare piacevolmente cristallino. Il primo naso è subito finissimo, è lì nel bicchiere da molto, e nette sono le note di sottobosco, finocchio selvatico, fiori e foglie secche; poi ancora funghi, tabacco e quindi note più dolci, di liquirizia per esempio. In bocca è piuttosto austero, i tannini hanno di gran lunga subito il tempo, pur conservando una loro precisa trama, sottile ma ancora ben definita, vibrante, e che offrono quindi un sorso sì caparbio ma fine e morbido al tempo stesso, quanto basta, finanche lungo e avvolgente.

Solo in certe annate si verificano “piccoli miracoli” come questi, durante la degustazione l’abbiamo apostrofato come un nebiùl didattico, di quelli bastardi, duri a morire, arduo da domare, uno di quelli che ti regala solo un’annata complessa e poco generosa come questa. A Serralunga in particolar modo. Il tempo ha saputo farne tesoro, e regalarcene ancora l’emozione.

Barbaresco, del Bric Balìn 2000 di Moccagatta

24 settembre 2011

L’azienda è, per gli annali, un piccolo gioiello langarolo, fondata in quel di Barbaresco, proprio sulla strada Rabajà, verso la prima metà degli anni cinquanta da Mario Minuto. Oggi a condurla ci sono i figli Francesco e Sergio nella doppia funzione di agronomi ed enologi.

Il Bric Balìn, da nebiùl in purezza, è tra i loro prodotti di punta, messo in bottiglia per la prima volta col millesimo ’85 e votato, sin da subito, a ricercare un nuovo modello di modernità per un vino, il Barbaresco, in quel momento stretto tenacemente nella morsa del tempo e di un mercato da sempre appannaggio esclusivo del più nobile vicino di casa Barolo. Un assaggio un tantino controverso questo appena passatomi nel bicchiere; non posso certo dire che mi sia dispiaciuto, però nemmeno che mi abbia entusiasmato particolarmente; in fin dei conti però l’esperienza si è rivelata comunque interessante, almeno sotto il punto di vista didattico. Si perché mi intrigava non poco l’idea della ricerca di un Barbaresco già in quell’epoca proiettato nel futuro, molto “moderno” visto anche l’utilizzo esclusivo di barriques – per altro sempre nuove ad ogni passaggio -; un vino dove nelle intenzioni si andava ricercando l’esaltazione del frutto piuttosto che le più complesse sensazioni eteree figlie di una terziarizzazione sempre troppo lontana da raggiungere di slancio. E a quanto pare, non attendibile.

Un Barbaresco, il Bric Balin 2000 dal colore rubino/granata con ancora evidente brillantezza e solo sottili nervature aranciate. Il primo naso è inizialmente balsamico, intriso di aromi intensi che sgomitano per primeggiare e che solo una giusta ossigenazione lascia esprimere in pieno; comunque puliti, franchi si direbbe: ecco (ancora!) quell’imponente corredo fruttato, ciliegia e prugna in confettura su tutti e quindi quel sottile quanto delizioso sottofondo di violetta. Col tempo si colgono distintamente anche note di tabacco e cacao, poi cuoio, liquirizia, pepe in grani. Il sorso è asciutto, dapprima un po’ eccessivamente spiritoso, poi fresco e ancora piacevolmente tannico. Chiude un tantino scomposto, ancora frutto e va bene, balsamico pure, ma sopra tutto una strana sensazione di granulosità che scorre il palato ad ogni sorso, come se vi fossero micro residui a stuzzicare, fastidiosamente, insistentemente le papille.

E’ necessario a questo punto un qualche assaggio di annate più recenti, per riuscire a coglierne eventuali passi in avanti della personalità, dello stile ricercato da Moccagatta con questo suo Barbaresco. O quantomeno per avere un prequel di quel che poi sarà tra dieci o vent’anni. Al momento invece, per dirla tutta, pare difficile avere contezza della longevità di questo vino dinanzi a una bottiglia che in appena dieci anni pare avere già assolto a tutti i suoi doveri. Ché non è proprio questo il limite del nuovo che avanza(va)?