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Terzigno, Lacryma Christi del Vesuvio bianco Vigna del Vulcano 2014 Villa Dora

26 marzo 2020

E’ un territorio straordinario quello dentro e tutto intorno il Parco Nazionale del Vesuvio¤, è un concentrato di ricchezze naturalistiche, storia della vulcanologia, paesaggi mozzafiato, coltivazioni secolari e tradizioni che rendono l’area vesuviana uno dei luoghi più affascinanti e tra i più visitati al mondo.

E’ questa la culla del Lacryma Christi del Vesuvio, dell’uva Coda di volpe e della Falanghina, della Catalanesca e del Piedirosso, dello Sciascinoso e dell’Aglianico. Qui, a Terzigno, ai piedi del parco del Vesuvio, la porta sul vulcano tra i più visitati al mondo, c’è Villa Dora, l’azienda fondata dalla famiglia Ambrosio nel 1997 che sin dai suoi primi passi ha sempre confidato nel valore assoluto della salvaguardia del proprio territorio e consegnato nelle mani del tempo i suoi vini per lasciarne disvelare, con lentezza, con efficacia, la più alta espressione enologica.

Un’oasi di otto ettari di vigneto di età media di 30 anni e cinque di oliveto con alberi di quasi cento anni, non lontana dalla costa tirrenica che da qui è distante appena una dozzina di km; i terreni godono di esposizioni che volgono a sud-ovest e in alcuni punti raggiungono altitudini sino ai 250 mt s.l.m., circondati da una cornice di pini secolari, ginestre, giardini con rose e piante ornamentali, con tutto intorno un fitto corollario di arbusti e macchia mediterranea.

Le vigne qui si avvantaggiano tra l’altro di un’ambiente a dir poco unico nel suo genere, con terreni di natura vulcanica dove pomici e lapilli abbondano e dove le terre sono scure come la notte, dove insistono importanti escursioni termiche e le uve, tutte autoctone, vengono gestite con rigidi protocolli biologici e danno vita a vini originali, difficilmente ripetibili altrove, particolarmente longevi e ricchi di personalità.

Ne è testimonianza questo splendido Vigna del Vulcano duemilaquattordici, così giovane, vibrante e fresco! Non sorprende infatti il colore, oro puro, luminoso, con ancora acceni paglia sull’unghia del vino nel bicchiere; il naso ha bisogno di un po’ di tempo per rivelarsi del tutto ma il quadro olfattivo che ne viene fuori è affascinante e prezioso: fiori, frutta, erbette, spezie fanno da controcanto ad un sorso sottile, caldo e al tempo stesso intriso di freschezza, vi si colgono piacevoli rimandi a ginestra, corbezzolo, camomilla, albicocca, zenzero, polvere lavica, mentre in bocca si fanno subito largo sensazioni gustative che palesano stoffa e carattere minerale. Più che di Coda di Volpe e Falanghina è quanto mai opportuno raccontare di territorio, anzi, del Vesuvio!

Leggi anche Terzigno, Lacryma Christi rosso Gelsonero 2014 Villa Dora Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Terzigno, Lacryma Christi del Vesuvio bianco Vigna del Vulcano 2012 Villa Dora

11 ottobre 2014

L’azienda¤ è nel cuore del parco nazionale del Vesuvio, uno dei luoghi magici di questa nostra amata Campania Felix, con vigne che godono di un terroir unico nel suo genere, con terreni di natura vulcanica – pomici e lapilli qui abbondano, le terre sono scure come la notte -, importanti escursioni termiche ed uve, tutte autoctone, che danno vini sorprendenti e difficilmente ripetibili altrove.

Lacryma Christi del Vesuvio Vigna del Vulcano 2012 Villa Dora - foto L'Arcante

Vincenzo Ambrosio è tra le migliori persone per bene sbarcate nel mondo del vino negli ultimi vent’anni, imprenditore di successo che non ha mai smesso in questi anni, anche in quelli più duri ed incomprensibili dei primi passi di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ha dovuto lottare – più o meno in ordine degli accadimenti, ndr – con tutta una serie di luoghi comuni che qualunque persona per bene con algido ragionamento avrebbe preso come un invito a lasciar perdere.

La poca esperienza in materia, il circo degli avvoltoi del tornaconto, l’ambiente poco abituato a certi slanci, un mercato in perenne crisi, la diffidenza, l’incomprensione, i critici con la pistola fumante, le carezze del Diavolo. Sarà banale, ma chi di questa famiglia ne sa qualcosa¤, chi ha camminato queste vigne, odorato questa terra, chi si è sporcato le mani con questi vini sa che è prevalso il cuore e ha vinto, con quel sentimento mai passito che sta già tutto nel nome dell’azienda, Villa Dora¤.

Il successo di questo bianco non è misurabile coi Diplomi di merito appesi alle pareti dell’ufficio di rappresentanza, non è visibile con il nome stampato a colori sulla Guida ai vini del momento e nemmeno con la classifica imperdibile del fenomeno di turno; il successo del Vigna del Vulcano sta negli occhi della gente, nella contentezza dei loro occhi, nel bicchiere sempre pieno, nelle bottiglie vuote, finite, che poi si passano per mano per capire chi, come, dove.

Perché in fondo è vero, sino a quando non li bevi non si è mai pienamente convinti che da quelle parti possano venire fuori vini così veri, autentici, unici. Quando giovane, stizzito e fresco come questo splendido 2012, tredici gradi di puro godimento, oppure quando maturo, di cinque, sei, dieci anni e ancora in splendida forma (in giro qualche bottiglia se ne trova ancora). Vesuvio, coda di volpe, falanghina, amore: nel nome delle forti emozioni!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Terzigno, di Villa Dora e del suo ultimo Lacryma Christi del Vesuvio, il Rosato Gelsorosa 2010

17 giugno 2011

Strano il destino del Lacryma Christi del Vesuvio, un vino conosciuto ed amato in tutto il mondo, icona – nel vero senso della parola – della napoletanità in giro per il globo. Non v’è azienda campana, di quelle che contano, numeri alla mano, che non ne ha in listino almeno una referenza: è un biglietto da visita indispensabile per certi mercati, un punto fermo su cui fare leva anche ad indirizzo dell’importatore più scettico. All’estero, ma pure in casa nostra, ai turisti tout-court, si vende da solo.

E’ però una denominazione decisamente in sofferenza, da tempo ormai. Soffre, manco a dirlo, soprattutto la produzione di qualità, quella fatta dai piccoli viticoltori, o da coloro che hanno scelto di fare, sul Vesuvio, buona viticultura e vini fini anziché vendere carta straccia ed avallare così cisterne che dal Sannio-Beneventano corrono a rimpinguare le casse dei cosiddetti mediatori, talvolta con vini belli e fatti, altre volte con uve che… manco a dirlo; in ogni caso, in tempo di vendemmia, sono loro a dettare legge; una legge, inutile sottolinearlo, spietata.

Soffre, quindi, soprattutto chi ha scelto di fare grandi vini – che esprimano il territorio, come si dice -, piantando vigne in maniera razionale, usando sistemi di allevamento moderni, potature mirate, rese basse; lavorare la vigna così significa portare in cantina uva di primissima qualità e sapere dove mettere le mani, lavorarle come dio comanda e aspettare; sì aspettare, perché è necessario che il tempo faccia il suo corso, in acciaio così come in cemento o in legno, affinché la falanghina, la coda di volpe, l’aglianico ed il piedirosso di queste terre – siano essi quindi vini bianchi o rossi – abbiano la capacità di maturare il giusto tempo per arrivare a quella prontezza necessaria per essere colti nella loro essenza, e colpire nell’anima.

Ecco allora perché bere questo Gelsorosa 2010, per avvicinarsi a questa idea di viticoltura e di vino nuova e diversa, perché in questi prossimi due/tre mesi di caldo si può benissimo, bypassando l’opulenza di certi bianchi, rinunciare al tannino e alla glicerina dei rossi per ricercare, cogliere, assaporare nella freschezza e nella mineralità di questo bel rosato da aglianico e piedirosso, tutta la franchezza di un territorio che nonostante tutto riesce a guardare al futuro sempre con occhi nuovi.

Ecco, di Villa Dora, sin dagli esordi, apprezzo soprattutto la capacità di saper aspettare i suoi vini; una qualità questa – divenuta per qualche sprovveduto una costrizione acuitasi con la crisi del mercato – che ha reso i suoi Lacryma, dal bianco Vigna del Vulcano ai rossi Gelsonero e Forgiato¤, tre fulgidi esempi di come le vigne vesuviane siano adatte ad esprimere grandissimi vini capaci di attraversare il tempo con la stessa scioltezza con la quale una lama calda passa nel burro. Sono questi vini d’altri tempi, che il tempo lo sfidano, con sfrontatezza.

Bottiglie che si rivolgono ad un consumatore attento e lanciato alla ricerca di sensazioni ben determinate, alte, fuori dai soliti canoni organolettici comuni, e soprattutto fuori da ogni logica che accomuna tanti altri Lacryma nati esclusivamente per finire, perché mai nasconderlo, a fare bella mostra di se sulla mensola della cucina; bottiglie meravigliose quando con quel tratto del Vesuvio stilizzato in etichetta rievocano magari una passeggiata a Pompei o un tuffo memorabile al Faro di Anacapri, un po’ meno quando finiscono nel bicchiere, quando ci finiscono. No, i vini di Vincenzo Ambrosio e sua figlia Giovanna seguono altre strade, quelle che conducono direttamente al cuore.

Vesuvio, un Brigante dalle Terre di Sylva Mala

8 novembre 2010

Ci sono storie che appassionano, altre meno. Il più delle volte in un libro come in un film il soggetto è talmente determinante per la buona riuscita del racconto dal risultare a volte più ingombrante dei personaggi stessi, al punto da sovrastarne l’interpretazione; In tal senso, non mancano esempi, in letteratura come nella cinematografia più recente, di come pur avendo le basi di una trama forte e sensibilmente avvincente, gli interpreti, pur essendo star di primissimo piano, risultino comunque inefficaci al fine di emozionare l’avventore di turno: mi viene in mente per esempio il Pinocchio di Benigni.

Pinocchio, famoso per le sue bugie, non è certamente l’esempio migliore a cui rifarsi per raccontare di un vino che in realtà esprime una grande verità, il suo territorio, il Vesuvio, nella sua essenza più nuda e cruda, dove anche l’imperfezione risulta preziosa ed imprescindibile. E credo che le produttrici, le brillanti sorelle Siglioccolo, di cui si racconta siano grandi sognatrici, non potranno che esserne felici; In più, bere il loro vino, alla tavola di Carmine Mazza, tra una riflessione e l’altra, mi ha fatto venire in mente la parola menzogna, che pare una delle più spese, soprattutto negli ultimi tempi, nel supermercato mediatico scatenatosi a seguito delle continue emergenze rifiuti in Campania, che vede – non ultimo – proprio l’areale vesuviano ed il parco naturale come protagonista, suo malgrado, dell’ennesimo capitolo di una triste e fetida faccenda di servilismo politico e reiterato delitto civile.

Detto questo, aggiungo pure che non sono nemmeno certo che questo vino conquisti tutti coloro che vi si avvicineranno per la prima volta, o quanto meno coloro che cercano in un vino uno stereotipo “ballerino” tanto figlio del nostro tempo quanto lontano da questo Lacryma Christi rosso 2008 di Terre di Sylva Mala. Questi, nonostante non disdegni la barrique, non ha trame merlottiane, e scordatevi, per una volta, anche la vaniglia e la marmellata, apritevi invece ad un vino figlio della sua terra, scuro, austero ma soprattutto leggero. Prima di scrivere queste righe ho chiesto, non avendo avuto ancora occasione di fargli visita, alcune delucidazioni tecniche a Miriam, che assieme alla sorella Kyra si occupa in prima persona della tenuta di poco più di 6 ettari di proprietà divisi tra i comuni di Boscotrecase e Terzigno, in pieno parco naturale del Vesuvio. I vigneti di aglianico e piedirosso (80% e 20%) che compongono il Brigante giacciono su terreni sabbiosi di origine chiaramente vulcanica ad una altitudine di 300/400 m sul livello del mare e godono di una esposizione sud-sud ovest. Prima di finire in bottiglia, come già accennato, questo Lacryma fa passaggio in legno e in acciaio.

Il vino, appena 1500 bottiglie prodotte, con il duemilaotto al suo debutto sul mercato, sfoggia un bel colore rosso rubino concentrato, non appare limpidissimo ma ciò nulla toglie alla sua vivacità nel bicchiere. Il naso offre subito spunti di frutti neri turgidi e note spiccatamente minerali, il legno, come detto barrique, è solo un labile ricordo di sottofondo, il ventaglio olfattivo infatti è giocato tutto su linde note varietali e terziari appena accennati. Il punto di forza di questo vino però rimane la beva, come già accennato, in bocca è sensibilmente asciutto ma lo senti scivolare via baldanzoso lasciando traccia di una fresca vinosità, sempre in primo piano, a sgrassare e pulire il palato: ora ti punge l’aglianico, tanto ti solleva il piedirosso, un gioco delle parti perfettamente in equilibrio se non fosse per il finale di bocca lievemente amarognolo. E’ il classico rosso da spendere su paste ripiene al pomodoro, o se preferite seguire un consiglio spassionato, sul filetto di cernia con porcini e patate cilentane de Il Poeta Vesuviano di Torre del Greco, un altro indirizzo da non far mancare in agenda.

Terzigno, tutti i vini di Villa Dora ed un memorabile Lacryma Christi rosso Forgiato ’01

8 dicembre 2009

E’ il vino che non ti aspetti, ti sorprende a tal punto che a fatica credi di stare bevendo un Lacryma Christi! 

Diversi anni fa quando conobbi Vincenzo Ambrosio, il titolare di Villa Dora, ebbi subito l’impressione di stare stringendo la mano di una persona per bene, e che avrebbe sicuramente portato nella viticoltura vesuviana una sferzata di orgoglio ed entusiasmo sino a poterne rivalutare profondamente la stessa denominazione, secondo me, tra quelle campane, la più interessante ed eclettica che si possa annoverare tra i disciplinari regionali, per la particolare identità del territorio, per la diversità e l’autenticità dei vitigni coltivati e vinificati in più declinazioni e non da ultimo per il richiamo storico culturale inevitabilmente unico in questo lembo di terra strappato letteralmente al fuoco.

Eppure del Lacryma Christi del Vesuvio, oltre la storia ed i fiumi di vino venduti nel mondo rimane sempre l’alone di una denominazione vetusta, l’idea statica di un vino fine a se stesso, souvenir d’antàn senza pretese per le carovane di turisti con sandali e calzini bianchi della Penisola Sorrentina piuttosto che liquido emozionale per gli appassionati importatori nipponici che hanno proprio in Giappone costituito del nostro beneamato, un brand straordinario di “vino del vulcano”. Camminare le vigne di Villa Dora è appassionante, io l’ho fatto più di una volta, dapprima per curiosità, poi sempre per pura passione.

Siamo nel cuore del Parco del Vesuvio, a Terzigno, dove la terra è nera e dura come le pietre laviche dei muretti a secco che cingono le vigne e le difendono dal bosco, un percorso emozionale da vivere, su e giù per i saliscendi tutti intorno alla piccola cantina gioiello con annesso frantoio, tra le vigne di falanghina e coda di volpe, di aglianico e piedirosso, 13 ettari di uve ricche, sane che danno vita a vini straordinari che meriterebbero certamente migliore conoscenza e sorte da parte di un mercato e di un consumatore abituato, di inerzia, ad accontentarsi di bere una denominazione invece che ciò che di una terra è la vera espressione, oro puro, il nettare più prezioso.

Il Vigna del Vulcano, Lacryma Christi bianco è un vino che sfida il tempo, uvaggio di coda di volpe e falanghina di straordinaria complessità e mineralità, tra i migliori bianchi vesuviani mai assaggiati e riassaggiati nel tempo, il 2005 proprio in questi giorni mi ha regalato ancora una impressionante verve gustolfattiva, un vino portentoso e coraggiosamente consegnato al mercato dopo almeno due anni di affinamento tra acciaio e bottiglia, una scelta sicuramente inusuale per la consuetudine storica dell’areale.

Il Gelsonero, Lacryma Christi rosso è il connubio perfetto tra il piedirosso e l’ aglianico dell’areale, tra la leggerezza e l’immediato fruttato del primo e l’austera speziatura, la polposità del secondo, un vino proiezione reale di ciò che declinato per tante volte quante sono le bottiglie prodotte sul Vesuvio potrebbe essere la denominazione: un viaggio emozionale tra i diversi interpreti moderni di una storia antica, uno vino subito godibile al debutto sul mercato ma capace di evolvere e maturare nel tempo.

Questo lo spirito con il quale nasce anche il Forgiato, il rosso di punta dell’azienda, l’essenza forse di tutto il progetto di Vincenzo Ambrosio affidato sin dalla prima ora a Roberto Cipresso, l’enologo filosofo che certamente ha trovato sulle pendici del Vesuvio un laboratorio naturale di eccezionale vocazione dove sperimentare al meglio tutte le sue teorie. Il 2001 è un vino possente, da saper aspettare, incredibilmente longevo, fuori pertanto dai quei canoni di cui sopra che si ha necessità di superare per godere fino in fondo di ciò che questa terra sa veramente regalare al suo avventore. Selezione accurata delle migliori uve aglianico e piedirosso, elevato per circa 24 mesi tra legno e bottiglia, si presenta con un colore intrigante, rosso rubino con piccole nuances granata, poco trasparente, di buona consistenza nel bicchiere.

Il primo naso è intenso su sentori terziari, ma non stucchevole: vira dal tabacco alla liquerizia, dalla confettura di more selvatiche a rimandi di polvere di cacao; Il vino è aperto da parecchie ore, quindi riesce ad offrire di se un ventaglio olfattivo davvero complesso ed intrigante sino a sentori animali e di terra. In bocca è secco, caldo, conserva una discreta freschezza ed una piacevole profondità e polposità del frutto, in perfetto equilibrio. Un rosso davvero stupefacente, qui alla sua prima annata, aspettato pazientemente per 6 lunghi anni, utili a superare le iniziali riserve e certamente ad accrescere, magari sostanzialmente, la cultura e conoscenza del vino, di cui non si smette mai di aver bisogno!

© L’Arcante – riproduzione riservata