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I Vini della Tenuta di Fiorano

31 Maggio 2019

Il luogo è incantevole, situato a ridosso dell’Appia Antica e dell’aeroporto di Ciampino, i suoi vini perlomeno inaspettati, intrisi come sono di storia e più di qualche mistero ancora oggi, più che mai, parte delle gesta della nobile famiglia del Principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi.

Tutto nasce per volontà del Principe Alberico Boncompagni Ludovisi, personaggio tutt’ora avvolto da un non so ché di leggenda e mistero che tra gli anni ’40 e ’50, mosso da una personalissima grande passione per i vini bordolesi si mise in testa di farne qualcosa di verosimile proprio da queste parti, piantando, tra i primi in Italia, vigne di Cabernet Sauvignon, Merlot e Sémillon oltre che un po’ di Malvasia di Candia.

Per la verità gli annali raccontano che a Fiorano il vino si cominciò a produrlo già qualche anno prima, sin dal 1930, ma da varietali già diffusi in zona, l’area dei Castelli Romani è ad un tiro di schioppo da qui. Ma è nel primo dopoguerra che il Principe decide di fare sul serio, assai poco convinto dalla qualità dei vini prodotti sino ad allora, a tal punto da affidarsi all’enologo Giuseppe Palieri che sin da subito propose di innestare su buona parte delle viti della tenuta alcuni varietali bordolesi, il Cabernet e il Merlot per la parte dei rossi, il Sémillon per farne i bianchi, in uvaggio con la Malvasia locale a sua volta sostituita poi con un altro varietale d’oltralpe, il Viognier. E a dare maggiore slancio alla ”visione” del Principe contribuì di lì a poco anche un misconosciuto Tancredi Biondi Santi venuto da Montalcino, chiamato successivamente la morte di Palieri per dare continuità al progetto enologico avviato.  

Una storia che subisce un improvviso stop nel 1998, quando si decide, apparentemente senza spiegazioni, di spiantare quasi tutto il vigneto e fermare la produzione di vino. Le vicende famigliari, più o meno sussurrate, accompagnate da timidi rilanci e nuove cadute nell’anonimato non hanno granché chiarito le ragioni di tale incredibile destino tant’è che il lungo silenzio commerciale seguito, se da un lato ha contribuito ad alimentare la leggenda, dall’altro ha certamente fatto sparire dai radar questa piccola rarità italiana che invece da qualche tempo, è il 2004, prova a riappropriarsi della ribalta, sfoderando, in certe degustazioni di vecchie annate, dei veri e propri piccoli capolavori enologici.

Oggi la Tenuta di Fiorano conta ben 200 ettari di proprietà di cui buona parte destinati a vigneto, a uliveto, alberi da frutto ed altre colture tra le quali grano ed altri seminativi. Sono terreni caratterizzati da una forte matrice vulcanica, con substrati di pozzolane violacee e sedimenti di varia natura tra le quali polveri di eruzione e di trasporto. Abbiamo provato le annate più recenti delle quali, con piacere, lasciamo traccia.

Vdt Fiorano bianco 2016, da Grechetto e Viognier pari quantità. Viene lasciato sur lies in botti di rovere e di castagno da 10 ettolitri. Il colore è paglierino carico, il naso è subito fruttato di pesca bianca e nespola, poi un po’ più ampio, anche buccioso, balsamico, sa di fiori e macchia mediterranea. Al palato ha buona indole, potremmo dire morigerata nonostante il buon corpo e il tenore alcolico (14% vol.), ha sapore equilibrato e morbido, nessuna particolare velleità acida ma tanta sostanza, con un finale di bocca ”vivace” e ben sostenuto, minerale, piacevolmente sapido. Di quei bianchi sorprendenti che durante tutto un pasto rivelano ad ogni sorso qualche sfumatura di cui poter raccontare.

Vdt Fiorano rosso 2013, da uve Cabernet Sauvignon e Merlot. E’ prodotto generalmente per 2/3 da Cabernet e lasciato maturare in vecchi fusti di rovere di Slavonia da 10 ettolitri. Il Colore è di un rubino vivo ed intenso, non di quelli particolarmente concentrati. Il corredo aromatico rimanda quasi subito a note austere e sentori tostati, il lungo affinamento però non distragga da gradevoli sensazioni di piccoli frutti rossi e neri, ribes e mirtilli che lentamente si riappropriano del naso, aggiustandone il tiro, dipingendo così un quadro olfattivo interessante ed elegante. Nonostante l’annata non sia stata proprio di quelle a cinque stelle, il sorso è pieno, forse non di quelli che riempono la bocca ma è giustamente misurato, con tannino di grana finissima e un gradito ritorno di frutto sul finale di bocca che gli rende una beva godibilissima e fluente.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Ruffoli, Camartina 2008 Querciabella

8 dicembre 2013

Se tanto¤ mi da tanto anche questo qui avrà vita lunga. Torno sempre con un certo piacere ai vini di Querciabella, azienda di cui si parla sempre troppo poco nonostante negli ultimi 20 anni abbia fatto da apripista prima alle produzioni biologiche, poi a quelle ‘naturali’ sino a divenire un riferimento in Italia per la biodinamica.

Camartina 2008 Querciabella

Batteria davvero interessante quella presentata a Milano per la bella serata messa su da Quality Wines al N’Ombra de Vin¤ lo scorso novembre. Fra tutti mi è molto piaciuto il Camartina 2008, un rosso carnoso e di grande piacevolezza, dal naso slanciato, intriso di frutto e dal sorso importante, carico di materia fine e ben espressa, in perfetto stato di grazia: i tannini risultano ben fusi, l’alcol mai invadente, col frutto che ritorna succoso e dolce sul finale di bocca.

Amarcord|Il Futuro ’00 Il Colombaio di Cencio

17 novembre 2013

Il Futuro de Il Colombaio di Cencio nei suoi primi 5/6 anni di vita li stracciava tutti i SuperTuscans provenienti dal Chianti Classico: dal ’95 una sequenza incredibile di lodi et amo da ogniddove ne accompagnò l’ascesa sul mercato senza se e senza ma.

Toscana rosso Il Futuro 2000 Wilhelm Il Colobaio di Cencio - foto L'Arcante

E’ una sortita un po’ così così per questa bottiglia di Il Futuro 2000. L’azienda è di Gaiole in Chianti – vicino al Castello di Brolio -, fu fondata nei primi anni ’90 da Werner Wilhelm, imprenditore di Monaco di Baviera sceso in Toscana nei primi anni ’90 col pallino di fare grandi vini; il marchio Wilhelm fu parecchio on the wave per almeno un decennio in quegli anni.

Un rosso, Il Futuro, da sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, che matura generalmente in barriques per 24 mesi e poi ancora in bottiglia per almeno un’altro anno. Gli almanacchi dell’epoca consegnano annate memorabili (’95*, ’97*, ’99*) e qualcuna un poco meno; questa duemila sembrerebbe, col senno di poi decisamente tra le seconde. Sin dal colore appare poco brillante e con poco slancio: ha profumi risolti e un sorso sopito, senza guizzi, vellutato e morbido.

Non lo bevevo da tempo, non che avessi memoria di assaggi mirabolanti ma finire così risoluto con quel Pedigree mi pare davvero un peccato. E’ proprio il caso di dire che il tempo non gli è stato granché galantuomo.

*Tre Bicchieri Gambero Rosso

Saint-Emilion, Chateau Pavie Macquin 2004

6 agosto 2013

Chateau Pavie-Macquin è un premier grand cru classé (B) di Saint-Emilion. I 15 ettari della proprietà sono tutti collocati sul pianoro più alto di Saint-Emilion. Che poi parlare di altitudine sembra quasi irriverente se pensiamo di trovarci a circa 75/100 metri s. l. m..

Saint-Emilion 2004 Chateau Pavie-Macquin - foto L'Arcante

Devo essere sincero: Bordeaux mi manca. Nel senso che sono ormai cinque/sei anni che cerco di provarmeli tutti quelli che mi passano tra le mani. Ma non è abbastanza. Una mia idea per la verità me la sono pure fatta, sembrerà banale ma è così: grandi vini ce ne sono ma bisogna spendere cifre importanti per poter godere di una ‘grande esperienza’. Tuttavia non mancano belle sorprese come certi cru bourgeois e secondi e terzi vini poco conosciuti; ma bisogna starci dietro assiduamente e più che in altri casi nel mondo fare bene attenzione alle annate in circolazione. Buoni e cattivi non ne mancano mai.

Non posso dire di esserne rimasto rapito ma questo 2004 mi è sicuramente piaciuto. Ho letto un po’ di cose di Albert Macquin, il fondatore dello Chateau, un vero pioniere cui in molti riconoscono un ruolo importante nel rilancio di Bordeaux devastata dalla Fillossera. Come delle tante difficoltà che non ha mai consentito a Pavie-Macquin di esprimere grandi vini prima del 1998, quando, con l’avvento della nuova proprietà, oggi in mano a Benoit e Bruno Corre e Marie-Jacques Charpentier, si è cominciato a cambiare registro e farsi notare un poco di più.

Di Bordeaux, e più in generale della Francia, mi ha sempre affascinato enormemente quanto siano capaci di esaltare al massimo il concetto di terroir che viene prima dell’uva e della stessa idea di vino che si vuole realizzare. Un terroir qui complesso più che mai: dalle precipitazioni che sembrano cambiare di metro in metro alle particolari condizioni colturali; nella sola proprietà di Chateau Pavie-Macquin si contano 9 diversi tipi di terreno per la maggior parte caratterizzato da argilla e calcare. Così si è piantato più merlot (80%) che cabernet franc (18%) e cabernet sauvignon (appena il 2%).

Il colore di questo duemilaquattro è nerastro, profondo, intransigente. Il naso si lascia attendere un po’, al primo approccio non è proprio pulito, quasi idrocarburico ma di buona complessità: tira fuori sentori di frutta rossa matura e sotto spirito (è netto il cassis), erbette, pepe nero ma anche tabacco bagnato, liquirizia. Il sorso è vellutato, centrale, appena caldo con un buonissimo ritorno fruttato sul finale. Tutto sommato se li porta davvero bene i suoi quasi 10 anni. Una buona bottiglia di quelle da mettere tra gli assaggi dell’anno da ricordare.

Segnalazioni| Privo, il vino senza solfiti aggiunti

18 marzo 2013

Il progetto è di più ampio respiro, Maurizio De Simone lo sta portando avanti da un po’ di tempo e su più fronti varietali, così anche Paola Riccio gli ha voluto dare attenzione e seguito.

Campania rosso Privo - Alepa

Alepa¤ come è noto è un piccola realtà dell’alto casertano impegnata soprattutto sul fronte pallagrello bianco e nero e, tra l’altro, da sempre molto attenta alla sostenibilità ed alla espressività naturale delle sue bottiglie. Così ad una agricoltura di estrema sensibilità e qualità si va affiancando un passo ancora più avanti sull’integrità dei vini rinunciando di fatto all’aggiunta dei solfiti. Ecco perchè Privo. 

In poche parole il protocollo di lavorazione esclude completamente l’uso di solfitazioni e di metabisolfito di potassio sostituendoli con l’utilizzo di prodotti naturali derivati dai vinaccioli del vino, che hanno notoriamente proprietà antiossidanti e antimicrobiche che, unitamente alle cure di un’attenta pratica enologica soprattutto sotto il profilo della profilassi batterica, hanno consentito di ottenere vini liberi dalle interferenze dei solfiti. Questo cabernet sauvignon è il testimone numero uno ma l’anno venturo seguirà anche il primo pallagrello bianco senza solfiti aggiunti. Staremo a vedere. 

L’annata 2012 ha consegnato un vino ricchissimo tanto che in fermentazione il residuo zuccherino è rimasto predominante. Una caratteristica ‘naturale’ che Maurizio e Paola non si sono sentiti di attenuare o smorzare con tagli o altri interventi di vario genere così da portare in bottiglia un rosso vigoroso, intriso di rimandi fruttati e speziati tipicamente varietali ma dal chiaro sapore dolce e rotondo. Un cabernet da fine pasto, da mettere in tavola magari fresco e principalmente su dolci al cioccolato, o caffè, ma anche solo per fare quattro chiacchiere in libertà.

Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2: La Massa, la terra, le vigne, il suo Giorgio Primo

6 novembre 2012

Che personaggio Giampaolo Motta, che gran personaggio! Fai fatica a stargli dietro, fai fatica a capirlo se non lo conosci. Uno così meno male che c’è. Uno che per farti capire dove vuole andare ti accoglie in casa sua a suon di Haut Medòc e Pomerol, con la chitarra elettrica di Jimi Hendrix a palla e il basso di The Edge che arriva proprio sul più bello, alla fine, col Giorgio Primo 2009.

Così è stato anche per me, alle prese con una domanda a cui facevo fatica a trovare una risposta: per quale ragione uno (di fuori) compra a Panzano, nel cuore del Chianti Classico – nel bel mezzo della Conca d’Oro -, investendo cifre blu con l’idea di fargliela vedere a tutti col sangiovese, per mollare poi tutto quanto dopo appena dieci vendemmie? 

“Mollare un corno!”, ti dice. “Più semplicemente non mi andava bene quello che veniva fuori dalle mie bottiglie dopo appena 6/7 anni. Vini quasi stanchi, distesi, maturi. Per qualcuno era il meglio mai bevuto prima, col meglio che addirittura doveva ancora venire. Assurdo, mi ripetevo. Dieci anni di investimenti, ricerca, mappatura zonale, selezione clonale, sperimentazioni non potevano finire così, non era possibile che si risolvessero in poco più di un lustro con vini dal colore quasi aranciato e note di terra e sottobosco. Doveva esserci dell’altro; da lì, da quelle vigne, da quei terreni, dalla nostra passione doveva venir fuori dell’altro, che ci potesse emozionare nel tempo, un tempo non necessariamente da quantificare!”.

E come gli si può dar torto? Basta dare un’occhiata qua e là in giro, vedere le carte, i numeri, i fatti, la strada fatta sino ad oggi. Semplicemente non gli andava più bene, non era quello il risultato sperato, non era quello il grande vino pensato da Giampaolo a Panzano. Punto. E accapo. Semplice, no? 

Così nel 2002, approfittando dell’annata così così si è messo via la denominazione Chianti Classico. E pian piano, dal Giorgio Primo, il sangiovese, destinato dal 2007 in poi tutto al secondo vino aziendale, il La Massa. Spazio quindi al taglio bordolese, al cabernet sauvignon, merlot e petit verdot in percentuali variabili a seconda dell’annata. E spazio poi ai lavori della nuova cantina, finita solo quest’anno, dove poter lavorare con maggiore serenità e mezzi tecnici all’avanguardia più efficaci. La quadratura di un cerchio dopo i primi quindici anni spesi in vigna a capire dove, come e perché.

Un nuovo percorso cominciato col duemilasette, dicevo, quando poco prima di andare in bottiglia, di ritorno da Bordeaux, Giampaolo decise che fosse finito il tempo concesso al sangiovese, al suo sangiovese, di contribuire al salto di qualità del Giorgio Primo. Un cambio di marcia necessario per un’azienda che conta il 92% del suo fatturato oltre i confini nazionali, per vini che vanno in carta a Capri come a Milano, a New York piuttosto che a Montréal o Parigi. Parigi che vuole il Giorgio Primo per i più ed il La Massa per i tanti, ma che di entrambi apprezza la finezza e la pulizia, con la profondità del primo e la freschezza del secondo; proprio come accade per i vari classemènt di Bordeaux. Perché in fondo l’obiettivo di sempre, la sfida vera è tutta lì, potersela giocare – ancor più nei prossimi dieci/quindici anni, sullo stesso piano, senza paura -, con i bordolesi. Parola di Giampaolo Motta.

Toscana igt Giorgio Primo 2001. L’ultimo Chianti Classico. A distanza di oltre dieci anni, contrariamente a ciò che ne pensa lo stesso Giampaolo, a me è piaciuto tantissimo; un rosso di gran carattere, con un naso ben definito, centrato sì sulla frutta matura, tabaccoso, speziato ma in perfetta armonia con tutto il resto. Sorso di buon nerbo, con un tannino sottile e piacevole. 

Toscana igt Giorgio Primo 2007. Tanta materia in questo duemilasette, figlio di un’annata calda che l’ha certamente aiutato a tirar su muscoli e carattere. Il primo senza nemmeno una goccia di sangiovese. Il naso conferma una nota piuttosto accentuata di confettura di prugna e note tostate, tabacco, muschio e sottobosco a girarci intorno. Il sorso è caldo e avvolgente, senza particolari spigolature. 

Toscana igt Giorgio Primo 2008. Ciò che salta al naso, subito, è la pulizia e la freschezza delle note e dei sentori che vi si colgono. Il colore è violaceo, vivissimo, il naso è tutto di piccoli frutti rossi e neri e liquirizia. Molto verticale. Il sorso è ricco, ciliegioso, di buon nerbo. Molto piacevole il ritorno balsamico sul finale. 

Toscana igt Giorgio Primo 2009. Impressionante la precisione con la quale il bicchiere rivela il frutto, lo spessore e la profondità della gran materia prima, appena in rampa di lancio. Siamo su percentuali importanti di cabernet sauvignon, intorno al 70%. Varietale che va ritagliandosi uno spazio sempre più importante nella cuvée del primo vino di Giampaolo, non a caso. Se questo è l’inizio non si possono certo biasimare le scelte fatte a La Massa. Gran-Bel-Vino! 

Toscana igt Giorgio Primo 2010. In molti, in Piemonte come in Toscana dipingono la duemiladieci come un’annata interlocutoria, calda certo, che ha dato vini di un certo spessore eppure, laddove si sia lavorato con dovizia, soprattutto in cantina, dosando per bene la qualità dei legni, sembrano venir fuori vini di una prontezza insolita ma anche caratterizzati da una rara eleganza. Il frutto c’è tutto, croccante e di gran livello, il sorso ha da scrollarsi di dosso tutti i primi passi appena fatti, ma è lecito aspettarsi un campione di razza. Una cosa è certa, il Giorgio Primo, oggi, è un’altra cosa, e chissà che domani non capiti per davvero di ritrovarselo lì tra i più grandi del firmamento bordolese.

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In Poscritto: bellissimo il gioco sull’assaggio delle Premiere cuvée ancora in affinamento in barriques, soprattutto quelle atte a divenire Giorgio Primo 2011. Mi ha molto impressionato, per profondità, il cabernet sauvignon #9, di uno spessore quasi inaudito nonostante una bevibilità già dissacrante. Un po’ sulle sue invece il petit verdot, che Giampaolo invece intravede tra i migliori dell’annata. Ma pure il sangiovese pare aver fatto un bel balzo in avanti, tanto più che per il La Massa sembrerebbe destinato solo un 50/60 % dei vini base, per dar vita, forse, ad un nuovo imbottigliamento in purezza per conto proprio (un terzo vino o magari un second-vin di mezzo). 

Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #1.

Giampaolo Motta, a man beyond imagination #1: la nuova cantina di Fattoria La Massa a Panzano

29 ottobre 2012

Certo è che il suo Giorgio Primo non é un vino accessibile a tutti, ma ciò che vale, sopra tutto, è l’idea che Giampaolo rincorre da sempre con i suoi vini, produrre cioè bottiglie che gli assomiglino e che sappiano vivere e viaggiare nel tempo.

Del personaggio, della straordinaria personalità che ne fa una delle persone del mondo del vino che più mi ha impressionato ne parlerò in un successivo post dove anche i vini avranno il loro spazio. I pensieri oggi vanno a mille e le sensazioni sono tutte solo positive. Ma andiamo per ordine.

Una vita in fuga, mi verrebbe da dire, a rincorrere i suoi sogni. Questo ho pensato mercoledì sera dopo la bella serata passata assieme a parlare di calcio, macchine, amici, Bordeaux, Jimi Hendrix. Non a caso l’idea che l’accompagna da sempre era quella di poter rappresentare nella sua cantina una “rossa” con dodici cilindri a V che sfreccia sul traguardo.

E sin qui pensi all’ennesima stravagante idea di chi ha una cosa di soldi da spendere e ne fa quel che vuole; e ci starebbe pure, se questa folle idea non avesse invece alla base una lucidissima visione, un progetto serissimo, di ciò che è e non debba essere una cantina, nella sua massima espressione di bellezza, funzionalità, ergonomia.

La nuova cantina si distende praticamente sotto la collina della dimora storica di Fattoria La Massa, datata più o meno 1340. L’ingresso è a pochi metri da una delle splendide vigne che cingono, a vista, l’intera struttura, è lastricato di piastrelle bianche e nere dove ai suoi lati corrono le “testate” (le vasche), 12, pienamente visibili però solo al piano di sotto. Qui avvengono le prime importanti fasi di lavorazioni. C’è un nastro di cernita doppio, a L: le uve incassettate arrivano in sul primo punto, qui 4 persone si occupano di una prima selezione che viene lasciata salire nella diraspatrice. Da lì, per caduta, tutti gli acini passano su di un breve piano mobile dove i più piccoli vengono automaticamente risucchiati dalle feritoie e passati ad altra destinazione. I migliori invece, continuano la corsa su un secondo nastro di cernita dove il lavoro di almeno 8 persone pensa a quali portare definitivamente a vinificazione. Tutto questo naturalmente accade per ognuna delle varietà coltivate a La Massa: sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, petit verdot e alicante.

Dopo la pressatura soffice, le uve ammostate vengono immediatamente passate, per caduta, nelle vasche tronconiche d’acciaio che danno al piano sottostante. Qui, scegliendo la giusta prospettiva, si ha la “visione”: le dodici vasche a V (6 per lato) corrono lungo i lati dello spazio su un piano piastrellato bianco e nero al cospetto del soffitto rosso Ferrari! Questo però è solo uno degli effetti della bellissima suggestione provocatoria di Giampaolo Motta: sfrecciare con le sue bottiglie sulle migliori “piste” del mondo. Ciò che invece colpisce, tanto, è l’estrema razionalità con la quale è costruita la cantina. Addirittura già modulabile per le eventuali future necessità.

A guardala con attenzione, per tutto il perimetro interno della struttura non v’è un solo tubo, dico uno, che intralcia lo spazio o il lavoro. Tutto infatti corre esternamente all’ambiente di cantina, lungo una intercapedine, comodamente ispezionabile, tutt’intorno la struttura. Dalle piastrelle, con una collocazione ben precisa, sbucano solo i rubinetti necessari per il lavoro di cantina.

Vi è poi un braccio meccanico, disegnato proprio da Giampaolo, computerizzato, che corre in lungo e in largo tra le vasche e che ha, tra le varie funzioni principali, quella del batonnage/remontage che avviene praticamente contemporaneamente e senza stress alcuno per i mosti (e per gli operatori). Le vasche infatti, sia dall’alto che in basso sono facilmente accessibili, con le “bocche” poste a circa un metro e mezzo da terra, così dopo i travasi, le fecce vengono agilmente prelevate, messe in un contenitore studiato all’occorrenza che grazie ad un semplice muletto sono portate in un angolo della cantina dove un “torchio meccanico”, con discesa programmata, provvede a spremerle per bene. Due ampie “stazioni di lavaggio” poi segnano il confine tra lo spazio di lavoro e le zone di preparazione.

C’è poi un sistema integrato di controllo della temperatura e di tutte le emissioni interne la cantina che, durante il giorno, ma soprattutto durante la notte, “legge” la situazione negli ambienti. Così, una concentrazione sopra le righe di so2, una fuga di gas o altro viene segnalato da un semaforo posto dinanzi a tutti gli ingressi della cantina cosicché da segnalare, per esempio a chi sta per entrarvi, quale condizione può trovarvi una volta varcata la soglia. Sicuro. Maniacale.

La barriccaia occupa due piani di un secondo tronco della cantina, già modulata qualora in futuro servisse aumentare gli spazi destinati alla vinificazione e allo stoccaggio. Invero, qui vi è solo una parte dei vini in affinamento, altro sta ancora nella parte “vecchia” della fattoria sotto la dimora storica di La Massa. Lì, alcune vasche di cemento vengono utilizzate all’occorrenza per una breve sosta del sangiovese che ormai viene destinato tutto al secondo vino aziendale, il La Massa appunto; ma vi sono anche le barriques di buona parte delle cuvée del Giorgio Primo.

Qui i locali suggeriscono una memoria storica importante, che và piuttosto indietro nel tempo, ma sono angusti, dislocati su più livelli, di difficile gestione soprattutto per un team che ha tratto dal patron tutte le fisime possibili ed immaginabili in fatto di pulizia, muffe e quant’altro! Nella parte nuova, per concludere, un’area importante è destinata al magazzino. Al momento vi sono circa un migliaio di bottiglie in formati speciali (3 litri e litri e mezzo, ndr) e poche altre centinaia delle ultime annate 2007 e 2008. Il 2009 invece è praticamente esaurito. Con grande soddisfazione per Giampaolo.

Mi piace terminare questo primo scritto su Fattoria La Massa con alcune note di degustazione sul Giorgio Primo 2001, l’ultimo con in etichetta la dicitura Chianti Classico, poi abbandonata. Un rosso che a me, a distanza di oltre dieci anni è piaciuto tantissimo e che, per tutto il tempo che l’ho avuto nel bicchiere, ha mostrato gran carattere, un naso ben definito, con un bel timbro di frutta matura, tabacco, nell’insieme complesso, speziato, forse solo un po’ troppo terroso. In bocca era disteso ma ancora con una bella tessitura, con un tannino sottile, piacevolissimo e finale balsamico. Diciamo che, per chi ama i punteggi, in una batteria alla cieca un bel 92/93 non glielo avrebbe negato nessuno.

Bene, a Giampaolo non è piaciuto: “non era questo che volevo ritrovare in una mia bottiglia dopo appena dieci anni”. Avrete senz’altro capito il personaggio.

Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2.

Un Tignanello è per la vita, sta scritto nel tuo bicchiere, chiaro e tondo come mai prima d’ora!

17 settembre 2012

Buono è buono, ogni volta però sembra di stare a scoprire l’acqua calda, così non ci si può nemmeno ricamare su più di tanto perché il Tignanello è il Tignanello e da qualsiasi punto di vista tu lo possa leggere, interpretarlo o decantare è e rimane il grande rosso Toscano italiano famoso in tutto il mondo.

E’ un rosso che vanta numerosi primati e numeri importanti, tra i più importanti in Italia. Ciononostante, non so se ve ne siete mai accorti, ne girano davvero poche di recensioni sul web; sembra quasi che sia deleterio, soprattutto per i critici enofili più affermati, anche il solo scriverne due righe, men che meno di apprezzamento. Eppure è sempre lì, tra i primi nelle migliori guide ai vini d’Italia di ogni tempo.

La vigna, contigua a quella del Solaia, è più o meno sempre quella, poco meno di 50 ettari su per le colline chiantigiane tra i borghi Montefiridolfi e Santa Maria a Macerata. Tignanello è stato il primo sangiovese a vedere la barrique nonché il primo vino rosso con varietà internazionali e, tra gli altri, uno dei primi vini rossi fatti nel Chianti a non usare più uve bianche. Nel ’70, quanto è uscito per la prima volta, recava in etichetta la denominazione “Chianti Classico Riserva vigneto Tignanello”, con ancora del canaiolo, trebbiano e malvasia; con il ‘71 è diventato semplicemente Tignanello e con l’annata 1975 le uve bianche sono state completamente eliminate dall’uvaggio. E’ dal 1982 che la composizione varietale è invariata: sangiovese all’80%, 15% cabernet sauvignon e cabernet franc per il restante 5%.

Renzo Cotarella va affermando da tempo che Tignanello e Solaia, due delle tante punte di diamante delle tenute del Marchese Antinori, col 2007 ma ancor più con il 2008, dopo la piena maturità delle vigne reimpiantate tra il 2000 e il 2001, avrebbero cominciato un nuovo percorso verso l’eccellenza, del tutto diverso dai loro primi anni di vita. Un timbro, il loro, di nuova forgia che nasce dopo la lunga analisi, negli anni, di ogni singolo aspetto del terroir lì in tenuta. Una caratterizzazione che gli consentirà così di sfidare il tempo alla stessa maniera dei grandi chateaux di Bordeaux. Vedremo.

Intanto il duemilaotto tira le fila a tanta materia, evidente già nel colore ricco, ma soprattutto al naso, dove l’iniziale esplosione di frutta rossa va lentamente defilandosi per lasciare il passo a note di tutto un po’: è intrigante ritrovarvi sin da subito un tono iodato piuttosto marcato, sanguigno; poi si fanno largo sottili spezie dolci ma anche cuoio bagnato e sentori balsamici. Il sorso è gustoso, il piacere lungo e avvolgente, non mancano le spigolature – più acide che tanniche – ma, vivaddìo, che carattere che ha questo Tignanello. E pensate un po’ che se ne fanno (quasi ogni anno) svariate centinaia di migliaia di bottiglie. Gulp!

Saint Estèphe, Cos d’Estournel 2006

7 giugno 2012

Che il 2009 sia stata un’annata stratosferica a Bordeaux è ben noto, tant’è che al momento, con o senza “en primeur”, molte etichette – anche non premier cru -, sono praticamente inavvicinabili.

Volendo, col portafogli comunque bello gonfio, ci si può “consolare” bevendo ancora alcuni duemilasei niente male. Così questo Saint Estèphe potrebbe fare al caso vostro, per chi ama il cabernet sauvignon, con il merlot e un poco di franc. Quelle cose lì insomma. Non per niente, dopo un po’ di anni in chiaroscuro, Cos d’Estournel va costantemente aumentando le sue già ambite quotazioni di mercato e, per quanto nel bicchiere, aggiungerei, non a caso.

Il 2006 è un rosso di gran stoffa, ha forza ma anche tanta finezza, un corpo solido eppure delicato e soave, per quanto possa essere tale un rosso di questa estrazione: ha spina dorsale ma anche tanta frutta in primo piano. Il colore è inchiostro, assai fitto e il naso subito molto franco, verticale, ampio: visciola e mirtillo in primissimo piano ma anche quelle note “vegetali” – qui molto sottili e fini – tipicamente varietali. Il sorso è asciutto, intenso e teso e si distende con autorevolezza regalando ancora frutta polputa mentre sul finale di bocca chiude con una sferzata quasi metallica. Un piccolo fuoriclasse.

Supertuscan tra passato, presente e (poco) futuro

9 aprile 2012

Non che siano mancati argomenti, anzi, come inizio non poteva andare meglio. Più degli altri anni però durante questa “apertura” di stagione m’è mancato quel poco di tempo in più per potervi raccontare subito le prime bottiglie passatemi per mano: priorità all’attenzione a certi dettagli, alcune novità, gli ingranaggi da oliare e un programma di eventi enogastronomici decisamente coi fiocchi¤. Poi… l’abiocco! 🙂

Insomma, uno start up di gran soddisfazione ma parecchio impegnativo. Ancora qualche giorno di pazienza quindi e L’Arcante riprenderà a consegnarvi cose buone (nuove) dal mondo del vino con la solita frequenza; frattanto “copioincollo” dai primi appunti e vi consegno un paio di assaggi notevoli di cui vale la pena scrivere almeno qualche riga; il primo è l’Acciaiolo ’97 di Castello d’Albola¤: gran rosso, una garanzia, dal colore ancora vivace e dal naso estremamente fitto e verticale, in splendida forma. Si certo, annata fortunata quella, verrebbe da dire “impressionante”, ma giuro che non me l’aspettavo ancora così profonda: il sorso è integro, ancora vibrante e ricco, puntuto e avvolgente, decisamente “fresco” ed invitante, sorprendente!

Di proprietà della famiglia Zonin¤, Castello d’Albola è a Radda in Chianti, su per le splendide colline chiantigiane; 850 ettari di cui circa 160 a vigneto frazionato in tanti piccoli cru tra cui spiccano Montevertine, Crognole, Solatio, Ellere e Acciaiolo, appunto. Quasi il 90% delle superficie vitata è occupata dal sangiovese, poi cabernet sauvignon, chardonnay e canaiolo.

Rimanendo da queste parti, intendo in Toscana, due facce della stessa medaglia  e convincenti per metà: Le Serre Nuove 2004 e Ornellaia 2008 di Tenute dell’Ornellaia¤. Il primo, second-vin dell’azienda-mito bolgherese è nato nel ’97 per dare manforte al più blasonato Bolgheri Superiore: vi finisce infatti, solitamente come prima ricaduta, tutta l’uva ritenuta non adatta per l’Ornellaia. Sin dal colore è evidente che vive ancora una splendida stagione, è in perfetto equilibrio degustativo e laddove necessario non avrei dubbi che sarebbe il meglio da offrire a coloro i quali vanno in cerca di un bordolese toscano da cogliere a pieno e nell’immediato: al naso è fulgido, soave, asciutto in bocca. Il sorso è risoluto, composto ma con un ritorno felice e ancora pimpante, di buona stoffa e profondità. Non sarà magari il vino della vita ma ne mette parecchi in fila, anche di più blasonati, pure volendo fare due conti in casa propria.

Il secondo, dal curriculum certamente invidiabile, m’è parso invece in questa versione un tantino troppo sovraestratto, e pur vestito da uno splendido colore e da un naso incalzante – amaroneggiante – ne ho colto un sorso sostanzialmente eccessivo, surmaturo e debordante; non vorrei dirlo ma già al secondo sorso fa registrare un attacco piuttosto invadente, monocorde, quasi stancante. Paga probabilmente ognuno dei 15 gradi d’alcol (onestamente troppi).

Nutrivo una speranza, o di come si cambia non sempre in meglio: Avvoltore 2006 Moris Farms

15 febbraio 2012

Ricordo una ragazza, conosciuta quasi vent’anni fa, eravamo poco più che adolescenti, lei con un paio d’anni in meno dei miei; era piuttosto alta – “spilungona” usavamo dire -, non certo bellissima, ma aveva un fascino tutto suo, e per noi del gruppo era “la preda”, assai ambita pur se dichiaratamente inarrivabile: aveva linee sinuose e in pieno sviluppo, dei bei capelli castani, talvolta arruffati e occhi cristallini ma sempre incazzati, un caratterino deciso e, puntualmente, sempre un gran da fare.

Strappargli un appuntamento era impossibile: tra la scuola, le lezioni di pianoforte, la pallavolo potevi ritrovarti ad inseguirla per settimane intere; e non era detto che ci uscivi. Insomma, alla fine era chiaro che non l’avrebbe mai mollata a nessuno di noi, però tutti, compreso me che degli aspiranti ero il più spacciato della comitiva, continuavamo a stargli dietro. Era lì, era dei nostri, e assieme ci stavamo bene, passavamo delle belle serate ed era bello desiderarla.

Ci perdemmo di vista, suo padre – onestamente non ho mai capito cosa facesse di preciso – fu trasferito altrove. La rincontrai qualche anno dopo, venne una sera a cena al ristorante dove lavoravo, saranno passati una decina d’anni, anno più anno meno; non la riconobbi subito, in verità ci volle quasi tutta la cena per raccoglierne la familiarità, e fu più lei a riconoscere me che viceversa. L’appariscente fiore giallo che portava nei capelli, adesso chiari e più corti, ne illuminava il profilo, fulgido, ben truccato, non pesante ma finemente tratteggiato.

A fine serata, al momento dei saluti, non mancò uno scambio di battute come ai vecchi tempi, le sue, devo dire, meno originali di quanto m’aspettassi – i miei chili di troppo, l’accento puteolano, cose così -; sembrava insomma tenerci alla conversazione, ma mica più di tanto, infatti quelle stesse parole gliele avevo già sentito dire tante altre volte in passato.

Le mie non furono certo da meno, chiaramente autorizzate dalla sua compagnia di sole donne, altrimenti non mi sarei mai permesso: la trovavo certamente “cresciuta”, parecchio avvenente, era evidente che il lavoro nella moda ne aveva fatto una donna accorta, attenta, forse adesso veramente bella, di quella bellezza di cui tanto si parla in giro e della quale, ahimé, spesso si abusa. Però non so, continuavo a cogliere nelle sue espressioni, nel suo sguardo, una certa distanza, una sorta di stanchezza, quasi il tempo gli avesse strappato via le unghie, oppure, più semplicemente, la voglia o l’interesse a graffiare.

Si parla dell’Avvoltore 2006 Moris Farms, ovvero sangiovese 75%, cabernet sauvignon 20%, syrah 5%. Siamo naturalmente in Toscana, a Massa Marittima in località Poggio all’Avvoltore, su terreni argillosi, ricchi di scheletro, alcalini con esposizione a sud ovest.

St. Emilion 1er Grand Cru Classé 2004 Chateau Figeac, ovvero quando Bordeaux sale in cattedra

3 agosto 2011

Ancora Bordeaux, stavolta però “rive droite”, per un passaggio di primissimo piano tra le eccellenze d’oltralpe; siamo a Saint-Emilion e nel bicchiere ci godiamo uno Chateau Figeac 2004 davvero avvincente, in grande spolvero!

Lo chateau: Figeac è a Saint-Émilion, la rive droite di Bordeaux, una delle più ambìte delle appellation del bordolese. Numeri alla mano, quello della famiglia Manoncourt – Thierry è scomparso appena un anno fa a 92 anni – è il vigneto più grande dell’areale con i suoi 40 ettari piantati quasi in egual misura con cabernet sauvignon (35%), cabernet franc (35%) e merlot (circa il 30%). Di molto ridimensionato rispetto alla sua origine, ben più estesa e dalla cui spartizione, per vicissitudini ereditarie e/o finanziarie susseguitesi negli anni, ne hanno beneficiato in parecchi, ha conservato tuttavia intatto il grandissimo fascino di uno dei luoghi più vocati del bordolese. Qui, contrariamente alla consuetudine che vuole il merlot predominante negli assemblaggi, questi vi è presente per appena un terzo dell’uvaggio; il vino viene solitamente lasciato maturare esclusivamente in legni nuovi. Per quanto possa valere la classificazione – qui davvero poco se non nel merito puramente commerciale -, Figeac viene annoverato come un premier grand cru classé, seppur ancora di classe B nonostante la lunga battaglia (persa) di una riqualificazione in classe A.

La vigna: poco da dire, se non che il terreno qui è eccezionalmente caratterizzato dai cosiddetti graves de feu, letteralmente ciottoli di fuoco, collocati all’estremità nord-occidentale della denominazione, al confine con Pomerol. L’areale è suddiviso perlopiù in cinque microaree ben definite, due delle quali partoriscono oggi quel fenomeno chiamato Cheval Blanc, mentre le restanti tre, Le Moulins, La Terrasse e L’Enfer ricadono ancora nel dominio di Figeac.

Il vino: è palese quanto sia disdicevole appassionarsi a certi vini, apparentemente tutti uguali di anno in anno come se nulla mutasse di millesimo in millesimo; in realtà così non è: qui, più che altrove, l’annata incide notevolmente sull’imprinting del vino, e si fa sentire e come. Questo duemilaquattro pare calzare perfettamente lo stile dello chateau, meno – dicono – quello dell’appellation: Figeac, con questo uvaggio, se vogliamo atipico, è storicamente forse il meno rappresentativo dei vini di Saint-Émilion, ma quasi sempre estremamente fedele alla migliore delle interpretazioni dell’annata; così con questo millesimo, con un vino complesso, di nerbo e freschezza gustativa da vendere, tannini particolarmente eleganti.

Il colore è ricco, rubino vivo e poco trasparente; il primo naso è emblematico, frutti rossi croccanti, prugna e mirtillo in grande evidenza e note eteree, più di quelle balsamiche e speziate, piacevolissime, che richiamano tra l’altro un sentore piuttosto caratterizzante, sottile ma insistente, di brodo di carne. Al palato è asciutto, quasi arido, con un ritorno di frutta secca e spezie molto gradevole; il tannino non è aggressivo, per nulla invadente, ma non manca di sfoderare una certa vivacità gustativa, soprattutto sul finale di bocca quasi vibrante, di ottima fattura. In definitiva, un rosso di grande efficacia, con una spina dorsale importante ma tannino finissimo ed elegante e, non ultimo, una beva a dir poco gratificante dal primo all’ultimo sorso.

Curiosità: Château Figeac produce anche un secondo vino, La Grange Neuve de Figeac; non è da confondere invece con Château La Tour Figeac o con lo Château La Tour du Pin Figeac con i quali non ha, oggi, nulla a che spartire. Pensate inoltre che in tutta la Francia vi sono almeno 150 chateaux che in un modo o in altro recano nel proprio nome la parola Figeac, molti dei quali proprio nei dintorni di Saint-Émilion.

Margaux 3eme cru classé 2006 Chateau Kirwan

23 luglio 2011

Il Desiderio è uno stato di affezione dell’io, consistente in un impulso volitivo diretto a un oggetto esterno, di cui si desidera la contemplazione oppure, più facilmente, il possesso. La condizione propria al desiderio comporta per l’io sensazioni che possono essere dolorose o piacevoli, a seconda della soddisfazione o meno del desiderio stesso.

Il dolore morale subentra con la consapevolezza dell’impossibilità di soddisfarlo, e quanto più forte è il desiderio disatteso – per esempio la mancanza della persona amata o un oggetto o ancora una condizione di cui si ha assolutamente bisogno -, tanto più forte è la delusione, quindi, la decadenza del desiderio stesso. Chi ne è capace però, per una rinnovata opportunità, per innata forza di carattere, o più semplicemente per un reiterato amor del vero, può riprovarci, talvolta con spirito rinnovato, anche solo per quella sottile quanto forte e coinvolgente sensazione di poter presto rivivere la stessa attesa, quel desiderio appunto, che la mente riesce a rievocare, e rinnovare, in modi più o meno evanescenti e/o realistici nonostante le percezioni dell’esperienza effettivamente vissuta.

Questo Margaux, classificato come 3eme cru classè, è di sovente prodotto con un uvaggio composto al 40% da cabernet sauvignon, 30% merlot, 20% cabernet franc e circa il 10% di petit verdot; un classico bordolese insomma. Più o meno. Al primo vino dello Chateau Kirwan, questo per l’appunto, viene destinato circa il 65% della raccolta, pertanto è lecito pensare che vi sia una gran cura nello scegliere solo i grappoli migliori per la sua produzione. Il duemilasei in questione è rimasto in legno – un terzo dei quali nuovi – per circa diciotto mesi; non tantissimi, ma nemmeno pochini.

Nel bicchiere mi son ritrovato un vino piuttosto vivo, non c’è che dire, sia nel colore rubino, bello concentrato, che nel frutto, certamente piacevole al naso – ampio e composito delle più classiche sfumature e sensazioni olfattive -, nonché concentrato ed abbastanza fresco al palato; il sorso però, tra l’altro nemmeno così persistente, non è proprio invitante, sinuoso e rotondo come le aspettative spesso lasciano intendere; appare materico e voluttuoso ma l’incidenza speziata, in particolar modo, risulta decisamente debordante sino a conferirgli, nel finale di bocca, sensazioni di amarezza e scompostezza eccessive. Da quel che ricordo, il duemilaquattro non mi dispiacque affatto, però dicono di questo ’06 che sia un Margaux di maggiore carattere, spigoloso quanto basta e con una bella struttura: “eccellenza  in divenire”. Beh, in verità vi dico che no, ad oggi non ci siamo proprio. Io da certi vini voglio decisamente di più. E subito!

Pauillac, Grand Vin de Chateau Latour 2004

28 aprile 2011

Eccola qua, l’attendevo; e come se l’attendevo. Una delle ragioni per cui pensi valga la pena fare certi sacrifici, stare lontano da casa, dai tuoi affetti, lavorare dodici, a volte anche quattordici ore al giorno; no, non è una bottiglia che ti ripaga di tanta dedizione, può solo la soddisfazione del cliente, e non quella scritta sulla comment card di fine servizio, se vogliamo algida e buona forse per le statistiche, ma quella che spunta sui saluti finali, che senti trasalire dalla tensione della stretta di mano.

Si dice che quando Bordeaux cade in disgrazia per un cattivo millesimo, sia il Grand Vin de Latour l’unico riferimento, l’unica garanzia per godere comunque del miglior frutto del terroir bordolese anche in una pessima annata. In verità vi dico che rimango scettico, non poco, sulla grandezza di certi vini presi così, d’emblée, al netto della liturgica suggestione della loro storia, pur costruita – tra l’altro con minuziosa perizia, soprattutto commerciale – in oltre duecento anni di storia viticola, almeno quelli più tangibili dalla critica enologica.

Tant’é che parliamo di un gran vino, di nome, e di fatto; Latour duemilaquattro è cabernet sauvignon per l’80%, merlot al 18%, cabernet franc e petit verdot per il restante 2%; un taglio millimetrico, si direbbe. Gli annali dicono di 78 ettari di proprietà tutti allocati lungo la sponda sinistra della Gironda, nei dintorni di Pauillac, dove però solo 47 ettari concorrono alla produzione del Grand Vin, mentre il resto viene distribuito tra il secondo vino rosso, Les Forts, ed il Pauillac propriamente detto.

Il colore è rubino scuro, decisamente caratterizzato, di notevole estrazione, impenetrabile, denso; il primo naso è sottile, volto al terroso, apparentemente scomposto; gli bastano però pochi minuti per riproporsi, con particolare suggestione, sulle più classiche note di frutti neri, ribes e mirtillo, poi ancora ginepro; lascio il bicchiere per qualche ora, mi dedico al servizio, c’è gente stasera. Quindi ci ritorno su a fine serata. Le bottiglie aperte qua e là mi hanno frattanto offerto altri piacevoli stappi, ancora assaggi interessanti di cui conservo qualcuno dei nuovi. Discutiamo, con Sabatino, il mio cantiniere, sull’opportunità o meno di proporlo il Biserno ’07 del Marchese Ludovico Antinori – “Angelo, sicuro? Pe’ mmé è ancora così giovane…” – ma il cliente ha pur sempre ragione; e il mio budget pure. Un sorriso tira l’altro, così riprendo tra le mani questo benedetto Latour 2004, stipato con tanta gelosia da occhi indiscreti: il timbro olfattivo adesso è virato, ora primeggiano note minerali, salmastre, corteccia; poi finissimo pellame, infine tabacco. Il sorso è intenso, caldo e profondo, e non potrebbe essere altrimenti; il tannino, dolcissimo, non smette di carezzare il palato, avvinghiato a finissima acidità.

E’ vero, certe etichette restano maledettamente inarrivabili, forse assurde, eppure… Bonne chance! Monsieur Dauphin, grazie mille per avermi concesso, per tre volte, di condividere con lei questo prezioso ed esclusivo passaggio a Medòc…

Barbaresco, non il vino. Darmagi 2001 Gaja

5 febbraio 2010

Dicono di lui: “Angelo Gaja è, per il vino italiano, l’emblema stesso dell’uomo vincente. È uno a cui bisogna star dietro perché va veloce, e costringe all’inseguimento in tutti i sensi, tanto per quella sua spiccata arte dialettica che per la camminata veloce”. (Luca Bonci, www.acquabuona.it).

“Parla di sé parlando di altri o se vogliamo parla di altri facendo credere di non parlare poi più di tanto di sé”. (Alessandro Franceschini, www.lavinium.com).

Potrei continuare a lungo citando solo le frasi, per così dire famose, che girano sul web; Lui stesso, nonostante non manchi di professarsi lontano dal circo mediatico degli ultimi anni, non ha mai smesso di mettere carne al fuoco, puntualmente, con uscite imprevedibili, da vera star del firmamento, spesso spiazzanti, ancor di più discutibili, come quando fece recapitare a suo nome, al giornalista Franco Ziliani di vino al vino una lettera di invito rivolto a tutti i lettori dei blog che desiderassero fargli visita lì a Barbaresco, presso la cantina storica, per avere la sua opinione sul caso Brunello, non senza però sottilineare di non gradire, in quella occasione, l’arrivo dei giornalisti. Insomma, Angelo Gaja, al di là dei suoi amati (o a seconda, odiati) vini, ha lasciato e lascia tutt’ora, una traccia indelebile nel mondo del vino italiano che non può non essere sotto gli occhi di tutti. 

Il Darmagi è un vino che ha fatto discutere molti, per qualcuno invece è più semplicemente un vino di cui non discutere affatto. Di certo non è un vino qualunque, fosse solo per il prezzzo, oltre i 100 euro in enoteca. In generale avvicinarsi ai vini di Gaja può essere tante cose, spesso dei suoi Barbaresco ed ex tali si parla tanto più di quanto se ne siano bevuti, percui l’aver timore reverenziale o essere irriverenti significa camminare una linea assai sottile e fragile. Non sono certo bottiglie che si aprono spesso, almeno dalle nostre parti, costicchiano parecchio e quando te ne capita una a tiro, non sai mai che panni vestire: ci si lancia appassionatamente alla ricerca di una radiografia, quasi risonanza magnetica, ma più che per le emozioni da tirarne fuori si va in cerca della minima sbavatura, uno sgarro, uno solo, per poter dire finalmente: “Mamma che vino!” oppure, “Cavolo, come pensavo, non vale sti’ soldi!”. Arduo tirare le somme dell’una o l’altra definizione e più passa il tempo che lo giri e rigiri nel bicchiere più cerchi di tutto purchè non giustifichi quel prezzo.

Il vino nasce dalla volontà del grande produttore piemontese di cimentarsi col cabernet sauvignon in quel delle langhe, il nome Darmagi viene proprio dall’espressione dialettale piemontese “…che peccato!” che pare fosse stata espressa dal buon padre di Angelo Gaja nel vedere estirpare le vecchie vigne di nebbiolo per fare posto al cabernet. Il vino si presenta nel bicchiere di un rosso rubino concentratissimo, limpido, impenetrabile, consistente. Il primo naso è ampio e complesso su note di frutta surmatura, sensazioni balsamiche di liquerizia, tracce eteree di cuoio. L’alcol è prima invadente poi sovrastato dal frutto, il tannino è ben risoluto. In bocca è ricco, avvolgente, la sensazione di calore percepita alla deglutizione è decisa, ritorna di nuovo in primo piano, il frutto, volendone tracciare un profilo armonico si può tranquillamente scrivere di un vino maturo, forse oltremodo. E’ comunque una bella esperienza degustativa, però, mamma mia che vino, ma lo sapevo, non li vale sti’ soldi! 🙂

Osimo, Pelago 1998 Umani Ronchi

23 gennaio 2010

Fine estate 2001, varcavo la soglia  dell’autodeterminazione, decidevo del mio futuro lasciandomi alle spalle anni di duro lavoro ed importanti soddisfazioni personali, iniziavo però ad intuire che era nella crescita corale di una intera brigata di sala il successo più importante, mancato negli ultimi tempi, non certo per mia volontà.

Era il tempo delle vacanze e come molte in quegli anni era tempo di andar per cantine a scoprire e capire il vino e le sue origini; la Toscana nel cuore ma divenuta già pane quotidiano per non parlare dell’amato sud, ecco che gli occhi ricaddero sul Conero, nelle Marche, con l’idea poi di fare una capatina di lì a qualche decina di chilometri in Umbria, a Torgiano e Montefalco in particolare. Così fu.

Arrivammo ad Osimo alle porte di Umani Ronchi una domenica mattina di fine agosto, io, Lilly e la mia Peugeot rosso lucifero fiammante: ne ha macinati di chilometri, ne ha presi di moscerini in faccia il vecchio leone francese irto sulla mascherina davanti al radiatore. Ci accolgono, inattesi, con cordialità ed estrema disponibilità, facendoci visitare il bellissimo vigneto da poco reimpiantato che sovrasta la cantina interrata, l’area di vinificazione ipermoderna, la suggestiva barriccaia e la sala degustazione dove, con il dott. Bernetti ci fermiamo a bere alcuni vini cult dell’azienda: il verdicchio Villa Bianchi, il mio sempiterno amato Casal di Serra ed il Lacrima di Morro d’Alba subito prima del fuoriclasse di casa, il Pelago.

Nel tempo a venire, non avrei mai dimenticato quella mattinata e l’assaggio di ieri sera dell’ultima bottiglia di ‘98 in cantina, condivisa con l’amico Massimo Andreozzi, ha riaperto, in maniera vigorosa, importanti riflessioni personali sulla necessità di un profondo rinnovamento, di rispolverare, se necessario, quella soglia di autodeterminazione, ferma lì a qualche metro, apparentemente distante ma facile da raggiungere e nuovamente superabile con appena uno scatto in avanti, inevitabile, imprescindibile per rinvigorire stimoli ed obiettivi.

Il Pelago di per sé è un vino decisamente fuori dall’ordinario e questo piacevole e suggestivo riassaggio del ’98 non ha potuto che confermare questa mia convinzione. Nasce da un uvaggio rimasto perlopiù invariato nel tempo di cabernet sauvignon al 50%, montepulciano al 40% e Merlot col restante 10%.Il colore è vivace su di una  tonalità rosso rubino con riflessi nitidamente granato; il primo naso è variamente caratterizzato da note varietali tipiche del cabernet come l’erbaceo, il vegetale, con sentori che vanno via via facendosi più o meno intensi su riconoscimenti di pepe nero, liquirizia, lignite, sensazioni sottili, eleganti, invitanti.

Lo spettro olfattivo man mano si apre su fronti più ammiccanti, si distinguono pregevoli toni floreali di viola passita ed un fruttato maturo di prugna e ribes nero in confettura. In bocca è secco, abbastanza caldo, di buona profondità gustativa, il tannino è risoluto e lascia ampio spazio all’equilibrio ed alla piacevolezza di beva confortata soprattutto da una discreta sapidità. Noi l’abbiamo bevuto per puro piacere, probabilmente all’apice della sua parabola evolutiva, l’abbiamo trattato da compagno di conversazione, e non ci è certo rimasto indifferente. In genere, è bene abbinare il Pelago a piatti importanti, strutturati, succulenti, anche aromatici, non mancherà di sorprendere con la sua costante intensità gustativa.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Supertuscan nel Chianti Classico, Cabreo il Borgo 2003 di Ambrogio&Giovanni Folonari

13 dicembre 2009

Chi ama impara a correre presto, ed io il vino l’ho imparato a rincorrere a lungo ed ovunque. Estate 2007, viaggio in Toscana con alcuni Amici di Bevute alla scoperta del sangiovese di Montalcino, poi del Chianti Classico, poi di Scansano, perchè camminare le vigne e sgranare gli occhi sono le cose che mi riescono meglio, per dirla, più o meno, con Luigi Veronelli.

Sarà pure un concetto, diciamo così, astratto, e se vogliamo pure banale, ma il vino – oibò – si fa in vigna. Fu quello un viaggio straordinario, per vigne e cantine, avremmo in quell’occasione bevuto un centinaio di vini, pochi tenuto conto dell’immenso patrimonio enologico del triangolo in questione, ma tanti se pensiamo ad una tre giorni di totale full immersion. Indimenticabile!

E Il Borgo non poteva certo mancare; nasce in un luogo da sogno, in località Cabreo di Zano, una posizione che domina la cittadina di Greve in Chianti, dove, in circa 46 ettari quasi in unico corpo, si coltivano il sangiovese ed il cabernet sauvignon che danno vita a questo bellissimo vino. Esce la prima volta nel 1985 con il millesimo 1982, “si fonda su una felice combinazione di uve sangiovese e cabernet sauvignon che insieme esaltano, da un lato, l’eleganza e la sapidità del sangiovese, dall’altro la rotondità e concentrazione del cabernet”, parole assolutamente non banali per descriverlo in maniera sintetica ed esaustiva.

Il duemilatre rispetto al duemilaquattro bevuto qualche tempo fa possiede una morbidezza ed un avvolgenza più espressiva, marcato forse da un’annata calda ma anche di una evoluzione più costante in un tempo comunque relativamente breve per un vino di questa portata. Il colore è rosso rubino vivace, limpido e di buona concentrazione, tanto da risultare assolutamente poco trasparente. Il primo naso è intenso e complesso, arrivano subito note mature,  frutta a polpa rossa in confettura, note vegetali e speziate, visciole, frutti sotto spirito, foglia di pomodoro, pepe. Fini ed eleganti, sopraggiungono poi note di caffè tostato e cioccolato. In bocca è ricco, intenso, frutto ancora in grande spolvero, tannino presente, sostenuto da una decisa carica glicerica, un vino robusto, quasi materico durante tutta la sua beva che chiude con una piacevole sensazione dolcemente balsamica. Un rosso super, da bere dopo averlo lasciato lungamente respirare su piatti importanti, strutturati, cacciaggione con spezie ed aromi, arrosti ricchi e succulenti, formaggi parecchio stagionati, anche erborinati. Un vino nel mio cuore, un Supertuscan nel cuore del Chianti Classico.

Montevetrano, Silvia c’è!

14 novembre 2009

silviaimparato[1]

Tutto nasce per gioco ma non per caso; la storia dell’azienda agricola Montevetrano ha origine nell’entusiasmo di poter sperimentare con un gruppo di amici la passione condivisa per il vino, laddove i riferimenti mitici del momento erano i vini bordolesi. Era il 1985 quando nei dintorni del Castello di Montevetrano, nelle Colline Salernitane in una vigna di appena due ettari di proprietà della famiglia Imparato sin dal 1940, dove si produceva frutta, nocciole, vino ed olio per uso familiare si reinnestano marze di aglianico di Taurasi, cabernet sauvignon e merlot su barbera, per’è palummo (piedirosso) e uva di Troia. Il 1991 è l’anno delle primissime  bottiglie di Montevetrano, davvero pochissime e solo per gli amici più stretti con il cabernet al 70% e l’ aglianico al 30%.

E’ una festa, un gioco per l’appunto che Silvia ha voluto innescare, ma sorprendentemente entusiasmante perché il Montevetrano è molto superiore alle aspettative cosicchè bando alle ciance e s’iniziò a fare sul serio. L’incontro con Riccardo Cotarella fa il resto della storia che ormai è patrimonio della vitienologia campana e se vogliamo dell’Italia intera. Si perfeziona il taglio con una percentuale più bassa di aglianico e l’introduzione del merlot ed infatti il vino risulta acquisire immediatamente grande godibilità seppur senza mancare in personalità e carattere da smussare con attenta evoluzione in bottiglia. 

Nasce un vino che in pochi anni, appena un quinquennio, divenne una icona di come un terroir assolutamente sconosciuto potesse assurgere a fasti illustri grazie ad iniziative coraggiose ed indirizzate a produrre solo e sempre qualità. Montevetrano oggi non è un semplice vino, è un simbolo, per alcuni è stato “la moda del momento” un po’ come accadde un decennio prima al Sassicaia, questi ben presto hanno dovuto ricredersi e guardare a questo piccolo gioiello proprio come hanno dovuto rivedere la loro posizione nei confronti dell’antesignano dei SuperTuscan in quel di Bolgheri. Forse il paragone è azzardato ma le vicende sembrano somigliarsi abbastanza, vedi Bolgheri oggi ed ammiri un’area vocatissima ed una denominazione prestigiosissima, ma in quanti avrebbero scommesso ciecamente sull’opera degli Incisa della Rocchetta? Montevetrano ha percorso vicende avverse e tanti pregiudizi proprio come il Sassicaia, facendo suo un terroir che prima non esisteva ed esaltandolo al suo massimo splendore; additato dai più per la mancanza di originalità, di una tipicità che in realtà in questa zona non è mai seriamente sopravvissuta ai vini modesti e venduti alla buona sul mercato locale è oggi forse la massima espressione territoriale che un vino possa rappresentare.

Pensare alla Campania fuori dagli schemi comuni dell’areale Irpino sempiterno apprezzato e dei vini della provincia di Napoli venduti in tutto il mondo ma sempre recepiti come vini di basso profilo poteva essere un grande affanno alla ricerca di una o due realtà capaci di esprimersi a livelli qualitativi eccelsi, oggi tutto questo fortunatamente è ampiamente superato, dire Campania è dire tanto ma non è più difficile pensare a questa terra come espressione di grandi cru e Montevetrano è a tutti gli effetti uno di questi. Per avere una idea chiara di cosa possa esprimere nel tempo questo vino, segue una breve verticale di quattro annate.

139b[1]Montevetrano 2006. Il Montevetrano è prodotto esclusivamente con uve di proprietà, cabernet sauvignon, merlot ed Aglianico nella selezione clonale vicino all’aglianico di Taurasi. Viene vinificato ed imbottigliato nella tenuta, a garanzia del controllo totale di tutto il ciclo produttivo. Il 2006 si presenta con un colore rosso rubino, di bella vivacità caratterizzato da poca trasparenza, segnale questo di grande estrazione che si evince anche dalla consistenza nel bicchiere che  manifesta lungo le sue pareti una certa presenza glicerica con “lacrime” ricche e lente nello scivolare. Il primo naso è intenso su note vegetali, immediatamente un riconoscimento peperone, poi si apre su note di piccoli frutti surmaturi, ribes e mirtillo, accentua la sua complessità su lievi sensazioni balsamiche che ne esaltano la vinostà. In bocca è secco, la spalla acida ne accentua la giovine età ma non nasconde una struttura ampia e complessa. La profondità di questo vino solo il tempo potrà esaltarla, dona già segni tangibili di buona longevità; da servire alla temperatura di 16 gradi in calici ampi ma non eccessivamente, risulterebbero accentuare la sua attuale esuberanza olfattiva sulle note vegetali. Lo abbiamo abbinato ad un gattò di patate con provola e mortadella e salsa di funghi porcini, tendenza dolce, succulenza ed aromaticità da contraltare a sensazioni olfattive intense, acidità e lunga persistenza del vino.

139b[1]Montevetrano 2005. Il colore è di un rosso rubino, carico e caratterizzato da una impenetrabile veste cromatica. Di buona consistenza nel bicchiere. Il naso manifesta note olfattive molto interessanti ed eterogenee, iniziano su sensazioni fruttate dolci accompagnate da eleganti esalazioni balsamiche; poi confettura di susina, mirtilli e ribes neri, note di spezie sottili ed eleganti, pepe nero in primis. In bocca manifesta la sua giovane tannicità, senza esagerare, sorretta da un frutto estremamente ricco e voluttuoso che gli conferisce un gusto eccezionalmente persuasivo. E’ intenso, persistente e molto lungo anche nel finale di bocca. Da servire in calici mediamente ampi dopo aver lasciato per tempo debito ossigenare la bottiglia aperta magari qualche ora prima di servirla, noi l’abbiamo accostato, giocando con un abbinamento del cuore alla zuppetta di fagioli e scarola riccia con Mozzariello, un piatto povero che trova la sua nobiltà in abbinamento a cotanto vino.

139b[1]Montevetrano 2004. L’annata è stata essenzialmente regolare dal punto di vista climatico, l’areale di San Cipriano Picentino sempra baciato dagli dei in questo, la vendemmia ha avuto il suo inizio a metà settembre.Il colore è rosso rubino, appena meno accentuato rispetto all’annata precedente, comunque vivace ed invitante. Di buona consistenza nel bicchiere. Qui il naso, il primo naso è di floreale passito, poi un fruttato intenso, maturo quasi marmellatoso di grande finezza e persistenza; vengono fuori note balsamiche, tabacco e note di cacao in polvere. In bocca quasi a sorprendere ritorna una spalla acida sincera ed efficace da non confondere con il tannino che risulta attenuato e ridimensionato dall’evoluzione in bottiglia di questo blend sempre più affascinante quanto esaltante. Da servire, soprattutto per la sua verve in calici mediamente ampi ad una temperatura di 16/18 gradi, noi l’abbiamo accostato per l’occasione con un primo piatto tradizionale rielaborato alla nostra maniera, Vesuvio di Paccheri ripieni con passata di pomodori San Marzano di Colle Spadaro.

139b[1]Montevetrano 2001. L’annata è stata caratterizzata da un inverno molto freddo e da un germogliamento tardivo che ha concesso una minore quantità di uva. Le piogge ben dosate però hanno consentito un ciclo vegetativo costante e senza stress particolari sino alla raccolta avvenuta in pieno settembre. Innanzitutto alcuni dati tecnici a sostegno della grande impressione che ho ricevuto da questo vino in questa annata: le uve vengono lasciate a macerare con la buccia per circa 20 giorni in acciaio inox previo salasso del 15%, vengono effettuate durante questo processo numerose follature per rendere omogenea tutta la massa. Successivamente il vino rimane per 8/12 mesi in barriques nuove da 225 lt. di rovere di Nevers, Allier e Tronçais. L’ alcool è di 13% vol. sorretto da un pH di 3,65 e da un’acidità totale pari a  5,10 gr/lt. L’estratto secco è di 33. Si presenta nel bicchiere con un colore rosso rubino con appena delle sfumature sull’unghia del vino tendenti al granato, rimane vivace e poco trasparente. Il primo naso è evoluto ed etereo su note balsamiche e di spezie, avvolgente nelle sue senzazioni di frutti in confettura. In bocca è secco e caldo, avvolgente nella sua trama gustativa che non lascia spazio ad asperità o sensazioni di durezza. Impressionante a parer mio l’armonia che caratterizza questo vino in questo millesimo bevuto oggi, prova tangibile che il Montevetrano può tranquillamente essere aspettato negli anni, senza indugi. Da servire ad una temperatura intorno ai 16/17 gradi in calici panciuti, noi lo abbiamo abbinato al filetto di maiale con spezie, erbe ed aceto balsamico e servito con salsa ridotta di Montevetrano.


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