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Caldaro, Cassiano ’11 Manincor: il rosso morbido, esotico e biodinamico del Conte Goess-Enzenberg

3 gennaio 2014

Nonostante il grande successo commerciale i vini altoatesini sembrano avere ancora larghi margini di conquista del mercato. Soprattutto per quanto riguarda i vini rossi.

Cassiano 2011 Manincor - foto A. Di Costanzo

I bianchi si sa, da quando sono sbarcati perentori sul mercato italiano conquistandosi ampie quote perlopiù a discapito dei friulani, riscuotono successo quale che sia il varietale, dai già conosciuti pinot grigio bianco agli chardonnay e sauvignon, dall’impronunciabile gewurztraminer al gentile müller thurgau; sui rossi invece, fatte le dovute eccezioni su certi cabernet, si fa ancora una gran fatica ad andare oltre al pinot nero.

Certo esistono ottimi lagrein, gradevoli espressioni di schiava ma rimangono vini dal profilo più o meno basso che, fatto salvo qualche exploit sembrerebbero mancare di quel appeal necessario per consacrarsi pienamente. E col clima che cambia sembra ci sia una ragione in più perché, colturalmente, a queste uve nei nuovi impianti vengano sistematicamente preferite sempre più varietà ‘esotiche’.

Il Cassiano, chiarisco subito, non è certo il ‘mio’ vino preferito tra quelli di Manincor¤, però credo meriti attenzione poiché potrebbe piacere invece a molti. Ci si fa un gran lavoro sperimentale ma soprattutto è uno dei tanti vini che vedono trionfare una filosofia e un metodo di produzione sano e pulito tanto cari al Conte Goess-Enzenberg¤, produttore a Caldaro molto stimato e apprezzato trasversalmente sia da appassionati esperti che comuni bevitori.

Tornando al vino, è un merlot al 50% con un saldo importante di cabernet franc e piccole percentuali di cabernet sauvignon, syrah, petit verdot e tempranillo; uve coltivate in regime biodinamico (Demeter) così come tutto il processo realizzativo segue pari pari una ferrea disciplina di sostenibilità etica ed ambientale.

Vivace e luminoso il colore rubino porpora, scuro e profondo. Il naso è un trionfo di sentori e riconoscimenti di fiori, frutta e note balsamiche che ne amplificano il respiro e la complessità. Il sorso è ruffiano, tutto tondo e polposo con qualche piccola nerbatura – più acida che tannica – solo sul finale di bocca comunque saporito e ben bilanciato.

Sulle chiusure “alternative”, l’esperienza di Jean Pierre Frick, che non è proprio l’ultimo arrivato

27 ottobre 2012

Una delle prime cose capitate a tiro durante la splendida due giorni con Pepi Mongiardino è questo documento, ripreso tra l’altro sia sul catalogo cartaceo di Moon Import che sul loro sito on line qui. Si parla di chiusure alternative, dell’esperienza sul campo di uno dei pionieri della Biodinamica in Alsazia, Jean Pierre Frick da Pfaffenheim che, addirittura, chiude le sue bottiglie con un “innovativo” tappo a corona.

“L’eliminazione del tappo in sughero sconvolge l’immaginario quanto ravviva l’odorato e il gusto. Dalla nostra raccolta del 2002 la bottiglia non è piú tappata da sughero ma da capsule coronate in inox. Con un piccolo disco di polietilene che assicura l’impermeabilitá. L’aumento incessante delle deviazioni organolettiche (sapori e aromi) causato dal tappo in sughero, ci ha portati a questa scelta. La diversificazione dei nostri fornitori di tappi e l’acquisto di sughero di qualitá sempre migliore non ha portato a nessun risultato soddisfacente. Al 4-5% del gusto di tappo, facilmente identificabile, si aggiungono almeno altrettante bottiglie “deformate”, influenzate proprio dai tappi. Questa seconda categoria è molto piú sorniona, perché il degustatore attribuisce al vino l’opacità che deriva dal tappo. Il cambiamento del tipo di tappo ha poi altri vantaggi: permette anzitutto l’accrescimento della longevità delle mezze bottiglie; i vini trasportati a temperature troppo elevate, rischiano meno di avere dei disturbi proteici e, ancora, il passaggio dei polifenoli del tappo nel vino può non solamente comunicare un gusto, ma anche far precipitare le proteine del vino”. 

E alle domande che più di sovente vengono naturalmente sollevate quando si parla di questo cambiamento, Jean Pierre Frick risponde così. 

Il tappo ermetico non impedisce al vino di evolversi? “Già da trent’anni Emile Peynaud ha dimostrato che nella bottiglia nessun vino assorbe l’ossigeno dell’aria quando questo è tappato da un eccellente sughero; è proprio perché l’impermeabilità al gas è variabile da un tappo all’altro, che alcuni viticultori mettono della cera sul collo e sul tappo della bottiglia; le capsule di stagno non perforate, a copertura del tappo, assicurano una totale impermeabilità: dalle catene di imbottigliamento e di etichettatura escono qualche volta delle bottiglie con la capsula, ma senza tappo, che non lasciano uscire la minima goccia di vino; gli champagne e i crémant maturano sur latte per anni in bottiglie tappate da capsule. La maturazione del vino è un processo fisico-chimico che non necessita di ossigeno dall’esterno”.

Perché rimpiazzare un prodotto naturale con il polietilene? “Il sughero non viene utilizzato nel suo stato naturale: il lavaggio non si fa più nel cloro, ma con prodotti e procedimenti diversi a seconda del sugherificio e i tappi non pieni subiscono un trattamento di riempimento al silicone, alla paraffina o alla miscela dei due. Il solo fatto di far scivolare il vino sulle tracce di paraffina o di silicone lasciate dal tappo sul collo della bottiglia, modifica il vino in confronto a quello estratto dalla stessa bottiglia con una pipetta. Questo fatto è particolarmente considerevole per i vini che contengono dei residui di zuccheri”. 

Perché non provate a proporre una filiera di sughero biologico? “L’idea di una cultura in bio-dinamica di querce da sughero, non produttivistica, che potrebbe ridurre le influenze del sughero, è interessante, tuttavia noi non abbiamo, anche collettivamente, la forza di influenzare l’ambiente. La domanda di sughero è molto più forte che l’offerta, il giorno che si invertirà questa situazione, i cambiamenti potrebbero suggerire una filiera di quel tipo”. 

“Tra l’altro, per concludere, l’estetica della bottiglia non è assolutamente colpita, il collo della bottiglia aperta si presenta sulla tavola allo stesso modo di una bottiglia di Champagne o di Crémant. D’ora in avanti l’appassionato di vino, che ha diverse bottiglie della stessa cuvée, troverà ogni volta la vera espressione del vino”. Jean Pierre Frick.

Pierre Frick è distribuito in Italia da Moon Import.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Novi Ligure, Filagnotti ’09 Cascina degli Ulivi

20 Maggio 2011

Qualcosa non andava, sarò stato io, o la sottile insistenza di quella volatile incipiente; al che mi son convinto nel prendere tempo. Lasciar andare su la temperatura, aspettare e profondere maggiore attenzione. Decisamente dovuta.

E’ chiaro che, al momento, non sarò mai un fan della biodinamica, o di quel dire “così è se vi piace, e non può essere altrimenti” intendo, rimangono troppi punti oscuri che il mio intelletto fa ancora fatica, e parecchio, a decifrare: su tutti, dove finisce “il pensiero filosofico” e dove invece comincia l’opportunità commerciale? Un classico insomma! Ciononostante non riesco a fare a meno di ritornarci su, di tanto in tanto, ed infilarci le mani in pasta, ovvero il naso nel bicchiere. Un po’ come dannarsi l’anima con il cubo di Rubik, senza perdere però il sottile piacere della sfida.

Poi c’è il Filagnotti duemilanove di Cascina degli Ulivi, un vino decisamente complesso, per non dire complicato; contorto e scomposto di primo acchito, ma che sa, pieno di sé, cosa vuole dire e come vuol farlo: è lui l’altro Gavi, o quello che non c’è più, dato che dalla vendemmia 2008 è fuori disciplinare docg: una scelta meditata, dicono, sofferta ma necessaria. Nasce da uve cortese coltivate in località Tassarolo, da vigne con esposizione a sud ovest, su terreni rossi e argillosi. La raccolta 2009 del cortese, “tra le migliori mai avute” – mi racconta Sonia Torretta, l’enologa, raggiunta al telefono per aver più chiaro il quadro produttivo -, è avvenuta quell’anno verso metà settembre, poco dopo aver tirato giù dalle piante il moscato, subito prima del dolcetto; E’ stato vinificato esclusivamente in botti di legno di acacia di 25 hl, in ognuna è stata lasciata una quantità pari a 25 kg di grappoli non diraspati. Così, dopo un primo (ed unico) travaso per eliminare le fecce più grossolane, è rimasto per tutto un anno sulle fecce fini, sur lies si direbbe, sempre in legno prima di finire in bottiglia.

Il colore è un giallo paglierino carico, tendente all’oro, naturalmente non limpidissimo ma consistente e pieno di fascino. Il primo naso, come detto, allontana, però merita attenzione; una volta superata una prima fase di evidente empasse comincia a tirare fuori carattere e franchezza, qualità tra l’altro confermate certamente al gusto. Naso buccioso, vinoso, con sottili note di erbe officinali e frutta passita che rincorrono sentori di fieno e foglie secche, nocciola e frumento.

Vino di carattere, nonostante i 12 gradi e mezzo, di buon corpo; offre una beva non certamente facile, a tratti ruvida e graffiante, eppure espressiva, oltretutto di una buona prospettiva di vita. Difficile accostarlo a tavola sui classici piatti di pesce, meglio su primi piatti sugosi, anche aromatizzati, o preparazioni a base di carni, non necessariamente bianche, o ancora su formaggi mediamente stagionati. Attenzione a non servirlo troppo fresco, bene sui 12°/14°. Utile segnalarvi che non v’è assolutamente aggiunta di solforosa. Importante ribadire che chi non ama questa tipologia di vini, me compreso, difficilmente se ne innamorerà anche dopo questo assaggio; ma mettiamola così, perché non concedersi, ogni tanto, una stravagante avventura?

Per saperne di più sull’azienda o il pensiero Biodinamico di Stefano Bellotti date pure un’occhiata qui al sito di Cascina degli Ulivi.


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