C’è una sensazione – meravigliosa – che questa terra riesce a lasciarti dentro ogni volta che ci cammini le vigne, è la serenità, ritrovata, dell’anima, che sei hai imparato a gestirla a dovere, difficilmente te la riescono a scippare di dosso: a meno che non sei destinato, nel tuo viaggio di ritorno, a mete sovrappopolate e caotiche come Napoli e dintorni. Forse è per questo, per non incappare nel rischio di un brusco rientro – quasi rischioso come un jet lag – che solo come nelle più romantiche delle avvertenze prima dell’uso, mi concedo, dopo ogni fuijtina in terra irpina, almeno un paio di giorni di isolamento. A tenermi al caldo, stavolta, un paio di bicchieri di Taurasi Santa Vara 2004 di La Molara, hand made in Luogosano.

La denominazione è delle più classiche della mia amata Campania felix e forse proprio per questo la più complicata e controversa da raccontare. In effetti, cartina alla mano, l’areale si presenta come un territorio dalle linee e caratteristiche geografiche particolarmente eterogenee e pure gli assaggi dei vini qui prodotti negli ultimi dieci/quindici anni, seppur tra alti e bassi, hanno costantemente evidenziato come sia difficile parlare genericamente di Taurasi senza tener conto delle mille e più varianti ricadenti su un’area di circa 900 ettari (di cui però appena la metà concorre alla d.o.c.g.) e distribuita su ben 17 comuni della provincia di Avellino. Non a caso, soprattutto tra gli addetti ai lavori, si cerca ormai da tempo di delineare, del territorio, una mappa verosimile con la quale poter sviluppare più chiavi di lettura per non incappare reiteratamente nella tentazione di banalizzare, rendendola univoca, una offerta enologica di un territorio che di univoco ha ben poco, vitigni compresi; uno stallo questo tanto comodo ai profittatori quanto però indigesto ai piccoli vignerons che hanno saputo cogliere nella propria – a volte difforme – diversità, un valore aggiunto di incredibile preziosità, pur costretti a fare i conti con una solitudine (soprattutto in assenza di un’adeguata politica promozionale) difficile da colmare, almeno in tempi accettabili.

L’azienda è un mio vecchio pallino, un sussulto della prima ora si direbbe, ormai però sono passati quasi una decina d’anni dall’esordio sulla scena, e senza non poche difficoltà si è ancora alla ricerca di una sua definitiva collocazione nello splendido ma sempre più affollato corollario taurasino. Le qualità, a questa piccola gemma di Luogosano, non gli sono mai mancate: vigne di proprietà anzitutto, 7 ettari in una zona a dir poco vocata per l’aglianico, una discreta spinta economica di soci tra l’altro piuttosto motivati, i pochi numeri (appena 40.000 le bottiglie prodotte oggi, ndr) e non ultimo anche un discreto apprezzamento di critica appena usciti sul mercato; ma come spesso accade, causa anche le non poche asperità di un mercato ancora ostico – se non propriamente avverso – al cosiddetto Barolo del sud, per qualche tempo si è perso un poco la bussola affidandosi, non senza presunzione, ad una invocazione bianchista che avrebbe dovuto sanare tutti i mali ma che in verità non è mai stata del tutto compresa, rimanendo così, anche sul versante rossista, su di una linea di galleggiamento che non ha certo favorito l’affermazione di una realtà che proprio sul Taurasi meriterebbe invece un posto in primissimo piano sullo scacchiere irpino!
Gli ultimi assaggi fatti in cantina, per l’occasione con una guida d’eccezione qual è il loro enologo Antonio Pesce, e lo splendido stato di forma del 2004 bevuto tra le mure amiche hanno potuto solo confermare quanto sia ricco, polposo ed elegante l’aglianico che matura tra le vigne di questo piccolo gioiello irpino. E che si tratti di un nettare d’autore non si fa certo fatica a pensarlo, sin dall’approccio col giovane e morbido Naif, il loro vino aglianico base, un tempo pennellato da una mano di merlot ma da almeno un paio di vendemmie (me l’hanno giurato!) non più: purpureo, carico di sfumature gioviali, snello e beverino, proteso insomma a conquistare i palati di neofiti ritrosi con quel tannino di molto sopito.
L’ossuta trama del Santa Vara invece è destinata a fare breccia nel cuore degli appassionati di grandi vini dall’infinita persistenza gusto olfattiva, voluminosi e robusti all’esordio, agili e scattanti per il tempo a venire, sempiterno gustosi. Se infatti, a distanza di oltre sei anni, ho ritrovato un 2004 carico di mineralità e giustezza tannica, sono rimasto molto impressionato dalla carica imponente del Taurasi 2007 di prossima uscita sul mercato e ancor più dalla possenza del millesimo 2008 ancora in invecchiamento, che ricorda ad assaggio ripetuto, per voluttà e persistenza emotiva, il Cinque Querce 2001 di Salvatore Molettieri.
Il rapporto frutto-polpa/acidità-tannino di quest’ultimo evoca quindi assaggi non più pervenuti, da allora, dalla denominazione, se non in rare eccezioni¤. In definitiva, tra le mani, la convinzione che nonostante il tempo non abbia ancora consegnato a La Molara grosse chance di essere consacrata all’altare delle migliori in Irpinia, rimanga un riferimento assoluto per chi voglia scegliere di bere un grande aglianico “di territorio” con tutte le carte in regole, capace addirittura di attraversare il tempo senza che questi ne scalfisca minimamente il pregio. Bere per credere, insomma!
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