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Vinitaly 2014, L’Irpinia non è in Campania

2 aprile 2014

La notizia è ormai nota a tutti quanti, a Verona, al prossimo Vinitaly l’Irpinia corre da sola: ‘Non è una scissione, ma l’ampliamento dell’area riservata alla nostra regione…’ ha dichiarato Costantino Capone, presidente della Camera di Commercio di Avellino.

Irpinia, Lazio

Capone ha poi aggiunto: ‘Si sta montando una polemica ad arte, ma non ne capisco sinceramente i motivi. […] L’Irpinia avrà un suo padiglione, abbiamo soltanto assecondato le esigenze della maggior parte delle aziende vitivinicole della nostra provincia che preferiscono avere, al Vinitaly, una propria identità.’ 

Sono poi seguite tutta una serie di querelle che nemmeno vi sto a dire, tant’è che il messaggio è molto chiaro: la politica vince sempre, anche quando il ‘cappotto’ è sgradito a molti.

L’Irpinia ha grandi responsabilità per tutta la Campania del vino. Non vorrei che in un momento di euforia, lontani dagli occhi del mondo si siano prese iniziative drastiche solo per le beghe politiche tra enti camerali e assessorati regionali e non per una reale necessità promozionale, per mettere in campo, ad esempio, una meglio collaudata task force capace di dare uno slancio comunicativo importante a tutto il grande potenziale produttivo e qualitativo delle 70 aziende presenti nel padiglione che hanno preferito distinguersi. 

Di certo gli espositori laziali si staranno sfregando le mani, loro sì che hanno fatto centro: lepri fenomenali come Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi non ce ne sono mica tante in giro ultimamente per attrarre gente ai loro stands. Che poi, a pensarci bene, in fin dei conti è un fatto storico acclarato che Avellino faccia provincia di Roma.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Il Signore del vino campano nel mondo

29 gennaio 2014

Sono sempre in grande difficoltà quando mi tocca postare una notizia come questa, tant’è che spesso preferisco non farlo. Stanotte però è venuto mancare il dott. Antonio Mastroberardino, forse il personaggio più illustre che la viticoltura campana potesse contare agli occhi del mondo. Le radici di un po’ tutti noi. Alla famiglia tutta le mie e le nostre più sentite condoglianze. R.I.P.

Guancia di Vitello in crosta di pistacchi con pappa di pere e riduzione di aglianico di Taurasi

11 Maggio 2011

Francesco Spagnuolo è uno dei giovani più promettenti della cucina irpina; quella, per intenderci, con i piedi ben piantati per terra, nel vero senso del termine. Quel nuovo che avanza tra le tante buone leve seguite alle esperienze primordiali di tante famiglie che nell’areale Irpino hanno tracciato e ben definito la linea territoriale di una cucina essenziale ma pur sempre ricca e profondamente aderente alla realtà locale; una cucina, per intenderci  – e giusto per fare un paio di nomi –  di sani valori, come quella della Famiglia Fischetti dell’Oasis di Vallesaccarda, o magari dei Pisaniello, del Gastronomo a Montemarano prima, e Nusco poi, nella calda Locanda di Bu di Antonio, dove tra l’altro Francesco ha mosso i primi passi.

Francesco smanetta ai fornelli da circa 12 anni, nel 2004, con Rocco Platì, ora responsabile di sala proprio al Morabianca, avevano aperto Il Patriota ad Avellino prima di essere sedotti dall’idea di Piero Mastroberardino che li ha voluti al Radici Resort di Mirabella Eclano. Questo che segue è uno dei due piatti che proporrà al prossimo evento in programma al Capri Palace in collaborazione con la storica azienda irpina Mastroberardino.

Ingredienti per 4 persone: 

  • 600 gr di guancia di vitello
  • 200 gr di pistacchi
  • 1 bott. Taurasi Mastroberardino
  • 4 pere
  • zucchero q.b.
  • sale q.b.

Preparazione: in una pentola versatevi del sale, scottate la carne ambedue i lati toglietela e continuate la cottura in forno per 4 ore a 100°. Nell’attesa preparate la riduzione di Taurasi versando tutto il vino in una pentola lasciando sfumare a fiamma bassa; sarà pronta quando ne avrete ricavato da 750ml, il contenuto di una bottiglia, non più di 150 ml.

Passate quindi alla preparazione delle altri basi, frullando finemente i pistacchi e pelando le pere prima di lasciarle sbollentare in un po’ d’acqua e zucchero per circa 7 minuti; a cottura ultimata, raffreddate queste ultime in acqua e ghiaccio e passatele quindi in un comune passaverdura, così da ottenere una pappa omogenea. Per il servizio, ponete al centro di un piatto piano bianco un cucchiaio di pappa di pera, adagiandovi sopra il pezzo di carne impanato, poco prima di servirlo, nei pistacchi; ultimate il piatto con una guarnizione di riduzione di aglianico di Taurasi ed un ciuffetto di rosmarino fresco; e se gradito, ove disponibile, con dello scalogno e del pomodoro confit come nella foto.

Ricetta dello Chef Francesco Spagnuolo del Ristorante Morabianca del Radici Resort di Mirabella Eclano (AV).

Ariano Irpino, Paski 2009 Cantina Giardino

29 marzo 2011

Il varietale è senz’altro tra quelli da sempre meno considerati di altri in regione, se non a “mezzo servizio”, come uva da taglio, per allungare, o meglio smorzare il brodo, come si suol dire. Eppure non mancano esempi di grande slancio, di cui non si può non tenerne conto per avere un’idea più precisa di cosa stiamo parlando.

Penso ad esempio alle bellissime interpretazioni di Raffaele Troisi di Vadiaperti consegnate agli annali, o a quelle per me indimenticabili di Ocone, le prime bevute che ricordi da sommelier a cavallo tra il ’99 ed il 2001. Furono tra l’altro proprio Antonio Troisi in Irpinia e Domenico Ocone in provincia di Benevento, ad inizio degli anni novanta, a ridare voce e dignità a questo antichissimo vitigno utilizzato sino ad allora perlopiù per tagliare i bianchi in quel tempo più alla moda, il fiano ed il greco, così da smorzarne da subito le spiccate acidità; qualcheduno forse ne avrà contezza più di me, ma a quel tempo si usciva con le nuove annate già a metà dicembre, giusto per non perdere il treno delle folli spese natalizie.

Le motivazioni di un suo rilancio sono state poi suffragate negli anni dal continuo aumento dei prezzi delle altre uve bianche, la falanghina, piuttosto che il fiano e il greco, hanno praticamente monopolizzato i consumi di questi ultimi anni, ed un vino come la coda di volpe, che si esprime tra l’altro con una tipicità così arguta, non ha mancato di fare proseliti e costruirsi la sua bella coltre di fedeli appassionati; per dirne una, un po’ come capita oggi per chi va preferendo il Pallagrello bianco ai soliti noti fiano di Avellino e greco di Tufo.

La mia esperienza di appassionato mi ha consegnato negli ultimi dieci-dodici anni diversi assaggi parecchio gratificanti di vini da coda di volpe; ricordo per esempio, oltre ai suddetti, le primissime uscite di Paolo Cotroneo, Fattoria La Rivolta, davvero notevoli: concentrazioni certamente estreme, quasi materiche, a cui eravamo molto poco abituati per i bianchi, ma indubbiamente di notevole impatto emotivo. Quasi da contraltare, dallo stesso areale, già andava affermandosi, sin dalla sua prima annata nel ’95, la finissima versione di Cantina del Taburno, quell’Amineo inventato da Angelo Pizzi tanto esile quanto sempre estremamente godibile, dal primo all’ultimo sorso. E ritornando all’Irpinia, mi è sempre piaciuto, con Vadiaperti e Di Meo, le mie preferenze assolute dall’areale, il Bianco di Bellona della giovane irpino-belga Milena Pepe.

Anche per questa sua vocazione non-vocazione alla versatilità più estrema è davvero sorprendente il lavoro di Antonio di Gruttola con questa coda di volpe Paski 2009, bevuta e ribevuta a più riprese lo scorso 20 Marzo ai banchi d’assaggio di Parlano i Vignaioli. Un vino prodotto da qualche anno – in principio solo in damigiana e ad uso e consumo familiare (!) – e a quanto pare sempre un po’ in ombra rispetto agli altri bianchi di Cantina Giardino, che detto fuori dai denti, in questa occasione mi hanno convinto ancor meno di quanto abbiano fatto in passato al primo assaggio; il fiano Gaia ed il greco T’ara rà 2009 presenti in degustazione, sono in evidente ritardo, ma non potrebbe essere altrimenti visto che proprio questi due, a dispetto di tanti altri vini, sono da attendere a lungo, e quindi in questa fase l’impressione ricevuta è certamente labile; ne convengo quindi che sarebbe decisamente prematuro esprimere giudizi, porteremo pazienza.

Altro giro, altre emozioni invece per questo Paski 2009, un sussulto d’orgoglio che ci consegna un vino sopra le righe ma assai rassicurante, per la naturale vocazione e per l’integrità espressiva che ne rende fruibile una piena e sana godibilità da subito. Mi racconta Daniela De Gruttola che nasce da una attenta diraspatura manuale, che appena dopo la pigiatura passa subito in botte di acacia e castagno dove vi rimane per quattro giorni in macerazione sulle bucce; successivamente, per circa tre mesi, in fermentazione sulle fecce grossolane; poi, dopo il travaso, l’unico ed il solo a cui è soggetto in questa fase, rimane ancora un anno sulle fecce fini senza mai essere mosso, nemmeno rabboccato, con l’intento di conferirgli, in contemporanea, una doppia evoluzione in fase di affinamento, ossidativa e riduttiva. Il colore paglierino è intenso ma non più della media dei vini così prodotti. Il naso è subito variopinto, buccioso, inizialmente crudo, ma basta lasciargli raggiungere la giusta temperatura, ed un tantino di ossigenazione in più, che si riescono a cogliere note ancor più verticali, in continuo divenire, un timbro fenolico insolito per il varietale ma davvero avvincente. La sua ricchezza trova ulteriore conferma al palato, incisivo ma risoluto, di estrema bevibilità. La solforosa totale è minore di 20 mg/l ed è stata aggiunta solo all’imbottigliamento. Il nome è un omaggio all’autore del quadro rappresentato in etichetta.

Questo articolo esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Luogosano, Santa Vara è il Taurasi di La Molara

8 gennaio 2011

C’è una sensazione – meravigliosa – che questa terra riesce a lasciarti dentro ogni volta che ci cammini le vigne, è la serenità, ritrovata, dell’anima, che sei hai imparato a gestirla a dovere, difficilmente te la riescono a scippare di dosso: a meno che non sei destinato, nel tuo viaggio di ritorno, a mete sovrappopolate e caotiche come Napoli e dintorni. Forse è per questo, per non incappare nel rischio di un brusco rientro – quasi rischioso come un jet lag – che solo come nelle più romantiche delle avvertenze prima dell’uso, mi concedo, dopo ogni fuijtina in terra irpina, almeno un paio di giorni di isolamento. A tenermi al caldo, stavolta, un paio di bicchieri di Taurasi Santa Vara 2004 di La Molara, hand made in Luogosano.

La denominazione è delle più classiche della mia amata Campania felix e forse proprio per questo la più complicata e controversa da raccontare. In effetti, cartina alla mano, l’areale si presenta come un territorio dalle linee e caratteristiche geografiche particolarmente eterogenee e pure gli assaggi dei vini qui prodotti negli ultimi dieci/quindici anni, seppur tra alti e bassi, hanno costantemente evidenziato come sia difficile parlare genericamente di Taurasi senza tener conto delle mille e più varianti ricadenti su un’area di circa 900 ettari (di cui però appena la metà concorre alla d.o.c.g.) e distribuita su ben 17 comuni della provincia di Avellino. Non a caso, soprattutto tra gli addetti ai lavori, si cerca ormai da tempo di delineare, del territorio, una mappa verosimile con la quale poter sviluppare più chiavi di lettura per non incappare reiteratamente nella tentazione di banalizzare, rendendola univoca, una offerta enologica di un territorio che di univoco ha ben poco, vitigni compresi; uno stallo questo tanto comodo ai profittatori quanto però indigesto ai piccoli vignerons che hanno saputo cogliere nella propria – a volte difforme – diversità, un valore aggiunto di incredibile preziosità, pur costretti a fare i conti con una solitudine (soprattutto in assenza di un’adeguata politica promozionale) difficile da colmare, almeno in tempi accettabili.

L’azienda è un mio vecchio pallino, un sussulto della prima ora si direbbe, ormai però sono passati quasi una decina d’anni dall’esordio sulla scena, e senza non poche difficoltà si è ancora alla ricerca di una sua definitiva collocazione nello splendido ma sempre più affollato corollario taurasino. Le qualità, a questa piccola gemma di Luogosano, non gli sono mai mancate: vigne di proprietà anzitutto, 7 ettari in una zona a dir poco vocata per l’aglianico, una discreta spinta economica di soci tra l’altro piuttosto motivati, i pochi numeri (appena 40.000 le bottiglie prodotte oggi, ndr) e non ultimo anche un discreto apprezzamento di critica appena usciti sul mercato; ma come spesso accade, causa anche le non poche asperità di un mercato ancora ostico – se non propriamente avverso – al cosiddetto Barolo del sud, per qualche tempo si è perso un poco la bussola affidandosi, non senza presunzione, ad una invocazione bianchista che avrebbe dovuto sanare tutti i mali ma che in verità non è mai stata del tutto compresa, rimanendo così, anche sul versante rossista, su di una linea di galleggiamento che non ha certo favorito l’affermazione di una realtà che proprio sul Taurasi meriterebbe invece un posto in primissimo piano sullo scacchiere irpino!

Gli ultimi assaggi fatti in cantina, per l’occasione con una guida d’eccezione qual è il loro enologo Antonio Pesce, e lo splendido stato di forma del 2004 bevuto tra le mure amiche hanno potuto solo confermare quanto sia ricco, polposo ed elegante l’aglianico che matura tra le vigne di questo piccolo gioiello irpino. E che si tratti di un nettare d’autore non si fa certo fatica a pensarlo, sin dall’approccio col giovane e morbido Naif, il loro vino aglianico base, un tempo pennellato da una mano di merlot ma da almeno un paio di vendemmie (me l’hanno giurato!) non più: purpureo, carico di sfumature gioviali, snello e beverino, proteso insomma a conquistare i palati di neofiti ritrosi con quel tannino di molto sopito.

L’ossuta trama del Santa Vara invece è destinata a fare breccia nel cuore degli appassionati di grandi vini dall’infinita persistenza gusto olfattiva, voluminosi e robusti all’esordio, agili e scattanti per il tempo a venire, sempiterno gustosi. Se infatti, a distanza di oltre sei anni, ho ritrovato un 2004 carico di mineralità e giustezza tannica, sono rimasto molto impressionato dalla carica imponente del Taurasi 2007 di prossima uscita sul mercato e ancor più dalla possenza del millesimo 2008 ancora in invecchiamento, che ricorda ad assaggio ripetuto, per voluttà e persistenza emotiva, il Cinque Querce 2001 di Salvatore Molettieri.

Il rapporto frutto-polpa/acidità-tannino di quest’ultimo evoca quindi assaggi non più pervenuti, da allora, dalla denominazione, se non in rare eccezioni¤. In definitiva, tra le mani, la convinzione che nonostante il tempo non abbia ancora consegnato a La Molara grosse chance di essere consacrata all’altare delle migliori in Irpinia, rimanga un riferimento assoluto per chi voglia scegliere di bere un grande aglianico “di territorio” con tutte le carte in regole, capace addirittura di attraversare il tempo senza che questi ne scalfisca minimamente il pregio. Bere per credere, insomma!

Santa Paolina, Greco di Tufo Picoli ’09 Bambinuto

5 gennaio 2011

Continuiamo il nostro viaggio tra i “vini bianchi macerati” occupandoci oggi di una piccola azienda irpina, la Cantina Bambinuto di Santa Paolina. Gran vino il greco di Tufo, forse il più conosciuto tra i bianchi prodotti in Campania, senza dubbio tra i primi ad essere apprezzati in tutto il mondo ed annoverati tra “i più” dell’odierna produzione italiana. Vino a denominazione di origine controllata e garantita – nel sud Italia assieme solo a un altro campione di bontà regionale, il fiano di Avellino –  il greco di Tufo è prodotto esclusivamente con uve provenienti da vigneti situati in una delimitata zona dell’Irpinia, comprendente i comuni di Tufo (da cui prende il nome la d.o.c.g.), Santa Paolina, Montefusco, Petruro Irpino, Chianche, Torrioni, Altavilla Irpina e Prata di Principato Ultra.

Il vitigno, corrispondente alla cosiddetta aminea gemina cui faceva riferimento lo storico Columella, è originario della Tessaglia, da dove fu importato in Campania dai pelasgi che ne diffusero la coltivazione prima nella provincia di Napoli, in particolar modo sulle pendici del Vesuvio, e successivamente in alcune zone proprio della provincia di Avellino, in particolare nel circondario di Tufo, dove il terreno ricco di zolfo ed altri minerali risultò particolarmente vocato alla sua propagazione. Invero, il vitigno non è certo tra i più docili, anzi, le peculiarità del grappolo, piuttosto compatto, e degli acini, con buccia decisamente sottile, ne fanno una varietà, da un punto di vista strettamente colturale, addirittura cagionevole e che richiede una particolare attenzione e cura soprattutto in fase di maturazione. In compenso però, cosa certamente più gradita oggi nei vini che in passato, offre sempre valori decisamente elevati di acidità e sostanze fenoliche, che lo rendono, per esempio a riguardo di uve provenienti dalle zone più vocate, particolarmente adatto a variazioni sul tema alquanto suggestive come possono essere, tra le tante, vino base ideale per spumanti a metodo classico oppure, come nel caso proprio di questo vino, delle versioni piuttosto originali macerate sulle bucce.

Bambinuto nasce solo nel 2006, ma per quanto poche le vendemmie alle spalle per delinearne un quadro risolutivo, la volontà della famiglia Aufiero di fare bene c’è tutta ed i primi riscontri, sia di critica che di pubblico, sin dagli esordi, hanno avvalorato la tesi che un nuovo piccolo gioiello della viticultura irpina andava ritagliandosi il suo spazio, e per quanto minimo, di assoluta considerazione. Oggi, all’ottima proposta di greco offerti – due fermi, quello base ed una selezione (il Picoli appunto, ndr) più uno spumante metodo classico ed un passito di prossima uscita – si sono affiancate poche bottiglie di fiano di Avellino ed aglianico di Taurasi per completare una gamma di prodotti decisamente convincenti – a breve vi racconterò infatti dell’ottimo aglianico Matèrtera – a buon mercato e comunque limitate ad una quantità non superiore alle 30.000 bottiglie.

Il greco di Tufo Picoli 2009 viene prodotto dalle vigne piantate nell’omonima frazione di Santa Paolina da dove viene raccolto generalmente a fine ottobre. Nel 2009 la resa in uva è stata di circa 80 q/h, con una resa in vino intorno al 70%. Tutto nella norma, insomma, se non fosse per la gradazione alcolica che supera il 14,50 % in volume, comunque sostenuto, a oltre due anni dalla vendemmia, da una decisa acidità. Ha un colore oro carico, segnale di concentrazione oltre che di maturità acquisita, del tutto cristallino. Il primo naso è particolare, fruttato di confettura di albicocca e buccia d’arancia candita ma ricco di sfumature empiriche. Infatti, lasciata volare via l’insistenza bucciosa del frutto ed una prima nota volatile, vengono fuori sentori marcatamente minerali che si rifanno a polvere pirica e nuances quasi idrocarburiche. Non che sia un vino vecchio, precisiamo, ma il timbro, anzitutto olfattivo, è volutamente mantenuto come pensato dalla produttrice Marilena Aufiero, con la consulenza del bravo Antonio Pesce, su di uno stampo del tutto fuori dagli schemi per l’areale, puntando sulla maturità del frutto, la sua piena espressione, anziché sulla magra freschezza e bevibilità scelta da alcuni altri. Non a caso infatti, durante le fasi di vinificazioni, una volta eliminata la grossolana feccia di mosto, il vino rimane su quelle fini sino a fine marzo dell’anno successivo la vendemmia, praticamente 5 mesi, più o meno. Un vino particolare dunque, di pronta beva (non a caso esce infatti dalla cantina quasi un anno dopo il millesimo) e da spendere su piatti importanti; Da annoverare assolutamente tra le vostre prossime esperienze degustative da segnare in agenda.

Salza Irpina, gocce di Ratafià di Nonna Erminia

30 dicembre 2010

Sono passati si e no una decina d’anni da quando ho conosciuto Roberto Di Meo, più o meno quando, da Salza Irpina, l’azienda di famiglia muoveva i primi convincenti passi nel già affollato panorama delle novità irpine. Dei suoi vini mi sono subito piaciuti in particolare lo stile, inconfondibile quello del suo fiano di Avellino e ancor di più la correttezza dei prezzi – l’aglianico, quello base, allora praticamente imbattibile per rapporto prezzo/qualità – elementi questi sempre più rari, ancora oggi, e che mi hanno immediatamente conquistato, avvalorati poi da una costante magistrale esecuzione enologica di materia prima viva e pura, di qualità superiore.

Il tempo non mi ha smentito, seppur scandito da qualche passo falso – non ho mai ben compreso per esempio l’uscita di un grand cru come il Don Generoso quando già i suoi Taurasi sono ineccepibili – e ritrovare, ancor oggi, in cotanto grande spolvero qualche vecchia bottiglia di fiano Colle dei Cerri o del più austero (e senz’altro economico) Vigna Olmo rimane una emozione non da poco. In effetti, fare poche bottiglie di un grande vino, costoso (il Don Generoso costicchia eccome!), rimane sempre un plausibile esercizio di stile, anche se a volte fine a stesso, mentre riuscire a condensare tutta la qualità possibile anche nelle etichette per così dire “base” rimane invece impresa davvero per pochi. Le sue qualità come enologo quindi, dal manico finissimo, sono in definitiva indiscutibili come del resto l’alto gradimento di tutti i vini che firma nella sua cantina collocata oggi in quella che fu la storica dimora settecentesca dei principi Caracciolo di Avellino.

Il prodotto di cui però voglio raccontarvi in questo passaggio è forse il più delizioso del portafoglio offerto dai Di Meo e senza ombra di dubbio il più particolare di quelli tirati fuori dalla piccola ma dinamica cantina di Salza Irpina, ovvero Il Ratafià di Nonna Erminia; Un prodotto davvero sorprendente, che dopo averlo assaggiato, credetemi, vi lascerà pensare perchè mai non l’avete mai bevuto prima. Il Ratafià è un prodotto del tutto naturale, a dimensione poco più che artigianale, la cui realizzazione trova ispirazione nell’antica tradizione tutta irpina del cosiddetto “vino pa’ neve”, comunemente conosciuto come vincotto, ma che in in questa occasione si rinnova e prende nuovo vigore grazie alla maestria con la quale vengono selezionate ed amalgamate le foglie e le erbe aromatiche (principalmente foglie di ciliegio e amarene di diverse varietà oltre che circa dodici erbe differenti) lasciate macerare sino ad un anno nel vino aglianico di Taurasi invecchiato per almeno sei anni prima in fusti di castagno come da tradizione. Quello che ne viene fuori è un nettare delizioso, giustamente raffinato e addizionato quindi di acquavite di vino e lasciato ancora per almeno un altro paio d’anni ad affinare in barriques di vecchio utilizzo.

E’ un liquore di impronta dolce, ma assolutamente non stucchevole, il gusto è solo l’apice di una piramide di sensazioni organolettiche subliminali. Ha colore scuro, ricorda quello della liquirizia, scorre nel bicchiere piuttosto consistente, quasi viscoso. I profumi sono infiniti, il primo naso è sottile di spezie e frutti macerati, l’alcol, intorno al 36% in volume, non riesce mai a soverchiare la piacevolissima escalation di nuances tostate ed eteree contornate da sentori di ciliegie sottospirito, marroni, chiodi di garofano, liquirizia che offrono un piacere olfattivo finissimo e a dir poco seducente. Il gusto è deciso, qui invece l’alcol impone la sua essenza ma non nasconde, anzi la esalta, l’estrema piacevolezza, infonde calore e gratitudine ed i piccoli sorsi sono ogni volta sospesi tra note di frutta sotto spirito e sensazioni cioccolatose. Un liquore, il Ratafià di Nonna Erminia, da scoprire e da conservare in dispensa, che si offre di mettere al bando il migliore dei distillati che tenete in bella mostra sul vostro carrello e quanto possibile il più amato tra i vostri Porto o Sherry, insomma, un Ratafià candidato come ideale compagno di lente e meditate riflessioni oppure di silenti e risoluti fine pasto, o se preferite, più semplicemente, per amarsi con un po più di lentezza.

Montemarano, Taurasi Cinque Querce 1988 Salvatore Molettieri: era a sua immagine…

19 settembre 2010

Stamattina ho ricevuto una mail, un messaggio che mi ha profondamente colpito (e gratificato), dove le parole che leggevo raccontavano sobriamente una reale emozione, quella di cui in effetti abbiamo spesso necessità di vivere per stare bene con noi stessi e con gli altri, e perchè no, ritrovare in un vino.

“[..] ho seguito a lungo il tuo scrivere su diverse pagine in internet, sono per esempio un fan di Luciano Pignataro, e una sera, trovandomi in vacanza a Capri sono tra l’altro venuto a trovarti al Palace; non è stato necessario presentarci, hai immediatamente, con la tua disponibilità, conquistato il tavolo tutto: ci hai fatto bere quello che volevi, anche il misconosciuto Grecomuscio che ho imparato solo in seguito a comprendere meglio ed apprezzare. Per caso ieri sera, cercando tue nuove recensioni sul web, mi sono imbattuto in questa bella, suggestiva recensione che mi ero perso, di un vino, il Taurasi ’88 di Molettieri, che tu stesso definisci “una sottile delusione” . […] saresti capace, come forse nessuno, di vendere sabbia nel deserto, sei un grande!

Questa la recensione in oggetto che riprendo integralmente dal sito dell’amicoLuciano Pignataro per cui la scrissi circa un anno fa.

E’ domenica mattina, finalmente sono a casa, mi giro e mi rigiro nel lettone e tra un’esitazione e l’altra mi accorgo che il tempo è scivolato via tanto velocemente che è già mezzogiorno, rischio di rimanere senza pane fresco per il pranzo. Faccio un salto in centro, a Quarto, sulla strada mi fermo ed entro nel primo negozio a portata di mano, da Gabriellina Bulangerì”: infissi in alluminio verde, scaffali disorientati, generi alimentari e casse d’acqua messi un po’ alla meglio, poco più in la il detersivo, ancora merceria sparsa alla rinfusa e tutto intorno un profumo delizioso ma incipiente di ragù!

Dal fondo della stanza si apre una porta a vetri, uno sbuffo di vapore accompagna la sagoma di un’anziana signora che mi viene incontro, mi saluta e mi da il benvenuto. Le sorrido, stranito, la cucina che intravedo di là della porta è in fermento, due giovani si danno il cambio ad impanare qualcosa che mi pare pollo, una signora con un fazzoletto annodato tra i capelli è intenta a girare qualcosa faticosamente in un pentolone; adesso viene fuori anche l’odore acre di fritto, di melenzane e di friarielli. La situazione è davvero surreale, d’altri tempi come il conto scritto a penna sul foglio di carta del pane a sancire che il mondo ovunque andrà si sarà sempre perso qualcosa o qualcuno per strada: sorrido, stavolta di gran piacere, ringrazio e prendo la via dell’uscita. Ho pensato a lungo a questa scena, ritornatami alla mente appena aperte queste due bottiglie tirate fuori dal caveau del Capri Palace qualche giorno fa per gli amici rimasti a cena a L’Olivo dopo la degustazione I vini delle isole minori.

Perchè? Perchè ho pensato a cosa potesse essere Montemarano 21 anni fa, in una irpinia ancora lontana dal riprendersi dallo choc del terremoto dell’80, a cosa potesse somigliare allora la cantina di Salvatore Molettieri, alle sue giornate su e giù per le contrade Iampenne e Musanni nel vano tentativo di addomesticare le vecchie viti del vigneto Cinque Querce piuttosto che reimpiantarle per compiacere gli imbottigliatori a cui vendeva le uve. Ho pensato a tutto questo, immaginando un Taurasi d’altri tempi che il tempo ha sopraffatto, ad un profilo Molettieri che a questo punto non so se non abbiamo più ritrovato o se forse mai veramente conosciuto. Questo Taurasi ha un colore decisamente aranciato, abbastanza limpido per la presenza di alcune microparticelle di sedimenti in sospensione ma trasparente: la materia colorante ha avuto lungo corso ma ha raggiunto il suo capolinea. Il primo naso è essenzialmente terziario, non invitante ai primi passaggi olfattivi anche a causa di una prima nota di riduzione evidentemente pressante. Lasciato respirare a lungo manifesta spunti organolettici piuttosto particolari, lontani certamente dal “vino-frutto” con il quale la piccola azienda di Montemarano ci ha sconvolto con il 2001, il 2001 Riserva ed il 2003, nitidi i sentori di foglie secche si castagno, terra, polvere, non ultimo ruggine. In bocca è secco, abbastanza caldo, l’acidità ed il tannino appaiono dissolti pur rimanendo le uniche note gustative su cui fare leva in mancanza di una decisa profondità e di un frutto a questo punto magro, rimanendo gradevolmente lineare, certamente stanco, ma ancora bevibile concedendoci il tempo per costruire un utile critica storica. Particolare l’etichetta, francesizzante, con la denominazione Taurasi in rosso su carta bianca utilizzando diversi caratteri di scrittura che, come dicono oltralpe, esaltano l’immediata riconoscibilità del vino.

Avevo aperto qualche tempo fa un’altra bottiglia di questo ‘88, di cui conserviamo in cantina ancora una dozzina, e l’uniforme dissoluzione del frutto venuta fuori dalle degustazioni mi lascia pensare che non vi è null’altro da aspettarsi da questo vino se non la continua conferma che l’aglianico di Taurasi rimane un vitigno ed un vino, pur grande, dalle mille e una sfaccettature e sicuramente ancora lontano dall’essere pienamente longevo nonostante la straordinaria esperienza del ‘68 di Mastroberardino mi aveva aperto ad altre e più entusiasmanti considerazioni. Non so, a questo punto e sinceramente, se la sottile delusione sia maggiore del piacere di aver bevuto, tra i primi, un raro Taurasi di 21 anni di Salvatore Molettieri.

Un grazie di cuore a chi, quotidianamente ci legge e a chi, come Livio, che ringrazio pubblicamente, conoscendoci da tempo, apprezza tra le varie cose che cita nella mail, soprattutto la passione che ci mettiamo. Io mi permetto di aggiungere lo sforzo che sosteniamo per rendere questo blog quantomeno aggiornato e soprattutto fruibile a tutti… Grazie ancora! (A.D.).

Sorbo Serpico, il vino Kasher secondo Feudi

11 luglio 2010

Uno degli aspetti che più amo del mio lavoro è imparare, riuscire a cogliere uno stimolo, un insegnamento, da ogni esperienza che vivo, quotidianamente. E’ da un po che mi frulla in mente di parlare del vino Kasher, argomento che in realtà ho già affrontato passato, ma aspettavo l’occasione per entrare nel merito di una produzione che appartenesse alla nostra Campania, e che riscuote, tra l’altro, un ottimo successo. Ai più non sarà sfuggito che il vino, più di ogni altra bevanda, gode da sempre di una sua particolare sacralità, ma non quella dettata dai fanatici guru guidaroli o dai neo profeti in patria, ma quella intesa nel vero senso letterale della parola, di liturgica definizione, che fa cioè del dolce frutto offerto all’uomo dalla terra, un dono di Dio, e per questo curato (in vigna) e prodotto (in cantina) seguendo protocolli rigidissimi al fine di preservarne purezza ed integrità.

Il vino Kasher rappresenta in Italia una produzione certamente di nicchia ma più diffusa ed apprezzata di quanto si pensi, tanto dallo spingere diverse aziende italiane ad investire in tale direzione per potersi garantire anche solo uno spicchio di un mercato, che se in patria può risultare circoscritto in particolar modo a Roma o su di lì, in certi paesi, Stati Uniti in primis, può rappresentare una importante opportunità commerciale. Così una delle più preziose delle aziende leader in Campania, per qualità dell’offerta e diffusione sul mercato offre da qualche anno due riuscitissime interpretazioni di vino kasher: il Fiano di Avellino Maryam e l’Aglianico Rosh; Stiamo parlando evidentemente dei Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico.

I Protocolli di produzione, come detto sono rigidissimi, basti pensare per esempio che ogni operazione manuale o spostamento mosto/vino deve essere eseguita da ebrei osservanti; Ogni eventuale intervento da parte di terzi comprometterebbe l’intera produzione di vino Kasher. Durante le varie attività di produzione è importante che tutti gli impianti in metallo o vetroresina siano precedentemente lavati con abbondante acqua bollente; Le parti di raccordi in gomma, qualora già utilizzati in cantina vanno procurate nuove.

Il personale ebraico entra in scena sin dall’operazione di spremitura delle uve, già per ribaltare le cassette da far pervenire nella coclea, azionare la pigiatrice e/o diraspatrice, le pompe che dirigono il mosto nel tino. Solo da questo momento, il Mevushal (vino cotto) può essere toccato da ogni operatore purchè ad ogni travaso o altra operazione successiva sia presente l’autorità Rabbinica, la quale poi provvederà a certificare la congruità delle fasi di lavorazione nonché il prodotto imbottigliato attraverso da tre segni distintivi: l’etichetta, l’eventuale retroetichetta ed il tappo di sughero con il segno di riconoscimento o marchio del Rabbinato. In particolare in etichetta dovrà apparire il nome del Rabbino che ha eseguito il controllo e che rilascia il certificato, tale etichetta può anche essere eventualmente applicata sulle scatole d’imballaggio, sarà comunque sempre l’Autorità Rabbinica a rilasciare ogni volta il numero di etichette o tappi necessari all’operazione. Tutta la produzione annuale viene comunque accompagnata da un certificato originale registrato presso il Rabbinato Centrale d’Israele che ne garantisce tra l’altro anche l’esportazione. Rosh come detto è prodotto da uve aglianico, in verità chi si è appassionato negli anni a quel campione di ottimo rapporto prezzo-qualità che è il Rubrato, saprà cogliere in questo vino similitudini assai efficaci. Il vino sfoggia un bel colore rubino con fresche nuances violacee, mediamente consistente. Il primo naso è fragrante, intenso, non ampissimo, ma le sensazioni di frutta a polpa rossa e le note caramellose contribuiscono a definirne un profilo olfattivo molto invitante che chiude su leggere sfumature speziate. In bocca è secco, l’ingresso sul palato è molto gradevole, il frutto rimane in primo piano, delicato, pulito, anche in questa fase non si concede profondissimo ma è piuttosto gradevole ed appagante, leggero, schietto.

Tra le varie specifiche dettate dal Rabbinato ci sono ulteriori condizioni imprescindibili che l’azienda deve garantire per poter produrre vino Kasher, tra queste ne rammentiamo alcune tra le più importanti: le piante da cui provengono le uve devono essere vecchie di almeno 4 anni, le stesse ogni sette anni debbono essere lasciate improduttive e non è possibile produrre verdure o frutta tra i filari; Infine ad ogni vendemmia almeno l’1% della produzione di vino deve essere buttata nelle vigne rifacendosi al rito che simboleggia la tassa del 10% che una volta si pagava al Tempio di Gerusalemme.

Taurasi, in arrivo Anteprima Irpinia 2010

2 giugno 2010

Sabato 5 e Domenica 6 giugno 2010

Anteprima Irpinia 2010

Prima Edizione

Castello Marchionale – Porta Maggiore, Taurasi (AV)

le nuove annate di

Taurasi

Fiano di Avellino

Greco di Tufo

 all’attenzione di giornalisti, operatori ed appassionati

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Montefalcione, Vino della Stella 2009 Joaquin

23 aprile 2010

Chisto è pazzo! Inutile nasconderlo, è stato il primo pensiero che mi ha assalito quando l’ho conosciuto, a Capri, un mattinata estiva di giugno quando mi è venuto a trovare al Capri Palace per lasciarmi un saluto.

Era sull’isola azzurra con il suo enologo Sergio Romano per “visionare” alcuni vigneti dai quali trarre spunto per un nuovo progetto, molto ambizioso (oggi di prossima uscita, del quale però ne parlerò tra qualche settimana) per dare nuova linfa ad una viticoltura isolana un tantino assopita negli ultimi decenni. In effetti a guardar bene le idee messe in campo negli ultimi quattro anni da Raffaele nel suo personalissimo arcipelago Joaquin, l’ambizione, e in taluni casi la sfrontatezza, sembrano essere l’essenza vitale che riesce a tenere ancora labile la sottile linea che passa velocemente tra l’estrema ratio costruttiva del Pagano vigneron alla totale impulsività, ecco la pazzia, dell’artista creativo che rincorre l’opera perfetta e non esita a cercarla.

Raffaele è un vulcano in piena eruzione, e come un vulcano difficilmente accetta ostacoli insormontabili, le sue sono intuizioni folgoranti e idee talvolta estreme ma pur sempre espressioni di un ideale proprio, vero, autentico; Prendete ad esempio la vinificazione in bianco dell’aglianico, qualcuno ha fatto proclami, anche fuori regione, del proprio azzardo, ma in effetti di aglianico in certi vini vi era una bassissima percentuale, giusto quella per far gridare alla geniale primogenitura. “L’unico bianco con base 100% aglianico (di Taurasi!) è I Viaggi 2006 di Joaquin, perché io non credo alle mezze misure, ma, se vi sono, alle reali opportunità”. Non vi basta? Pensate allora all’utilizzo dei legni per la fermentazione e/o l’affinamento dei vini bianchi: in genere cavalcando l’onda di “tutti pazzi per il rovere” ne abbiamo visti di tutti i colori, a volte scempi inauditi, il Pagano s’impone di usare l’acacia, perché? “Perché è più prezioso, cede poco o niente al vino e pertanto il mosto che ci finisce dentro deve averne di carattere per uscirne glorificato”; non ha tutti i torti, il legno, come spesso ripete anche Luigi Moio, è un mezzo, non il fine, ma da questo malinteso di fondo in molti per troppo tempo hanno pensato alla barrique non come strumento di valorizzazione ma come artefice di caratterizzazione, un errore tra i tanti, che hanno fatto passare per buoni certi concetti stereotipati e vecchi già prima di nascere.

Il Vino della Stella 2009 è un Fiano di Avellino (in questi giorni in commissione d’esame della docg in attesa di approvazione), nasce dalle vigne in Montefalcione, sul versante che affaccia su Lapio (nello specifico, in linea d’aria, proprio di fronte alle vigne giardino di Clelia Romano), vendemmiato, per essere precisi, il 27 di Ottobre 2009 da un appezzamento di circa un ettaro e mezzo che ha dato solo 6620 chilogrammi di uve fresche, vinificate esclusivamente in acciaio (in serbatoi costruiti su richiesta in formato 1 a 1, vale a dire con superficie di contatto delle bucce quanta più ampia possibile) e dalle quali si sono ottenuti circa 4700 litri di vino, più o meno 6200 bottiglie circa.

E’ un vino intrigante, veste di giallo paglierino tenue ma di ottima vivacità, il naso ha bisogno di tempo, per cui lo lasciamo scorrere nel bicchiere e ad ogni sniffata ci accorgiamo della leggera virata, dall’erbaceo iniziale al floreale e fruttato conseguente, spiccate le note verdi che ricordano l’erba falciata, ma appena dopo un po’ ancora più affascinanti i profumi di melone bianco e fiore di tiglio che richiamano l’idea di un vino in continuo divenire. In bocca è secco, l’ingresso è fresco ed abbastanza caldo, cerco conferma della sua struttura alcolica e ne ho certezza, sopra i tredici e mezzo, eppure gradevolissimo. Adesso la temperatura è più alta e le note olfattive entrano in una orbita più fragrante rimarcandone piacevoli sensazioni dolci e morbide.

E’ certamente un azzardo delinearne adesso un profilo organolettico ineccepibile, lungi da me, ma credo sia un vino di buona stoffa, e tra qualche tempo sarà capace di esprimere un equilibrio ed una piacevolezza da vero campione, e senza dover aspettare due-tre anni dalla vendemia: ecco, ci sono! Forse questo fiano di Avellino non possiederà una prospettiva verticale assoluta ma dona certamente di sé già una immagine diversa dalle rincorse alle mineralità alsaziane o dalle sfaccettature tropicali di certi fiano cotti dal sole: ma certo, la terza via, possibile che esista una terza via che si divincoli dalle acidità marcate o svolti drasticamente dalle morbide curve dell’obesità californiana? 

Prata Principato Ultra, Greco di Tufo 2006 Calafè

6 febbraio 2010

“Le afferro con mano decisa  il collo alto, liscio come seta, in maniera da tenerla ben ferma; Con l’altra impugno il coltellino, in bella mostra, i denti lucidi, famelici. Solo due tagli netti, un terzo, obliquo, solo all’evenienza, un gioco di polso veloce,  et voilà, il gioco è fatto!”.

Calma, non è la confessione di un omicidio, ne l’istigazione a commetterne uno, è solo, in maniera sintetica, veloce, la dimostrazione di come liberarsi in maniera efficace della capsula di una  bottiglia di vino. E’ il fermo immagine da cui parte il bellissimo ricordo di questo delizioso Greco di Tufo 2006 di Calafè, piccola azienda irpina da poco sulla scena ma che non ha mancato di mostrare doti di un potenziale eccelso, soprattutto con i suoi greco, questo, che dovrebbe essere ad onor di listino, il vino base ed il cru Ariavecchia.

La vendemmia 2006 é stata in effetti la prima dell’azienda, di questo greco davvero pochissime le bottiglie, appena un migliaio per dare libera interpretazione al sogno di Benito Petrillo di rimarcare origini certe da dedicare, offrire, alle nuove generazioni, alle sue nipoti in particolare: Calafè è infatti l’acronimo di Camilla, Laura e Federica, le giovani braccia che accoglieranno in futuro il frutto di questo sogno ma che già oggi non fanno mancare la loro presenza in cantina ed in giro per fiere ed eventi. Il progetto aziendale prevede, oltre al greco, una spinta importante anche sull’aglianico di Taurasi, in questi anni in affinamento, che però non ha mancato di lasciarsi già apprezzare nella giovane versione “Campi Taurasini”: il 2007 è austero, rigoroso, di buona prospettiva, pecca forse solo un po’ di pulizia olfattiva. Ma la sfida più grande rimane sul greco, quella cioè di scommettere sulle grandi potenzialità che ha questo vitigno di sfidare il tempo, un bianco quindi che esce dalla cantina dopo almeno due anni dalla vendemmia, per offrirsi più pronto da bere, maggiormente espressivo nel frutto, con toni soprattutto olfattivi già maturi non senza però perdere quel carattere gustativo più rigido, particolarmente franco nel greco di Tufo.

Le vigne sono collocate nell’area storica della denominazione, a Prata Principato Ultra e Santa Paolina, con suoli caratterizzati perlopiù da strati argillosi-calcarei nonchè sulfurei, che godono di particolari escursioni termiche tra giorno e notte che permettono una particolare sintesi degli aromi nonchè una maturazione delle uve costante ed efficace. Il 2006 è stato vendemmiato appena dopo la metà di ottobre, rigorosamente a mano e le varie parcelle dei vigneti vendemmiate e vinificate separatamente per comprenderne meglio caratteristiche e voluttà. La vinificazione è stata diretta, niente diraspatura, il mosto ha subito una decantazione statica a freddo per circa 36 ore prima di essere inoculato per la fermentazione alcolica, condotta a bassa temperatura tra i 14/16 °C. Successivamente si è attesa una prima parziale fermentazione malolattica, poi un lungo affinamento sulle fecce fini (circa 12 mesi) prima didestinarlo in bottiglia dove è rimasto circa un altro anno.

Nel bicchiere un vino giallo paglierino intenso, tendente al dorato, cristallino, consistente. Il primo naso è assai invitante, note fruttate dolci e floreali, persistenti, in particolare pera e albicocca matura, con reminiscenze minerali già particolarmente evolute: un naso quasi “mitteleuropeo”, che trova pieno riscontro stilistico nel sapore. In bocca è infatti secco, decisamente lungo, l’acidità è ben presente, nonostante i tredici gradi e mezzo continua a mostrare una spalla interessante, dona una freschezza di beva molto invitante, piacevole, continua, corroborante. Il finale è caratterizzato da una spinta sapida che ancora fa fatica a venire fuori del tutto, ma ci vuole essere, sino alla fine. Un gran bel bianco, che aspetto di riassaggiare nelle prossime vendemmie perché vale proprio la pena non perderlo di vista nell’affollato, per fortuna, corollario irpinio.

Se proprio dovessimo reiterarlo questo reato, beh, non sarebbe male confrontare questo vino in abbinamento alla minestra di pasta di Gragnano con crostacei e piccoli pesci di Gennaro Esposito.

Cesinali, Taurasi Terzotratto 2004 I Favati

7 dicembre 2009

Quale futuro per il Taurasi? Molti vedono lustrini e paillettes, tanti ci sperano, qualcuno storce il naso e rimane a guardare. Continuare e bere l’aglianico di Taurasi ci servirà nel frattempo per capire quale strada si sta percorrendo e quali le difficoltà più ardue per la comprensione di un vino tanto importante nel panorama enologico italiano quanto incompreso soprattutto dal mercato internazionale.

Il Terzotratto 2004 sancisce il debutto dell’azienda di Piersabino e Giancarlo Favati nella denominazione di origine controllata e garantita più prestigiosa del sud Italia, la prima in assoluto, anche nella stessa Irpinia prima dell’avvento, solo nel 2003, del Fiano di Avellino e del Greco di Tufo; L’azienda, condotta in maniera eccellente anche dalla brava Rosanna Petrozziello, moglie di Giancarlo, era sino a qui conosciuta soprattutto per lo splendido Fiano di Avellino Pietramara, vino superbo che assieme a poche altre etichette possono vantare ancora oggi di essere un riferimento assoluto in materia bianchista nella nostra regione. Il Terzotratto nasce sotto una buona stella, il 2004 è millesimo di grande slancio evocatico, per molti addirittura l’anno zero della nouvelle vogue taurasina offrendo in generale vini eleganti, fini, risoluti nella loro trasparenza gustolfattiva di un frutto franco e caratterizzato da mineralità spinte capaci di garantirgli con molta probabilità longevità ed evoluzione per lungo tempo. Vincenzo Mercurio qui ha fatto il resto, raccogliendo la sfida ben sapendo come condensare con la sua opera in cantina tutti questi elementi.

Il colore è rosso rubino con accennate nuances tendenti al granato, vivace e poco trasparente, di buona consistenza nel bicchiere. Il primo naso mostra subito un interessante ventaglio olfattivo, è subito fruttato maturo, si percepisce nitidamente la  marasca e la prugna, poi diviene etereo, sottile, note delicatamente speziate e balsamiche, pepe nero e china. In bocca è intenso, profondo, il tannino viene rincorso da una sapidità spiccata ma che ancora fatica a compensarne la durezza, rimane vivido ed espressivo per tutta la beva, piacevole e confortante di un vino di carattere e di un potenziale ancora del tutto da svelare. Esecuzione lineare per un vino di grande qualità, mi ricorda per impronta, il Macchia de’Goti di Caggiano di qualche anno fa, stilisticamente improntato sulla finezza aromatica e sulla sottile nerbatura del frutto, ancora in divenire. Da aprire almeno un paio d’ore prima di servirlo, in calici mediamenti ampi, ha bisogno di piatti caratterizzati da buona aromaticità, succulenza e morbidezza innanzitutto, penso per esempio al  maialino cotto lungamente a bassa temperatura di Tonino Pisaniello della Locanda di Bu di Nusco.

Vallesaccarda, l’Oasis dei sapori antichi

17 novembre 2009

La crescita qualitativa di indirizzi di qualità in Campania è pari a poche altre regioni in Italia, e questa non è un’affermazione buttata lì poiché accertata e giustificata da tutte le guide specializzate del settore che indicano proprio nella nostra regione un vero e proprio exploit.

La materia prima rimane eccellente, i luoghi da sempre suggestivi, cambiano però gli attori, nemmeno i copioni, ma gli interpreti; sono infatti davvero pochi, pochissimi i modelli e le interpretazioni moderne e post-moderne di una cucina internazionale in piena saturazione che hanno fatto breccia nei cuori degli chef campani. Qui da noi quello che conta è l’origine, è più si è radicati in essa più si ha capacità di sfondare. Vallesaccarda è un paesino particolarmente ameno, per così dire, l’uscita autostradale si scorge appena sulla Napoli-Canosa, da qui Avellino dista oltre 60 Km, sono almeno 130 i kilometri da Pozzuoli. La curiosità però era tanta, gli ultimi anni hanno segnato una crescita costante, quasi esponenziale della bella realtà della famiglia Fischetti di cui non si fa altro che parlar un gran bene, e allora, pazienza e partenza per la missione Oasis, alla riscoperta degli antichi sapori!

Il Ristorante è nel centro di Vallesaccarda, nel cuore della “Terra della Baronìa” ad un paio di chilometri dall’uscita, appunto dell’autostrada Napoli-Canosa, un tempo meta di professionisti in cerca di pausa pranzo, poi luogo di ricevimenti per le feste di famiglia locali, oggi ristorante gourmet a tutti gli effetti fuori dagli itinerari classici. Il locale è caldo, ben arredato, i tavoli sono ben distanziati e circondati da fiori rigogliosi. Ci accolgono con garbo, non è ancora ora di pranzo ma non ci fanno mancare attenzione e cordialità né di accompagnarci al nostro tavolo. I piatti che si susseguono sono assolutamente territoriali, tra i più riusciti la zuppa di farro, i ravioli di burrata e mantèca, i trilli ai carciofi, l’agnello in crosta di peperoni, il filetto di vitello all’olio extravergine di oliva ravece.

Diversi i dessert proposti alla carta (spesso abbinati ai vini passiti in mescita del giorno) tra i quali la millefoglie alla crema ed il frollino di gianduia. La carta è molto ampia e ben strutturata, un po’ alti, se vogliamo essere fiscali, i ricarichi, ma d’altronde quaggiù non è facile gestire questo elevato numero di etichette pertanto vengono ampiamente giustificati. Vale la pena almeno una volta sedersi a questa tavola, e ritornarci.

Oasis – Sapori Antichi
Vallesaccarda (Av)
Tel +39 0827 97021 / 97444
Fax +39 0827 97541
Chiuso il Giovedì e le sere dei Festivi
 

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