
A mio padre, ai miei fratelli e al ricordo di un mestiere che ci hanno strappato dal cuore, non dalla nostra storia familiare.
E’ l’una e mezza del mattino, la Seiko digitale, una di quelle della prima ora, coi numeri bianchi grandi così, lentamente sale di tono. Pur dormendo nella stanza accanto la sento nitidamente, non ho mai smesso di sentirla da quando hanno deciso di usarla. Fa un freddo boia, alzo appena gli occhi dalla coperta militare tirata su sino alla fronte, riesco però a scorgere dalla porta a vetri le ombre di mia madre e di mio fratello Nicola, i primi a rompere il fragile silenzio notturno, che vanno avanti e indietro nel corridoio di casa. La prima si sincera che Nunzio abbia indossato panni ben pesanti, l’altro, ritorna in camera sua a dare un altro colpetto a Vincenzo, sempre poco scattante al richiamo sonoro, per lui troppo sottile, della sveglia. Papà non ne ha mai avuto bisogno, lui all’una in punto è già bello che in piedi. A quest’ora, mentre i miei fratelli si vestono, il termos di caffè è già pronto, lui ha già bevuto il suo bel bicchiere di caffè d’orzo e preparato la solita tanichetta d’acqua da usare per sbrinare il parabrezza ed il lunotto della Panda parcheggiata sottocasa.
Così è ogni sera, il martedì sino alla domenica, burrasche e mareggiate permettendo. Eh sì, perché se piove, fa freddo, c’è vento, non vale il riposo, si esce lo stesso, il mare li attende e non ammette ritardi; Per le due bisogna uscire dal porto, entro due, tre ore al massimo le reti vanno ritirate dal mare, poi in prima mattinata, nel canale di Procida ricomincerà il tran tran quotidiano di traghetti e mezzi vari che fanno la spola tra il continente e le isole di Ischia e Procida, troppo trambusto per avere battute di pesca sufficienti a rinfrancare il sacrificio.
Destinazione quindi, darsena di Pozzuoli, per qualcuno risulterà più familiare “O’Valjone”, nome storico del porticciolo dei pescatori flegreo, oggi ridotto ad un ammasso di ferraglie e bagnato da liquami, nonchè vetrina sventrata di un by night inutile ed irriverente per la storia che conserva in grembo. Qui è ormeggiata l’Andromeda 2NA1770, nove metri, cabinato. Non è grandissima, ma abbastanza per rivoluzionare, siamo a fine anni settanta, il modo di fare pesca “da posta” a Pozzuoli. Una delle prime a solcare le acque del porto del capoluogo flegreo, interamente costruita a mano, in legno, con motore Volvo Penta che ne faceva una delle barche da pesca più veloci, scattanti, sicure. L’Andromeda, con la prua a dritta, fendeva le onde in maniera superba. Mio padre, racconta, quando il mare era grosso, ma grosso per davvero, lasciava il timone idraulico in cabina e correva alla barra esterna riuscendo così a domare anche le onde più alte e dure. Era la barca che aveva sempre sognato, i miei fratelli l’hanno amata sopra ogni altra cosa materiale, un bene prezioso, un pezzo dell’anima.

Così si prende il mare, con le luci di segnalazione accese, si esce dal porto: gli ultimi controlli alle pompe idrauliche, al verricello di prua, con papà al timone, mentre Nunzio, Nicola e Vincenzo si danno il cambio sottocoperta per rubare ancora pochi minuti di sonno al freddo. Le prossime ore saranno di duro lavoro: appena si arriva nel canale di Procida bisogna stare allerta, individuare quanto prima possibile il segnale di posta delle reti e guardarsi costantemente attorno, durante la levata, a che non vi sia qualche navigante sprovveduto che causi ansie e timori. Ricordo come fosse ieri il racconto di papà di quando affondò il “Salvatore Marino” all’imbocco del porticciolo di Monte di Procida. I miei salvarono quattro persone dalla morte certa, furono, a detta sua, le due ore più dure di sempre alla ricerca dei passeggeri, per fortuna pochi (eravamo all’alba) che videro in un battibaleno, sparire sotto ai propri piedi una motonave di stazza imponente per una banale erronea segnalazione di posizione con l’incrociatore che entrava in porto.
La gioia più grande invece è vedere salire al verricello, tra le reti, i pesci più grandi, le seppie più grosse, le aragoste dalle antenne più lunghe. Ho provato anch’io, poche volte per la verità, quelle stesse emozioni: vedere Nunzio, con Vincenzo, mentre tiravano su spigole, orate, mennelle, triglie catturate dalle maglie era pura gioia visiva. In questi momenti la velocità con la quale sei costretto a tirare su le reti non ti consente di sbrogliare il pescato in maniera corrente, pertanto man mano che vengono su, si sistemano ai lati le matasse più ardue da districare: scorfani e gallinelle i guastatori più voraci, soprattutto i primi, da maneggiare oltretutto con particolare cura ed attenzione a causa delle spine dorsali intrise di un particolare veleno urticante, che arriva acausare, se punti, dolori lancinanti.
Poi però con calma, sulla scia di ritorno, tutto si sistemava. Si “allestivano” le reti, si “sarcivano” (cucivano) gli strappi, ed immancabilmente si discuteva degli errori commessi: a papà non gliene andava bene una, comunque; Ma con le vasche ricolme a prua e con la sensazione di aver speso maledettamente bene ancora un altro giorno di duro, durissimo lavoro, tutto appariva come già stato vissuto, domani si ricomincia!
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