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Barbaresco, il report dell’annata 2020 di Gaja

24 novembre 2020

Chi segue queste pagine da tempo conosce bene la profonda devozione che nutriamo da sempre per Angelo Gaja e la sua straordinaria galassia di etichette prodotte in Piemonte, a Barbaresco e nelle Langhe, e in Toscana, tra Montalcino e Bolgheri. Ci pregiamo di condividere con voi una parte sostanziosa del report dell’annata 2020 di Gaja nelle Langhe.

Un primo giudizio sull’annata nelle Langhe. La quantità prodotta è nella media, le uve sono sane e mature, con acini pieni e succosi, bucce resistenti e ricche di antociani. Rispetto alla norma i grappoli sono un po’ più lunghi e gli acini un 15% più grandi.

Abbiamo buone prospettive in quanto le fermentazioni sono regolari, i colori sono intensi, i tannini morbidi e non aggressivi anche se molto presenti. I vini hanno una concentrazione leggermente inferiore al solito, forse per via degli acini mediamente più grossi, ma emerge la finezza del Nebbiolo e si denotano fin da subito profumi puliti, eleganti, senza pesantezze o rusticità. Anche le gradazioni sono equilibrate, vanno dai 13,5 ai 14,7, l’acidità è regolare, tra i 6,5 e 7 con ph tra 3,45 e 3,5.

Andamento stagionale. Il 2020 è stato un anno con una piovosità oltre la media (circa 1000 mm in zona Barolo, 900 mm in zona Barbaresco rispetto a precipitazioni totali annue mediamente di 800mm). Il fatto anomalo però è la distribuzione delle precipitazioni che, invece di essere in inverno e in primavera, si sono concentrate nei mesi estivi. Inoltre, va rimarcato come eccezionale il fatto che nonostante l’alta frequenza temporalesca, per la prima volta in tanti anni nessun nostro vigneto è stato danneggiato dalla grandine.

Gran parte delle piogge invernali è caduta nel mese di novembre (si segnala anche una nevicata precoce il giorno 15 che ha colto di sorpresa le viti ancora cariche di foglie) ed è stata fondamentale per contrastare la siccità di dicembre, gennaio, febbraio e marzo. In questi mesi le temperature sono state sopra lo zero termico, in particolare il mese di gennaio 2020 verrà ricordato per essere stato il più caldo degli ultimi 50 anni. A causa del grande accumulo idrico dell’autunno e del calore di inizio anno, le viti si sono risvegliate in anticipo. Il freddo è arrivato davvero solo a metà marzo, portando le temperature sotto lo zero fino a metà aprile. Non si sono verificati danni da gelate.

Con la sola eccezione di un picco di caldo a fine maggio, di uno ad agosto e uno a metà settembre, il periodo che va da maggio a inizio settembre è stato caratterizzato da giorni caldi ma mai eccessivi, frequenti temporali e abbassamenti delle temperature nei giorni a seguire.

Pertanto l’anticipo vegetativo di inizio anno è stato così annullato, tornando in linea con i tempi di sviluppo medi. Nelle 2 settimane centrali di agosto le temperature si sono alzate raggiungendo anche i 39 gradi e portando benefici alla maturazione delle uve. Dal 10 al 18 settembre le temperature si sono nuovamente assestate sui 28-30 gradi, completando la maturazione del Nebbiolo. Sono poi tornate le forti escursioni termiche per tutto il resto del mese e a inizio ottobre, favorendo ottimi colori, aromi netti ed un eccellente stato sanitario delle uve.

Le statistiche. La sensazione a prima vista è che soprattutto per San Lorenzo e la zona di Barbaresco i vini prodotti nel 2020 abbiamo delle affinità con le annate 2016 e 2014. La quantità lievemente più abbondante, le gradazioni alcoliche importanti ma equilibrate, la freschezza, eleganza e precisione degli aromi, il colore intenso, la lunghezza al palato ricordano il 2016, ma i tannini sono fin da subito meno astringenti. Le affinità con il 2014 sono invece la maggiore espressività dei profumi, i simili aromi fruttati e la struttura dei vini, con una concentrazione leggermente inferiore al solito.

Un commento ai dati che paragonano il 2020 al 2016 e al 2014. Va premesso che non ci sono mai parametri uguali in natura tra annata e annata e che oltre a luce, temperature e radiazione solare contano molte altre variabili tra cui l’età delle viti, il carico di uva per ceppo, la sanità dei suoli, la gestione delle malattie. Detto ciò, anche se nel complesso il meteo ha avuto andamenti diversi, sia nel 2016 che nel 2020 c’è stata una primavera fresca ed un surriscaldamento verso la fase finale della maturazione che ha ottimizzato i risultati. Anche il comportamento del vigneto, la gradualità dello sviluppo vegetativo delle viti e la dinamica della lotta ai patogeni così come lo stato sanitario delle uve ricordano il 2016.

Le precipitazioni e la distribuzione della luminosità nel 2020 hanno invece maggiore affinità con il 2014, così come anche la grandezza media degli acini, lievemente superiore al solito. In entrambe le annate le piogge non sono state di facile gestione, tuttavia sia quelle tra primavera e estate che quelle estive e autunnali, insieme ai forti sbalzi termici tra giornate calde e giornate fredde, sono state un fattore molto positivi per l’ottenimento della piena maturazione del Nebbiolo.

© 2020 Gaja – Report aziendale

L’Arcante – Riproduzione riservata

Uno straordinario Barbaresco Sorì Tildìn ’90 Gaja

19 novembre 2013

E’ indubbio che Angelo Gaja¤ e i suoi vini¤ dividano da sempre appassionati e critica. I primi, pur sedotti dalla bontà dei suoi vini si vedono tagliati fuori da un consumo per così dire abituale per una precisa collocazione sul mercato delle sue splendide bottiglie¤ in una fascia decisamente alta per le disponibilità di molti.

Barbaresco Sorì Tildin 1990 Gaja - foto L'Arcante

Una scelta ben precisa che da sempre contribuisce ad alimentare il mito e a farne oggetto del desiderio ma allo stesso tempo, quasi come un contrappasso, a tenerle sempre sulla graticola del ‘sì buono, ma caro’¤. Così la critica si divide da sempre, soprattutto quella più smaliziata ed ‘esperta’; invero anche per tante altre questioni, leggi tipicità, tradizione, punti di vista ecc… che lo stesso Angelo non ha mai lesinato ad alimentare a suo modo (con astuzia) nonostante certe scelte, alcune sue iniziative, posizioni, pur se talvolta di profonda rottura, potessero essere ben comprese se non anche condivise da altri.

Tant’è Gaja, e Angelo Gaja in quanto personalità davvero unica nel suo genere sono a pieno titolo nella storia del vino italiano e questo nessuno potrà mai metterlo in discussione, nessuno.

Sorì Tildìn 1990 è stato uno degli ultimi cru di Barbaresco uscito dalla cantina di via Torino prima della decisione di abbandonare la docg, col 1996, con i Sorì e il Costa Russi. Decisione che suscitò non poco clamore, soprattutto per la montante paura di una invasione dei cosiddetti vitigni internazionali anche in Langa. Scelta che fu presa, stando a quanto ci consegna la storia oggi, per consentire l’utilizzo di un 5/6% di barbera nei Barbaresco (e Barolo) così da attenuare l’importante acidità del nebbiolo di quelle terre.

L’assaggio di questo ’90 è di quelli memorabili, uno dei migliori vini mai avuti nel bicchiere: vivo, sfrontato, infinito. 23 anni dopo non c’è schema che tenga e non c’è appiglio cui fare ricorso. Grande. Certo quel maledetto tappo ci ha dato non pochi grattacapi ma alla fine ne vien fuori un’occasione di quelle che mai prima.

Il colore è maturo ma perfetto, rubino appena aranciato sull’unghia del vino nel bicchiere, luminoso e trasparente. Il ventaglio olfattivo è ammaliante, l’incipit è impressionante: subito speziato, vien fuori ricco e variegato; tenerlo in caraffa, lungamente, gli dona una vivacità incredibile, ad ogni passaggio vira continuamente dal varietale all’emozionale, ritorna preciso sui frutti di neri ad ogni sorso, alla prugna e poi al tabacco, china, rabarbaro mentre in bocca è ancora teso, finissimo, ampio, avvolgente ma teso, in perfetto stato di grazia. Pura emozione.

Più di tutti, poté uno Sperss 2001

10 novembre 2012

Proprio una bella esperienza, senza dover necessariamente aggiungere dell’altro, soprattutto usando paroloni oltremodo reverenziali per un’azienda che non ha certo bisogno di salamelecchi e cose del genere. Gaja è e rimane un riferimento. Punto.

Poche ma significative parole invece vanno scritte per la notevole esperienza degustativa regalataci proprio da Angelo Gaja in una sala del castello lì a Barbaresco, proprio di fronte, a due passi dalla sede storica della cantina; un luogo che sarebbe dovuto diventare, in origine, un posto d’accoglienza a 360° ma che poi si è scelto far diventare una sorta di showroom/museo aziendale. Per adesso. 

Un incontro aperto naturalmente dal benvenuto del padrone di casa, arricchitosi via via di tanti argomenti messi in campo di volta in volta: il territorio anzitutto, la storia (non solo dell’azienda di famiglia), il presente e il futuro di un areale, l’albese in particolar modo, che sembra rimanere, sospeso, in uno stato di grazia perenne, tra i pochi in Italia a portare avanti uno sviluppo tipicamente industriale senza però stravolgere l’equilibrio rurale delle sue immediate periferie; anzi, a guardar la storia, contribuendo in maniera decisiva a valorizzarlo probabilmente oltre ogni aspettativa.

Degustazione che si è naturalmente dilatata poi nel tempo e, dopo un passaggio obbligato per le cantine, anche a pranzo, all’Antica Torre, posticino davvero delizioso, nel cuore del centro storico di Barbaresco, proprio sotto l’antica torre del paese, dove abbiamo bevuto ancora dell’altro ma questa volta in compagnia di Lucia e Rossana Gaja. 

Questi gli appunti sul mio carnet: teso e minerale il Gaja&Rey 2009, ancora non del tutto schiuso al naso e in costante distensione in bocca (l’ultimo mio assaggio è dello scorso luglio); sopra ogni aspettative invece l’ottimo Alteni di Brassica 1998. Poi un Barbaresco, il duemilaotto, che sembra anticipare quanto vadano ad incidere i cambiamenti climatici in vigna anche da queste parti, “un fenomeno cui bisogna dedicare in futuro sempre maggiore attenzione e sempre più ricerca e studi specifici”, dice chiaramente Angelo Gaja. E la conferma ci arriva da un Sorì Tildin 2010 – un campione da botte servitoci però alla cieca e in bottiglia – che, se non fosse stato per l’evidenza tannica un po’ sgraziata sarebbe tranquillamente passato, per l’opulenza e l’eleganza con la quale si presentava invece al naso e nel complesso in bocca, come un vino “pronto” almeno per il suo lancio sul mercato.

Breve ma circostanziato il passaggio in Toscana, col Magari 2010 di Ca’ Marcanda, dal timbro inconfondibilmente rotondo e grasso tipico del bolgherese, e il Brunello Rennina 2006 di Pieve Santa Restituta, dal naso maturo e dal sorso austero e quasi ferroso tanto è minerale. Prima di ritornare, due volte, in langa, col Costa Russi: con un duemilanove di grandissima levatura, sontuoso per quanto verticale e fitto e un novantotto da manifesto emozionale, di quelli che una volta letti vale spegnere le luci e andare tutti a casa. Senza esagerare.

E infine c’è lo Sperss 2001, uno sparo secco nel buio. Quel buio dove ancora armeggiano tradizionalisti e innovatori alle prese con manuali, libretti e sermoni, quando invero servirebbe solo ascoltarli certi vini, come attraversano il tempo, e quel muro di chiacchiere inutili ai primi quanto ai secondi. Qui c’è una idea precisa, magari diversa, nuova, ma estremamente precisa di un vino verticale, variopinto, nuovo ad ogni sorso, di spessore, nerboruto, opulento, avvenente. Appagante. E dopo più di dieci anni che si mostra come fossero passati appena dieci anni. Un nebbiolo (di Serralunga d’Alba) con un saldo del 5% di barbera, mica pizza e fichi.


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