Bisogna augurare al Taurasi di non avere mai successo, per non avere fretta di rincorrere il mercato e rifuggire quel giusto tempo di maturazione di cui ha maledettamente bisogno. Il successo commerciale, com’è noto, porta all’estremo tentativo di ripeterlo pedissequamente, riproponendosi frettolosamente – a volte ciechi – dinanzi alle solite aspettative, non di fronte all’attimo fuggente. I tempi del resto sono quelli che sono.
D’altro canto il consumatore meno appassionato si aspetta che anche certi vini, certe tipologie, sappiano offrire di se sempre qualcosa di familiare, una ripetitività che tra l’altro nessuno dice di inseguire ma che in fin dei conti piace a molti, troppi, quasi tutti; poi c’è chi pretende anche che si presentino delle novità, purché non troppo distanti dalla consuetudine, efficaci ma non necessariamente plasmate su sostanziali diversità. Basta la facciata, il primo naso magari; così l’enologo, esperto o furbetto, vedete voi, può inserire qualcosa di suo, di nuovo, discretamente diverso, capace magari di richiamare comunque la tradizione. In fin dei conti, non è il gioco della convenzione e dell’innovazione, della familiarità e della novità la ricetta perfetta per avere successo?
Struzziero, i suoi Taurasi, che conoscevo abbastanza pur non così in profondità, sembrano piombati in Irpinia da un altro pianeta, eppure ne rappresentano da sempre l’essenza; proprio loro sono stati infatti tra i primi, assieme a Di Marzo e Mastroberardino, ad “esportare il territorio” fuori dai confini locali, addirittura oltreoceano; Eppure rimangono così lontani – Giovanni, Mario, i loro vini stessi – da quanto appena paventato; distanti anni luce da tutta quella chirurgia estetica a cui molti sono ricorsi negli ultimi anni per stare dietro al mercato: un affanno incredibile; talvolta esortati, è bene rammentarlo, anche da chi, cosciente o meno, autodefinitosi finissimo scouter (evidentemente di primo pelo) pare capace di cogliere nuovi profeti ovunque, anche laddove altri ne avevano colto egregi vignaioli bravi il giusto per guadagnarsi la copertina in un’annata fortunata.
E come dimenticare l’assoluta incapacità di comunicarli certi valori; ricordo come fosse ieri le parole di un noto enologo di una nota cantina taurasina che in quel del Castello Marchionale, durante una delle ultime anteprime andate in scena, tirò fuori dal cilindro – mentre parlava ad un parterre di giornalisti, operatori ed appassionati alcuni dei quali provenienti da tutta Italia – una frase che più o meno recitava così: “abbiamo bisogno di una mano, il nostro aglianico soffre il mercato, non incontra il gusto moderno del vino, vorremmo capire come fare, abbiamo le cantine piene”. Poco più in là, giusto un paio di file indietro a me, mi parve di cogliere un sibilo fulmineo, netto: “ma che è pazzo questo?”. Insomma, un disastro!
Comunque, grande vino questo vino, immediatamente fatto mio! L’ho subito accolto come il migliore della batteria, sin dal primo assaggio passatomi dai bravi sommelier del gruppo Ais di Napoli a cui era affidato il compito di governare la storica sessione di degustazione andata in scena lo scorso 22 maggio a Castel dell’Ovo durante l’ultimo Vitigno Italia.
Migliore non perché emergesse per qualche particolare sopra gli altri, che a dire il vero tranne il ’77 – per la verità soltanto al naso – erano perfettamente integri e godibili; semplicemente, in maniera evidente, pare incarnare, a mio modesto parere, quel modello più vicino al riferimento tradizionale che in molti, tra gli appassionati, gli addetti ai lavori, promuovono del Taurasi. Il colore è di uno splendido aranciato maturo e vivace, abbastanza trasparente; il primo naso è subito invitante ed inebriante di aromi finissimi di frutta secca, corteccia, spezie e note balsamiche, sottili e dolcissime: carrubo, china, pepe bianco e liquerizia. In bocca neppure il tempo di una esitazione: secco, austero, intenso e persistente; tannino in grande spolvero ed equilibrio, non certo un campione di morbidezza, guai a pensarlo dinanzi a certe bottiglie, ma perfettamente bilanciato e pacato con un finale appena lievemente amarognolo. Davvero un gran bel bere, sull’immediato e, senza indugio alcuno, in prospettiva.
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