Posts Tagged ‘slow food’

Cartoline dai Campi Flegrei, o della Falanghina 2018 di La Sibilla

12 agosto 2019

Possiamo dire di conoscere la famiglia Di Meo da oltre quindici anni, di seguire appassionatamente la loro storia vitivinicola sin dai primi esordi a cavallo degli anni ’90 e duemila. Abbiamo imparato ad apprezzarne, prima che i vini, la levatura umana e la profonda dedizione nella salvaguardia e la difesa della terra con una viticoltura sostenibile, buona, pulita, giusta.

Valori che ne hanno fatto sin dagli esordi un papabile riferimento assoluto, non un contorno di cronaca enoica che in quegli anni contava sul territorio pochissimi attori riconoscibili e forse solo uno o due capaci di scaldare veramente gli animi di chi si avvicinava ai vini flegrei con una qualche aspettativa in più che non fosse una semplice e fugace bevuta.

Dopo tre lustri abbondanti, oggi Luigi si dedica completamente (”finalmente!”, dice) alla cura del vigneto, tra i più belli e curati dei Campi Flegrei, mentre Vincenzo, il primogenito, ha ormai pieno controllo della cantina e di tutte le fasi tecniche di produzione; poi c’è Salvatore, che sostiene il lavoro del fratello e si occupa perlopiù dell’accoglienza in cantina, dove muovono decise i primi passi anche le loro giovani mogli con al fianco l’ultimogenito di famiglia, il giovanissimo Mattia. A fare da faro, da sempre, c’è Restituta, la mamma.

Godiamo di questo Campione di verace Falanghina dei Campi Flegrei duemiladiciotto affacciati, di sera, su uno dei panorami più belli di questa terra, sul Canale di Procida. Lo stretto lembo di mare che separa questa parte di costa flegrea dalle splendide isole di Procida e Ischia, trafficatissimo e perennemente spazzato dai venti, pare lo scenario liquido perfetto per ricordare, come un déjà-vu, gli ultimi 20 anni di storia di questo territorio: così piccolo, sovra-urbanizzato e disordinato, talvolta fin troppo vivace, eppure capace di conservare una così profonda memoria di tradizione e lentezza contadina, pura resistenza.

Ecco, con il profumo autentico di terra vulcanica che ne anticipa il sorso, così schietto e vibrante, ci congediamo dal calice e dalla vuota bottiglia non senza un pizzico di orgoglio per aver visto nascere, crescere, affermarsi una delle più belle realtà flegree che si appresta a mettere alle spalle i suoi primi 20 anni di straordinaria resilienza. Che dire, ad maiora semper!

Leggi anche Piccola Guida ragionata ai vini dei Campi Flegrei Qui.

Leggi anche altro riguardo La Sibilla su questo sito Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Pollenzo, Ristorante da Guido

17 ottobre 2011

Quindici anni fa, più o meno, ne seguivo le fortunate vicende dalle pagine del Gambero Rosso. Talvolta anche sul “channel”, soprattutto la rincorsa alle ricette tradizionali piemontesi che la Signora Lidia non ha mai fatto mancare ai suoi avventori.

E’ Guido da Costigliole, nome da dipolamatico per un ristorante che da Santo Stefano Belbo è entrato a pieno titolo nella storia dell’ enogastronomia italiana. Sobrio ed essenziale, oggi il ristorante “Guido” è a Pollenzo, presso l’Agenzia voluta da Slow Food che ospita, tra le altre cose, l’Università del Gusto e la Banca del Vino. Nasce dalla riuscita unione di due storiche prestigiose realtà della costumanza gastronomica piemontese, Guido da Costigliole d’Asti appunto e La Noce di Volpiano della famiglia Mongelli.

Padrone di casa stasera è Piero Alciati che, con il fratello Ugo ai fornelli – e qua e la una comparsa della mammissima Lidia -, continuano a proporre piatti tradizionali e tipici della cucina piemontese, accompagnati come detto in questa nuova, suggestiva avventura, dalla famiglia Mongelli. Ma veniamo alla cruda cronaca di una serata piacevole e rilassata a poco più di due passi dalle Langhe.

E’, con il gelato, forse il piatto più riuscito della serata, il benvenuto dello chef, uno gnocco di zucca con ragù di salsiccia e tartufo bianco d’Alba: un trionfo di profumi, netti, distinti avvolgenti ma al tempo stesso calibratissimi, e che non mancano di fondersi in tutt’uno e regalare un’esplosione di sapore unico.

Sono da poco passate le otto e mezza e il locale è già bello pieno. La grande sala, un tempo scuderie del comprensorio “albertino” che ospita l’Agenzia di Pollenzo, ha una dozzina di tavoli distribuiti in un ambiente piuttosto ampio, che in senso verticale – a dirla tutta -, risulta un tantino enorme per decretare quell’atmosfera intima e misurata che appare suggerita ad ogni passaggio in tavola, ma che invero si fa fatica a cogliere nell’aria di uno spazio così dilatato.

Non poteva mancare la Fassona, qui in carpaccio su una fresca insalatina e ancora un passaggio di tartufo bianco (per acclamazione). L’animale si sa è tra le razze più apprezzate, la fibra è tonica e muscolosa: pelle fine ed elastica, ossatura leggera e scarse quantità di grasso sottocutaneo tra l’altro ben amalgamato con la polpa senza mai stravolgerne particolarmente il sapore; la carne infatti è tenerissima, anche perché non è fibrosa, infatti, a dispetto dei muscoli, numerosi e sviluppati, non ha grande quantità di fibre e, come detto, di grasso. Conserva piuttosto un’altissima qualità nutrizionale grazie al ricco contenuto di amminoacidi, vitamina B e minerali di varia natura come il potassio, il selenio, magnesio, calcio, ferro e zinco. Conta molto invece la frollatura, che trasforma il muscolo in carne e, come in questo caso, è quanto mai importante saper offrire un taglio pronto e una preparazione appropriata.

Quindi gli Agnolotti al Plin di mamma Lidia, un piatto di tale disarmante semplicità quanto infinita è la bontà e il sapore che sprigiona; vengono serviti appena saltati in padella con un sugo ristretto di arrosto. E non mancano quelli “al tovagliolo”, semplicemente fritti, e se vogliamo ancora più buoni, che ci vengono portati in centro tavola appena un attimo dopo!

Si chiude con un gustoso Agnello al forno cotto a bassa temperatura: fragrante di aromi dolcissimi, sugoso, pura scioglievolezza in netto contrasto con i carciofi crudi e cotti che svolgono al meglio la loro funzione di contorno e di sgrassatura del palato, infondendo piacevole equilibrio gustativo.

In cantina ci sarebbe da perdersi, non a caso le carte dei vini che ci arrivano in tavola sono addirittura tre: una incentrata sui “vini bianchi”, quel poco che serve a stimolare la curiosità, una “extraregionale e internazionale” e  una “territoriale”, dove mi appare quasi inutile soffermarmi sulla profondità e la complessità dell’offerta, molto più che esaustiva (e a tratti emozionante), lasciando quindi scegliere ai commensali dove andare a parare; in verità alla fine sceglierà Piero, rendendo omaggio alla nostra splendia giornata in langa e proponendoci un immortale e infinito Barolo Riserva 1988 di Borgogno.

Davvero una bella esperienza questa cena da Guido, senza dubbio uno dei luoghi che continuerà a segnare e scandire al meglio il tempo dell’alta ospitalità piemontese; cos’altro aggiungere… ah sì, il gelato al Fiordilatte: beh, che dire… semplicemente commovente!

 
Ristorante da Guido
Via Fossano, 19 12060 Pollenzo (CN)
Tel. +39 0172.458422
www.guidoristorante.it
info@guidoristorante.it
Apertura a cena dal martedi al sabato
 

Pollenzo, la Banca del Vino è morta?!

16 ottobre 2011

Il dubbio è palese. In effetti della Banca del Vino non è che se ne faccia più questo gran parlare. Mah… chissà perché? Io a Pollenzo ci sono stato in settimana, di passaggio prima di andare a cena dai fratelli Alciati, da “Guido”. E non è che tirasse proprio una bella aria…

Intendiamoci, il luogo è magnifico, lo scenario a dir poco suggestivo, i locali sotterranei dell’Agenzia che la ospita, ben arredati, pur se evidentemente scarni. Ma a fare un giro per le sale, al di là dell’apprezzabilissimo lavoro della guida – davvero brava e preparata –, è chiaro sin da subito che qualcosa qui non quadra; se ci si ferma al primo o al secondo caveau (più o meno tra il primo e il secondo corridoio) salta agli occhi come il territorio venga ancora egregiamente privilegiato: i nomi ci sono, forse non proprio con tutte le annate, ma il panorama è quantomeno autorevole e ben rappresentato. Basta però varcare “il confine regionale” per intuire come le lancette dell’orologio qui si siano da tempo fermate, a più di qualche anno fa, probabilmente già appena dopo la campagna promozionale (credo del 2004, ndr) che ne lanciava il progetto nato qualche anno prima da un’intuizione di Carlo Petrini¤.

A qualcuno infatti apparirà come “corredo” prezioso, ma quelle “due dita” di polvere che stazionano sulle casse qui conservate, vanno lette più come un indice di perenne immobilismo che come un suggestivo effetto scenico. E le annate, poche e piuttosto vecchie, non fanno altro che confermare la mancata fiducia riposta invece con un certo entusiasmo inizialmente. Basta fare poi un giro nella sezione dedicata al sud Italia o alla Campania per rendersi conto quanto il tempo qui si sia letteralmente dissolto in quelle prime (autorevoli) adesioni; quanto a memoria liquida quindi, è evidente che va disperdendosi inesorabilmente. Lo stesso loro sito¤ tra l’altro, conferma in pieno quanto percepito, e cioè che le aziende già da tempo non rinnovano più la loro adesione al progetto dell’istituto.

Senza entrare troppo nel merito – o se volete, argomentiamo pure – del “funzionamento” della Banca del Vino¤, che in verità non mi è parso nemmeno particolarmente complicato, viene da chiedersi cosa cavolo sia successo, in così poco tempo, ad un progetto che pure appare rivoluzionario come pochi e “nobile” come tante altre iniziative messe in campo negli ultimi trent’anni da Slow Food: chi è che non ci ha creduto fino in fondo? L’istituto, i finanziatori, i produttori o, come spesso accade in Italia, nessuno dei tre nonostante la buona idea?

A proposito di guide ai vini d’Italia…

27 settembre 2011

Sono anni che ci si scaglia contro le guide ai vini d’Italia per la loro immobile ripetizione, quel “copia e incolla” mai capace secondo molti di rappresentare chiaramente “i vini da non perdere” prodotti nelle vigne italiane. Eppure sembra che non si possa mai fare a meno di seguirle. Sembra.

Un elenco, in qualche caso infinito, che non sai mai se viene naturale dall’incredibile capacità di talune etichette di garantire tale costante qualità dal vederle sempre premiate anno dopo anno – anche in quelle annate cosiddette minori, addirittura in quelle secondo alcuni da bandire assolutamente dagli almanacchi, vedi il 2002 -, o più semplicemente una conveniente scelta editoriale per garantirsi quell’appeal imperdibile da parte del consumatore medio che ha bisogno fortemente del “solito nome” per comprare la tua guida piuttosto quella edita da altri.

Tant’è che produttori, cronisti, giornalisti (ivi compresi presunti tali), sommeliers, enotecari, bloggers eccetera non fanno altro in questi giorni che passarsi in rassegna le varie liste e spendere intere ore a scannarsi sul web; una faida senza peli sulla lingua tra commenti rancorosi e motivazioni delle più fantasiose “sul perché mai quel vino si e l’altro no”, o “è sempre lo stesso papocchio, ma daiii!”. Tutti, ma proprio tutti sentiamo quell’indomabile richiamo che ci spinge ad esserci, di dire pure magari “io quella guida non la comprerò mai e… bla bla bla” e, cosa assai comune, nemmeno rendersi conto di affermare talvolta tutto e il contrario di tutto pur di sputare sentenze.

Un dato cuorioso invece è che tutto ciò accade talvolta anche per vini che in alcuni casi non è nemmeno (più) possibile bere, a meno di imbattersi in qualche enotecaro o ristoratore sfigato; si perché vedete, parecchi di questi Trebicchieri, Supertrestelle, Eccellenze, 5Grappoli e – aspetto di essere smentito – Chiocciole che si voglia, sono già da tempo esauriti persino nelle stesse cantine che li producono. Mentre molti altri bisognerà addirittura aspettarli ancora a lungo prima di poterli trovare sugli scaffali o nelle carte dei ristoranti, in alcuni casi tanto di quel tempo da non ricordarsi nemmeno più che cavolo di premio abbiano ottenuto per costare così tanto! Qualcosa evidentemente non funziona…

Napoli, storica verticale di Taurasi Struzziero: un lungo viaggio nel tempo a caccia di emozioni…

23 Maggio 2011

Ecco una di quelle occasioni di confronto e crescita professionale che mai mi sarei perso di vivere; le ultime settimane di lavoro sono state particolarmente impegnative, dure, volendone sottolineare lo stress fisico, ma una verticale storica come quella messa su dall’amico Luciano Pignataro, che rincorre, indietro nel tempo, dal 2004 al 1977, oltre trent’anni di Taurasi, era un appuntamento da non mancare.

Sull’azienda ci sono poche altre parole da spendere se non la promessa, da parte mia, di continuarla a seguire con maggiore attenzione; chi volesse saperne di più, può dare un’occhiata quiqui   per avere contezza dell’entusiasmo che si palesa dalle note di degustazione che seguono. Bene ribadire forse che Struzziero, dopo solo Di Marzo e Mastroberardino, è la terza azienda per storicità in Irpinia, e che, come solo la concorrente azienda di Atripalda può fare, è ancora capace di offrire tangibilità liquida di annate di Taurasi così lontane nel tempo. Alla sessione di degustazione, coordinata in maniera egregia dal gruppo servizi dell’Ais Napoli, hanno partecipato, con il sottoscritto, Antonio Paolini, storica firma del Messaggero di Roma e grandissimo conoscitore di vini, Alberto Capasso, docente Slow Food, Mario Struzziero, enologo e proprietario dell’azienda di Venticano e naturalmente, in grande forma, Luciano Pignataro.

Taurasi Riserva Campoceraso 2004 (campione da botte) Si offre con grandi aspettative, per molti l’annata è di quelle da ricordare, tra le migliori che si ricordino nell’areale in epoca moderna; qualcuno addirittura la indica come riferimento assoluto, l’inizio del nuovo corso di una denominazione che non si può dire certo avulsa dall’enorme confusione interpretativa venutasi a creare soprattutto nell’ultimo decennio a causa – non a caso – dell’acuirsi della crisi delle vendite; a dire il vero ci aggiungerei anche quel peccato di vanità (leggi improvvisazione) che taluni proprio non si sono fatti mancare. Un bel rubino a vedersi, concentrato e vivace; il primo naso risente ancora della lunga, lunghissima sosta in legno – siamo ad oggi ai sette anni – ma esprime, in maniera quasi disarmante, una integrità e compostezza di eccellente fattura. Sentori fitti e fini di frutta matura carpiti subito appena svolte le nuances tostate, addolciti da spunti alcolici evidenti ma non ingombranti; lentamente poi emergono sentori balsamici e note che sanno di terra: l’imprinting, si direbbe, dei Taurasi di Struzziero; poi il tempo avrà modo di ricomporre a modo il puzzle. Beva asciutta, vigorosa, di ottima persistenza. Finale di sostanza, appena sopra le righe i tannini, in evidenza, crespi ma di pregiata finitura.

Taurasi Riserva Campoceraso 2001 L’ho subito accolto come il migliore della batteria, sin dal primo assaggio passatomi dai bravi sommelier del gruppo Ais di Napoli a cui era affidato il compito di governare la storica sessione di degustazione. Migliore non perché una spanna sopra gli altri, che tranne il ’77 – e per la verità soltanto al naso – erano perfettamente, aggiungo oltre ogni mia aspettativa, integri e godibili; semplicemente, in maniera evidente, quello più vicino, a mio modesto parere, a quel modello di riferimento “tradizionale” che in molti ricercano nel Taurasi. Colore di uno splendido aranciato maturo e vivace, abbastanza trasparente, il primo naso è subito invitante ed inebriante di aromi finissimi di frutta secca, corteccia, spezie e note balsamiche sottili e dolcissime: carrubo, china, pepe bianco e liquerizia. In bocca neppure il tempo di pensarci un attimo, secco, austero, intenso e persistente; tannino in grande spolvero ed equilibrio, non certo un campione di morbidezza, guai a pensarlo dinanzi a certe bottiglie, ma perfettamente bilanciato e pacato nel finale lievemente amaro. Davvero un gran bel bere, sull’immediato ed in prospettiva. 

Taurasi Riserva Campoceraso 1997 Dell’annata si tessono lodi da sempre, per qualcuno addirittura “l’annata del secolo scorso”; personalmente è la prima che ricordi, vissuta, come “grande”. Un riferimento su tutti, che ha ovviamente poco a che spartire con l’aglianico, il Solaia ’97 di Antinori, bevuto in compagnia di splendidi amici, una sera a Santa Cristina, appena dopo aver ricevuto la nomina di “vino dell’anno” da Wine Spectator. Ma torniamo a noi, ovvero al Taurasi di Mario Struzziero. Il colore offre una splendida verve aranciata, trasparente quanto basta per esaltarne le sfumature sull’unghia. Naso inizialmente empireumatico, sporco, ma con la giusta attenzione non si fa certo fatica a riprendere le note lasciate nei calici precedenti; qui ancora sentori evidenti di frutta secca e spezie; poi terra, humus, in lento e finissimo divenire. Palato asciutto, oltremodo austero: l’alcol, come i precedenti sui tredici gradi e mezzo, pare sparito dal contesto ma in effetti qui da padrona la fa l’acidità – viva, espressiva, caratterizzante – ed il tannino, finissimo e infinitamente elegante. Un capolavoro per chi non ha paura delle durezze del Taurasi, per me, che paura non ho, rimane comunque una incollatura sotto alla duemilauno, e non solo per il naso inizialmente scomposto.

Taurasi Riserva 1990 Annata calda, la prima vissuta in prima persona da Mario in cantina; e a distanza di un ventennio ancora in piena evidenza nel bicchiere. Il colore rimane di un aranciato vivo e compiuto, seppur lievemente opaco rispetto ai precedenti, abbastanza trasparente. Il naso è subito dolce, le note di frutta secca e corteccia qui emergono come macerate, liquorose, di finissimo spessore ma un tantino più scontate rispetto ai precedenti ventagli olfattivi. Di tanto in tanto una sbuffata cioccolatosa e ancora di liquirizia. In bocca è secco ed abbastanza caldo, qui l’alcol – come tradizione a quel tempo raggiunge di poco i dodici gradi e mezzo – pare dominare eccessivamente il sorso, che rimane sì di buona persistenza ma esce meno incisivo dei precedenti, più corto, sicuramente meno emozionante pur non essendo affatto scontato. In perfetto stato di conservazione ma probabilmente nella sua fase di compiuta espressività.

Taurasi 1977 L’avessimo beccata tutti quell’unica (credo) bottiglia in quasi perfetto stato di forma saggiata al momento della “verifica tappo”, ne staremmo a parlare in altri termini; ma ahimé così non è stato, e probabilmente non poteva essere altrimenti; a quei tempi, in quegli anni dico, gli obiettivi erano essenzialmente altri e non certo votati alla speranza di ritrovarsi dopo oltre trent’anni a discutere di Taurasi così vecchi. Avendo la capacità di berlo dimenticandone subito il naso intriso di dolci note marsalate, se ne potrebbe trarre un quadro gustativo di tutto rispetto: secco, oltremodo asciutto, in perfetto stato di grazia e compostezza, con un tannino dissolto ma con un nerbo ancora non del tutto sopito. Un bel bere si direbbe, ma null’altro. Al netto, naturalmente, dell’unicità e dell’indimenticabile esperienza.

Qui invece da non perdere il report della brava collega sommelier (e giornalista)  Monica Piscitelli pubblicato in contemporanea su www.lucianopignataro.it. Altre interessanti impressioni le trovate qui su Percorsi Di Vino, il blog di Andrea Petrini.

La critica gastronomica oggi, Marco Bolasco (Slow Food Editore) ci racconta il suo punto di vista…

15 ottobre 2010

Ricordo come fosse ieri ognuno dei suoi “superpanini” firmati Gambero Rosso Channel, dell’omonimo editore, il racconto appassionato di tante birre, artigianali o meno, da ogni dove, sulla rivista più trendy degli anni novanta; Indimenticabili poi i suoi reportage delle passeggiate per i vicoli e le piazze d’Italia alla riscoperta della cucina di strada prima, del miglior caffè poi. Marco Bolasco ha saputo come pochi guadagnarsi spazio e dare l’esempio, ai giovani cronisti, di come il talento e la voglia di fare possano affermarsi nel variegato mondo della critica enogastronomica. Da poco più di anno, dopo i tanti trascorsi al Gambero, è approdato a Slow Food in qualità di direttore editoriale: appena uscita la guida ai vini Slow wine, si attende quella delle Osterie d’Italia. 

Chi è oggi il critico gastronomico? Una persona che ha vissuto esperienze importanti che l’hanno formato, uno che ha girato, scoperto, conosciuto, non per forza capito. Le conoscenze tecniche, l’arte di cucinare possono essere relative, non l’onestà con la quale lo si racconta.

Quali secondo te i principi da non mancare mai per operare al meglio nel settore? L’umiltà è il centro di tutto, senza umiltà chi scrive non ha ragioni da esprimere.

Quali sono i parametri fondamentali con i quali costruire una recensione gastronomica? Il rispetto per il lettore innanzitutto; Esistono tante qualità, tecniche, morali che fanno di una penna un mezzo di enorme efficacia, ma il tutto deve essere finalizzato al rispetto del lettore.

In questi giorni usciranno le nuove guide edite da Slow Food Editore, sarà vera rivoluzione? Su Osterie d’Italia c’era ben poco da fare, il format è ben consolidato, abbiamo però voluto integrarla con alcuni accorgimenti che la renderanno certamente più fruibile: la mappatura geografica per esempio e l’inserto dei 50 ristoranti “di territorio”. Sul vino, al di là delle incomprensioni legate soprattutto alla comunicazione – dove ognuno ha voluto leggere solo ciò che gli faceva comodo leggere – si può dire che abbiamo prodotto una guida sicuramente innovativa, incentrata, come non capitava da tempo, sulle aziende, il territorio che rappresentano più che sui singoli vini prodotti. 

Guide e Classifiche: Marchesi asserisce che ne farebbe davvero a meno, molti giovani invece sembrano lavorare duro per entrarvi al più presto. Chi ha ragione? Certamente il rispetto verso certi esponenti della nostra cucina imporrebbe maggiore attenzione nel giudicare alcune esperienze, ma chi fa ciritica gastronomica non può astenersi dal raccontare, ed ove previsto, esprimere un giudizio. In alcuni casi ci si potrebbe anche astenere dall’esprimere un giudizio, ma si tratterebbe di una cortesia, nulla di più.

E’ risaputo della tua profonda ammirazione per la Spagna e per Barcellona in particolare, come spiegheresti una tale rivincita di una cucina, quella spagnola, definita da sempre “minore” rispetto a quella francese e italiana? Non ho mai voluto imporre un modello piuttosto che un altro, era invece opportuno invitare a guardare con maggiore attenzione ad una realtà, quella spagnola, in forte ascesa; Il duopolio Italia-Francia, per quanto solido, ha mostrato tanti punti deboli e tutti a vantaggio della dinamicità del fenomeno Spagna. Se un tempo poteva ritenersi una tendenza, oggi è una realtà incontrovertibile. 

Una domanda che forse senti girare spesso visto che oggi anche tu curi un blog-diario: si dice che sia “guerra” aperta tra il cartaceo ed il web, chi vincerà? Il mezzo ha una importanza relativa, i contenuti invece sono fondamentali. Nell’uno e nell’altro caso esistono riferimenti utili e validi.

Qual è l’ingrediente che non dovrebbe mai mancare in un piatto, e quello invece di cui si potrebbe fare volentieri a meno? La pulizia, la capacità di lasciarne apprezzare l’integrità. Non amo invece le salse.

Se c’è, qual è il piatto che più ti ha entusiasmato sino ad oggi? Beh, la Ribollita della mia vicina di casa, insuperabile!

Il pranzo (o la cena) indimenticabile? Alla Certosa di Maggiano, indimenticabile!

Già da tempo anche i grandi ristoranti ”gourmet” offrono menu in versione “light” da un punto di vista economico, ha senso o è solo una trovata pubblicitaria? Il fatto stesso di essere proposti è un buona trovata pubblicitaria. L’importante è che siano in tutto e per tutto espressione della propria cucina: proporre un menu con uno o due piatti di alta gastronomia a prezzi contenuti può solo giovare a chi si avvicina a certe realtà per la prima volta. Altrimenti, sarebbe decisamente inspiegabile.

La cucina di strada, ingredienti poveri, di cui spesso ti sei occupato in passato: è possibile replicarli efficacemente nei ristoranti cosiddetti gourmet? Non credo o almeno non in quei luoghi che non ne hanno piena percezione della tradizione storica. 

C’è un ristorante che secondo te vale la pena visitare almeno una volta nella vita? La Certosa di Maggiano, da Paolo Lopriore.

Se c’è invece, mi dai il nome di uno chef (se possibile italiano) che consiglieresti vivamente ai giovani di guardare con maggiore riferimento? Nessun dubbio, Gennaro Esposito!

 

Qui le interessanti risposte di Clara Barra, curatrice con Giancarlo Perrotta della guida ai ristoranti d’Italia del Gambero Rosso.

Qui invece la bella intervista rilasciataci da Francesco Aiello.

Qui l’intervento di Luciano Pignataro, winewriter della prima ora e da oltre dieci anni collaboratore della guida ai ristoranti d’Italia de L’Espresso.

Napoli, verticale storica Muffato della Sala: di un dolcissimo viaggio nel tempo dal 1988 al 2006

30 aprile 2010

Un evento straordinario, senza precedenti sotto il Vesuvio e che ha visto una bella partecipazione di persone: giornalisti, sommeliers ma anche vignerons e ristoratori che hanno saputo cogliere l’opportunità concessa dalla storica famiglia fiorentina degli Antinori e raccogliere l’invito di Slow Food e Luciano Pignataro che hanno pensato, organizzato e coordinato l’evento nella splendida cornice dell’Hotel Romeo di via Marina.

Del Castello della Sala trovate su questo blog più di un riferimento utile a comprendere “il mito”, dagli straordinari vini che ne nascono al loro artefice più illustre, tal  Renzo Cotarella che non è voluto mancare a questo appuntamento con la storia di una delle più piacevoli ed interattive verticali organizzate sul territorio napoletano; come dire, nessun maestro alla cattedra, nessun altarino, solo tanta voglia di ascoltare, capire, comprendere, discutere, innanzitutto su come un vino, apparentemente destinato ad un consumo “facile” – opinione e luogo comune entrambi immediatamente sfatati – possa invece ritenersi incredibilmente longevo e sorprendente a tal punto dal non avere limiti di evoluzione spazio-temporale nonchè su quanto sia incredibilmente necessario preservare una memoria storica liquida per rendersi conto non solo di quanto si sia stati bravi nel fare il vino – elemento questo certamente tra i più banali – ma soprattutto per riuscire a leggere nel tempo gli errori commessi ed il reale potenziale del lavoro che si ta portando avanti, in vigna come e soprattutto in cantina.

Il Muffato della Sala è prodotto con uve botritizzate raccolte manualmente tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre, per dar modo alle nebbie mattutine di favorire lo sviluppo della Botrytis Cinerea o “Muffa Nobile” sui grappoli. L’effetto più immediato di questa muffa è la capacità di ridurre il contenuto di acqua presente nell’acino lasciandone concentrare gli zuccheri presenti e gli aromi che rendono il vino che ne viene prodotto tra i più intriganti e complessi mai riproducibili. Tutte le annate, tranne la prima prodotta nel 1987 quando nell’uvaggio vi era anche il Drupeggio (varietà autoctona orvietana) sono generalmente caratterizzate da un blend di vini base Sauvignon blanc al 60% e Grechetto, Traminer e Riesling per il restante 40%. Queste in sintesi le mie impressioni sulla eccezionale verticale storica proposta nelle annate 1988, 1989, 1991, 1995, 1996, 2004, 2006. Il 1988 è stata la seconda annata prodotta, da sole uve Sauvignon e Grechetto; andamento stagionale piuttosto regolare, le uve arrivate in cantina possedevano una buona qualità di muffa nobile ed il vino che ne è venuto fuori nel tempo un ottimo imprinting archetipale: colore giallo oro splendente, luminosissimo, naso particolarmente equilibrato e finissimo su sensazioni floreali e fruttate passite. Palato dolce, non stucchevole, fine ed elegante con una piacevole chiusura in freschezza.

Il 1989 ha consegnato un andamento climatico alquanto rigido con una estate piuttosto piovosa nonchè per niente calda al punto di far ritardare non poco la comparsa dell’agognata botrytis sui grappoli. Il vino che ne è venuto fuori non gode certo di una spiccata verticalità e per essere pignoli nemmeno di una particolare complessità, ma l’eleganza e la finezza con la quale esprime una trama olfattiva dolcissima di fiori di campo e miele di acacia è da batticuore. Avere 21 anni e non mostrarli per niente! Il 1991 ci sbalordisce tutti e offre un naso assolutamente integro, quasi didattico per un vino del genere: subito dolcissimo di frutta disidratata, candita, poi terroso, nitidamente fungino, a tratti tartufato, poi ancora iodato. Non mi soffermo particolarmente sulle note visive perchè tutti i campioni proposti, dal più vecchio al più giovane mostravano uno splendore ed un candore cromatico da manuale, puro oro liquido giammai intaccato dal tempo. Il naso e la bocca in particolar modo hanno invece dimostrato quanto sia fondamentale per un vino del genere la cura maniacale che si profonde in vigna ed in cantina al Castello della Sala, superando brillantemente le ostilità di vendemmie senz’altro difficili (spesso caratterizzate da andamenti locali particolarmente piovosi) ma mai impossibili da governare con la giusta conoscenza del terroir, delle uve e con a disposizione i mezzi tecnici adeguati.

Il 1995 ha visto maturare delle uve perfettamente integre sino all’attacco della muffa nobile, il Riesling ed il Traminer essere raccolti prima del Sauvignon e del Grechetto. Il ventaglio olfattivo non è particolarmente intenso e complesso, ma sempre finissimo ed elegante seppur monocorde su fiori secchi ed appena accennate note iodate sul finale. Il 1996 è stata un’annata eccellente, a sentir Cotarella forse la migliore sino ad oggi prodotta al Castello e perdipiù particolarmente sottovalutata all’epoca, curioso come Renzo ci tenga a sottolineare quanto sia sorprendente per lui assaggiare bottiglie di questo millesimo, del bianco di punta in particolare, il Cervaro della Sala, che riesce costantemente a strappare grandi consensi unanimi al di sopra di ogni confronto con altri millesimi pur prestigiosi tirati fuori dalle tenute del Marchese Antinori. Colore e spettro cromatico inattaccabili, al naso come in bocca offre frutto e compostezza per tutta la degustazione, forse oggi nel suo momento migliore di degustazione.

Un salto di almeno otto anni ci consegna nel bicchiere il 2004, caratterizzato da un naso estasiante di fiori secchi, frutta disidratata ed erbe officinali che chiude su note iodate abbastanza marcate che delineano un spettro olfattivo di gran lunga più elegante e complesso di tutte le annate precedenti, pur rimanendo il ’91 una grande sopresa. In bocca è dolce ma costantemente fine ed elegante, delicatamente sapido. Si chiude con un delizioso 2006, il più giovane della batteria e quello attualmente in commercio, caratterizzato da un colore oro cristallino e perfettamente limpido. Il naso è ampio e fragrante, dolce di frutta bianca polposa e caramellato quanto basta, iodato sul finale. In bocca mostra una decisa dolcezza, sempre in equilibrio e mai stucchevole, ottimo il finale composto e delicatamente minerale.

Una bellissima avventura in sette annate tutte da ricordare, appuntare, godere. Un viaggio entusiasmante nella più profonda tradizione viticola entro le mura del Castello della Sala e al tempo stesso un’impressionante conoscenza della più moderna tecnologia oggigiorno a disposizione nelle cantine nuovissime di una delle tenute più suggestive e all’avanguardia della famiglia Antinori; l’antico che incontra il nuovo in un moto continuo, in effetti cos’è in sintesi il vino se non un moto perpetuo assoggetato alla conoscenza dell’uomo ed alla clemenza del tempo?

P.S.: le foto delle etichette sono di Monica Piscitelli.

Napoli, verticale storica Muffato della Sala

23 aprile 2010

Slow Food Campania

in collaborazione con Luciano Pignataro wineblog

Giovedì 29 aprile alle ore 19,30

A Napoli presso il prestigioso Hotel Romeo di via Marina andrà in scena un evento dal sapore straordinario, protagonista uno dei vini più preziosi e ricercati dell’enologia italiana, tra i primi vini da meditazione nostrani a rincorrere il mito dei grandi bianchi muffati bordolesi: Il Muffato della Sala di casa Antinori, la leggenda dolce made in Italy prodotto nella suggestiva tenuta umbra di Castello della Sala.

Ospite illustre Renzo Cotarella ( qui una intervista di questo blog allo storico direttore generale di Antinori dello scorso febbraio) che condurrà la sessione di degustazione con Angelo Di Costanzo, Primo Sommelier Campania 2008, prima di lasciare la parola per le fasi conclusive sponsabile regionale vino Slow Food Campania, il giornalista Luciano Pignataro.

Queste le annate in degustazione: 1988, 1989, 1991, 1993, 1996, 2004 e 2006.

L’ingresso ha una quota di partecipazione di 35 euro (30 per i soci Slow Food, Ais e Fisar). I posti disponibili sono in totale 40, per prenotazioni ed ulteriori informazioni si prega di contattare Slow Food Campania inviando una mail a info@slowfoodcampania.com oppure a Novella Talamo a ntalamo@gmail.com.

Pozzuoli, Osteria Abraxas

7 dicembre 2009

Nando Salemme è un caro amico, un ragazzone che a guardarlo bene ogni giorno va assomigliando più ad un intellettuale rivoluzionario degli anni settanta piuttosto che ad un giovanotto mio coetaneo di questi tempi. Ci lega un legame d’amicizia sincero, appena possiamo ci cerchiamo, ci riuniamo, ci confrontiamo per dare sostegno alle idee, agli ideali, alle intuizioni.

Pozzuoli, Abraxas. L'ingresso di una volta.

Abbiamo iniziato i nostri progetti paralleli (che però spessissimo si sono incrociati) diversi anni orsono, io con Lilly a L’Arcante e lui con la moglie Vanna al Wine Bar, con gli anni divenuta una delle poche Osterie sul territorio meritevoli di questo nome; un po’ per seguire un sogno, un po’ per liberarsi dai quei freni inibitori che spesso hanno caratterizzato la ristorazione flegrea con personaggi “vecchi” ed atavici assertori dell’ovvio, spesso sconfortando il talento di molte delle giovani leve.

Veniamo al dunque: l’Abraxas è situato in un luogo da cartolina, incastonato nella collina che sovrasta il Lago Fusaro da un lato, il lago d’Averno dall’altro, lungo via Scalandrone, spartiacque naturale tra i comuni di Pozzuoli e Bacoli.

Il locale è completamente rivestito di pietre di tufo incastonate a mò di reticolatum con sovrapposizione di mattoni e capitelli stile romano; le tre sale sono disposte una al piano terra, piccola, calda, che guarda a vista il banco dei formaggi e salumi mentre su per le scale c’è l’altra sala, con la fornitissima cantina a vista ed un piccolo dehor che in estate diviene un accogliente gazebo che si apre sul bellissimo giardino, curato (con che fatica!!), ricco di fiori e piccoli ceppi di vite falanghina sparsi qua e là che s’inerpicano su per il tetto.

Pozzuoli, Abraxas. Panorama.

La cucina è affidata nelle mani sapienti del giovane chef  Tommasino Di Meo, ma Nando è sempre lì a supervisionare, non ama interferire, ma le mani in pasta significano tanto per lui: le verdure, le carni, gli ortaggi, le conserve, le paste e molti altri prodotti sono tutti tracciabili e soprattutto hanno tutti una faccia, un nome e cognome: qui nulla è scontato.

Il menu non è ampissimo, ma la proposta è convincente ed adeguata al locale e poi l’intelligenza di non strafare gli sta concedendo tempo e modo di una crescita che negli ultimi dieci anni è stata concessa solo a pochi qui nei Campi Flegrei, del resto non è assolutamente vero che la cucina flegrea è scontata, quasi sempre lo sono gli interpreti! Piccoli assaggi di una superlativa verza con salsicce e castagne, morbide crepes con fonduta di formaggio e crema di noci, la parmigiana di patate, il tortino con bieta e formaggio, la polenta con salsiccia e provolone del Monaco.

Anche i primi piatti sono ricchi, saporiti, presentati bene: fiocchetti di pasta fresca con zucca e noci, tortino di riso con carne e funghi, gnocchi con crema di cavoli e finocchio. Ampia e curata la proposta dei secondi di carne, coniglio in porchetta, filetto di maiale con battuto alle erbe, entrecote di angus alla brace, poi ancora in carta la selezione di formaggi variamente assortita che non delude mai. Anche i dolci sono fatti in casa: abbiamo gustato un delicatissimo flan al cioccolato. Spesso si ospitano serate a tema con le varie associazioni presenti sul territorio, diverse con Slow Food ma anche con piccoli e grandi produttori di vino; il conto non supera quasi mai i 35 euro vini esclusi.

Nando Salemme

Nota del 19 Marzo 2010. Ci sediamo alla tavola di Nando e Vanna di venerdì sera, è la mia prima festa del papà, sarà banale, ma un po’ ci tenevo a trascorrerla in perfetta armonia con la mia famiglia. Così è stato, proprio una bella serata. Chiediamo, visto che siamo in quaresima, di evitarci portate con carni: si sussegono così deliziosi assaggi di antipasti giocati su verdure ed ortaggi, freschissimi. Stufati, Parmigiana di melanzane, millefoglie, poi la girella di pasta in salsa di noci e gorgonzola, che si merita quantomeno il riassaggio.

Scegliamo poi dalla carta un primo piatto dal profumo evocativo, Caserecce con friarielli e baccalà, sapori decisi ma ben equilibrati, aromaticità, grassezza e succulenza da baciare il palato, finale piacevolmente sapido che il Greco di Tufo 2007 di Peppino Di Prisco, devo dire, spalleggia alla grande. Affoghiamo la tristezza di non poter convenire con il Maialino cotto lungamente a bassa temperatura nell’ampia selezione di formaggi, serviti con miele e confettura di mandarino: su tutti una stupenda Toma di Podolica ed un Maiorchino sapidissimo, ed un piacevolissimo Taurasi ’05 di Contrade di Taurasi. E poi? E poi la zeppola di S. Giuseppe, se no che festa del papà è!

Papaccelle m’buttunate educatamente, 2007

29 novembre 2009

Ingredienti per 6 persone:

  • 6 Papaccelle napoletane dolci (presidio Slow Food)
  • 400 gr di mollica di pane raffermo
  • 100gr olive nere snocciolate
  • 3 acciughe salate diliscate
  • capperi
  • 200 gr formaggio pecorino mediamente stagionato
  • olio extravergine di oliva
  • origano secco

Preparazione: lavare accuratamente le papaccelle napoletane dolci, svuotarle dei semi facendo attenzione a limitare il taglio sul torsolo, sciacquarle e passarne accuratamente con le mani la parte esterna con un velo d’olio extravergine di oliva. Metterle in forno caldo a 200° per circa 30 minuti. A parte preparate il ripeno tritando grossolanamente la mollica di pane raffermo, unire ad essa il pecorino grattuggiato finemente e le olive nere snocciolate e tagliate, le acciughe sminuzzate ed i capperi, rimestare sino ad ottenere un composto uniforme. 

Terminata la prima fase di cottura delle papaccelle tirarle fuori dal forno e riempirle, aiutandovi se necessario con un cucchiaio da thè, sino all’orlo con il composto che avete preparato nel frattempo; Un filo d’olio extravergine ed una manciata di origano garantirà una certa vivacità aromatica alla preparazione. Infornare nuovamente e lasciare terminare la cottura sempre a 200° per altri 30 minuti circa. Et voilà, la tradizione è servita!

Per il servizio: ogni singola papaccella m’buttunata sarà servita in un piatto piano bianco, con ancora una manciata di origano spolverata intornoed un filo d’olio extravergine a crudo a completare la preparazione; Eccezionale come portata di antipasto  o come antrèe per un pranzo a tema tradizionale.
 

Ricetta di Lilly Avallone, da provare per credere…

 


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: