Posts Tagged ‘montepulciano’

Nobile di Montepulciano Antica Chiusina 1998 Fattoria del Cerro. Ho bevuto un grande vino!

1 agosto 2013

Una bottiglia che ti rimette in pari con le tante aperte negli ultimi tempi di sangiovese ‘vintage’ rivelatesi chi più chi meno delle mezze delusioni (quando non vere e proprie ‘disgrazie’).

Vino Nobile di Montepulciano Antica Chiusina 1998 Fattoria del Cerro - foto L'Arcante

Mi sono avvicinato a questa bottiglia, va sottolineato, con fare spocchioso e prevenuto, magari anche per questo ci metto ancor più entusiasmo nel riportare la bella esperienza regalata da questo Nobile.

Mi è sempre piaciuto bazzicare da queste parti pur nella convinzione che forse proprio Montepulciano, il suo Nobile e con esso, per ricaduta, il Rosso siano vini un poco sottovalutati tra i beneamati toscani in giro; non so se ‘apprezzati’ in misura minore ma di sicuro meno di quanto meriterebbero.

A pensarci bene pare chiaro che non godono del sempiterno successo commerciale del Chianti, quale che sia la sua declinazione e non hanno vissuto – o almeno non ricordo – un vero e proprio boom come successo ad esempio negli anni sessanta per il Brunello, consacrato ormai all’altare dei migliori; nemmeno si può dire abbiano avuto l’exploit di Scansano e del Morellino o l’ascesa di certi bolgheresi. Il Vino Nobile è lì, praticamente da sempre, vivacchia, penso io.

Gli corro dietro da parecchio tempo a un sangiovesenon brunello – così. Poche, pochissime le bottiglie di dieci e più anni capaci di emozionarmi, lasciarmi un segno, sorprendermi fuori da Montalcino. E invece: Antica Chiusina ’98 è davvero ‘un capolavoro’ come riporta la pagina internet di Fattoria del Cerro. Là dentro, in quei bicchieri, c’era di tutto iersera, proprio tutto per farti pensare di stare dinanzi ad un piccolo miracolo, ad una bottiglia in perfetto stato di grazia, incredibile, capace di stravolgerti completamente i pensieri.

Un colore rubino bellissimo, perfettamente integro, addirittura con ancora riflessi porpora (!) sull’unghia del vino nel bicchiere, intenso, di rara profondità. Il quadro aromatico è imponente, un lento divenire con tutta la frutta rossa che ti viene in mente – ciliegia, amarena, ribes – ancora in primissimo piano, sospinta da una dolcissima verve balsamica. Il sorso è lineare, succoso, avvolgente, materico, manca forse appena un pelo di vivacità ma è piacevolissimo tornarci su e seguirne l’evoluzione nel bicchiere. Carte alla mano prometteva almeno 15 anni di buona conservazione. Promessa assolutamente mantenuta. Per me un grandissimo vino!

Fieno di Ponza bianco ’11 di Cantine Migliaccio

21 febbraio 2013

Ponza è un posto magico, vi si dovrebbe passare almeno una settimana l’anno della propria vita; non a luglio o ad agosto naturalmente, mesi in cui la calca dei turisti ingolfa la passeggiata del Porto e la caciara dei natanti le acque antistanti.

Lazio bianco Fieno di Ponza 2011 Antiche Cantine Migliaccio - foto A. Di Costanzo

Di quei luoghi ho ricordi bellissimi ed un grande unico cruccio, Palmarola, che non son stato capace di visitare, causa mare grosso, entrambe le volte che sono passato sull’isola e per tutta una intera settimana. Da sfigati insomma, ma mi rifarò.

Da uno dei promontori più suggestivi dell’Isola di Ponza, punta Fieno, arriva questo insolito e caratteristico bianco composto in massima parte da biancolella e falanghina, vino dal profumo vulcanico e dal sapore antico. Ci lavorano da un po’ di anni con una certa perseveranza ed ostinazione Luciana Sabino¤ e suo marito Emanuele Vittorio; ne avrete letto tra l’altro già qui¤.

Punta Fieno, le vigne sopra la collina

In cantina l’hanno condotto con mano ferma prima il bravo Maurizio De Simone, che ne ha saputo immediatamente leggere ed interpretare l’anima valorizzandone al massimo la “naturalità” espressiva e poi, oggi, con una visione prospettica altrettanto interessante Vincenzo Mercurio¤, capace di sottolinearne al meglio tutta la matrice minerale esaltandone il profilo organolettico decisamente sopra le righe.

Il Fieno bianco 2011 viene fuori da quei 2 ettari di vigna piantati per lo più nel tufo tra le sabbie dei muretti a secco lungo quella piccola collina che lega la splendida Chiaia di Luna al Faro, posto raggiungibile esclusivamente attraverso una stretta mulattiera; un luogo di una suggestione unica, che durante le estati più calde fa registrare temperature vicine ai 40-50 gradi, anche se rinfrescate nella notte da escursioni termiche altrettanto importanti. Ne viene fuori un bianco dal corredo aromatico molto particolare, per lunghi tratti sulfureo, salmastro, che sa di fieno (!) e genziana, dal sorso efficace e sgraziato. Un quadro organolettico certamente non banale e sostanzialmente assai tipicizzante un vino unico nel suo genere, insolito e da provare e riprovare anche nel tempo.

Lucera, Cacc’ e Mmitte 2009 Cantina La Marchesa

20 febbraio 2012

Ci sono (quasi) sempre piacevoli sorprese dietro una bottiglia di vino; e più è curiosa, diciamo “particolare”, l’etichetta o la sua storia, più è grande poi il piacere della scoperta e del racconto quando il vino è buono.

Il nome Cacc’ e Mmitte di Lucera fu scelto allorquando si decise per la doc, nel 1975, per i vini prodotti in questo bel pezzo di Puglia. Questa espressione, di chiara origine dialettale locale, ha una storia abbastanza curiosa e questa etichetta non manca di svelarla nella sua retro: dovete sapere che un tempo, qui come in tanti altri luoghi dell’Italia meridionale, la vinificazione avveniva nei cosiddetti “palmenti”, delle arcaiche strutture di produzione agricola, in pietra e calcestruzzo, di notevole rilevanza per l’economia rurale locale e, generalmente, utilizzate da più coltivatori, magari anche dello stesso latifondo. Così, in tempo di vendemmia, capitava che vi fossero tutto un susseguirsi di vari utilizzatori che, una volta portato a termine la propria di vinificazione, dovevano lasciare il “palmento” a disposizione di chi seguiva. Da qui Cacc’ e Mmitte, dove Cacc’ sta pertira fuori” il mosto dal palmento…” e Mmitte per “metti” nel palmento l’uva di chi segue…

La doc qui di per sé non è certo un vanto della produzione vitivinicola, fosse solo perché nel disciplinare, praticamente, non ci si è fatto sfuggire proprio nulla dei varietali più appetiti dagli imbottigliatori di ogni dove degli anni ’60 e ’70, dal nero di Troia al montepulciano, ma anche sangiovese, malvasia nera e bianca, trebbiano, bombino bianco e chi più ne ha, più ne metta, ma non per questo si può dire che manchino esempi di pregevole qualità e seria interpretazione territoriale. Esecuzioni cioè franche e piacevolmente suggestive, proprio come questo Cacc’ e Mmitte di Lucera 2009 di Cantina La Marchesa che, a parte un’etichetta poco felice – giocata ostinatamente sull’oro e il viola, in tutta onestà un tantino kitsch -, mi è parso senza ombra di dubbio un degno e gradito compagno in tavola.

Un rosso interessante, da quel che leggo composto in buona parte proprio da nero di Troia e montepulciano, ma anche, in piccola parte, da bombino bianco. Curioso no? Un vitigno bianco complementare a due rossi, un po’ come accadeva un tempo anche nel Chianti. Cose d’altri tempi insomma. L’assaggio invece rivela una certa vivacità tutta nostra, figlia del nostro tempo; il primo naso non è dei più immediati ma con la giusta attenzione si colgono chiare fresche note di violetta e frutta rossa, polposa, sentori di ciliegia, mirtilli, un bouquet ancora caratterizzato da una certa vinosità. Ben dosato anche il legno, assolutamente non invadente, e affatto banale, che ne tratteggia un corpo solido, rotondo e snello. E la conferma non tarda ad arrivare: il sorso è franco e vigoroso, apparentemente più dei suoi tredici gradi, e secco, caldo, scorrevole, il primo ne richiama subito un’altro. Un buon rosso dal nome sicuramente curioso, se vogliamo uno dei più autentici della mappatura enoica italiana, un souvenir quasi, però di quelli da bere e non da lasciare impolverare su di una mensola.

Pienza, Agricampeggio Podere il Casale

6 febbraio 2011

I “camperisti” hanno regole strette e precise, e la stessa libertà di cui godono nel girare il mondo sanno trasformarla in fermezza e rispetto per le regole. Così non è difficile pensare che chi ami girare in camper sia allo stesso tempo un amante della natura ed uno strenuo difensore delle sue risorse, luoghi e bellezze incontaminate. E se a questo sei capace di avvicendare palato fino e passione per la buona ricerca enogastronomica, allora sei proprio a posto!

Il recente viaggio a Montalcino ci ha riservato, tra una visita e l’altra in diverse cantine, anche piacevoli fuori programma  dettati da quella strenua ricerca di quei sapori tanto pubblicizzati quanto più spesso evidentemente di facciata e di sovente prodotti con materie prime certamente non indigene se non addirittura partoriti altrove per essere in loco solo etichettati, e quando possibile, brevemente stagionati; stiamo parlando naturalmente del Pecorino di Pienza.

Così mossi dalla irrenefrenabile voglia di camminare le campagne di Pienza, al nostro capitano di ventura Nando Salemme è venuta la brillante idea di andare a trovare una sua vecchia conoscenza, Ulisse, svizzero-tedesco che più o meno vent’anni fa, dopo l’ennesima rottura di coglioni al paese suo, ha mollato tutto per trasferirsi con la moglie nelle campagne senesi ad allevare animali e coltivare la terra; ed io di certo non potevo non raccontarvi di questa piacevole scoperta.

l’Azienda è completamente votata all’agricoltura biologica, certificata AIAB, ed una estensione di circa 60 ettari suddivisa tra vigne, oliveti, bosco, pascoli, e campi coltivati a grano duro, orzo, avena oltre che un grande orto. “L’orzo e l’avena raccolti servono esclusivamente per l’alimentazione degli animali”, ci dice Ulisse, “pensate che qui contiamo un gregge di circa 150 pecore sarde, capre, maiali – quelli della vecchia razza cinta senese, ndr che vengono allevati liberi nel bosco, e poi galline ovaiole, un Pony di nome Serena e tre asini, Beatrice, Gino e Alibabà”.

Il grano duro (4 ettari dedicati all’anno) viene macinato in un mulino biologico di alcuni amici vicino a Torgiano (PG) e con la semola ottenuta, il pastaio abruzzese Zaccagno produce per loro spaghetti, linguine, rigatoni e fusilli ecc che è possibile acquistare in loco. L’Azienda ha di recente anche allestito una piazzola di sosta – ben fornita – per i camperisti, svolge anche attività di fattoria didattica con visite guidate per scuole e gruppi. Su prenotazione si può anche mangiare, in uno dei locali del casale, spartano ma caldo, una cucina che definire autentica e rustica è dir poco.

Per raggiungere Podere il Casale da Pienza in direzione Montepulciano, girare a destra all’altezza della località Palazzo Massaini mentre da Montepulciano in direzione Pienza, girare a sinistra all’altezza della località Il Borghetto (fago), non vi sbaglierete, forse.                      

Azienda Agricola Biologica
Podere Il Casale
Agricampeggio – Caseificio – Allevamento
Produzione propria e vendita diretta
pecorino – caprino – ricotta
Località Podere il Casale
www.podereilcasale.com
Tel. e fax 0578 755109
Ulisse cell. 333 445 1621

Montepulciano, pur sempre Nobile La Braccesca

27 marzo 2010

Il primo documento storico in cui si fa cenno ai vini di Montepulciano è dell’anno 789 e già questo la dice lunga sull’indubbio valore dei vini prodotti in questo areale, un prestigio sempiterno che si perde nella memoria del tempo e che si ripete ad ogni vendemmia constantemente; Negli anni a venire furono soprattutto i Medici a decretarne ed incentivarne il successo durante l’epopea che vide Firenze opporsi a Siena, in quell’epoca infatti Montepulciano appoggiò la prima schierandosi di fianco ai Medici. A fine ottocento, solo il successo del Chianti nel mondo ne oscurò il florido commercio, non però la fama di vino di grande qualità e potenziale d’invecchiamento, seppur, a dire il vero, di anno in anno il Nobile di Montepulciano è stato relegato in secondo/terzo piano dalla crescita, oltre che del Chianti,  del ben più famoso Brunello di Montalcino nonchè dell’onda dei SuperTuscans. La denominazione è docg del 1981, già doc del 1966, una delle prime in Italia, è stata rivista negli ultimi anni, non senza strascichi polemici e nostalgici, per fare “posto” all’incremento della piantagione di vitigni internazionali che qui come nella vicina Cortona ha per molti significato una grande opportunità di conquistare fette di mercato internazionali sino ad allora poco esplorate, e la famiglia Antinori non è stata certo a guardare, tanto che oggi la tenuta de La Braccesca rappresenta in tutto e per tutto una delle realtà più importanti nonchè di riferimento sia per il Nobile che per la giovane produzione della vicina doc di Cortona.

La tenuta si estende su 342 ettari , di proprietà dei conti Bracci, da cui il nome La Braccesca, è stata acquisita dalla famiglia Antinori nel 1990 :  circa 240 gli ettari a vigneto, 80 ricadenti nel comune di Montepulciano, in zone vocatissime quali Gracciano, Santa Pia e Cervognano, perlopiù piantato a Prugnolo Gentile (clone locale di Sangiovese) e 160 ettari, di altre varietà a bacca rossa di origine internazionale, su tutte il Syrah oltre che pochi filari di Merlot ricadenti nella denominazione di Cortona. Di tutti i vini qui prodotti, oltre al corpulento e voluttuoso Bramasole, nonostante negli anni lo stile e la crescita qualitativa non hanno mancato di consegnare annate preziose, quello che mi rimane sempre più affascinante da bere e seguire in evoluzione è il Nobile di Montepulciano “base”, di taglio certamente nuovo se non del tutto “innovativo” nonchè controculturale con quel 20% di merlot, ma sempre fine esempio di compostezza ed equilibrio, elementi sempre sfiorati ma mai pienamente espressi dagli altri rossi della tenuta. L’occasione per ribadire questa preferenza è questo Nobile 2004, bevuto appena qualche giorno fa e confrontato, alla lontana, con le degustazioni effettuate in cantina lo scorso Febbraio: un vino dal colore perfettamente integro, limpido e consistente. Naso certamente maturo, frutta in confettura e note balsamiche, ma anche, in bocca in particolar modo, legno perfettamente integrato al frutto, tannino ed ecidità sottobraccio a consegnare grande piacevolezza di beva. Sbicchierare questo vino oggi vorrebbe dire conquistare anche il palato più remissivo per i vini, pur Nobili, di questa parte di gran Toscana. Cercate, provate, e riferite!

Osimo, Pelago 1998 Umani Ronchi

23 gennaio 2010

Fine estate 2001, varcavo la soglia  dell’autodeterminazione, decidevo del mio futuro lasciandomi alle spalle anni di duro lavoro ed importanti soddisfazioni personali, iniziavo però ad intuire che era nella crescita corale di una intera brigata di sala il successo più importante, mancato negli ultimi tempi, non certo per mia volontà.

Era il tempo delle vacanze e come molte in quegli anni era tempo di andar per cantine a scoprire e capire il vino e le sue origini; la Toscana nel cuore ma divenuta già pane quotidiano per non parlare dell’amato sud, ecco che gli occhi ricaddero sul Conero, nelle Marche, con l’idea poi di fare una capatina di lì a qualche decina di chilometri in Umbria, a Torgiano e Montefalco in particolare. Così fu.

Arrivammo ad Osimo alle porte di Umani Ronchi una domenica mattina di fine agosto, io, Lilly e la mia Peugeot rosso lucifero fiammante: ne ha macinati di chilometri, ne ha presi di moscerini in faccia il vecchio leone francese irto sulla mascherina davanti al radiatore. Ci accolgono, inattesi, con cordialità ed estrema disponibilità, facendoci visitare il bellissimo vigneto da poco reimpiantato che sovrasta la cantina interrata, l’area di vinificazione ipermoderna, la suggestiva barriccaia e la sala degustazione dove, con il dott. Bernetti ci fermiamo a bere alcuni vini cult dell’azienda: il verdicchio Villa Bianchi, il mio sempiterno amato Casal di Serra ed il Lacrima di Morro d’Alba subito prima del fuoriclasse di casa, il Pelago.

Nel tempo a venire, non avrei mai dimenticato quella mattinata e l’assaggio di ieri sera dell’ultima bottiglia di ‘98 in cantina, condivisa con l’amico Massimo Andreozzi, ha riaperto, in maniera vigorosa, importanti riflessioni personali sulla necessità di un profondo rinnovamento, di rispolverare, se necessario, quella soglia di autodeterminazione, ferma lì a qualche metro, apparentemente distante ma facile da raggiungere e nuovamente superabile con appena uno scatto in avanti, inevitabile, imprescindibile per rinvigorire stimoli ed obiettivi.

Il Pelago di per sé è un vino decisamente fuori dall’ordinario e questo piacevole e suggestivo riassaggio del ’98 non ha potuto che confermare questa mia convinzione. Nasce da un uvaggio rimasto perlopiù invariato nel tempo di cabernet sauvignon al 50%, montepulciano al 40% e Merlot col restante 10%.Il colore è vivace su di una  tonalità rosso rubino con riflessi nitidamente granato; il primo naso è variamente caratterizzato da note varietali tipiche del cabernet come l’erbaceo, il vegetale, con sentori che vanno via via facendosi più o meno intensi su riconoscimenti di pepe nero, liquirizia, lignite, sensazioni sottili, eleganti, invitanti.

Lo spettro olfattivo man mano si apre su fronti più ammiccanti, si distinguono pregevoli toni floreali di viola passita ed un fruttato maturo di prugna e ribes nero in confettura. In bocca è secco, abbastanza caldo, di buona profondità gustativa, il tannino è risoluto e lascia ampio spazio all’equilibrio ed alla piacevolezza di beva confortata soprattutto da una discreta sapidità. Noi l’abbiamo bevuto per puro piacere, probabilmente all’apice della sua parabola evolutiva, l’abbiamo trattato da compagno di conversazione, e non ci è certo rimasto indifferente. In genere, è bene abbinare il Pelago a piatti importanti, strutturati, succulenti, anche aromatici, non mancherà di sorprendere con la sua costante intensità gustativa.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Barbara, Maschio da Monte 2005

15 dicembre 2009
Un vino ha sempre qualcosa da dire, basta lasciarlo esprimere. Ci sono alcuni che puoi aspettarli per ore, parlo naturalmente di vini di un certo spessore, ma che non sempre rispettano le aspettative, certi altri invece hai quasi da placargli l’animo talmente che sono esplosivi: eccovi in poche righe il Maschio da Monte 2005 di Santa Barbara. L’Azienda di Stefano Antonucci rappresenta sicuramente una delle più belle realtà venute fuori negli ultimi anni nelle Marche, area viticola di grande spessore ma sempre troppo defilata (non certo per vocazione) dai rumors mediatici in materia di vino. I suoi Verdicchio sono rincorsi in giro per il mondo e non solo per la storica bottiglia ad anfora, ma ciò che sorprende ogni anno di più è la grande crescita rossista a cui si è assistito in maniera sistematica e costante per tutto l’ultimo ventennio e che ha fatto di alcuni vini ormai dei must imperdibili per il cultore appassionato.
 
Di Stefano Antonucci amo la profonda mineralità che sa regalare il suo Le Vaglie, un verdicchio che si propone di anno in anno sempre in grande spolvero; Sono stato più di una volta impressionato dalla grande concentrazione del Pathos, internazionale sì ma di grande franchezza. Il Maschio da Monte, dei suoi vini, rimane però il mio preferito, fosse anche perchè mi piace più l’espressione soave ed elegante marchigiana rispetto alla rude concentrazione abruzzese, ma questo, come il Dorico di Moroder o il Cùmaro di Umani Ronchi rappresentano per me interpretazioni davvero superlative di ciò che questo vitigno sa esprimere.

Rosso Piceno è una denominazione nata verso la fine degli anni settanta per dare lustro alle prime produzioni di qualità intorno alla provincia di Ascoli. Negli anni, oltre alle classiche varianti di blend con il sangiovese, ciò che è risultato un grande valore aggiunto è stata proprio la scelta di indirizzare importanti sforzi di riqualificazione della d.o.c. verso la produzione di vini da sole uve Montelpulciano, ed il Maschio da Monte ne è valida esaltazione. Colore rosso rubino scuro, poco trasparente, consistente, Il primo naso è caratterizzato da una intensa sensazione fruttata, ricorda in maniera esplicità la visciola, poi è floreale e lievemente tostato.

Un vino dal naso complesso, estremamente fine ed elegante. In bocca è secco, caldo, di buona freschezza e persistenza gustativa, il frutto pervade il palato, ma il tannino, presente, vivido, concede poco spazio, in questa fase, alla morbidezza; solo dopo qualche secondo, questa (pur piacevole) sensazione di robusta invadenza riesce a lasciare spazio ad un ritorno di piacevole sensazione fruttata e poi balsamica. Un rosso da spendere su piatti carichi di succulenza ed aromaticità, perfetto per un bollito degno di questo nome, oppure della cacciaggione al forno.