Posts Tagged ‘sangiovese’
14 febbraio 2019
La storia di Montevertine è forse tra le più belle e desiderate per chi si è appassionato così tanto nel fare vino da decidere un giorno di abbandonare tutto, quale che fosse il precedente lavoro, per dedicarsi completamente alla vigna e alla produzione di vini. Certo le colline chiantigiane, Radda in Chianti, quei tempi, hanno avuto la loro indiscutibile influenza sulle scelte di Sergio Manetti.

Montevertine fu acquistata da Manetti nel 1967, allora Sergio era un industriale siderurgico abbastanza conosciuto, ne fece un casa di vacanza. Come tanti qui in zona tra le prime cose vi impiantò subito un paio di ettari di vigna con l’idea di produrre un po’ di vino per i suoi amici e clienti. Ne venne fuori nel ’71 una prima discreta annata, tanto buona a parer suo da spingerlo di mandarne alcune bottiglie al Vinitaly di Verona tramite la Camera di Commercio di Siena. Gli annali riportano che tale fu il successo di quelle bottiglie che la cosa diede il là a tutto quanto poi ci ha consegnato la storia dei successivi 50 anni di questo straordinario vino.
Abbiamo goduto di uno tra i migliori Sangiovese mai bevuti negli ultimi anni, una bevuta di grande soddisfazione perfetta incarnazione di quanto questo vino rappresenta per la storia e la cultura chiantigiana. C’è dentro questa bottiglia una moltitudine di storie di una terra magnifica, della gente che ha contribuito ha scriverla e a raccontarla, che l’ha difesa strenuamente, con battaglie anche clamorose, sino a condurla ai giorni nostri: Sergio Manetti, Giulio Gambelli e Bruno Bini, per dire.
Le Pergole Torte ha sempre dato dimostrazione di come un Sangiovese possa vivere fuori dal tempo, cavalcandolo senza rimanervi imbrigliato, un vino mai urlato, un quadro autentico, senza sovrastrutture inutili, da aspettare e da godere. Ci è piaciuto tanto questo duemilatredici, forte la connotazione territoriale, con quel filo di frutta continuamente in evidenza, con l’erbaceo e il balsamico a fare da sottofondo, appena speziato; il sorso è gradevolissimo, s’accende giustamente acido, con un tannino sottile e perfettamente integrato, sottile ma affilato, che sul finale di bocca regala un ritorno gustativo piacevolmente corroborante.
Vi è su queste pagine traccia di altre bevute di questo vino, qualcuna anche interlocutoria, qualche altra memorabile. Non abbiamo mai smesso, quando ci è stato possibile, di lasciarne una testimonianza poiché Montevertine, come ama spesso ribadire anche Martino Manetti, il figlio di Sergio che continua la tradizione famigliare nella conduzione dell’azienda dopo la scomparsa del padre, non ha mai ceduto alle lusinghe di vitigni internazionali o altre varietà puntando esclusivamente sui tradizionali Sangiovese, Canaiolo e Colorino, così Le Pergole Torte, tra l’altro prodotto con solo Sangiovese, rappresenta con pochissime altre etichette qui in Toscana quel vino icona di riferimento proprio grazie a questa impronta fortemente identitaria di questi luoghi.
Leggi anche Le Pergole Torte 1995 Qui.
Leggi anche Le Pergole Torte 2000 Qui.
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12 febbraio 2019
Non è certo la Romagna il primo posto che ti viene in mente quando cerchi un Sangiovese purosangue nonostante la regione ne abbia di belle storie interessanti da raccontare con i suoi vini. Va da sé che il piacere è doppio quando ci prendi, o forse sarebbe meglio dire quando chi ti ha consigliato ha fatto centro.

Invero il primo approccio non è stato dei più esaltanti, anzi, il naso soprattutto si è dimostrato inizialmente addirittura sviante, sicuramente ampio e intriso di cose da raccontare ma un po’ sovrapposte, così come il sorso, in avvio apparentemente scisso e impreciso, monocorde, ma qualcosa ci ha tenuti ”appesi”, qualche cosa di insolito che ci ha invitati ad attenderlo persino un giorno in più. E sì, perché questo vino ci ha convinto pienamente solo il giorno dopo averlo aperto.
L’area di produzione del Sangiovese di Romagna si sviluppa perlopiù a sud della via Emilia, tra le province di Ravenna e Forlì-Cesena, con quote generalmente basse ma che in qualche caso raggiungono i 100 e i 350 metri s.l.m.; qui i terreni sono di matrice sedimentario-argillosa e si contano ben 12 sottozone, tra queste l’areale di Predappio, una sottozona molto estesa e luogo storico per la viticoltura e per la storia del Sangiovese di Romagna.
Il Sangiovese duemiladiciassette di Noelia Ricci viene fuori da un piccolo cru sul crinale della collina esposto a sud-est, tra i 200 e i 340m s.l.m. in località San Cristoforo. La terra qui è argillosa e leggera per la presenza di sabbie ricca di minerali sulfurei e calcarei, con il mare che da qui dista circa una cinquantina di chilometri. Tutti elementi che pian piano si sono rivelati e che abbiamo ritrovato nel bicchiere. Il colore rubino è vivace e luminoso, il naso dopo un lungo respirare ci ha regalato un delizioso afflato di frutta rossa ben matura, così in bocca, dopo i primi sorsi un po’ concentrici ci siamo ritrovati, più che altro il giorno dopo, un vino piacevolissimo, coinvolgente, disteso, sapido, succoso, asciutto ma godibilissimo, un’altra cosa, buonissimo da metterci vicino pane e Salame di Felina come se non ci fosse un domani. Una piacevole scoperta su cui torneremo sicuramente.
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17 dicembre 2018
Ci sono storie, vini e persone che rimangono per sempre. Abbiamo a lungo raccontato di loro qui su queste pagine, Caroline e Jan Endrik ne hanno passate tante per strappare qui in Toscana quel minimo sindacale di credibilità che si deve a chi ha stravolto la propria vita pur di inseguire un sogno.

Forse anche per questo i loro vini, il loro Brunello anzitutto, sono diventati in pochi anni dei riferimenti assoluti di questo pezzo di storia del vino naturale italiano, vieppiú per chi va alla ricerca di piccole grandi storie dentro e fuori una bottiglia.
Pian dell’Orino è collocata in uno dei posti più suggestivi di Montalcino, praticamente con vista sulla Tenuta Greppo dei Biondi Santi¤ ma ciò che rende unica questa etichetta è quell’imprinting che Caroline e Jan hanno deciso di dare ai loro vini, definitivamente puri, vivi, inconfondibili. L’ideale li tiene strettamente confinati ai rigidi protocolli naturali, in vigna la cura biologica della piantagione è maniacale, assumendo un ruolo centrale, mentre in cantina, con una manualità essenziale e moderna al tempo stesso si riesce a garantire vini che oltre ad una loro spiccata autenticità riescono, tanto il Brunello quanto i loro vini cosiddetti minori come il Piandorino e il Rosso di Montalcino, ad esprimere una integrità di quelle che rimangono ben fisse nell’immaginario tanto da regalare bevute indimenticabili.
Solo per questo di tanto in tanto vale la pena tornarci su e lasciare traccia dei loro vini, un grande esercizio per chi ama queste terre e i rossi qui prodotti che consegnano sempre esperienze di grande valore emozionale. Per questo ci siamo privati dell’ultima bottiglia di Brunello di Montalcino 2004 in cantina ma senza alcun rimorso, questi vini continuano a tracciare un solco incredibile tra i pregiudizi sul biodinamico e la perfezione stilistica dipinta da molti come irraggiungibile per i cosiddetti vini naturali. Ad avercene per farne lezione.
Un Brunello questo duemilaquattro a dir poco straordinario, l’impronta è incredibilmente vivida ed espressiva, il colore rubino non ha alcun cedimento se non una limpida trasparenza appena aranciata sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso, a quasi tre lustri di distanza è rimasto profondamente varietale con note tostate appena accennate e terziari che vengono fuori solo alla distanza, tra l’altro senza incidere particolarmente, disegnandone così un quadro olfattivo chiaro e didascalico che gli rende fascino, suggestione, notevole complessità. Il frutto ha conservato tutta la sua polposità, il sorso impressiona per equilibrio e sapidità, lunghezza ed ampiezza, nel bicchiere ritroviamo insomma una bevuta di rara autenticità.
Leggi anche Pian dell’Orino, il grande Brunello a Montalcino¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2002¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2003¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2006¤.
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15 febbraio 2016
Il colore di questo sangiovese riappacifica con la tipologia, è bello, vivo, profondo. Un invito a rivedere molte posizioni degli ultimi anni, il Brunello di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach racconta di un territorio unico ed imperdibile!

Abbiamo a lungo raccontato la loro storia¤, Caroline e Jan Endrik ne hanno passate tante per strappare qui in Toscana quel minimo sindacale di credibilità che si deve a chi ha stravolto la propria vita pur di inseguire un sogno; forse anche per questo i loro vini¤, il loro Brunello anzitutto, sono divenuti in pochi anni un riferimento assoluto di questo pezzo di storia del vino italiano, vieppiú per chi va alla ricerca di piccole grandi storie dentro una bottiglia.
Anche per questo vale la pena tornare a scriverci su, un grande esercizio per chi ama ritornare su sentieri forse poco battuti ma che conducono ad esperienze di grande valore emozionale. Questo 2006 lascia un solco incredibile tra i pregiudizi sul biodinamico e la perfezione stilistica dipinta da molti come irraggiungibile per i vini cosiddetti naturali.
Il primo naso, a quasi dieci anni di distanza rimane profondamente varietale con note tostate appena accennate e terziari che vengono fuori solo alla distanza, senza infierire, disegnando un quadro olfattivo chiaro e didascalico che gli rende notevole complessità. Il frutto ha conservato polposità, il sorso impressiona per equilibrio e spiccata sapidità, lunghezza ed ampiezza, di rara autenticità. Il Brunello 2006 di Pian dell’Orino è un piccolo capolavoro in perfetto stile naturale¤.
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16 settembre 2014
Pur non convincendomi mai del tutto devo ammettere che la Ripassa di Zenato rimane un vino estremamente funzionale in certe realtà, una tipologia che ha dato e continua a dare a molti la possibilità di ammortizzare la tranvata della crisi dei consumi.

Etichetta simbolo che ha spinto molti ad avvicinarsi alla Valpolicella con un piglio diverso, da almeno vent’anni buona garanzia per quei ristoratori in cerca di bottiglie che si vendono perlopiù da sole e con una battuta di cassa, anche al calice, sempre molto conveniente. Un vero successo per i Zenato che talvolta ha rischiato persino di offuscare il loro Amarone¤ ‘base’. Non così invece per quanto riguarda le Riserve. Questo qui ad esempio è un vero campione, ma di quelli capaci di farti veramente saltare dalla sedia.
Uve corvina, rondinella e l’immancabile sangiovese selezionate dalle vigne più vecchie intorno a Sant’Ambrogio di Valpolicella. La Riserva Sergio Zenato 2006 nasce dalla solita grande attenzione in vigna ed un lungo appassimento in fruttaio, poi ancora almeno 4 anni in botti di Slavonia.
Il colore ha una bellissima foggia violacea, porpora sull’unghia del vino nel bicchiere, vivace e intensa. Il naso è intriso di frutta polposa, spezie, balsami. Sa di arancia sanguinella, ciliegia, visciola, confettura di gelsi, con rimandi a caffè, tabacco, crema al cioccolato. Il sorso è spigliato, che sia caldo e avvolgente te lo aspetti, ci mancherebbe, ma qui c’è molto di più di quanto conosciuto dell’Amarone: è fitto ma senza sovrastrutture, ha grande spessore ma una sorprendente tensione gustativa. Una freschezza incredibile, tra i migliori assaggi dell’anno!
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22 luglio 2014
Etichetta pressoché sconosciuta in Italia ma che invito seriamente a ricercare e bere. Davvero buona questa bottiglia, sorprendente, fresca, goduriosa, un Chianti come non ne avrete mai assaggiati prima.

Lasciate altrove strani pensieri su uvaggi, assemblaggi, sovrastrutture, questo qui è un vino grandioso nella sua semplicità più assoluta. Un sangiovese in purezza da filari a conduzione biologica in provincia di Arezzo, 180 ettari di ulivi secolari e vigne di 40 anni piantati tra la Val di Chiana e quella dell’Arno.
Il Chianti Gratena mi rimette in pace con una delle denominazioni più bistrattate che abbiamo in Italia, dietro la quale si nascondono centinaia e centinaia di magre delusioni e vini il più delle volte banalissimi ma, per fortuna, a quanto pare, ancora capace di sorprendere e conquistare.
Buonissimo il 2013, il colore porpora è di grande vivacità, il naso è scalpitante, polposo e pieno di verve, non ne sentivo di così interessanti in un Chianti da anni, di sovente sempre troppo acerbi o troppo cotti, o peggio inutilmente boisé e stanchi.
Qui c’è la viola – ve la ricordate la viola nel sangiovese? -, tanta frutta, arancia sanguinella, melograno, mora, ribes. Il sorso è pieno di soddisfazione, secco e ben bilanciato, fresco e sapido, snello e avvolgente, piacevolissimo e risoluto. La bottiglia va via che manco te ne accorgi. Mi mancavi Chianti.
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19 marzo 2014
E’ un po’ l’icona dei grandi appassionati del sangiovese Castello di Monsanto, nome che dice poco ai molti ma che rivela, con questo vino, Il Poggio Riserva 2007, uno dei più buoni e autentici Chianti Classico in circolazione nonostante l’annata non proprio delle più felici.

Il Poggio è una vigna di poco sopra i cinque ettari, perlopiù piantati a sangiovese, circa il 90%, canaiolo e colorino che Fabrizio Bianchi¤ ha saputo negli anni affermare come uno dei cru più importanti dell’areale, tra i primi, già a metà anni ’60, a finire tal quale in etichetta.
Sorprende la vivacità del colore, quasi ancora porpora, l’imponente fragranza del primo naso tutto giocato sul frutto ben maturo, sentori di macchia mediterranea ed accenni balsamici. E’ davvero appassionante il sorso: giovane, polposo, caldo, avvolgente, teso, vibrante sul finale di bocca sapido e molto lungo. Senza ombra di dubbio tra le migliori riserve di Chianti Classico bevute negli ultimi dieci anni.
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8 dicembre 2013
Se tanto¤ mi da tanto anche questo qui avrà vita lunga. Torno sempre con un certo piacere ai vini di Querciabella, azienda di cui si parla sempre troppo poco nonostante negli ultimi 20 anni abbia fatto da apripista prima alle produzioni biologiche, poi a quelle ‘naturali’ sino a divenire un riferimento in Italia per la biodinamica.

Batteria davvero interessante quella presentata a Milano per la bella serata messa su da Quality Wines al N’Ombra de Vin¤ lo scorso novembre. Fra tutti mi è molto piaciuto il Camartina 2008, un rosso carnoso e di grande piacevolezza, dal naso slanciato, intriso di frutto e dal sorso importante, carico di materia fine e ben espressa, in perfetto stato di grazia: i tannini risultano ben fusi, l’alcol mai invadente, col frutto che ritorna succoso e dolce sul finale di bocca.
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17 novembre 2013
Il Futuro de Il Colombaio di Cencio nei suoi primi 5/6 anni di vita li stracciava tutti i SuperTuscans provenienti dal Chianti Classico: dal ’95 una sequenza incredibile di lodi et amo da ogniddove ne accompagnò l’ascesa sul mercato senza se e senza ma.

E’ una sortita un po’ così così per questa bottiglia di Il Futuro 2000. L’azienda è di Gaiole in Chianti – vicino al Castello di Brolio -, fu fondata nei primi anni ’90 da Werner Wilhelm, imprenditore di Monaco di Baviera sceso in Toscana nei primi anni ’90 col pallino di fare grandi vini; il marchio Wilhelm fu parecchio on the wave per almeno un decennio in quegli anni.
Un rosso, Il Futuro, da sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, che matura generalmente in barriques per 24 mesi e poi ancora in bottiglia per almeno un’altro anno. Gli almanacchi dell’epoca consegnano annate memorabili (’95*, ’97*, ’99*) e qualcuna un poco meno; questa duemila sembrerebbe, col senno di poi decisamente tra le seconde. Sin dal colore appare poco brillante e con poco slancio: ha profumi risolti e un sorso sopito, senza guizzi, vellutato e morbido.
Non lo bevevo da tempo, non che avessi memoria di assaggi mirabolanti ma finire così risoluto con quel Pedigree mi pare davvero un peccato. E’ proprio il caso di dire che il tempo non gli è stato granché galantuomo.
*Tre Bicchieri Gambero Rosso
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1 agosto 2013
Una bottiglia che ti rimette in pari con le tante aperte negli ultimi tempi di sangiovese ‘vintage’ rivelatesi chi più chi meno delle mezze delusioni (quando non vere e proprie ‘disgrazie’).
Mi sono avvicinato a questa bottiglia, va sottolineato, con fare spocchioso e prevenuto, magari anche per questo ci metto ancor più entusiasmo nel riportare la bella esperienza regalata da questo Nobile.
Mi è sempre piaciuto bazzicare da queste parti pur nella convinzione che forse proprio Montepulciano, il suo Nobile e con esso, per ricaduta, il Rosso siano vini un poco sottovalutati tra i beneamati toscani in giro; non so se ‘apprezzati’ in misura minore ma di sicuro meno di quanto meriterebbero.
A pensarci bene pare chiaro che non godono del sempiterno successo commerciale del Chianti, quale che sia la sua declinazione e non hanno vissuto – o almeno non ricordo – un vero e proprio boom come successo ad esempio negli anni sessanta per il Brunello, consacrato ormai all’altare dei migliori; nemmeno si può dire abbiano avuto l’exploit di Scansano e del Morellino o l’ascesa di certi bolgheresi. Il Vino Nobile è lì, praticamente da sempre, vivacchia, penso io.
Gli corro dietro da parecchio tempo a un sangiovese – non brunello – così. Poche, pochissime le bottiglie di dieci e più anni capaci di emozionarmi, lasciarmi un segno, sorprendermi fuori da Montalcino. E invece: Antica Chiusina ’98 è davvero ‘un capolavoro’ come riporta la pagina internet di Fattoria del Cerro. Là dentro, in quei bicchieri, c’era di tutto iersera, proprio tutto per farti pensare di stare dinanzi ad un piccolo miracolo, ad una bottiglia in perfetto stato di grazia, incredibile, capace di stravolgerti completamente i pensieri.
Un colore rubino bellissimo, perfettamente integro, addirittura con ancora riflessi porpora (!) sull’unghia del vino nel bicchiere, intenso, di rara profondità. Il quadro aromatico è imponente, un lento divenire con tutta la frutta rossa che ti viene in mente – ciliegia, amarena, ribes – ancora in primissimo piano, sospinta da una dolcissima verve balsamica. Il sorso è lineare, succoso, avvolgente, materico, manca forse appena un pelo di vivacità ma è piacevolissimo tornarci su e seguirne l’evoluzione nel bicchiere. Carte alla mano prometteva almeno 15 anni di buona conservazione. Promessa assolutamente mantenuta. Per me un grandissimo vino!
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7 aprile 2013
Così oggi se ne va, a 91 anni suonati, ‘l’ultimo fedele guardiano intransigente della tradizione del Brunello’, quel Franco Biondi Santi¤ da tutti quanti riconosciuto qual vero e autentico gentiluomo d’altri tempi. Appena due anni fa ne raccontammo qua¤, fu un momento a dir poco indimenticabile! R.I.P..

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1 marzo 2013
Non c’è da stupirsi se da un’annata non proprio coi fiocchi il Brunello di Sanlorenzo ne viene fuori comunque in grande spolvero. Il lavoro di Luciano¤ in vigna è costante, maniacale a tal punto dal conoscere quasi meglio ognuna delle sue piante che ciò che gli tintinna in tasca.

Duemilaotto a Montalcino a 4 stelle. C’è però un limite a quest’annata, secondo molti. Da quel che ho letto in giro alcuni critici intervenuti a Benvenuto Brunello 2013¤ hanno provato a coglierlo: un limite che qualcuno ha tenuto a sottolineare come una carenza episodica¤, qualche altro come una diversità espressiva¤ poco tipica ma tuttavia accettabile, qualchedun altro ancora invece come la perenne incapacità del sangiovese brunello di mantenere fede alle aspettative, quasi sempre in credito col suo reale valore di mercato. C’è infine chi¤ non le ha mandate affatto a dire sibilando che molto probabilmente il limite grosso dinanzi a certe annate è proprio della critica, soprattutto quella internazionale, ormai talmente appiattita dai vini d’asfalto del nuovo mondo dal non sapere più leggere certi vini italiani.
Non c’ero, quindi non entro nel merito e lungi da me esprimermi su linee di carattere generale. Ho bevuto però i nuovi vini di Luciano Ciolfi, a più riprese, con la calma dei forti e la pazienza di un fan. Il Bramante 2008 farà faville sul mercato. E’ vero, in questo ha ragione da vendere Antonio Galloni¤, rientra certamente tra quei Brunello 2008 di grande slancio degustativo che tanto piacerà ai ristoratori appassionati sempre alle prese con troppe scelte difficili in materia di Brunello di Montalcino. Ma ci dispiacerà?
Ha però un naso di grande integrità ed intensità, che sa di arancia Sanguinella ed erbe officinali, poi man mano di garofano, ciliegia e liquerizia. Il sorso ha spessore, deciso, manca però forse di quella spinta acida a cui ci eravamo abituati nelle precedenti uscite, ma è succoso e tremendamente sapido. Ecco, Il duemilaotto di Sanlorenzo¤, contrariamente al recente passato non gioca stavolta sull’elegante sottrazione, austera e pregnante nel 2004 come nel 2006 ma, per la prima volta, sull’abbondanza di una o due curve in più. Io dico che ce ne faremo una ragione, convintamente.
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29 gennaio 2013
E’ sempre particolarmente difficile scrivere una critica poco entusiasta di un vino simbolo come il Le Pergole Torte di Montevertine, prodotto da un “grande” della viticoltura toscana come Sergio Manetti (fu proprio questa la sua ultima vendemmia, ndr) e seguito in cantina da un’altro storico pezzo da 90 dell’enologia italiana come il buon Giulio Gambelli.

Eppure va fatto, perché di spunti positivi da questa bottiglia ne son venuti davvero pochini. E poco c’entra l’irriverenza che pure spesso sta lì in agguato di fronte ad una bottiglia probabilmente poco performante. Come la presunzione di chi scrive di saperne abbastanza sul sangiovese – nonostante le tante bevute -, per dire che no, non ci siamo proprio.
Anche per questo lo faccio poche volte, convinto che rimanga tanto su cui riflettere, aspettando di riprovarci magari ad un altro giro, come mi son detto per giorni e giorni a seguire dopo aver preso un’altra sonora bastonata per le mie convinzioni di appassionato e devoto a certe etichette simbolo del vino italiano come il Monfortino¤.
Però due appunti me li sono scritti: dalla sua un’annata non proprio tra le migliori lì a Radda, eppure pare offrire davvero troppo poco per il blasone che si porta dietro. Cupo già nel colore, teso chiaramente all’aranciato, ha un naso ombroso che sa di vetusto, di erbe officinali e tira dritto dritto su note animali. Il sorso è asciutto, quasi risentito, afflitto da una costante sottrazione che consegna alla bocca solo un finale amaro, tremendamente risoluto. E il giorno dopo, nonostante l’attesa, niente di nuovo, null’altro. Lapidario. Non ci siamo presi proprio per niente!
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6 novembre 2012
Che personaggio Giampaolo Motta, che gran personaggio! Fai fatica a stargli dietro, fai fatica a capirlo se non lo conosci. Uno così meno male che c’è. Uno che per farti capire dove vuole andare ti accoglie in casa sua a suon di Haut Medòc e Pomerol, con la chitarra elettrica di Jimi Hendrix a palla e il basso di The Edge che arriva proprio sul più bello, alla fine, col Giorgio Primo 2009.

Così è stato anche per me, alle prese con una domanda a cui facevo fatica a trovare una risposta: per quale ragione uno (di fuori) compra a Panzano, nel cuore del Chianti Classico – nel bel mezzo della Conca d’Oro -, investendo cifre blu con l’idea di fargliela vedere a tutti col sangiovese, per mollare poi tutto quanto dopo appena dieci vendemmie?
“Mollare un corno!”, ti dice. “Più semplicemente non mi andava bene quello che veniva fuori dalle mie bottiglie dopo appena 6/7 anni. Vini quasi stanchi, distesi, maturi. Per qualcuno era il meglio mai bevuto prima, col meglio che addirittura doveva ancora venire. Assurdo, mi ripetevo. Dieci anni di investimenti, ricerca, mappatura zonale, selezione clonale, sperimentazioni non potevano finire così, non era possibile che si risolvessero in poco più di un lustro con vini dal colore quasi aranciato e note di terra e sottobosco. Doveva esserci dell’altro; da lì, da quelle vigne, da quei terreni, dalla nostra passione doveva venir fuori dell’altro, che ci potesse emozionare nel tempo, un tempo non necessariamente da quantificare!”.

E come gli si può dar torto? Basta dare un’occhiata qua e là in giro, vedere le carte, i numeri, i fatti, la strada fatta sino ad oggi. Semplicemente non gli andava più bene, non era quello il risultato sperato, non era quello il grande vino pensato da Giampaolo a Panzano. Punto. E accapo. Semplice, no?
Così nel 2002, approfittando dell’annata così così si è messo via la denominazione Chianti Classico. E pian piano, dal Giorgio Primo, il sangiovese, destinato dal 2007 in poi tutto al secondo vino aziendale, il La Massa. Spazio quindi al taglio bordolese, al cabernet sauvignon, merlot e petit verdot in percentuali variabili a seconda dell’annata. E spazio poi ai lavori della nuova cantina, finita solo quest’anno, dove poter lavorare con maggiore serenità e mezzi tecnici all’avanguardia più efficaci. La quadratura di un cerchio dopo i primi quindici anni spesi in vigna a capire dove, come e perché.

Un nuovo percorso cominciato col duemilasette, dicevo, quando poco prima di andare in bottiglia, di ritorno da Bordeaux, Giampaolo decise che fosse finito il tempo concesso al sangiovese, al suo sangiovese, di contribuire al salto di qualità del Giorgio Primo. Un cambio di marcia necessario per un’azienda che conta il 92% del suo fatturato oltre i confini nazionali, per vini che vanno in carta a Capri come a Milano, a New York piuttosto che a Montréal o Parigi. Parigi che vuole il Giorgio Primo per i più ed il La Massa per i tanti, ma che di entrambi apprezza la finezza e la pulizia, con la profondità del primo e la freschezza del secondo; proprio come accade per i vari classemènt di Bordeaux. Perché in fondo l’obiettivo di sempre, la sfida vera è tutta lì, potersela giocare – ancor più nei prossimi dieci/quindici anni, sullo stesso piano, senza paura -, con i bordolesi. Parola di Giampaolo Motta.

Toscana igt Giorgio Primo 2001. L’ultimo Chianti Classico. A distanza di oltre dieci anni, contrariamente a ciò che ne pensa lo stesso Giampaolo, a me è piaciuto tantissimo; un rosso di gran carattere, con un naso ben definito, centrato sì sulla frutta matura, tabaccoso, speziato ma in perfetta armonia con tutto il resto. Sorso di buon nerbo, con un tannino sottile e piacevole.
Toscana igt Giorgio Primo 2007. Tanta materia in questo duemilasette, figlio di un’annata calda che l’ha certamente aiutato a tirar su muscoli e carattere. Il primo senza nemmeno una goccia di sangiovese. Il naso conferma una nota piuttosto accentuata di confettura di prugna e note tostate, tabacco, muschio e sottobosco a girarci intorno. Il sorso è caldo e avvolgente, senza particolari spigolature.
Toscana igt Giorgio Primo 2008. Ciò che salta al naso, subito, è la pulizia e la freschezza delle note e dei sentori che vi si colgono. Il colore è violaceo, vivissimo, il naso è tutto di piccoli frutti rossi e neri e liquirizia. Molto verticale. Il sorso è ricco, ciliegioso, di buon nerbo. Molto piacevole il ritorno balsamico sul finale.
Toscana igt Giorgio Primo 2009. Impressionante la precisione con la quale il bicchiere rivela il frutto, lo spessore e la profondità della gran materia prima, appena in rampa di lancio. Siamo su percentuali importanti di cabernet sauvignon, intorno al 70%. Varietale che va ritagliandosi uno spazio sempre più importante nella cuvée del primo vino di Giampaolo, non a caso. Se questo è l’inizio non si possono certo biasimare le scelte fatte a La Massa. Gran-Bel-Vino!
Toscana igt Giorgio Primo 2010. In molti, in Piemonte come in Toscana dipingono la duemiladieci come un’annata interlocutoria, calda certo, che ha dato vini di un certo spessore eppure, laddove si sia lavorato con dovizia, soprattutto in cantina, dosando per bene la qualità dei legni, sembrano venir fuori vini di una prontezza insolita ma anche caratterizzati da una rara eleganza. Il frutto c’è tutto, croccante e di gran livello, il sorso ha da scrollarsi di dosso tutti i primi passi appena fatti, ma è lecito aspettarsi un campione di razza. Una cosa è certa, il Giorgio Primo, oggi, è un’altra cosa, e chissà che domani non capiti per davvero di ritrovarselo lì tra i più grandi del firmamento bordolese.
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In Poscritto: bellissimo il gioco sull’assaggio delle Premiere cuvée ancora in affinamento in barriques, soprattutto quelle atte a divenire Giorgio Primo 2011. Mi ha molto impressionato, per profondità, il cabernet sauvignon #9, di uno spessore quasi inaudito nonostante una bevibilità già dissacrante. Un po’ sulle sue invece il petit verdot, che Giampaolo invece intravede tra i migliori dell’annata. Ma pure il sangiovese pare aver fatto un bel balzo in avanti, tanto più che per il La Massa sembrerebbe destinato solo un 50/60 % dei vini base, per dar vita, forse, ad un nuovo imbottigliamento in purezza per conto proprio (un terzo vino o magari un second-vin di mezzo).
Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #1.
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29 ottobre 2012
Certo è che il suo Giorgio Primo non é un vino accessibile a tutti, ma ciò che vale, sopra tutto, è l’idea che Giampaolo rincorre da sempre con i suoi vini, produrre cioè bottiglie che gli assomiglino e che sappiano vivere e viaggiare nel tempo.

Del personaggio, della straordinaria personalità che ne fa una delle persone del mondo del vino che più mi ha impressionato ne parlerò in un successivo post dove anche i vini avranno il loro spazio. I pensieri oggi vanno a mille e le sensazioni sono tutte solo positive. Ma andiamo per ordine.

Una vita in fuga, mi verrebbe da dire, a rincorrere i suoi sogni. Questo ho pensato mercoledì sera dopo la bella serata passata assieme a parlare di calcio, macchine, amici, Bordeaux, Jimi Hendrix. Non a caso l’idea che l’accompagna da sempre era quella di poter rappresentare nella sua cantina una “rossa” con dodici cilindri a V che sfreccia sul traguardo.
E sin qui pensi all’ennesima stravagante idea di chi ha una cosa di soldi da spendere e ne fa quel che vuole; e ci starebbe pure, se questa folle idea non avesse invece alla base una lucidissima visione, un progetto serissimo, di ciò che è e non debba essere una cantina, nella sua massima espressione di bellezza, funzionalità, ergonomia.

La nuova cantina si distende praticamente sotto la collina della dimora storica di Fattoria La Massa, datata più o meno 1340. L’ingresso è a pochi metri da una delle splendide vigne che cingono, a vista, l’intera struttura, è lastricato di piastrelle bianche e nere dove ai suoi lati corrono le “testate” (le vasche), 12, pienamente visibili però solo al piano di sotto. Qui avvengono le prime importanti fasi di lavorazioni. C’è un nastro di cernita doppio, a L: le uve incassettate arrivano in sul primo punto, qui 4 persone si occupano di una prima selezione che viene lasciata salire nella diraspatrice. Da lì, per caduta, tutti gli acini passano su di un breve piano mobile dove i più piccoli vengono automaticamente risucchiati dalle feritoie e passati ad altra destinazione. I migliori invece, continuano la corsa su un secondo nastro di cernita dove il lavoro di almeno 8 persone pensa a quali portare definitivamente a vinificazione. Tutto questo naturalmente accade per ognuna delle varietà coltivate a La Massa: sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, petit verdot e alicante.

Dopo la pressatura soffice, le uve ammostate vengono immediatamente passate, per caduta, nelle vasche tronconiche d’acciaio che danno al piano sottostante. Qui, scegliendo la giusta prospettiva, si ha la “visione”: le dodici vasche a V (6 per lato) corrono lungo i lati dello spazio su un piano piastrellato bianco e nero al cospetto del soffitto rosso Ferrari! Questo però è solo uno degli effetti della bellissima suggestione provocatoria di Giampaolo Motta: sfrecciare con le sue bottiglie sulle migliori “piste” del mondo. Ciò che invece colpisce, tanto, è l’estrema razionalità con la quale è costruita la cantina. Addirittura già modulabile per le eventuali future necessità.

A guardala con attenzione, per tutto il perimetro interno della struttura non v’è un solo tubo, dico uno, che intralcia lo spazio o il lavoro. Tutto infatti corre esternamente all’ambiente di cantina, lungo una intercapedine, comodamente ispezionabile, tutt’intorno la struttura. Dalle piastrelle, con una collocazione ben precisa, sbucano solo i rubinetti necessari per il lavoro di cantina.
Vi è poi un braccio meccanico, disegnato proprio da Giampaolo, computerizzato, che corre in lungo e in largo tra le vasche e che ha, tra le varie funzioni principali, quella del batonnage/remontage che avviene praticamente contemporaneamente e senza stress alcuno per i mosti (e per gli operatori). Le vasche infatti, sia dall’alto che in basso sono facilmente accessibili, con le “bocche” poste a circa un metro e mezzo da terra, così dopo i travasi, le fecce vengono agilmente prelevate, messe in un contenitore studiato all’occorrenza che grazie ad un semplice muletto sono portate in un angolo della cantina dove un “torchio meccanico”, con discesa programmata, provvede a spremerle per bene. Due ampie “stazioni di lavaggio” poi segnano il confine tra lo spazio di lavoro e le zone di preparazione.

C’è poi un sistema integrato di controllo della temperatura e di tutte le emissioni interne la cantina che, durante il giorno, ma soprattutto durante la notte, “legge” la situazione negli ambienti. Così, una concentrazione sopra le righe di so2, una fuga di gas o altro viene segnalato da un semaforo posto dinanzi a tutti gli ingressi della cantina cosicché da segnalare, per esempio a chi sta per entrarvi, quale condizione può trovarvi una volta varcata la soglia. Sicuro. Maniacale.

La barriccaia occupa due piani di un secondo tronco della cantina, già modulata qualora in futuro servisse aumentare gli spazi destinati alla vinificazione e allo stoccaggio. Invero, qui vi è solo una parte dei vini in affinamento, altro sta ancora nella parte “vecchia” della fattoria sotto la dimora storica di La Massa. Lì, alcune vasche di cemento vengono utilizzate all’occorrenza per una breve sosta del sangiovese che ormai viene destinato tutto al secondo vino aziendale, il La Massa appunto; ma vi sono anche le barriques di buona parte delle cuvée del Giorgio Primo.
Qui i locali suggeriscono una memoria storica importante, che và piuttosto indietro nel tempo, ma sono angusti, dislocati su più livelli, di difficile gestione soprattutto per un team che ha tratto dal patron tutte le fisime possibili ed immaginabili in fatto di pulizia, muffe e quant’altro! Nella parte nuova, per concludere, un’area importante è destinata al magazzino. Al momento vi sono circa un migliaio di bottiglie in formati speciali (3 litri e litri e mezzo, ndr) e poche altre centinaia delle ultime annate 2007 e 2008. Il 2009 invece è praticamente esaurito. Con grande soddisfazione per Giampaolo.

Mi piace terminare questo primo scritto su Fattoria La Massa con alcune note di degustazione sul Giorgio Primo 2001, l’ultimo con in etichetta la dicitura Chianti Classico, poi abbandonata. Un rosso che a me, a distanza di oltre dieci anni è piaciuto tantissimo e che, per tutto il tempo che l’ho avuto nel bicchiere, ha mostrato gran carattere, un naso ben definito, con un bel timbro di frutta matura, tabacco, nell’insieme complesso, speziato, forse solo un po’ troppo terroso. In bocca era disteso ma ancora con una bella tessitura, con un tannino sottile, piacevolissimo e finale balsamico. Diciamo che, per chi ama i punteggi, in una batteria alla cieca un bel 92/93 non glielo avrebbe negato nessuno.
Bene, a Giampaolo non è piaciuto: “non era questo che volevo ritrovare in una mia bottiglia dopo appena dieci anni”. Avrete senz’altro capito il personaggio.
Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2.
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17 settembre 2012
Buono è buono, ogni volta però sembra di stare a scoprire l’acqua calda, così non ci si può nemmeno ricamare su più di tanto perché il Tignanello è il Tignanello e da qualsiasi punto di vista tu lo possa leggere, interpretarlo o decantare è e rimane il grande rosso Toscano italiano famoso in tutto il mondo.

E’ un rosso che vanta numerosi primati e numeri importanti, tra i più importanti in Italia. Ciononostante, non so se ve ne siete mai accorti, ne girano davvero poche di recensioni sul web; sembra quasi che sia deleterio, soprattutto per i critici enofili più affermati, anche il solo scriverne due righe, men che meno di apprezzamento. Eppure è sempre lì, tra i primi nelle migliori guide ai vini d’Italia di ogni tempo.
La vigna, contigua a quella del Solaia, è più o meno sempre quella, poco meno di 50 ettari su per le colline chiantigiane tra i borghi Montefiridolfi e Santa Maria a Macerata. Tignanello è stato il primo sangiovese a vedere la barrique nonché il primo vino rosso con varietà internazionali e, tra gli altri, uno dei primi vini rossi fatti nel Chianti a non usare più uve bianche. Nel ’70, quanto è uscito per la prima volta, recava in etichetta la denominazione “Chianti Classico Riserva vigneto Tignanello”, con ancora del canaiolo, trebbiano e malvasia; con il ‘71 è diventato semplicemente Tignanello e con l’annata 1975 le uve bianche sono state completamente eliminate dall’uvaggio. E’ dal 1982 che la composizione varietale è invariata: sangiovese all’80%, 15% cabernet sauvignon e cabernet franc per il restante 5%.

Renzo Cotarella va affermando da tempo che Tignanello e Solaia, due delle tante punte di diamante delle tenute del Marchese Antinori, col 2007 ma ancor più con il 2008, dopo la piena maturità delle vigne reimpiantate tra il 2000 e il 2001, avrebbero cominciato un nuovo percorso verso l’eccellenza, del tutto diverso dai loro primi anni di vita. Un timbro, il loro, di nuova forgia che nasce dopo la lunga analisi, negli anni, di ogni singolo aspetto del terroir lì in tenuta. Una caratterizzazione che gli consentirà così di sfidare il tempo alla stessa maniera dei grandi chateaux di Bordeaux. Vedremo.
Intanto il duemilaotto tira le fila a tanta materia, evidente già nel colore ricco, ma soprattutto al naso, dove l’iniziale esplosione di frutta rossa va lentamente defilandosi per lasciare il passo a note di tutto un po’: è intrigante ritrovarvi sin da subito un tono iodato piuttosto marcato, sanguigno; poi si fanno largo sottili spezie dolci ma anche cuoio bagnato e sentori balsamici. Il sorso è gustoso, il piacere lungo e avvolgente, non mancano le spigolature – più acide che tanniche – ma, vivaddìo, che carattere che ha questo Tignanello. E pensate un po’ che se ne fanno (quasi ogni anno) svariate centinaia di migliaia di bottiglie. Gulp!
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9 giugno 2012
L’aquilotto ha lasciato il nido, adesso vola determinato per le valli dell’Orcia. Il suo nome compare ormai ovunque si parli di futuro del sangiovese e di quanto di nuovo e di buono c’è a Montalcino.

Blogs, riviste on line, guide, tutti, nel tempo hanno assaporato quanto siano espressivi, autentici, reali i vini di Luciano Cilofi¤. E tutti (!) hanno avuto le conferme che cercavano dagli assaggi ripetuti nel tempo: a Sanlorenzo vengon fuori dei gran vini!
Il Bramante 2005 ha maturato un colore granato dal fascino antico, con tutte le trasparenze del Brunello più tradizionale di Montalcino: è luminoso, invitante, concede un variegato ventaglio olfattivo che frattanto si è fatto fine, ancora più sottile ed elegante dei primi assaggi, che snocciola frutto e richiama la terra ad ogni sorso. Ha sapore asciutto il Brunello di Luciano, è austero, retto, distante da certi cliché eppure succoso, nerboruto, fresco, quasi dissetante. Sarebbe una bottiglia da conservare nel tempo, gelosamente, per la memoria e per la storia, memoria e storia che vogliono però rinnovarsi troppo in fretta. A ragione.
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28 Maggio 2012
Lorenza Sebasti e Marco Pallanti, Castello di Ama. L’Arte, la cultura, il vino, la tradizione del Chianti e quella del Chianti ad Ama, il sangiovese, il merlot, il pinot nero ed altre storie…

Invero non ho nessuna intenzione di perdermi in convenevoli tra conservatori e riformisti, tradizionalisti e innovatori, c’è n’è già tanto in giro; in fin dei conti poi ogni giorno può regalare uno stato d’animo adatto e diverso per un sorso dell’uno o dell’altro. A me, sia chiaro, il sangiovese fa impazzire – quello tirato su come Dio comanda però -, a Gaiole come a Montalcino. Eppure, dinanzi a una bottiglia di L’Apparita 2001 come si fa a chiudere gli occhi? Come non ci si può fermare anche solo un attimo a riflettere…

E La Casuccia 1997? Bene, non saprei se lo è un grande vino ($!), però tradizione o no è un gran bel bere e, dopo 15 anni, assolutamente ancora sugli scudi. Si dice che una immagine, per quanto chiara, possa trarre in inganno; beh, qui il particolare pare non ammettere repliche: la vigna conta poco più di 12 ettari, impiantati tra il ‘64 ed il ’75 su terreni abbastanza uniformi di natura argilloso-calcarea. Sin da subito furono scelte forme di allevamento “innovative” per l’epoca, tra le quali la Spalliera verticale con taglio a Guyot semplice e la Lira Aperta, un sistema, quest’ultimo, mai visto in Italia prima di quegli anni ed importato direttamente dalla Francia, da Bordeaux. Il vigneto è suddiviso in 17 piccole parcelle impiantate per lo più con le varietà tradizionali chiantigiane, su 2 parcelle invece c’è la presenza del merlot che concorre – in questo come in quasi tutti i vini di Ama – a caratterizzarne profondamente lo stile, per qualcuno magari discutibile eppure inequivocabilmente di spessore.
Il colore, nonostante i tre lustri è assolutamente integro, rubino/granato vivace e ancora abbastanza carico. Il naso è subito molto elegante, il frutto non ha perso smalto, anzi, offre una maturità ineccepibile, irreprensibile, con note di confettura di prugna e amarene estremamente invitanti. Ma c’è dell’altro: prima un sottofondo speziato e tabaccoso, e di cuoio, ma anche note balsamiche, liquirizia, china e di finissimo sottobosco. Il sorso è asciutto, copioso, ha materia da vendere e giusta tensione acida, più del tannino che, lentamente, appare avviato a sopirsi. Dal 1985, quando la prima bottiglia ha varcato per la prima volta la cantina di Ama, sono state prodotte meno di dieci annate. E questo la dice abbastanza lunga.
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9 aprile 2012
Non che siano mancati argomenti, anzi, come inizio non poteva andare meglio. Più degli altri anni però durante questa “apertura” di stagione m’è mancato quel poco di tempo in più per potervi raccontare subito le prime bottiglie passatemi per mano: priorità all’attenzione a certi dettagli, alcune novità, gli ingranaggi da oliare e un programma di eventi enogastronomici decisamente coi fiocchi¤. Poi… l’abiocco! 🙂

Insomma, uno start up di gran soddisfazione ma parecchio impegnativo. Ancora qualche giorno di pazienza quindi e L’Arcante riprenderà a consegnarvi cose buone (nuove) dal mondo del vino con la solita frequenza; frattanto “copioincollo” dai primi appunti e vi consegno un paio di assaggi notevoli di cui vale la pena scrivere almeno qualche riga; il primo è l’Acciaiolo ’97 di Castello d’Albola¤: gran rosso, una garanzia, dal colore ancora vivace e dal naso estremamente fitto e verticale, in splendida forma. Si certo, annata fortunata quella, verrebbe da dire “impressionante”, ma giuro che non me l’aspettavo ancora così profonda: il sorso è integro, ancora vibrante e ricco, puntuto e avvolgente, decisamente “fresco” ed invitante, sorprendente!
Di proprietà della famiglia Zonin¤, Castello d’Albola è a Radda in Chianti, su per le splendide colline chiantigiane; 850 ettari di cui circa 160 a vigneto frazionato in tanti piccoli cru tra cui spiccano Montevertine, Crognole, Solatio, Ellere e Acciaiolo, appunto. Quasi il 90% delle superficie vitata è occupata dal sangiovese, poi cabernet sauvignon, chardonnay e canaiolo.

Rimanendo da queste parti, intendo in Toscana, due facce della stessa medaglia e convincenti per metà: Le Serre Nuove 2004 e Ornellaia 2008 di Tenute dell’Ornellaia¤. Il primo, second-vin dell’azienda-mito bolgherese è nato nel ’97 per dare manforte al più blasonato Bolgheri Superiore: vi finisce infatti, solitamente come prima ricaduta, tutta l’uva ritenuta non adatta per l’Ornellaia. Sin dal colore è evidente che vive ancora una splendida stagione, è in perfetto equilibrio degustativo e laddove necessario non avrei dubbi che sarebbe il meglio da offrire a coloro i quali vanno in cerca di un bordolese toscano da cogliere a pieno e nell’immediato: al naso è fulgido, soave, asciutto in bocca. Il sorso è risoluto, composto ma con un ritorno felice e ancora pimpante, di buona stoffa e profondità. Non sarà magari il vino della vita ma ne mette parecchi in fila, anche di più blasonati, pure volendo fare due conti in casa propria.
Il secondo, dal curriculum certamente invidiabile, m’è parso invece in questa versione un tantino troppo sovraestratto, e pur vestito da uno splendido colore e da un naso incalzante – amaroneggiante – ne ho colto un sorso sostanzialmente eccessivo, surmaturo e debordante; non vorrei dirlo ma già al secondo sorso fa registrare un attacco piuttosto invadente, monocorde, quasi stancante. Paga probabilmente ognuno dei 15 gradi d’alcol (onestamente troppi).
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15 febbraio 2012
Ricordo una ragazza, conosciuta quasi vent’anni fa, eravamo poco più che adolescenti, lei con un paio d’anni in meno dei miei; era piuttosto alta – “spilungona” usavamo dire -, non certo bellissima, ma aveva un fascino tutto suo, e per noi del gruppo era “la preda”, assai ambita pur se dichiaratamente inarrivabile: aveva linee sinuose e in pieno sviluppo, dei bei capelli castani, talvolta arruffati e occhi cristallini ma sempre incazzati, un caratterino deciso e, puntualmente, sempre un gran da fare.

Strappargli un appuntamento era impossibile: tra la scuola, le lezioni di pianoforte, la pallavolo potevi ritrovarti ad inseguirla per settimane intere; e non era detto che ci uscivi. Insomma, alla fine era chiaro che non l’avrebbe mai mollata a nessuno di noi, però tutti, compreso me che degli aspiranti ero il più spacciato della comitiva, continuavamo a stargli dietro. Era lì, era dei nostri, e assieme ci stavamo bene, passavamo delle belle serate ed era bello desiderarla.
Ci perdemmo di vista, suo padre – onestamente non ho mai capito cosa facesse di preciso – fu trasferito altrove. La rincontrai qualche anno dopo, venne una sera a cena al ristorante dove lavoravo, saranno passati una decina d’anni, anno più anno meno; non la riconobbi subito, in verità ci volle quasi tutta la cena per raccoglierne la familiarità, e fu più lei a riconoscere me che viceversa. L’appariscente fiore giallo che portava nei capelli, adesso chiari e più corti, ne illuminava il profilo, fulgido, ben truccato, non pesante ma finemente tratteggiato.

A fine serata, al momento dei saluti, non mancò uno scambio di battute come ai vecchi tempi, le sue, devo dire, meno originali di quanto m’aspettassi – i miei chili di troppo, l’accento puteolano, cose così -; sembrava insomma tenerci alla conversazione, ma mica più di tanto, infatti quelle stesse parole gliele avevo già sentito dire tante altre volte in passato.
Le mie non furono certo da meno, chiaramente autorizzate dalla sua compagnia di sole donne, altrimenti non mi sarei mai permesso: la trovavo certamente “cresciuta”, parecchio avvenente, era evidente che il lavoro nella moda ne aveva fatto una donna accorta, attenta, forse adesso veramente bella, di quella bellezza di cui tanto si parla in giro e della quale, ahimé, spesso si abusa. Però non so, continuavo a cogliere nelle sue espressioni, nel suo sguardo, una certa distanza, una sorta di stanchezza, quasi il tempo gli avesse strappato via le unghie, oppure, più semplicemente, la voglia o l’interesse a graffiare.
Si parla dell’Avvoltore 2006 Moris Farms, ovvero sangiovese 75%, cabernet sauvignon 20%, syrah 5%. Siamo naturalmente in Toscana, a Massa Marittima in località Poggio all’Avvoltore, su terreni argillosi, ricchi di scheletro, alcalini con esposizione a sud ovest.
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15 settembre 2011
Se n’è parlato tanto nei giorni scorsi, e certamente ha fatto bene all’opinione pubblica, quantomeno utile nel farsi un’idea di ciò che stava accadendo. Ha vinto il buon senso, il Rosso di Montalcino non si tocca! Bene…

Montalcino ha un grande passato, ricco di storia, blasone, successo; e senza dubbio un futuro immensamente luminoso, desto, da scommetterci su senza pensarci nemmeno un attimo. Stiamo parlando di sangiovese.
Sul presente, l’abominevole querelle aperta (ancora una volta) dal Consorzio nel tentativo di cabernetizzare ovvero merlottizzare il Rosso, e l’insistenza, direi alquanto furbesca (e pure un poco ignobile) con la quale si cerca una terza via “commerciale” – gradita certamente ai più ma salvifica per chi se non per pochi? -, anziché rimboccarsi le maniche e – siamo o no in uno dei distretti enologici mondiali di maggiore ricchezza? – pensare a nuove formule promozionali, è meglio stendere, giunti a questo punto, un velo pietoso.
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18 marzo 2011
Poi giuro che per un po’ non ne parlo più, ma non posso non raccontarvi di quest’altro bel vino prodotto da Caroline Pobitzer e Jan Erbach in quel di Montalcino, a Pian dell’Orino.

Cosa dirvi di questo vino? Magari si potrebbe partire dal fatto che è semplicemente buonissimo; Poi però bisogna spiegarlo, raccontarlo avendone coscienza e naturalmente quel pizzico di autorevolezza tale da potervi permettere di comprendere, far passare per certezza una impressione tutta tua, come quando un amico ti offre un consiglio che imparerai poi ad apprezzare; e allora veniamo ai fatti, quelli concreti, poi le mie sensazioni.
L’azienda è collocata in uno dei posti più suggestivi di Montalcino, praticamente con vista sulla Tenuta Greppo dei Biondi Santi (n’est pas?) ma ciò che rende unica questa etichetta è quell’imprinting che Caroline e Jan han deciso di dare ai loro vini, definitivamente puri, vivi, inconfondibili. L’ideale li tiene strettamente confinati ai rigidi protocolli naturali, laddove in vigna la cura biologica della piantagione diviene maniacale, assumendo un ruolo centrale, mentre in cantina, con manualità essenziale e moderna al tempo stesso, riesce a garantire vini che oltre ad una spiccata autenticità riescono, tanto il Brunello quanto questo Rosso di Montalcino, ad esprimere una integrità di quelle che rimangono ben fisse nell’immaginario tanto da assurgere a riferimento: insomma, un sangiovese che più espressivo non si può, o giù di lì. Questi i fatti.

La franchezza con la quale si propone questo Rosso 2008 è la stessa con la quale Jan passa dai numeri matematici delle formule scientifiche a gesti di inusuale semplicità per spiegare in soldoni cosa significa fare agricoltura biologica, vini naturali, e non dover raccontare ogni volta la stessa solfa filosofica per farsi comprendere, per far arrivare il messaggio che un vino è sano quando si lavora la vigna con giudizio, coscienza e pragmatismo e non con architetture astrali fini a se stesse o al massimo funzionali al marchio del quale sono al servizio.
Veste un colore rubino netto, di leggiadra trasparenza, ma non troppa; il primo naso è uno sbuffo di terra asciutta, ma appena l’ossigeno s’impossessa dello spazio libero tra le sue maglie è un continuo susseguirsi di note di piccoli frutti neri che si lasciano lentamente suffragare da lievi insistenze speziate, di china e rabarbaro, e spiccata mineralità. Un Rosso che brunelleggia mi verrebbe da dire, anche se ad un naso così importante non segue un palato altrettanto desto, ma in fin dei conti non è la sua vocazione quella di conquistare per spessore gustativo: è asciutto, di nerbo, di buona beva e sfugge via solo nel finale di bocca, lievemente amaro. In fin dei conti, un vino che offre tante qualità che fanno di una bevuta una piacevole esperienza. Altro bel colpo Weinstein!
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11 febbraio 2011
Ci sono certi luoghi che proprio non debbono mancare nel tuo palmarès di buongustaio, e che non puoi fare a meno di raccontare e consigliare. Il Leccio è uno di questi e vi racconto perché.

Montalcino è un luogo culto per il vino, non si fa fatica a pensarlo e nemmeno ad accorgersene non appena una volta che ci hai messo piede; chi però pensa a questi luoghi anche come papabile meta gourmet non abbia a che nutrire aspettative poiché non farà fatica a rendersi conto che si sbagliava, e se gli va male, di grosso! Strano ma vero, un posto dove girano ogni anno centinaia di migliaia di persone che spendono cifre folli per visitare aziende e bere i loro Brunello e nemmeno un buco dove consacrarsi al dio del cibo? Non proprio, ma poco ci manca.

Il centro cittadino è ricco di piacevoli e suggestivi bistrot, enoteche con mescita, trattorie, sicuramente all’altezza di garantire un servizio essenziale ed un pasto decente, ma parecchio distanti da certi canoni che potremmo definire di fine dining che talvolta si ricercano. Il tempo è il grande imputato, si dice che chi vive questi luoghi è gente di passaggio, sono visitatori mordi e fuggi, quindi hanno poco tempo, o sono gruppi organizzati, che di tempo ne hanno ancora meno; ecco allora che l’offerta si adegua alla domanda: veloce, essenziale, seppur non proprio economica, come qualcuno potrebbe presumere.

E’ quindi un turismo particolare, di enomaniaci, che garantisce un flusso di massa debordante in alcuni momenti dell’anno ma che appena dopo la vendemmia va assopendosi sino ad addormentarsi del tutto, sino alla Pasqua successiva. Al quale si è contrapposto quindi una offerta senza troppe variazioni sul tema. Ok, ma gli indigeni, che fanno, non escono mai? Si direbbe di sì, ovvero quando escono non vivono il circondario se non quei due o tre indirizzi sicuri e comunque tendenzialmente preferiscono andare fuori zona. E allora, dove andare a mangiare, per esempio in gennaio? Beh, c’è un solo posto dove assaporare i vecchi e gustosi sapori della cucina tradizionale locale, basta fare un salto a Sant’Angelo in Colle, al ristorante Il Leccio.

Sant’Angelo in Colle è un piccolo gioiello a pochi chilometri da Montalcino, il borgo fortificato è di piccole dimensioni e dall’alto dei suoi 500 metri guarda il panorama circostante in tutte le direzioni: dai fitti boschi di lecci e macchia mediterranea che salgono fino a Montalcino, al possente e selvaggio Monte Amiata fino alla vasta pianura della Maremma. Il piccolo paese, dominato all’ingresso dalla possente torre del cassero, edificato a raggiera, ha strade concentriche con al centro la chiesa principale ed il palazzo dei notabili. E’ ancora perfettamente conservato e la sua piazza è dominata dalla chiesa romanica di San Michele Arcangelo.
Il ristorante di Luca Tognazzi si trova proprio sulla piazza principale del paese, a due passi da uno splendido affaccio sulla Maremma. La famiglia è stata tra l’altro per almeno vent’anni all’antica Fiaschetteria di Montalcino in pieno centro storico, e da qualche anno si è spostata tutta qui a Sant’Angelo in Colle per curare in maniera più adeguata i suoi vecchi clienti.

L’ambiente è molto caldo, arredato con gusto e senza troppi fronzoli; il servizio è cortese, di grande disponibilità ed affabilità, i tavoli, dato lo spazio interno piuttosto limitato non godono di spazi di tranquillità sufficienti, ma anche in una serata abbastanza frequentata non si può certo dire di essere stati male, tutt’altro. La cucina è davvero ottima, abbiamo mangiato sì piatti semplici, ma senza stravaganze empiriche, e di gran sapore ed autenticità, proprio quello di cui eravamo alla ricerca. C’è anche una interessante proposta di primi, che a sentirne i profumi non deve essere male, ma in vena di Brunello di Montalcino Pian dell’Orino abbiamo optato per i piatti di carne. Delicati e finissimi, pur nella loro essenzialità, i dolci.
La carta dei vini è ampia e ben curata, i ricarichi nella norma, naturalmente è incentrata sul territorio – qualche concessione solo al bolgherese ed appena un paio di Chianti – con bottiglie classiche ma anche tante belle chicche e novità che non ci siamo fatto mancare di raccomandare dal padrone di casa. La piccola e suggestiva cantinetta, collocata proprio sotto la cucina, è fornita costantemente dall’enoteca di famiglia posta proprio di fronte al ristorante, dove tra l’altro ci si può divertire parecchio a scoprire tutte le novità del panorama montalcinese con una interessante mescita, contrariamente a quanto si pensi infatti, il comprensorio qui è molto più dinamico di quanto appaia. Il Leccio è un indirizzo da non mancare, e se andate per quelle terre prossimamente, non perdetevelo, è garantito al cento per cento!
Ristorante Il Leccio
S. Angelo in Colle
Via Costa Castellare
Telefono 0577. 844 175
www.trattoriailleccio.it
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10 febbraio 2011
Come innamorarsi ancora una volta di un vino o di un’azienda? Ve lo spiego io, avere la fortuna di incontrare e lasciarsi prendere letteralmente per mano da persone come Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach!

Pian dell’Orino conta circa 6 ettari di cui almeno tre intorno alla casa-cantina, a due passi dalla Tenuta Greppo di Biondi Santi con la quale sono confinanti; sono piantati con una densità di impianto di 4.500 piante/ha dalle quali si ottiene mediamente una resa massima che a seconda dell’annata si aggira fra i 30 e i 60 qli. La biodiversità qui è un valore assunto ineludibile, e per incrementarla nelle vigne, viene praticato costantemente un sostanzioso inerbimento con semi di leguminose, graminacee, cereali ed erbe officinali – queste ultime tra l’altro utilizzate per le tisane somministrate per rafforzare il loro sistema immunitario – cercando di creare così un ambiente favorevole allo sviluppo di popolazioni variegate di insetti, rettili, volatili e piccoli animali utili all’incremento della vitalità del terreno ed alla competizione biologica verso parassiti nocivi.

In cantina, non vengono perseguite tecniche invasive durante la fermentazione che è assolutamente lenta e spontanea, con fermenti indigeni e quindi non inoculati utilizzando colture batteriche commerciali, le varie pratiche di decantazione avvengono per caduta naturale seguendo i diversi livelli su cui è costruita la cantina – essenziale, senza cioè nessun viaggio introspettivo architettonico, e tra l’altro perfettamente integrata nel paesaggio, ndr – mentre per i vini non v’è chiarifica se non la naturale precipitazione dei depositi; è praticamente inconsistente l’uso della solforosa, “affinché si riesca a garantire al vino piena salubrità ma anche che rimanga perfettamente digeribile”, dice Jan.
La produzione prevede essenzialmente tre vini, il Piandorino, un rosso giovane, da consumare velocemente e che esce come igt, un Rosso di Montalcino, di cui però ne parlerò specificatamente in un prossimo post, avendone portato via qualche bottiglia ad uso, per così dire personale, ed un Brunello di Montalcino propriamente detto, che nelle migliori annate, come proprio la 2006, bevuta praticamente in anteprima, rappresenta un vero e proprio piccolo gioiello di vino-frutto e ficcante mineralità; proprio con questo millesimo tra l’altro, il prossimo anno uscirà anche, per la prima volta, una Riserva, con le uve raccolte perlopiù a pian Bussolino e Cancello Rosso in località Castelnuovo dell’Abate, tra i più vocati del territorio. Il colore di questo sangiovese riappacifica con la tipologia, è bello, vivo, profondo. Il primo naso è un effluvio di piacevoli sensazioni varietali che lentamente lasciano la scena a sottili note tostate e terziarie che vengono fuori a rendere complessità ad un timbro olfattivo già di per se intenso e verticale. Il frutto, polposo, croccante è in primo piano anche in bocca, il percorso di invecchiamento, il legno per intenderci, incide poco o nulla sulle primarie sensazioni gustative, è assolutamente ben fuso, tutt’uno si direbbe, con la materia.
Un aspetto che impressiona di questo vino, che lo rende cioè pienamente godibile sin da ora, è la spiccata sapidità che chiude il finale di bocca dopo l’importante impronta acido-tannica che gradevolmente pervade il palato al primo sorso, poi giustamente ammantata da un altrettanto importante apporto glicerico. E l’eleganza, commista alla finezza dei tannini. In definitiva un vino sul quale si possono tranquillamente aprire le scommesse sulla sua durata nel tempo ma del quale, a me personalmente, interessa quanto, e più, riesce a garantirmi oggi, una volta stappata la bottiglia: da quel che ho bevuto, puro, significativo ludico piacere. Che l’annata in questione sia forse la migliore dell’ultimo lustro non v’è dubbio, ne abbiamo avuto oltretutto conferma bevendo altre signore etichette come per esempio il Cerbaiona di Diego Molinari e Il Paradiso di Manfredi; il vino di Jan e Caroline non è assolutamente da meno!
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14 settembre 2010

Benvenuta (generosa) vendemmia 2010! Nelle scorse settimane, in previsione della vendemmia che andava già iniziando in alcune regioni d’Italia, si sono subito levate voci gaudenti di piena soddisfazione in virtù dell’imminente sorpasso, numeri alla mano, nei confronti dei cugini francesi, che avrebbe confermato la produzione vitivinicola italiana come primo riferimento assoluto in Europa, grazie ad una vendemmia abbondante, talmente ricca che porterà nelle cantine italiane (già stracolme, ndr) uve sane ed in quantità più che soddisfacente. Giusto il tempo però di lanciare alcune riflessioni e tutto l’entusiasmo iniziale è andato subito a farsi benedire, lasciando spazio ad accesi dibattiti, speculazioni mediatiche nonchè polemiche sterili e quintalate di buoni auspici per riordinare un sistema che a quanto pare non riesce proprio a vedere ad un palmo dal naso il buco nero che si è aperto all’orizzonte, continuando ad annaspare, ed in maniera pedissequa, a sovrastimare un mercato in continua svalutazione, perchè in Italia di uva e di vino se ne producono fin troppo!
Così, in attesa del lungo inverno alle porte che ci accompagnerà in in giro per l’Italia e ancora in Francia a scoprire e capire cosa poi è arrivato nelle bottiglie (promettiamo che ne leggerete delle belle!) abbiamo chiesto ad alcuni enologi, stimatissimi amici, di darci delle dritte o più semplicemente illustrarci il loro punto di vista sul campo, in primo luogo in terra campana, certamente primario interesse di questo blog e qua e là in giro per l’Italia. Ecco le prime testimonianze che ci sono arrivate.
Fortunato Sebastiano, enologo, con Vigna Viva segue diverse aziende sparse nelle cinque province campane; La sua è una testimonianza molto utile che ci da il polso di diverse microaree regionali; Questo il suo racconto: “è importante premettere che tutte le vigne di cui scrivo sono condotte in regime biologico. In provincia di Salerno (Picentini e Cilento) si prefigura una grande annata, con uve Fiano straordinarie, raccolte a fine agosto, di grande equilibrio acidico; L’aglianico promette benissimo, le escursioni termiche e gli abbassamenti di temperatura di fine primavera hanno rallentato le maturazioni ma qui questo non è un problema. In provincia di Benevento, areale di Sant’Agata dei Goti, dove opero, è stata per l’aglianico un’annata difficile, la peronospora è stata particolarmente invadente; La Falanghina invece molto buona, il Greco ed il Piedirosso idem, ci attendiamo vini molto interessanti. Qui alcune zone umide hanno risentito delle temperature medie troppo basse, inchiodandosi e trovando un pò di difficoltà di allegagione, la cosiddetta maturità eterogenea. Ad Avellino, negli areali di Montefusco, Santa Paolina, Castelfranci, Lapio, Montefredane, San Michele di Serino, il Greco è risultato molto equilibrato e dalle acidità perfette che mi fa pensare ad un’annata “tipica e varietale”, peccato per la grandine di fine luglio a Santa Paolina che ha un po ridimensionato le prospettive. L’Aglianico è in grande forma, ci aspettiamo grandi cose anche perchè per le zone più alte si arriverà presumibilmente sino a metà novembre per la raccolta; il Fiano risulta di grande spessore a Lapio, e anche nelle esposizioni più calde si avranno uve di buona spalla acida, a Montefredane si prevede una vendemmia nella media ma proprio qui si è registrata peronospora larvata diffusa, con le problematiche che ne conseguono. Infine a San Michele di Serino non ho dubbi sul fatto che si otterranno uve di grande qualità come base spumante”.

Massimo Di Renzo, enologo in Mastroberardino, senza dubbio tra le aziende di riferimento per tutta la regione; Ecco le indicazioni di Massimo: “Le mie riflessioni sulla vendemmia sono basate soprattutto su dati rilevati e costatazioni nelle province di Avellino e Benevento. L’inverno freddo e piovoso ha ritardato un po’ l’inizio della fase vegetativa, riportandola ai tempi classici delle suddette zone, sfatando gli anticipi a cui si è stati costretti negli anni precedenti. La primavera e l’estate sono state caratterizzate da precipitazioni superiori alle medie stagionali. In linea generale oltretutto non è stata un’estate molto calda e le escursioni termiche sono cominciate già forti nel mese di agosto, e ciò si traduce in un rallentamento nella progressione della maturazione, esaltando ricchezza aromatica e freschezza nelle uve. Siamo in ritardo sull’epoca di raccolta di circa 15 giorni, possiamo dunque confermare quanto accennato in precedenza e cioè che si ha un ritorno alle vendemmie tradizionali di ottobre avanzato e novembre, il che, ove possibile, esalterà fortemente il valore del territorio sulla qualità delle uve che arriveranno in cantina. Più degli altri anni la conduzione del vigneto è stata difficile ma prevedo ottimi risultati per chi ha lavorato bene in vigna, chi ha saputo guardare con lungimiranza ad una materia prima di qualità e non necessariamente di quantità. Detto questo però, con un mese circa ancora avanti, è naturale che saranno decisive le condizioni meteo dei prossimi giorni per definire il profilo definito dell’annata, pertanto incrociamo le dita e buona vendemmia a tutti!”
Grazie mille a Fortunato e Massimo, come sempre precisi e di facile lettura, a breve ci occuperemo anche dell’areale vesuviano (Lacryma Christi, ndr) e dei Campi Flegrei; Continuiamo, imperterriti, a scoprire e capire il vino e le sue origini, e così ci pare più facile, non trovate?
Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.
Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.
Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.
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1 settembre 2010

New York, Montebello Restaurant, 19 p.m.. La midtown della grande mela conserva sempre un fascino unico, a quest’ora è in uso vestirsi elegante per la lunga notte eppure rimane sempre un luogo da vivere easy, nella maniera più rilassata possibile. Quella porta sotto la cappottina rossa sulla 56esima strada è da anni crocevia di stars e uomini dell’alta finanza newyorkese in cerca dell’italian style in tavola, e anche stasera il piccolo bancone in marmo del bar è già assediato mentre i tavoli, allestiti con sobria eleganza, vanno man mano occupandosi. Luke è intento a spiegare a un cliente la differenza tra il pomodoro San Marzano da quello cinese, Margareth innesta per l’ennesima volta il verme del suo cavatappi nel collo di una bottilgia di Brunello di Montalcino Pian dell’Orino 2003; Non ne sa ancora molto di quel vino, ma il suo wine merchant le ha fatto assaggiare una paio di dita la settimana scorsa e lei se n’è subito innamorata, a tal punto che non perde occasione nel proporlo, con molto successo; “it’s one of the best organic wine ever tested”: il frutto, la sua franchezza, il gusto rotondo eppure ricco di sfumature di carattere, impareggiabile per bevibilità.
Londra, Apsleys del Lainsborough – St. Regis Hotel. A pochi metri da St. Jame’s park e dal maestoso Buckingham Palace sta per andare in scena l’ennesima rappresentazione culinaria d’autore di Massimiliano Blasone. Nemmeno il sofismo tutto anglosassone ha resistito alla grandeur del mitico Heinz Beck, che attraverso la sua longa manus in terra Elisabettiana è riuscito in un battibaleno a conquistare anche i palati più fini del Regno Unito coniugando all’immortale eleganza dei luoghi la profondità della sua cucina partorita e lungamente testata nel laboratorio tristellato de La Pergola in Roma. Scorre lentamente, scivola docilmente dal decanter in vetro e argento al prezioso calice di cristallo di boemia, il tavolo dei quattro abbottonati buisness men della city è già alla seconda bottiglia, e si è servito appena l’appetizer. Il Brunello di Caroline Pobitzer sembra non avere eguali per piacevolezza, nonostante l’annata 2003 sia stata delle più calde, il colore ha il timbro della tipicità con quel granato smagliante con appena accennate sfumature aranciate ed il gusto una freschezza da manuale. Il sommelier non perde un colpo, arriva appena in tempo sul servizo dell’agnello, ratatouille ed animelle e del filetto di manzo al vino con spinaci e funghi al balsamico…
Tokyo, quartiere di Marunouchi, da poco passate le 11 e mezza. “Se cerchi un ristorante italiano chic a Tokyo, il Luxor è il posto per te”. Sembra essere questo il leit motiv che ogni guida, cartacea ed on line, dedica allo storico ristorante di Mario Frittoli nel cuore del paese del sol levante. E’ appena iniziato il servizio di colazione ed il ristorante è già brulicante di uomini d’affari, in una delle sale private del locale va in scena una trattativa molto accesa, giocata pare, sul fil di lana. Sono in discussione parecchi soldi ed il menu a dispetto della celerità richiesta dagli ospiti propone un gran misto di gastronomia tipica italiana, alla maniera di casa. Dalle grandi vetrate si scorge in lontananza l’avvicinarsi di un temporale, a tavola invece sembra aver prevalso il buon senso; Sorrisi, pacche sulle spalle ed il nuovo gusto magico di questo bel Brunello di Montalcino hanno sancito l’accordo raggiunto; Tokyo avrà ancora il suo riferimento per il made in Italy, Januchi, il sommelier, una lauta mancia per aver saputo scegliere il vino più giusto: “la Toscana è una terra magnifica, capace di conquistare chiunque; Pensate, questo vino nasce da persone arrivate da molto lontano Montalcino, eppure ne rappresenta appieno l’anima, nobile, colta, naturale ed internazionale!
Nota bene: I luoghi ed i personaggi (non tutti) di questo racconto sono reali, vogliano questi ultimi, scusarmi invece per i fatti, che sono di mia pura fantasia; Non la bontà del Brunello di Montalcino Pian dell’Orino 2003 di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach, senza dubbi uno degli assaggi più buoni di questo 2010 dalla Toscana, una sorpresa di gran gusto, e da quello che ho potuto leggere qua e la, con una bella storia di persone e terroir alle spalle tutta da scoprire. Non perdetevelo, vi conquisterà!
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22 aprile 2010

Ho conosciuto Luciano Ciolfi attraverso il web, ci siamo spesso incrociati sulla piattaforma di Vinix ideata e sviluppata dal buon Filippo Ronco, già motore indomito di Tigullio Vino ed alcuni altri canali internet dedicati al mondo del vino. Spesso abbiamo condiviso opinioni, altrettanto ci siamo promessi un incontro, una bevuta, quattro chiacchiere. Nel frattempo sono capitato a Montalcino almeno un paio di volte ma ahimè mai un momento per ricordarmi della promessa fatta, pertanto, di passaggio allo scorso Vinitaly, non potevo mancare almeno una sosta in Toscana per salutarlo e finalmente parlarci a quattr’occhi!
Ci salutiamo con affetto, da vecchi amici nonostante non ci siamo mai visti prima, grandezza del web, decidiamo di berci su, calmi e tranquilli ci accomodiamo e lui con il savoir faire tutto suo, da gran comunicatore ci apre le porte di Podere Sanlorenzo. Assaggiamo i due Rossi di Montalcino che ha portato con se, il 2008 e poche bottiglie del 2007 in esaurimento. Poi il Brunello 2005, appena sul mercato e che non disdegna di rapire il nostro palato. Prendo appunti, lui racconta ed io ascolto, lui beve ed io pure, lui si espone ed io anche: cavolo Luciano quanto è buono questo Rosso duemilasette! Mi sorride, l’avessi ancora, mi dice…
L’annata 2007 è stata caratterizzata da un andamento stagionale anomalo. L’inverno è stato mite, la primavera calda e un luglio torrido hanno messo a rischio siccità la vite, mentre le piogge del mese di agosto e i giorni caldi di settembre hanno ristabilito l’equilibrio idrico delle piante e permesso un’invaiatura buona seppur la vite abbia avuto uno sviluppo diverso dagli altri anni con i primi germogli e la fioritura usciti prematuramente di almeno 20-25 giorni. La vendemmia si è svolta in linea con gli ultimi anni (1-2 ottobre) e l’uva una volta in cantina si è presentata con una percentuale zuccherina sopra la media mentre l’acidità si è mantenuta buona.
Il Rosso di Montalcino 2007 di Sanlorenzo è ottenuto dai vigneti piu giovani dell’azienda che si aprono come un anfiteatro sulla valle dell’Orcia e verso il mare. Il terreno qui è mediamente argilloso e ricco di pietre, e il particolare microclima degli oltre 400 metri di altitudine, rendono particolarmente delicato il gusto del Sangiovese Grosso coltivato in questi vigneti. Viene vinificato in vasche di acciaio a temperatura controllata e posto successivamente in legni di varie dimensioni per circa 12 mesi. Ha un colore rubino molto invitante, abbastanza trasparente; Il primo naso è particolarmente affascinante, immediato, intenso e complesso, coniuga freschezza fruttata a delicate note tostate, ciliegia in primo piano e corteccia sul finale. In bocca è secco, abbastanza caldo, la bevuta è vellutata ed equilibrata, particolarmente armonica, avvincente, assolutamente al di sopra della media Ilcinese, grande materia prima per un vino troppo spesso relegato a figliol povero del grande fratello famoso in tutto il mondo. Un Rosso di Montalcino, il 2007 di Luciano Ciolfi, da ricordare e da riproporre senza tempo, ad avercene ancora!
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Tag:luciano ciolfi, montalcino, podere sanlorenzo, rosso di montalcino, sangiovese, toscana
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25 gennaio 2010

Riflessione: chi ha paura dell’acidità? Ci hanno costretto negli ultimi vent’anni a bere di tutto pur di affrancare alla rotondità l’unico piacere di beva possibile. Ci hanno detto che il tannino è cosa dura e indigesta, che l’acidità è contro per antonomasia e che se volevamo potevamo pure comprarcelo un vino del genere, con quelle caratteristiche, però era meglio aspettare dieci anni prima di berlo. E se prima ci rimango? Beh, cavoli tuoi. Hanno cominciato (ricordo più, ricordo meno) “tagliandoci” il Chianti, poi, a valanga con la Marca Trevigiana, cabernettizzata a più non posso, così in Piemonte con vani tentativi senza mietere successi importanti, sino a che non si è scoperto il vaso di Pandora prima in Puglia e poi in Sicilia, oltraggiate sino all’impossibile prima di stenderci un velo pietoso, tutto nel buon nome della chardonnetizzazione e della merlotizzazione, parole incomprensibili, vini peggio, in nome di una omologazione passata più o meno inosservata prima dei sani pentimenti.
Omologazione o no, c’è stato e c’è chi ha saputo trarre da quell’onda anomala, partita a fine anni sessanta, grandi opportunità, e fondare su sani principi piccoli gioielli enologici. Querciabella sorge nel cuore del Chianti più classico, posta sulle pendici della collina di Ruffoli a Greve in Chianti, è il 1972 quando Pepito Castiglioni s’incammina, con alcuni altri pionieri verso quel rinnovamento tanto sentito a quel tempo in Toscana quanto fronte di continuo ed acceso confronto e dibattito protrattosi sino ai giorni nostri. L’azienda si può dire ad oggi praticamente convertita alla biodinamica, percorso avviato circa una decina di anni fa, non senza difficoltà, ma nulla togliendo alla bontà complessiva dei vini si può dire soddisfatta della buona capacità espressiva soprattutto quando si parla di Camartina e Palafreno. Dopo la scomparsa di Pepito, il testimone è passato al figlio Sebastiano Cossa Castiglioni che sta proseguendo imperterrito la strada solcata dal padre, i 60 ettari aziendali, a detta di molti wine writer rappresentano un vero e proprio giardino nel cuore del Chianti Classico e le circa 200.000 bottiglie che ne vengono fuori ogni anno, un buon esempio di come l’uomo riesce ad interpretare al meglio ciò che la natura gli consegna.
Beviamo il Camartina 2001 tra amici, ci sorprende la buona vivacità di colore nonostante i nove anni, rubino tendente al granata, concentrato, poco trasparente. Prodotto da uve sangiovese, cabernet sauvignon, merlot e syrah, al naso ci chiede un po’ di tempo prima di aprirsi completamente, non gliene concendiamo tanto, ma la pulizia olfattiva ci consegna dapprima frutti neri, poi note floreali passite e costantemente sensazioni balsamiche, eteree e salmastre, ben fuse e legate tra loro. In bocca il vino è asciutto, austero, più che tannino è l’acidità a tirare le corde di un gusto essenzialmente equilibrato seppur giocato costantemente sulla lieve percezione di acidità sempre in primo piano. L’abbiamo colto, a detta di tutti, in piena maturazione, forse all’apice della sua parabola espressiva, buono, piacevole, giustamente carico di frutto che ritorna più o meno vigoroso sul finale di bocca. Su Caciocavallo podolico e soppressata arianese per gentile concessione dell’amico Tonino Pisaniello.
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13 dicembre 2009
Chi ama impara a correre presto, ed io il vino l’ho imparato a rincorrere a lungo ed ovunque. Estate 2007, viaggio in Toscana con alcuni Amici di Bevute alla scoperta del sangiovese di Montalcino, poi del Chianti Classico, poi di Scansano, perchè camminare le vigne e sgranare gli occhi sono le cose che mi riescono meglio, per dirla, più o meno, con Luigi Veronelli.

Sarà pure un concetto, diciamo così, astratto, e se vogliamo pure banale, ma il vino – oibò – si fa in vigna. Fu quello un viaggio straordinario, per vigne e cantine, avremmo in quell’occasione bevuto un centinaio di vini, pochi tenuto conto dell’immenso patrimonio enologico del triangolo in questione, ma tanti se pensiamo ad una tre giorni di totale full immersion. Indimenticabile!
E Il Borgo non poteva certo mancare; nasce in un luogo da sogno, in località Cabreo di Zano, una posizione che domina la cittadina di Greve in Chianti, dove, in circa 46 ettari quasi in unico corpo, si coltivano il sangiovese ed il cabernet sauvignon che danno vita a questo bellissimo vino. Esce la prima volta nel 1985 con il millesimo 1982, “si fonda su una felice combinazione di uve sangiovese e cabernet sauvignon che insieme esaltano, da un lato, l’eleganza e la sapidità del sangiovese, dall’altro la rotondità e concentrazione del cabernet”, parole assolutamente non banali per descriverlo in maniera sintetica ed esaustiva.

Il duemilatre rispetto al duemilaquattro bevuto qualche tempo fa possiede una morbidezza ed un avvolgenza più espressiva, marcato forse da un’annata calda ma anche di una evoluzione più costante in un tempo comunque relativamente breve per un vino di questa portata. Il colore è rosso rubino vivace, limpido e di buona concentrazione, tanto da risultare assolutamente poco trasparente. Il primo naso è intenso e complesso, arrivano subito note mature, frutta a polpa rossa in confettura, note vegetali e speziate, visciole, frutti sotto spirito, foglia di pomodoro, pepe. Fini ed eleganti, sopraggiungono poi note di caffè tostato e cioccolato. In bocca è ricco, intenso, frutto ancora in grande spolvero, tannino presente, sostenuto da una decisa carica glicerica, un vino robusto, quasi materico durante tutta la sua beva che chiude con una piacevole sensazione dolcemente balsamica. Un rosso super, da bere dopo averlo lasciato lungamente respirare su piatti importanti, strutturati, cacciaggione con spezie ed aromi, arrosti ricchi e succulenti, formaggi parecchio stagionati, anche erborinati. Un vino nel mio cuore, un Supertuscan nel cuore del Chianti Classico.
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