Posts Tagged ‘nerello mascalese’

Messina, Faro 2015 Bonavita

12 dicembre 2018

I produttori di questa doc siciliana si contano perlopiù sulle dita di una mano, Giovanni Scarfone con i suoi 7 ettari di proprietà di cui due e mezzo vitati si è guadagnato negli ultimi 10 anni una posizione di primissimo livello con i suoi vini, annata dopo annata sempre precisi e pienamente espressivi del terroir messinese di provenienza.

L’areale del Faro doc si estende sulle colline e lungo le coste che si affacciano sullo Stretto di Messina, in un territorio ventilato, luminoso e particolarmente vocato per le varietà Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera prevalentemente utilizzate negli assemblaggi, alle quali eventualmente si possono aggiungere Nero d’Avola (Calabrese), Gaglioppo e Sangiovese, da soli o congiuntamente. I vini qui prodotti richiamano alla mente quelli del vicino comprensorio dell’Etna, sono forse talvolta meno profondi e complessi di questi ma hanno eleganza da vendere.

Il Faro di Bonavita viene fuori da una vigna ad alberello con alcuni ceppi che arrivano a 60 anni, piantata su suoli ricchi di argilla e tufi calcarei. Il vino matura generalmente per un anno e mezzo in tini troncoconici di rovere da 30 hl, poi una volta in bottiglia vi rimane almeno sei mesi prima di arrivare sul mercato.

Questo duemilaquindici è una gran bella versione, è stato davvero avvincente l’approccio al bicchiere poiché ci siamo ritrovati praticamente lanciati in una degustazione alla cieca e l’abbiamo colto quasi al primo colpo, così affascinante il colore, così franco e caratterizzato da toni scuri il naso, con sentori di prugna e nuances aromatiche di macchia mediterranea. E l’annata calda sembra non aver interferito in alcun modo con il taglio gustativo: il sorso è sottile e invitante, slanciato ed elegante, con un finale di bocca davvero saporito e appagante. Non una sorpresa, di grande soddisfazione!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Questione di etichetta

20 aprile 2014

Un caro amico enologo in viaggio studio in Portogallo scrive sulla sua bacheca Facebook di sentirsi sorpreso (ed orgoglioso) che una delle etichette più prestigiose di Graham’s Port si chiami ‘Quinta do Vesuvio¤‘, con un chiaro riferimento al ‘nostro’ vulcano napoletano.

Etna Rosso Planeta

Da qualche tempo prego insistentemente molti amici produttori di vino di crescere da un punto di vista della comunicazione e di sganciarsi definitivamente dall’idea che duemila anni di storia bastino da soli per continuare a vendere vino. Il mercato è in continua evoluzione, una metamorfosi costante ed imprevedibile, non ultimo, in piena crisi di consumi e fatturati. Per un certo segmento più che in altri.Etna rosso I Vigneri

Alcune aziende, un po’ ovunque in Italia, forti della loro struttura per far fronte a questi cambiamenti hanno fatto investimenti importanti per diversificare la propria offerta; un esempio lampante può essere per tutti il fenomeno nero d’Avola in Sicilia, di molto ridimensionatosi in poco meno di un decennio a favore di una crescita esponenziale dei vini dell’Etna. Qui, dacché erano in tre/quattro a fare vino sono arrivati un po’ tutti¤ e non solo dalla stessa Sicilia.

Contrade dell'Etna

Stiamo parlando chiaramente di grandi vini, tra l’altro a prezzi sostanzialmente di segmento medio alto, vini di cui rimango ogni volta conquistato. Così, senza entrare nel merito della questione qualitativa, ritornando allo stato del mio amico, mi sono tornate in mente quante riflessioni proprio con lui abbiamo speso sulla necessità che un territorio – più che un vino – debba saper emergere grazie al lavoro di valorizzazione di tutta una serie di aziende e non per la singola capacità individuale nel riuscire ad imporre una etichetta o un modello.

Inutile ricordare che è stato così a Barolo e Barbaresco, a Montalcino, in parte anche a Bolgheri, per non parlare – ancora una volta – di quanto fatto oltralpe dai cugini francesi.

Lacryma Christi Vigna del Vulcano Villa Dora

Venendo al dunque, non mi stupisce affatto che Donna Antónia Adelaide Ferreira sia rimasta folgorata dal nostro Vesuvio tanto da dedicargli una delle sue più prestigiose tenute, come non mi fa specie che in poco meno di un decennnio i vini dell’Etna vanno affermandosi come ‘Vini del Vulcano’ grazie anche ad una grande intelligenza comunicativa messa in campo.

E invece quelli universalmente riconosciuti dalla storia come tali, quelli del ‘nostro’ Vesuvio per intenderci, faticano ad imporsi nonostante una capacità produttiva soddisfacente ed una domanda mai sopita tant’è che vede impegnati, seppur a fasi alterne, anche i grandi marchi di casa nostra che girano milioni di bottiglie in tutto il mondo.

Lacryma Christi del Vesuvio rosso Mastroberardino

In breve, mentre qui ci si perde tra chi fa prima e chi è meglio temo stiamo rischiando veramente di non essere nemmeno più riconosciuti per quel tratto d’orizzonte che affascina da sempre milioni di appassionati in tutto il mondo. Di questo prima o poi dovremmo cominciare a discuterne. Anche perché se aspettiamo che a renderne conto siano le istituzioni hai voglia di aspettare…

© L’Arcante – riproduzione riservata

Pro e Contro

21 giugno 2011

Il rosso e il nero, il sole e la luna, l’alba e il tramonto. Chi per l’uno, chi per l’altro. Così il vino, di spessore o sottile. Spesso, diciamocelo, certe scelte sono dettate esclusivamente da pura vanità intellettuale, altre volte, giustamente, da un gusto personale imprescindibile, altre ancora, comprensibilissimo, la predilezione del momento.

Quindi un’imbarcata dinanzi ad un vino florido, ricco, abbondante, copioso, robusto, ci può stare. Perché un vino splendido rimane tale, sempre. Un rosso dal naso fittissimo, copioso, etereo, cioccolatoso; palato pieno, sano, sfarzoso, sontuoso ma al tempo stesso regale, significativo, tangibile, brillante, polposo, vigoroso, procace, fitto, più orizzontale che verticale, di gran soddisfazione comunque; solo corvina e rondinella per l’Amarone della Valpolicella 2007 Le Vigne di S. Pietro.

Per contro, la sottile, acuta, filiforme veste di questo splendido altro bicchiere. Primo naso fine, flessuoso, dapprima leggero, lieve, longilineo, poi quasi rarefatto, sagace e profondo, echeggiante passaggi aridi di gariga e note di macchia mediterranea e terra nera. No, affatto una beva difficile, asciutta sì, penetrante, fitta, stretta a note austere e minerali ma minuziose, pure, sofisticate: un vino, concedetemelo, micrometrico. Si parla di nerello mascalese e dell’ Etna rosso Archineri 2009 di Pietradolce.

A rischio di passare per qualunquista, oggi mi sento tanto pro quanto contro.

Diario di una Bevuta, Faro 2005 di Palari

13 novembre 2009

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Non è certamente così facile dire “I love Sicilians” così come presentano spesso gli americani l’alto gradimento dei rossi siculi negli Stati Uniti, ed il dubbio diviene sempre più certezza quando si va alla ricerca di quella materia autoctona siciliana  che esula dal Nero d’Avola “cabernetizzato” e capace di spiazzare profondamente; “cabernetizzare” ma talvolta anche “merlotizzare”, parole eccentriche lo so ma che rendono bene l’idea del fenomeno che tanto ha impazzato nell’ultimo ventennio sino ad ammorbidire e deacidificare (manco si trattasse di olio) ogni vino “tipicamente” italiano ed appiattire ogni qualsivoglia proposta di winebar, che soprattutto dalle nostre parti non hanno mai reso bene l’idea del nome che portano in dote, sostituendosi man mano grazie ad un’alchimia tutta da decifrare ai Pub, con la sola differenza che di fianco al panino con i crauti anziché una deliziosa Lager tedesca offrono l’imbarazzo della scelta tra gli italianissimi Fragolino, Raboso e per l’appunto Nero d’Avola cabernetizzato. Minchia verrebbe da dire!

Il fenomeno si è di molto ridotto, è vero, e meno male mi verrebbe da dire, ma è importante rilanciare l’idea di una terra, la Sicilia che è ricca di un’anima ancora inespressa, di un’anima non ambìta dai grandi imprenditori venuti dal nord a piantare centinaia e centinaia di ettari a Merlot, Syrah e Cabernet, per’altro stupidamente seguiti da molti produttori locali che hanno continuato a spiantare vitigni autoctoni per fare posto alla globalizzazione, a quell’internazionalizzazione che ben presto li ha lasciati avvinghiati in un mercato in crisi ed in una profonda crisi d’identità. Faro ha un valore aggiunto solo per questo, fuori dagli schemi voluti da chi la terra non l’ama ma la sfrutta e basta.

Faro è una delle denominazioni siciliane più piccole, estesa su di un’area molto evocativa che guarda proprio al continente di là dello stretto di Messina, qui Salvatore Geraci con l’aiuto dell’enologo Donato Lanati ha tirato su questo piccolo gioiello agricolo, votato al recupero ed alla valorizzazione di vitigni siciliani come il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio, il Nocera ed alcuni altri dai nomi quantomeno stravaganti: core ‘e palumba, acitana, galatena, tutti rientranti nel disciplinare di produzione locale. In questa dimensione nascono due vini, Il Faro doc e l’igt Rosso del Soprano, quest’ultimo volutamente fuori dalla denominazione per consentire la produzione di un vino doc assolutamente espressivo del territorio, pertanto consentendo di concentrare sul primo le migliori selezioni di vigna e le migliori attenzioni possibili pur garantendo col secondo, un vino di qualità ( in alcune annate superbo) ma soprattutto di maggiore fruibilità commerciale.

Ha un colore molto affascinante, rosso rubino con tendenza al granato ed una piacevole trasparenza, si pone di media consistenza nel bicchiere. Il primo naso è assai intenso su note terziarie, balsamiche, si percepisce incenso, grafite. Lasciandolo aprire per bene vengono poi fuori note di frutta in confettura, di cacao, di caffè tostato chiudendo su di una decisa voluttà minerale. Mi piace l’idea di avere dinanzi a me un vino fine, estremamente elegante, profondo; Al gusto è secco, abbastanza morbido, i 18 mesi di legno nuovo sono perfettamente integrati in un sapore gustoso ed avvolgente, avvincente, vibrante e senza sbavatura alcuna, sorretto da una acidità ben legata. Ecco come si possa internazionalizzare un autoctono siciliano, sdoganare senza stravolgere un vino che bevuto alla cieca non può non portare in terre borgognone, eppure siamo a sud, nel profondo sud di una terra meravigliosa e straordinaria qual è la Sicilia. Chapeau!

© L’Arcante – riproduzione riservata


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