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Miniere

26 settembre 2020

Verso metà dell’800 accadeva sempre più di sovente che a Tufo, di tanto in tanto alcuni pastorelli rinvenivano pietre che al fuoco bruciavano sviluppando un forte odore acre di anidride solforosa, erano perlopiù sassi giallo-grigiastro composti di zolfo, gesso e argilla.

Quasi nessuno però diede particolare rilevanza a questi ritrovamenti sino a quando Francesco Di Marzo, Signore e proprietario di larga parte di questi luoghi, prese a incoraggiare i pastorelli a ricercare con maggior lena quelle pietre e dargli la posizione esatta dei luoghi di rinvenimento. Di Marzo era un uomo spiccio, parecchio deciso, non ci mise molto ad intuire che là da qualche parte vi fossero delle miniere che aspettavano solo di essere scoperte. Correva l’anno 1866!

Come spesso accade però, questo pezzo di storia trova una contrapposizione abbastanza netta con quanto tramandato invece dalla famiglia di Federico Capone di Altavilla, che sostiene sia stato lui lo scopritore delle miniere di zolfo; c’è da dire infatti che da queste parti, le imprese minerarie furono sin dall’inizio due, con due distinte proprietà e due fabbriche: quella della famiglia Di Marzo e la Società Anonima Industrie Minerarie (SAIM¤) che, del resto, delle due è l’unica sopravvissuta al tempo e ancora in parte funzionante nel comune di Altavilla Irpina.

Non c’è dubbio alcuno però che a Tufo furono certamente i Di Marzo che promossero nel tempo tante iniziative sociali che ritornava in qualche modo benessere all’areale, gli annali raccontano del primo cinematografo, dell’asilo e della scuola per i bambini, l’istituzione della società operaia, cui s’affiancarono negli anni una nuova coscienza dei diritti e dei doveri, del senso civico e man mano uno sviluppo culturale e sociale della comunità che intravedeva finalmente prospettive concrete di emancipazione.

E’ un’atmosfera decisamente lontana negli anni ma che sembra continuamente riecheggiare nell’aria mentre ci cammini le vigne qui sopra le vecchie miniere di zolfo a Tufo dove, tra gli altri, ci lavorava anche il nonno di Angelo Muto, con la nonna, invece, che aveva come compito quello di trasportare i candelotti di esplosivo utilizzati negli scavi della maniera. Lavori umilissimi, duri, pericolosi ma per tanti anni considerati manna dal cielo per queste terre in cerca di rinascita e affrancamento, lavori che hanno dato da vivere a centinaia di famiglie e l’opportunità di creare reddito e prospettive di riscatto sociale. 

Nel solco di una storia famigliare così radicata proprio qui, nel 1995 Angelo decide di acquistare proprio dai Di Marzo questi 8 ettari che si estendono tra la vecchia polveriera e l’ingresso della miniera, esattamente là dove i suoi nonni ci hanno passato una vita intera.

Di questi, poco più di 3 ettari sono vitati e votati interamente al Greco di Tufo, da qui proviene, per l’appunto, il Miniere, un bianco di straordinaria capacità evocativa, dal sapore ancestrale ma assolutamente capace di rappresentare pienamente la consistenza di questi luoghi e lo spessore dei suoi valori, un vino autentico, ossuto, pregno di consistenze ma privo di sovrastrutture, inutili ideologie, sostanza di una viticoltura semplice, attenta alla natura, sostenibile e conservativa, come il buon lavoro fatto in cantina da Luigi Sarno, al fianco di Muto sin dai suoi primi passi.

E’ una piccola enclave Miniere, dentro un territorio nemmeno tanto ampio ma che conta ben 670 ettari di vigne iscritte all’albo della Docg, riconosciuta con Decreto Ministeriale nel Luglio del 2003, con una produzione annuale di poco più di 4.000.000 di bottiglie e 8 comuni ammessi: Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Petruro Irpino, Prata di Principato Ultra, Santa Paolina, Torrioni e, per l’appunto Tufo; ovunque qui le coltivazioni sono poste ad altitudini che vanno dai 300 ai 700 metri s.l.m., in molti punti – come qui nelle terre di Cantine dell’Angelo -, lungo pendii particolarmente ripidi, in mezzo a boschi, su terreni fortemente caratterizzati da argilla e calcare, con stratificazioni vulcaniche, sabbie, gesso e minerali (zolfo) visibili già in superficie, in alcuni punti più chiaramente che in altri.

L’Aminea Gemina, di cui si parla già nelle Georgiche¤ di Virgilio, è una varietà arrivata qui dalla Tessaglia, per merito dell’antico popolo dei Pelasgi¤, così chiamata per la caratteristica forma del grappolo che presenta una spiccata gemmazione laterale, a renderlo quasi doppio, gemello, appunto. L’uva da generalmente un vino dalla tipicità ineguagliabile, con profumi che ricordano la pesca, l’albicocca, il caprifoglio, la mandorla amara, citronella, pompelmo, iris, zenzero e cannella quando più maturo. E’ dotato di spiccata acidità nonché di sostanze fenoliche che la buccia rilascia in abbondanza naturalmente durante la pigiatura. Per questa ragione il Greco viene anche definito un ‘’vino rosso mascherato da bianco’’.

**** Greco di Tufo Miniere 2018. E’ stato un millesimo abbastanza complesso, con una primavera fresca e piovosa e una lunga estate inizialmente tiepida e poi calda e siccitosa con qualche fibrillazione in fase di vendemmia. Tutto però sembra ritornare perfettamente nel bicchiere, con un vino dal profilo slanciato, agile eppure teso e vibrante, con il suo caratteristico timbro particolarmente minerale. Il colore è uno splendido paglia oro appena dorato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco, insolitamente complesso già ora, riconoscibilissimo, con quella sua matrice di zolfo che lascia poi spazio a fiori e frutta a polpa gialla matura. Il sorso è tanta roba, ha struttura, equilibrio e morbidezza con un finale di bocca piacevolissimo e sapido.

In diversi areali campani l’annata duemilasedici si è rivelata altalenante e sembrava non promettere benissimo a causa di gelate primaverili che in molti casi hanno segnato a fine ciclo una sensibile riduzione di produzione. L’estate, però, è stata di quelle classiche, capace di mantenere il ritmo del ciclo vegetativo costante nonostante un autunno abbastanza umido. Ne sono venuti fuori vini di buon equilibrio, con struttura, acidità e, per i rossi, tannini di grande armonia, senza far mancare punte di eccellenza in certi areali più che in altri. Vini di buona struttura insomma ma che non mancano di freschezza e nerbo, sia nei rossi che nei bianchi con ottime prospettive di longevità.

**** Greco di Tufo Miniere 2016. Miniere duemilasedici è giallo paglierino tendente al dorato. Ha un naso ricco e riconoscibile, ben oltre le note sulfuree e salmastre che certo sorprendono ma poi lasciano il campo a sentori di caprifoglio, citronella, albicocca, mandorla amara. Il sorso ci pare più equilibrato e morbido del precedente, probabilmente meno profondo ma non certo meno distintivo, rinnovando quel finale di bocca in cui ritorna perentoria la piacevolissima e personalissima trama sapida che lo caratterizza appieno.

**** Greco di Tufo Miniere 2014. La duemilaquattordici è stata un’annata particolarmente austera, scarsa da un punto di vista produttivo in diverse aree della Campania ma in grado di rivelare anno dopo anno tante belle bottiglie capaci di sorprendere e affascinare. E’ giallo oro quel che ci arriva nel bicchiere, qui l’anima sulfurea e minerale è rimarchevole e caratterizzante, in secondo piano tante piccole sfumature, di fiori e frutta passita e candita, ci trovi uvetta, scorze di arancia amara, zenzero, poi frutta secca accompagnate da un sorso di carattere, anche sgraziato, dritto e indirizzato a un finale di bocca sapido, in un quadro gustativo che regala una bevuta dal piacere assolutamente edenico.

Leggi anche Torrefavale, quell’ettaro di follia pura Qui.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre

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C’è il racconto di un pezzo di territorio del Greco di Tufo dentro il Cutizzi di Feudi di San Gregorio

1 settembre 2020
Proprio sul confine tra i comuni di Tufo e Santa Paolina insiste una particolare conformazione territoriale di superficie, fragile e di difficile gestione e conservazione, che periodicamente mette a dura prova i vignaioli e le aziende che ostinatamente, provano a preservarne lo spettacolo della natura che qui alterna valli e costoni impervi coltivati a Greco a scenari boschivi aspri e selvaggi, disegnando paesaggi unici e tratteggiando vini tra i più complessi e caratteristici di tutto l’areale.

Lungo questa frattura di superficie si coglie in tutta evidenza la particolare differenza dei terreni che da queste parti, dove le rocce affioranti risultano intensamente frantumate e la terra assume varie connotazioni e colori bruni, divenendo molto suggestiva per via della diversa natura organica, delle varie esposizioni e della luce del sole che l’attraversa durante il giorno. Una terra faticosa da lavorare, con al centro la vigna e tutto intorno una rara e preziosa biodiversità vegetale da tutelare.

Ne viene fuori una particolare energia che si coglie appieno nell’aria: non appena ci arrivi qui a Cutizzi, appena scollinati, ti accoglie un avvenente e caratteristico profumo di erbe e fiori, di piante e cortecce aromatiche, una mescolanza di essenze con freschi profumi di rosmarino e timo che si colgono chiarissimi nell’aria, è qualcosa di straordinario, da provare per credere, vieppiù quando questi stessi sentori te li ritrovi poi ben precisi e amplificati nei vini qui prodotti.

Sono questi terreni eterogenei, perlopiù calcarei e argillosi, ricchi di limo, in alcuni punti di materiale piroclastico, in altri di materia organica, in altri ancora di gesso, ad ogni modo ”acidi” e abbondanti di sostanze minerali, circondati da boschi, con vigne ben ventilate ed esposte, dove un microclima con importanti escursioni termiche garantisce pieno equilibrio alla maturità delle uve sino al raccolto. Da qui proviene questo Cru di Greco di Tufo di Feudi di San Gregorio, un bianco capace in certe annate di slanci notevoli senza mai perdere la forte caratterizzazione originale.

Il Greco è storicamente conosciuto come l’Aminea Gemina di cui parlavano già i Georgici Latini, una varietà importata dalla Tessaglia dall’antico popolo dei Pelasgi, varietà così chiamata per la caratteristica forma del grappolo che presenta una spiccata gemmazione laterale, a renderlo quasi doppio, gemello, appunto. Il vino Greco di Tufo ha ottenuto il massimo riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata e Garantita con Decreto Ministeriale il 18/07/2003.

Le proprietà in questi luoghi sono estremamente frazionate, sono pertanto abbastanza pochi gli esempi di vinificazione in purezza di singole sottozone o, come in questo caso, addirittura di un singolo vigneto. La maggior parte delle aziende imbottigliatrici, infatti, è costretta di sovente a lavorare piccole partite, producendo il più delle volte vini che sono il risultato di un assemblaggio di più vigne e di aree diverse tra loro, talvolta provenienti da più comuni del circondario, elemento questo che avvalora ancor di più la scelta di chi punta dritto sul vino da singola vigna.

**** Greco di Tufo Cutizzi 2019. E’ senz’altro tra i primi ”Single Vineyard” prodotti in zona Greco di Tufo docg, Feudi di San Gregorio è qui da oltre trent’anni, in pochi lo sanno ma gestisce una buona parte dei 670 ettari dell’intera denominazione di origine controllata e garantita, in larga parte di proprietà o comunque in conduzione esclusiva pluriennale. Il colore di questo duemiladiciannove è paglierino ben luminoso, con appena accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere, al naso esprime tutta la tipicità di cui si raccontava, con un profilo olfattivo ben definito, erbaceo, floreale e fruttato che spazia dalle erbe aromatiche (rosmarino e timo, appunto) al salice, dalla prugna alla pera, con sentori via via impreziositi da toni balsamici che ne amplificano verticalità e fragranza. Il sorso è secco, certamente fresco e sapido.

**** Greco di Tufo Cutizzi 2018. Il colore paglia ne anticipa il gran carattere, al naso ha già maggiore ampiezza rispetto alla verticalità del millesimo precedente, i profumi che vengono fuori sono anzitutto fiori d’acacia, frutta a polpa gialla, c’è susina e pera kaiser, con una delicata sensazione salmastra appena accennata. Colpisce la ricca struttura, piena rappresentazione di un bianco pregno di stoffa, di frutto e buona acidità, che conserva quindi un sorso agile e di buon equilibrio, in perfetto stato di grazia in questo momento, con una decisa persistenza gustativa e un finale di bocca decisamente appagante.

C’è il racconto di un bel pezzo di territorio del Greco di Tufo dentro il Cutizzi di Feudi di San Gregorio, un racconto che proveremo nelle prossime settimane ad ampliare e rendere più esaustivo, crediamo però che nessuna narrazione di questo areale può essere pienamente rappresentativa senza camminare e raccontare anche questo pezzo di terra di confine, sott’ Cutizz’, come dicono da queste parti.

***** Eccellente **** Ottimo  *** Buono ** Suffic. * Mediocre

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Aspettando il ‘G’… Greco di Tufo 2011 Pietracupa

7 Maggio 2013

Come spesso accade ai degustatori seriali anche agli appassionati più attenti piace fare ricorso a riferimenti trasversali quando un vino colpisce l’immaginario, in particolar modo quando questi smuove il caos della memoria e ripropone prepotentemente vecchie esperienze piacevoli da ricordare.

Greco di Tufo 2011 Pietracupa - foto A. Di Costanzo

I vini di Sabino Loffredo, i bianchi in particolar modo, sono sempre più un porto sicuro dove rifuggire da tentennamenti. Poco tempo fa ricordavo quanto si sia alzata l’asticella qualitativa della proposta bianchista regionale grazie anche a vini come il suo splendido Cupo¤, che nella versione duemiladieci regala sorsi maledettamente avvincenti e appaganti. Non è da meno il greco 2011: luminoso, cangiante quasi, offre un ventaglio delizioso fitto di richiami agrumati unitamente a ritorni minerali chiarissimi, nonché un sorso sgraziato, di sostanza e di rassicurante freschezza.

Come è noto abbiamo in parte superato quella vecchia consuetudine di metter fuori al più presto i vini d’annata, guadagnandoci di apprezzare un greco di Tufo piuttosto che un fiano di Avellino più armonici e ‘pronti da bere’ quando ci arrivano nel bicchiere. Così pensati questi vini hanno saputo farsi strada emergendo di slancio grazie soprattutto alla forte personalità, a dispetto di quel mare magnum di chardonnay e pinot grigio che avevano monopolizzato l’offerta dei ristoranti italiani tra gli anni ’70 e tutti i ’90. Le cose per fortuna sono cambiate da un po’ di tempo, di strada ce n’è ancora tanta da fare ma una nuova visione della faccenda fa sicuramente ben sperare soprattutto grazie anche alla crescente attenzione che i consumatori stessi ci mettono nello scegliere un vino dalla carta di un locale.

Così, a poco meno di un anno mezzo dalla vendemmia, di cui buona parte spesi in bottiglia, riusciamo a godere a pieno del lavoro maniacale fatto nei tre ettari e mezzo tra Santa Paolina e Prata Principato Ultra e dell’impegno magistrale profuso in cantina riconducibili ad una precisa ed originale interpretazione, che fa della sua verve minerale una forza della natura impressionante e, contemporaneamente, del tempo che verrà solo una proiezione senza alcun timore reverenziale. In attesa del ritorno dell’indimenticato ‘G’ in versione 2010, di cui si dice in giro già un gran bene, questo greco vale più di una consolazione!

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2009 Quintodecimo!

20 Maggio 2012

Credo avesse dalla sua una possibilità forse unica, concessa solo a pochi eletti, anche se non sempre di immediata comprensione. Poteva, con Laura, decidere di produrre a Mirabella Eclano questo e tutti gli altri vini senza una specifica denominazione territoriale, quel riferimento tanto ricercato da molti, evocativo, talvolta necessario secondo alcuni come fosse dovuto, eppure quante volte l’abbiamo visto depredato per soli fini commerciali.

Ha sbagliato quindi Luigi Moio¤? E chissà che non ci stia ripensando…*

Da un lato ci sono terre e vigne straordinariamente suggestive, e varietali che la dicono lunga. Dall’altro, la mano e il tempo, che consegnano ai bicchieri ogni anno vini finissimi; poi ci sono gli addetti ai lavori, molti non hanno perso tempo nel coglierli, interpretarli, descriverli ognuno a loro piacere. Pro o contro non fa alcuna differenza, certuni han voluto addirittura aggiungere qualcosa, una sfida personale al professore, talvolta nel bene, altre nel male. Però tutti si sono comunque guadagnati il loro quarto d’ora di notorietà (cit.), grazie ai vini di Luigi e Laura.

Eppure qualcosa non mi torna: “fare vini senza avere lacci”, si dice. “La denominazione ci sta spesso stretta”, c’è chi ribadisce. E invece… ma com’è, non dovrebbe essere così anche a Quintodecimo¤? Sappiamo o no tutti di quella precisa timbrica personale, addirittura firmata in calce? Eppure, bicchiere alla mano, bevi sto vino e pensi subito a quelle meravigliose vigne a Santa Paolina baciate dal sole. Massì, è semplicemente un paradosso, uno dei tanti, come spiegarlo altrimenti. Un territorio, un microcosmo, fuori dal mondo!

E se invece oltre il greco di Tufo che conosciamo conoscevamo c’è dell’altro? Il fatto è che con le prime bottiglie del 2006 c’era da scegliere e anziché giocare d’azzardo si preferì lasciarsi individuare, scegliere tra i tanti fiano di Avellino, greco di Tufo, aglianico e Taurasi invece di rimanere più semplicemente unici artefici di un bianco Exultet o Giallo d’Arles piuttosto che un rosso Terra d’Eclano o Vigna Quintodecimo¤: il territorio, abbracciare l’idea dell’insieme, della valorizzazione di un areale, delle denominazioni piuttosto che se stessi, solo se stessi. Quanto è valsa questa scelta?

Per quanto mi riguarda tanto, il sistema ha sempre bisogno di nuovi interpreti capaci di aggiungere qualcosa di nuovo o innovativo, ma anche semplicemente di diverso. E frattanto io non ricordo un greco di Tufo così profondo e pienamente espressivo come questo, che salta al naso e ti riempie la bocca dal primo all’ultimo sorso. Ha una maturità impressionate, stilisticamente inequivocabile eppure di forte, fortissima personalità e persistenza varietale. Una visione territoriale dunque, ma a suo modo unica.

Quello di Van Gogh – dice un recente studio europeo su alcune sue opere – sta progressivamente perdendo brillantezza, si sta spegnendo. Questo invece è un Giallo d’Arles luminoso e cristallino. Il naso, sin da subito comincia a tirare fuori una miriade di sfumature sottili e insistenti, di fiori e frutta gialli ma anche note speziate piacevoli. Ginestra e glicine, poi prugna, pesca ed albicocca mature, cedro, ma anche un soffio di camomilla e zenzero candito. Il sorso è asciutto e avvolgente, largo, fresco e minerale, lungo e persistente, di infinita piacevolezza.

Giuro che vorrei averne ancora, ahimè però non si riesce per davvero a metterne via una che dico una. Anche questo è un paradosso tutto da disvelare: non è certamente a buon mercato, come del resto tutti i vini dell’azienda; dicono addirittura che siano cari, eppure, credetemi, non si riesce a stargli dietro tanto se ne vendono.

*Ci pensavo con in mano le nuove etichette 2010, con la scritta dei nomi dei vini ancora più grande e quella delle denominazioni ancora più piccola.

Santa Paolina, Greco di Tufo Picoli ’09 Bambinuto

5 gennaio 2011

Continuiamo il nostro viaggio tra i “vini bianchi macerati” occupandoci oggi di una piccola azienda irpina, la Cantina Bambinuto di Santa Paolina. Gran vino il greco di Tufo, forse il più conosciuto tra i bianchi prodotti in Campania, senza dubbio tra i primi ad essere apprezzati in tutto il mondo ed annoverati tra “i più” dell’odierna produzione italiana. Vino a denominazione di origine controllata e garantita – nel sud Italia assieme solo a un altro campione di bontà regionale, il fiano di Avellino –  il greco di Tufo è prodotto esclusivamente con uve provenienti da vigneti situati in una delimitata zona dell’Irpinia, comprendente i comuni di Tufo (da cui prende il nome la d.o.c.g.), Santa Paolina, Montefusco, Petruro Irpino, Chianche, Torrioni, Altavilla Irpina e Prata di Principato Ultra.

Il vitigno, corrispondente alla cosiddetta aminea gemina cui faceva riferimento lo storico Columella, è originario della Tessaglia, da dove fu importato in Campania dai pelasgi che ne diffusero la coltivazione prima nella provincia di Napoli, in particolar modo sulle pendici del Vesuvio, e successivamente in alcune zone proprio della provincia di Avellino, in particolare nel circondario di Tufo, dove il terreno ricco di zolfo ed altri minerali risultò particolarmente vocato alla sua propagazione. Invero, il vitigno non è certo tra i più docili, anzi, le peculiarità del grappolo, piuttosto compatto, e degli acini, con buccia decisamente sottile, ne fanno una varietà, da un punto di vista strettamente colturale, addirittura cagionevole e che richiede una particolare attenzione e cura soprattutto in fase di maturazione. In compenso però, cosa certamente più gradita oggi nei vini che in passato, offre sempre valori decisamente elevati di acidità e sostanze fenoliche, che lo rendono, per esempio a riguardo di uve provenienti dalle zone più vocate, particolarmente adatto a variazioni sul tema alquanto suggestive come possono essere, tra le tante, vino base ideale per spumanti a metodo classico oppure, come nel caso proprio di questo vino, delle versioni piuttosto originali macerate sulle bucce.

Bambinuto nasce solo nel 2006, ma per quanto poche le vendemmie alle spalle per delinearne un quadro risolutivo, la volontà della famiglia Aufiero di fare bene c’è tutta ed i primi riscontri, sia di critica che di pubblico, sin dagli esordi, hanno avvalorato la tesi che un nuovo piccolo gioiello della viticultura irpina andava ritagliandosi il suo spazio, e per quanto minimo, di assoluta considerazione. Oggi, all’ottima proposta di greco offerti – due fermi, quello base ed una selezione (il Picoli appunto, ndr) più uno spumante metodo classico ed un passito di prossima uscita – si sono affiancate poche bottiglie di fiano di Avellino ed aglianico di Taurasi per completare una gamma di prodotti decisamente convincenti – a breve vi racconterò infatti dell’ottimo aglianico Matèrtera – a buon mercato e comunque limitate ad una quantità non superiore alle 30.000 bottiglie.

Il greco di Tufo Picoli 2009 viene prodotto dalle vigne piantate nell’omonima frazione di Santa Paolina da dove viene raccolto generalmente a fine ottobre. Nel 2009 la resa in uva è stata di circa 80 q/h, con una resa in vino intorno al 70%. Tutto nella norma, insomma, se non fosse per la gradazione alcolica che supera il 14,50 % in volume, comunque sostenuto, a oltre due anni dalla vendemmia, da una decisa acidità. Ha un colore oro carico, segnale di concentrazione oltre che di maturità acquisita, del tutto cristallino. Il primo naso è particolare, fruttato di confettura di albicocca e buccia d’arancia candita ma ricco di sfumature empiriche. Infatti, lasciata volare via l’insistenza bucciosa del frutto ed una prima nota volatile, vengono fuori sentori marcatamente minerali che si rifanno a polvere pirica e nuances quasi idrocarburiche. Non che sia un vino vecchio, precisiamo, ma il timbro, anzitutto olfattivo, è volutamente mantenuto come pensato dalla produttrice Marilena Aufiero, con la consulenza del bravo Antonio Pesce, su di uno stampo del tutto fuori dagli schemi per l’areale, puntando sulla maturità del frutto, la sua piena espressione, anziché sulla magra freschezza e bevibilità scelta da alcuni altri. Non a caso infatti, durante le fasi di vinificazioni, una volta eliminata la grossolana feccia di mosto, il vino rimane su quelle fini sino a fine marzo dell’anno successivo la vendemmia, praticamente 5 mesi, più o meno. Un vino particolare dunque, di pronta beva (non a caso esce infatti dalla cantina quasi un anno dopo il millesimo) e da spendere su piatti importanti; Da annoverare assolutamente tra le vostre prossime esperienze degustative da segnare in agenda.


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