Posts Tagged ‘mirabella eclano’

E’ già una pietra miliare il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2010

10 ottobre 2021

Taurasi, red passion! Proviamo a guardare a questo straordinario vino campano con gli stessi occhi di chi si approccia ai grandi vini italiani, riferendoci cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla menzione legislativa della denominazione, bensì alla sua tipicità proveniente da territori e microclima specifici, se non addirittura da una singola vigna.

Sono queste per noi bottiglie emozionanti, rappresentative, se vogliamo didattiche, perché in fondo una bottiglia di Taurasi muove tante sensazioni a un degustatore ma continua ad avere maledettamente bisogno, oggi più che mai, di veri e propri ambasciatori capaci di appassionarsi, che abbiano sete di conoscenza e siano propensi alla sua giusta valorizzazione, ben oltre le aziende, capaci certo di svolgere un grande lavoro nella salvaguardia di un territorio, di qualità nella produzione, ma c’è necessità soprattutto di validi professionisti capaci di coglierne appieno il valore e che lo sappiano poi comunicare agli appassionati avventori.

Testimonianze preziose come questa rara bottiglia di Quintodecimo sono fondamentali per ribadire il principio che vado affermando da anni: il Taurasi è un grande vino che nulla ha da invidiare ai grandi rossi italiani e internazionali! Peraltro qui espresso con una chiave di lettura del terroir irpino antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario vino, tratteggiato da autentica territorialità, eleganza e finezza, alcuni tratti distintivi dei suoi vini irrinunciabili per Luigi Moio.

Fu quella un’annata abbastanza eterogenea in Irpinia, per alcuni produttori una delle loro migliori vendemmie anche per una variabile decisiva: le piogge abbondanti concentrate nella parte centrale di ottobre, per cui riuscirono a portare in cantina le migliori uve quelle aziende che riuscirono a raccogliere prima delle piogge, all’inizio di ottobre entro la metà del mese come in questo caso, oppure chi poté attendere la seconda metà di novembre; più in generale si è comunque trattato di un millesimo dall’impronta decisamente fresca. Vigna Quintodecimo proviene dalla vigna omonima della tenuta, la prima ad essere piantata nel 2001 dove il suolo è costituito perlopiù da rocce argillose, molto ricche in calcare, posta a circa 420 metri di altitudine con piena esposizione nord/ovest.

Un Taurasi duemiladieci questo, a più di dieci anni dalla vendemmia, appena avviato sulla sua strada della maturità, incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino, netto, vivido e luminoso, appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso si apre subito come un ventaglio dapprima balsamico ed intrigante, poi intenso, fine e complesso; si va da piccoli frutti rossi e neri, a riconoscimenti di fiori passiti, spezie fini, cuoio, radici e sottobosco, in un insieme persuasivo e convincente al tempo stesso; il sorso fresco e teso fa il resto, pieno di vigore fruttato e infine ancora balsamico, regala una bevuta dal nerbo misurato e appagante. Una vera pietra miliare!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Mirabella Eclano, Irpinia Falanghina Via del Campo 2018 Quintodecimo

2 gennaio 2020

Conserviamo su queste pagine profonda memoria delle decine di degustazioni dei vini di Quintodecimo, la suggestiva azienda-château di Mirabella Eclano di Laura e Luigi Moio che abbiamo avuto la fortuna di raccontare sin dai loro primi passi nel lontano 2001¤.

Di questo duemiladiciotto ne abbiamo già scritto brevemente lo scorso luglio, a qualche settimana dal suo debutto sul mercato, come sempre accade però, soprattutto per i vini bianchi di un certo spessore, proprio in questo momento, a poco più di anno dalla vendemmia, sembra essere particolarmente apprezzabile. Luigi Moio è da oltre vent’anni che dedica tanto studio e ricerca al varietale, anni di prove tecniche e verifiche sui diversi terroir che l’anno visto impegnato per tanti anni in giro soprattutto in Campania, così si spiega l’anima straordinaria di questa Falanghina che a suo dire rimane la varietà più interessante tra quelle bianche campane.

Il vitigno è tra i più antichi del nostro territorio, già noto e apprezzato dai Romani che del vino ne facevano ampie scorte durante i passaggi in regione. L’uva è tra le poche autoctone capaci di adattarsi alle tante varianti morfologiche territoriali e quasi sempre con risultati di tutto rispetto, non a caso è la varietà a bacca bianca più diffusa e i vini che ne vengono fuori, siano questi fermi o spumanti, godono costantemente di grande successo commerciale.

Via del Campo duemiladiciotto proviene da una sola vigna di proprietà di Falanghina che si trova proprio a Mirabella Eclano, dove Laura e Luigi Moio hanno avviato questo straordinario progetto di vita circa vent’anni fa. E’ necessaria una grande materia prima ed una profonda conoscenza del territorio e del varietale per permettersi un bianco con questa tessitura e corpo senza rinunciare al tradizionale patrimonio di freschezza e bevibilità.

Rispetto al precedente assaggio di luglio quando il vino sembrava addirittura un po’ imbrigliato nonostante l’avvenenza, la precisione, la sostanziale bontà, è ora ancor più luminoso nel colore paglierino e verticale al naso: sa anzitutto di biancospino e frutta a polpa bianca, poi si fa balsamico e fine, il sorso è pieno di forza e vitalità, è teso e lungo proponendosi con un finale di bocca gustoso e fresco, vieppiù finissimo e dal sapore asciutto.

Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori. (Via del Campo – 1986 © Fabrizio De André).

Leggi anche Falanghina, o di quel bianco buono per tutte le tasche Qui.

Leggi anche Falanghina Via del Campo 2008 Quintodecimo Qui.

Leggi anche Falanghina Via del Campo 2009 Quintodecimo Qui.

Leggi anche Sua Maestà la Falanghina, Via del Campo 2012 Quintodecimo Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Il respiro del vino

21 ottobre 2016

il-respiro-del-vino-luigi-moio-mondadori

[…] Il profumo forse è l’aspetto sensoriale più straordinario del vino, perché è anche il linguaggio della sua composizione, della sua storia, delle sue tradizioni, dei territori in cui nasce e dei microclimi che ne accarezzano i giorni. Il vino è la sintesi sorprendente dei profumi di tutto ciò che ci circonda, perché ha nella sua natura più profonda le tracce della terra, dei fiori, dei frutti, delle spezie, del mare, della montagna, del vento, della luce e di tante altre cose che nobilmente rappresenta. (Luigi Moio)

Questo libro – non ho il minimo dubbio -, diverrà presto un best seller! Mi sento davvero fortunato di aver condiviso con Luigi, il prof. Luigi Moio¤, tante chiacchiere e bevute in questi ultimi anni che mi hanno insegnato tanto e aperto ad un approccio al vino e al suo mondo estremamente significativo.

Il Respiro del Vino

”conoscere il profumo del vino per bere con maggiore piacere”

Luigi Moio, 2016 © Mondadori

© L’Arcante – riproduzione riservata

Fiano di Avellino Exultet 2012 Quintodecimo

19 gennaio 2015

Fiano di Avellino Exultet 2012 Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Non deve essere facile per Luigi Moio alzare l’asticella qualitativa dei suoi vini anno dopo anno, eppure anche il palato più distratto riesce a cogliere nei suoi vini ad ogni nuovo passaggio qualcosa di sorprendente e diverso.

L’Exultet 2012 racconta con maggiore franchezza le suggestioni dell’anno precedente quando già con il 2011¤ si coglieva nei bianchi di Quintodecimo maggiore spessore e finezza anzitutto del frutto. Non a caso Via del Campo¤ rimane di gran lunga la migliore falanghina attualmente in circolazione mentre il successo di bevute del Giallo d’Arles¤, il greco di Tufo di casa, non trova che pochissimi eguali sul mercato. E mentre sull’aglianico¤ i tempi sono assai lunghi e il professore qui si gioca volentieri tutta la vita, col fiano sembra stracciare a mani basse tutte le misure ad ogni vendemmia.

Si sa che il fiano più delle altre varietà tradizionali bianche campane ha le qualità per potersi misurare con il tempo, e qui la caratura è quella di un vino di grande proiezione, destinato ad una lenta evoluzione e per questo più longevo. Anche se certe bottiglie viene da berle non appena ti arrivano tra le mani, come se non ci fosse un domani.

© L’Arcante – riproduzione riservata

 

Un Taurasi Riserva 2009 da medaglia d’oro…

1 luglio 2014

Non v’era dubbio che fosse un grande rosso il Grande Cerzito 2009¤, un vino di straordinaria profondità, al suo debutto sul mercato dopo dieci lunghi anni di maniacale selezione e ricerca in vigna e in cantina (leggi qui¤). E’ il Taurasi Riserva di Quintodecimo¤ premiato al World Wine Awards 2014 della rivista Decanter.

Taurasi Riserva Grande Cerzito 2009 Quintodecimo Decanter Award 2014

Chi segue queste pagine sa bene quanta passione ci lega all’azienda¤ e ai vini di Laura e Luigi¤, diciamo che da sempre li seguo con particolare entusiasmo e grandi aspettative. Del resto come meritano tutti i grandi protagonisti del vino campano ed italiano che lavorano con serietà e passione.

Tra l’altro il 2014 per la splendida azienda di Mirabella Eclano è un anno molto particolare: la prossima vendemmia infatti sarà la decima¤ ‘ufficiale’. A Laura e a Luigi i miei e i nostri più sinceri complimenti, convinti, ne siamo certi, che il bello deve ancora venire.

L’Arcante – riproduzione riservata

Sua Maestà la Falanghina| Via del Campo 2012

9 gennaio 2014

Quando racconta di Quintodecimo¤ e dei suoi vini appare pieno di se, lo fa però con seria coscienza, mai con saccenza. E a pensarci bene chi, al posto suo, non lo sarebbe? Siamo costretti ogni giorno a sorbirci ovvietà da novelli produttori belli tronfi del proprio quarto d’ora di successo che uno come Luigi, il professore Moio¤, con la storia di famiglia che ha, con quel suo percorso accademico e oltre 20 anni di vendemmie da protagonista alle spalle è un Gran Signore del vino da tutti i punti di vista.

Via del Campo 2012 Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Nasce tutto dalla vigna di proprietà a Mirabella Eclano il Via del Campo¤ 2012. Che buono! mi viene subito da dire. Magia, sim sala bim! direbbe Silvan. Ma qui la prestidigitazione non c’entra, in questa bottiglia non c’è nessun gioco di prestigio, niente fuffa, solo tanta sostanza; c’è studio e ricerca sul varietale, vent’anni di prove tecniche e verifiche su diversi terroir che in questa bottiglia sprigionano un’anima straordinaria che spiega tanto del perché, da tempo, Moio va predicando che la falanghina – non il greco, non il fiano -, è la varietà più interessante tra quelle bianche campane.

Si, falanghina, di quei vini che i masti recensori di sovente scartano a priori, cui non hanno mai abbastanza tempo da dedicare perché un giorno si e un giorno no sono presi a discernere con minuzia dei millimetri di pioggia o la forza acida dei terreni perlopiù tra Summonte e Montefredane, raramente di Lapio che pare conoscano a menadito. E invece, invece si sa, una Falanghina non richiede di appallare la gente con tutta la solfa su annate, rating, disquisizioni teoriche sul portainnesto Paulsen o su quali minerali o precursori aromatici generano i più fini sentori rieslingheggianti, su cui, magari, ricamarci l’ennesimo richiamo di hegeliana memoria (o di Max Pezzali che fa più o meno lo stesso) che dona tanto spessore al curricula.

Chissà che almeno provino a buttarci le narici in questo bicchiere. Luminoso il colore paglierino oro, subito fitto e verticale il primo naso. I sentori più immediati sono di biancospino e frutta a polpa bianca, sollecitati da un abbrivio balsamico di rara eleganza. Così il sorso si fa subito vibrante, teso e lungo con una chiusura di bocca risoluta, gustosa, di finissimo carattere. Certo un difetto ce l’ha, si fa bere con grande slancio nonostante i suoi 14 gradi in alcol. Che dire ancora… ah si, un vino così risveglia profondamente l’orgoglio e l’entusiasmo per averci creduto sempre. Ce ne vorranno i detrattori, ma ci interessa?

Fiano di Avellino Exultet 2010 Quintodecimo

9 dicembre 2013

Non c’è che dire, le bottiglie di Luigi e Laura hanno decisamente bisogno di spazio davanti, hanno bisogno di una lunga progressione nel tempo per distendersi ed affinarsi. Ancor più le annate recenti.

Fiano di Avellino Exultet 2010 Quintodecimo

Sontuoso l’Exultet 2010, sontuoso e al tempo stesso vibrante mi viene da aggiungere. Un fiano di Avellino dal profilo organolettico di un tale spessore da rimanerci di sasso, soprattutto se ti capita servito alla cieca in mezzo ad altri quattro Campioni di tutto rispetto. Vino dal naso prorompente, che un po’ lo cogli già dal colore bello luminoso e carico che ti debba qualcosa di particolare: si rivela pieno, verticale, complesso, finissimo.

A giocare coi ricordi ci senti dentro tutta la frutta gialla che conosci a menadito, matura e succosa, camomilla e tiglio, ci cogli sensazioni dolci e quel rintocco un po’ agrumato un po’ balsamico che fa rinvenire tutto a primitiva freschezza. Quanto è buono te ne accorgi sin dal primo sorso: l’attacco è vivace e l’allungo carnoso e minerale, tremendamente sapido. Bianco impressionante per fittezza, eleganza, equilibrio. Ma c’è di più: che abbia fatto (in parte) legno lo sai solo quando tiri via la stagnola dall’etichetta.

E questo è un’altro grande merito del lavoro di Luigi mai contento dei risultati nonostante il grande successo, un uso sempre più misurato del legno e come sempre mai fine a se stesso. Ecco, puoi credere di essere bravo, puoi pensare di saper già tutto del fiano, dei fiano, quelli migliori, autentici. Puoi tranquillamente continuare a farlo ma tieni in conto che non sarà mai abbastanza!

Quintodecimo, a casa di Laura e Luigi

23 febbraio 2013

I passaggi¤ a Quintodecimo non sono mai ripetitivi, mi portano bene e danno ogni volta quella scossa necessaria per cogliere al meglio quelle nuove prospettive necessarie in un mondo sempre troppo avvitato su se stesso. Il piacere di stare assieme, le storie, la musica, quella dell’anima, alla fine ci salvano tutti!

Luigi Moio, Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Ne lascio qualche traccia non per pavoneggiarmi dell’amicizia di Laura e Luigi, persone per bene, disponibili ed intelligenti quanto basta per fare di ogni attento visitatore il migliore degli ospiti possibili, ma per anticipare a quegli stessi appassionati che vorranno andarci prossimamente, una o due cose abbastanza rilevanti con in più un paio di novità da non mancare.

La prima cosa è che l’azienda è sempre più bella, pure quando la vigna è spoglia, con la cantina, ordinatissima e suggestiva, praticamente vuota! Nel senso che a parte le vasche e i legni con le nuove annate in affinamento e le riserve di Taurasi in elevazione, niente, non v’è traccia di bottiglie se non quelle di prossima uscita in Marzo; e l’archivio storico naturalmente, che però, da quanto confessato da Laura, bene farebbe Moio a tenersele sottochiave. In tempo di crisi, direi che non è poco.

Quintodecimo, passaggio in cantina - foto A. Di Costanzo

La seconda constatazione – che poi sono due – sta nell’aver colto, durante gli assaggi dei cru 2011 in bottiglia e 2012 in affinamento tra vasche e legno, un “alleggerimento” sostanziale del sorso a favore però di una profondità gustativa di notevole rilevanza, così, d’emblé, assai più immediatamente incisiva al primo assaggio che nelle precedenti uscite. Un vero schiaffo!

Ne sono testimonianza, nella loro chiara diversità, la falanghina Via del Campo duemilaundici che sembra avere già tutti i numeri a posto per sparigliare le carte in tavola: luminosa, verticale, ineccepibile e l’Exultet 2012, la cui parte in affinamento in legno sembra chiaramente “urlare” di finire in bottiglia sin d’ora così com’è. Non a torto (nostro).

E’ chiaro che questi ultimi 5 anni sono serviti al Professore per avere piena contezza di quanto dicessero le sue idee e le scelte portate avanti con ragionevole fermezza; che, per coglierne sommariamente una vaga idea basterebbe riassaggiare il sorprendente Exultet 2006¤, il primo, per comprendere a pieno quanto il fiano, ma lo stesso aglianico¤ o il greco, la falanghina nelle mani di Moio avranno tanto da dire soprattutto nei prossimi anni a venire. Una roba da non credersi, un vino in grande forma, sbocciato imperiosamente ed in piena voluttà espressiva.

Fiano di Avellino Exultet 2006 Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Dicevo poi delle novità: una è l’arrivo ormai imminente del secondo cru di Taurasi Riserva, il Grande Cerzito¤ 2009 in uscita si pensa il prossimo novembre 2013, di cui però, come sugli altri rossi, scriverò dettagliatamente a breve; l’altra è l’acquisto di tre ettari e mezzo di vigna a greco nel cuore di Tufo, l’anima più antica forse della denominazione che sarà del Giallo d’Arles¤, quel campione di cui da un paio d’anni faccio davvero fatica a stare senza. Cru era, da una sola vigna di Santa Paolina, cru rimarrà, ma ora, finalmente, di proprietà. Che dopo l’impianto di qualche anno fa proprio a Mirabella Eclano di falanghina (il 2011 già reca in etichetta l’Irpinia doc) ed il consolidamento della conduzione in Lapio con la vigna che da vita all’Exultet, sembra chiudersi il cerchio magico dei domaines di Quintodecimo.

Poi vabbè, ci sarebbe da dire di quel Metamorphosis, ma questa è un’altra bella storia non ancora da svelare.

Della “deriva acidistica” [cit.] e del Fiano di Avellino Exultet 2009 di Quintodecimo

5 febbraio 2013

Qualche settimana fa Daniele Cernilli¤ sul suo Doctor Wine ha scritto un pezzo¤ davvero molto interessante a riguardo di una sorta di deriva acidistica a cui pochi produttori, ma anche degustatori ed appassionati, sembrano saper far fronte con la giusta coscienza e prospettiva. 

Fiano di Avellino Exultet 2009 Quintodecimo - foto A. Di Costanzo.docx

Potremmo fare spallucce e ricondurre la faccenda ad un semplice fenomeno di rigetto delle curve morbide e burrose promesse ai palati negli anni novanta, ma così sottovaluteremmo la questione. Così, senza entrare troppo nel merito tecnico della faccenda, che pure andrebbe amplificato ed approfondito a dovere, visto anche il pericolo dell’approssimazione sempre in agguato, che Cernilli bene fa a sottolineare nel suo articolo, non fa mai male ribadire che una bottiglia, una di quelle che vale la pena ricordare, debba saper regalare all’appassionato di turno una ben definita coerenza gustativa, quella che alcuni tendono talvolta a banalizzare con parole tipo “pronto da bere” ma che in realtà dovrebbe tradursi con il ben più complesso concetto di equilibrio gustativo; se non, ancor meglio, in una certa armonia espressiva.

Va da se che si aprono scenari abbastanza complessi, che viene piuttosto difficile sintetizzare in poche righe: elementi come le caratteristiche peculiari di certi varietali, il terroir, la coltura e le tecniche messe in campo per produrlo, come pure l’età stessa del vino, sono solo alcuni dei punti fermi da tenere in particolare considerazione per valutare al meglio il potenziale di una bottiglia. Un richiamo però a questi principi appare ogni volta indispensabile, irrinunciabile quando troppe volte disatteso.

Così per farla breve, e rendere a pieno l’idea di un vino – di un grande vino bianco in questo caso – che ritengo oggi, a mio modesto parere, in perfetta armonia espressiva, basterebbe puntare questo Fiano di Avellino Exultet 2009 di Quintodecimo¤. Ha un colore di gran fascino, di un paglierino appena maturo ma parecchio luminoso, col naso che offre un ventaglio di note varietali di una suggestione unica, di fiori di tiglio, acacia e timo, che si fa poi, lentamente, di pesca ed albicocca, di nocciola, camomilla e rimandi balsamici. Il sorso è di gran spessore, l’approccio è quasi denso ma intransigente, inesorabile e dritto, ricco di una matrice minerale preziosa e raffinata, di gran lunga piacevole.

Eccola l’acidità che non fuggo – né temo, anzi -, e il legno che non mi turba, incisivo ma affatto in evidenza, il manico che non discuto. Mai!

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2009 Quintodecimo!

20 Maggio 2012

Credo avesse dalla sua una possibilità forse unica, concessa solo a pochi eletti, anche se non sempre di immediata comprensione. Poteva, con Laura, decidere di produrre a Mirabella Eclano questo e tutti gli altri vini senza una specifica denominazione territoriale, quel riferimento tanto ricercato da molti, evocativo, talvolta necessario secondo alcuni come fosse dovuto, eppure quante volte l’abbiamo visto depredato per soli fini commerciali.

Ha sbagliato quindi Luigi Moio¤? E chissà che non ci stia ripensando…*

Da un lato ci sono terre e vigne straordinariamente suggestive, e varietali che la dicono lunga. Dall’altro, la mano e il tempo, che consegnano ai bicchieri ogni anno vini finissimi; poi ci sono gli addetti ai lavori, molti non hanno perso tempo nel coglierli, interpretarli, descriverli ognuno a loro piacere. Pro o contro non fa alcuna differenza, certuni han voluto addirittura aggiungere qualcosa, una sfida personale al professore, talvolta nel bene, altre nel male. Però tutti si sono comunque guadagnati il loro quarto d’ora di notorietà (cit.), grazie ai vini di Luigi e Laura.

Eppure qualcosa non mi torna: “fare vini senza avere lacci”, si dice. “La denominazione ci sta spesso stretta”, c’è chi ribadisce. E invece… ma com’è, non dovrebbe essere così anche a Quintodecimo¤? Sappiamo o no tutti di quella precisa timbrica personale, addirittura firmata in calce? Eppure, bicchiere alla mano, bevi sto vino e pensi subito a quelle meravigliose vigne a Santa Paolina baciate dal sole. Massì, è semplicemente un paradosso, uno dei tanti, come spiegarlo altrimenti. Un territorio, un microcosmo, fuori dal mondo!

E se invece oltre il greco di Tufo che conosciamo conoscevamo c’è dell’altro? Il fatto è che con le prime bottiglie del 2006 c’era da scegliere e anziché giocare d’azzardo si preferì lasciarsi individuare, scegliere tra i tanti fiano di Avellino, greco di Tufo, aglianico e Taurasi invece di rimanere più semplicemente unici artefici di un bianco Exultet o Giallo d’Arles piuttosto che un rosso Terra d’Eclano o Vigna Quintodecimo¤: il territorio, abbracciare l’idea dell’insieme, della valorizzazione di un areale, delle denominazioni piuttosto che se stessi, solo se stessi. Quanto è valsa questa scelta?

Per quanto mi riguarda tanto, il sistema ha sempre bisogno di nuovi interpreti capaci di aggiungere qualcosa di nuovo o innovativo, ma anche semplicemente di diverso. E frattanto io non ricordo un greco di Tufo così profondo e pienamente espressivo come questo, che salta al naso e ti riempie la bocca dal primo all’ultimo sorso. Ha una maturità impressionate, stilisticamente inequivocabile eppure di forte, fortissima personalità e persistenza varietale. Una visione territoriale dunque, ma a suo modo unica.

Quello di Van Gogh – dice un recente studio europeo su alcune sue opere – sta progressivamente perdendo brillantezza, si sta spegnendo. Questo invece è un Giallo d’Arles luminoso e cristallino. Il naso, sin da subito comincia a tirare fuori una miriade di sfumature sottili e insistenti, di fiori e frutta gialli ma anche note speziate piacevoli. Ginestra e glicine, poi prugna, pesca ed albicocca mature, cedro, ma anche un soffio di camomilla e zenzero candito. Il sorso è asciutto e avvolgente, largo, fresco e minerale, lungo e persistente, di infinita piacevolezza.

Giuro che vorrei averne ancora, ahimè però non si riesce per davvero a metterne via una che dico una. Anche questo è un paradosso tutto da disvelare: non è certamente a buon mercato, come del resto tutti i vini dell’azienda; dicono addirittura che siano cari, eppure, credetemi, non si riesce a stargli dietro tanto se ne vendono.

*Ci pensavo con in mano le nuove etichette 2010, con la scritta dei nomi dei vini ancora più grande e quella delle denominazioni ancora più piccola.

Falanghina Via del Campo 2009 Quintodecimo

6 febbraio 2012

Via del Campo c’è una graziosa/gli occhi grandi color di foglia/tutta notte sta sulla soglia/vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina/con le labbra color rugiada/gli occhi grigi come la strada/nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana/gli occhi grandi color di foglia/se di amarla ti vien la voglia/basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano/lei ti guarda con un sorriso/non credevi che il paradiso/fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso/a pregarla di maritare/a vederla salir le scale/fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori. (1986, © Fabrizio De André).

A parlar di vino, cos’è la falanghina nell’immaginario comune se non quell’uva – come una puttana, cercata e violentata da molti -, procace e disponibile, appariscente, profumata e “pittata” all’evenienza, talvolta ingrassata sino al ridicolo per attirare orde di clienti il più delle volte coscientemente incapaci di coglierne la benché minima emozione, figuriamoci l’anima. Che nemmeno cercano. Il ché rende le cose molto più semplici a tutti.

Ecco, Luigi Moio¤ è un grande anche in questo. Provate a mettere nel bicchiere questo 2009: c’è chi ha timore della semplicità del varietale, di un indemoniato uso del legno, di un trucco pesante e, non ultimo, quanto tutto ciò costi in soldoni. Bene, mettetela nel bicchiere questa falanghina, fatela provare magari a settanta persone tra appassionati, enologi, sommelier, conformisti e anticonformisti compresi: palati fini – certi finissimi -, ma anche palati meno “allenati”, puri, taluni anche grezzi. E poi statele ad ascoltare, provando a raccogliere le loro opinioni.

No, non serve che aggiunga altro, dire del colore fulgido e luminoso, del naso avvincente, fine e verticale, del sapore fitto, memorabile. Del valore: semplicemente prezioso. Non a caso il Professore sulla falanghina ci lavora da più di vent’anni. E non a caso, dopo vent’anni e più di ricerche, studi, prove, vini, la Sua falanghina, a Quintodecimo, si chiama Via del Campo. Certo non a caso, dicono.

L’Arcante Wine Award® 2011, The very best of

19 dicembre 2011

and the winner is…

 

Asprinio d’Aversa Spumante Extra Brut s. a. Riserva Grotta del SoleCerti vini per conquistarti definitivamente debbono avere anche dell’altro. Questo mi son detto, decidendo ad occhi chiusi di premiare questo buonissimo metodo classico italiano. Ha tutte le carte in regola il vino: luminoso, brillante, vivace e complesso al naso come vibrante e lungo al palato. Certo, è puro campanilismo, e intelligenza suggerirebbe che non può ancora competere con certi mostri sacri italiani, però mi domando: chi altri può vantare la sua storia, quale metodo classico conserva una memoria, oltre che un gusto, così profondi da perdersi nella notte dei tempi? Suvvia care Guide, ogni tanto un po’ di coraggio.

Collio Sauvignon de LaTour 2008 Villa Russiz, perché è indiscutibilmente uno dei più buoni sauvignon mai bevuti prima d’ora, più buono anche dello stesso del 2009 che a sentir molti autorevoli addetti ai lavori se la gioca e stravince alla grande pure con i più blasonati cugini blanc fumé della Loira.

Toscana Rosato del Greppo 2008 Biondi Santi Nel link qui appena segnalatovi trovate traccia del 2007; ma il 2008, bevuto praticamente in anteprima lo scorso febbraio proprio in compagnia di Franco Biondi Santi e riassaggiato più volte di recente, conferma quanto al Greppo certe cose o vanno come devono andare oppure non se ne fa proprio nulla; rosato sì, ma con tutta l’anima del più nobile dei sangiovese di questa storica tenuta nel cuore di Montalcino, ottenuto mediante salasso e senza macerazione alcuna sulle bucce: il risultato? Semplicemente eccezionale!

Amarone della Valpolicella 2007 Le Vigne di San Pietro. Ok, va bene, può risultare ripetitivo premiare per due anni consecutivi come miglior rosso passatoci per mano un vino della Valpolicella, però credetemi, dinanzi a questa bottiglia, non c’è da porsi riflessioni del genere bensì chiedersi dove correre a comprarne ancora una. Un vino questo che per voluttà, equilibrio e franchezza ma soprattutto, visti i tempi, dal prezzo onestissimo. Vi farà riconciliare con l’Amarone. Un grande vino davvero!

Campania rosso passito Fastignano 2008 Papa. Eh si, va detto: non so quanti hanno avuto la fortuna di berlo questo vino, prodotto com’è in appena un migliaio di unità; ma una cosa è certa, è stata una delle più gradevoli e sorprendenti novità di quest’anno passataci per mano. Un rosso dolce, da uve primitivo di Falciano del Massico, di inaudita profondità ed equilibrio gustativo.

Pauillac Grand Vin de Latour 2004 Chateau Latour. Sua maestà “il vino”, sua altezza “l’eleganza”, bontà sua. Cosa aggiungere? Null’altro che una preghierina: confido o mio signore sempre più benevolo nel buon samaritano di turno, per poterne godere ancora di certi vini, assolutamente, definitivamente impossibili da raggiungere altrimenti.

Diego Molinari/Cerbaiona, Montalcino. Una delle ragioni di tante scorribande in giro per l’Italia a camminar le vigne è anche questa: poter dire “si, io l’ho conosciuto, io c’ero”. Eravamo seduti intorno a un tavolo, tre amici, con lui sua moglie Nora. A casa loro. Almeno tre giorni per organizzare la cosa, incluso la più classica delle telefonate dell’ultim’ora con preventiva disdetta in caso di ritardo. Poi invece son bastati due secondi, appena due dita di vino, per sciogliere la tensione e portarci per mano nel bel mezzo degli ultimi trent’anni di storia del vino a Montalcino. Grazie Comandante!

Prof. Luigi Moio, Consulente/Az.Agr.Quintodecimo. Fermi tutti, sale in cattedra il professore Moio. Non ho scritto tanto di lui e dei suoi vini quest’anno, anzi, forse giusto un paio di annotazioni. Apposta. Il meraviglioso lavoro di Luigi (e Laura), soprattutto in quel di Mirabella Eclano a Quintodecimo, andava per un po’ ammirato con distacco. Era necessario farlo, era importante capire senza per forza insistere. Bene, chi ha il piacere di conoscerlo Luigi Moio, o ha avuto anche solo  il piacere di bere quest’anno almeno uno dei vini bianchi 2009 di Quintodecimo, se ne farà subito un’idea del perché di questo premio (l’Exultet 2009 per esempio, è stratosferico!), e ci darà senz’altro ragione. Agli altri, quelli che non lo capiscono, beh, non resta che continuare a rosicare.

 

Franco Biondi Santi.  La motivazione? Bene, ve ne do almeno un paio: “a quei tempi la colla per le etichette veniva fatta con la farina del grano. L’inconveniente era che seccava molto lentamente, per cui era necessario tenere le bottiglie tutte in piedi e, per ordine di mio padre, perfettamente allineate. Capitava talvolta che l’allineamento presentasse una curva, ce ne accorgevamo non appena Tancredi esclamava <<oggi è tirato vento…!>>.

“Sono nato al Greppo nel 1922, ho cominciato nel 1930 a lavorare in cantina e la mia prima vera vendemmia fu quella del 1940. Nessun agricoltore in tutta la Toscana ha come me sulle spalle sessantanove vendemmie, eppure sono in molti oggi a parlare di vino”.

I brani citati sono tratti da “Questa è la mia terra” di M. Boldrini, Bruno Brucchi, Andrea Cappelli, © 2009 Protagon Editori; trascritti qui praticamente a memoria. Conserverò questo libro con dedica autenticata come una delle più preziose esperienze di vita legata al mondo del vino della mia vita. E con questo riconoscimento, per quel che vale, Angelo Di Costanzo, con stima, ricambia.

Queste le nominations selezionate. Ora tocca a voi decidere da che parte stare!

Atripalda, Taurasi 1986 Mastroberardino

7 novembre 2011

L’azienda non ha certo bisogno di presentazioni. Il nome di per se è altisonante quanto basta, talvolta pure ingombrante; in quegli anni poi, mi riferisco ai primi anni ‘90 – che ve lo dico a fare! –, al cameriere bastava solo sussurrare Mastroberardino (ovvero mastro bernandino, ndr) per provocargli quel “non so ché” di suggestione: “vedo che il signore ne capisce, eh?.

Il vino, questo millesimo, non ha nessuno o quasi con cui confrontarsi, così per i tanti anni indietro e qualcun’altro ancora dopo; nessun termine di paragone, nessuna trama da seguire, nessuna rappresentazione identitaria da sfoggiare che non fosse una precisa idea di vino destinata a camminare le strade del mondo. E chi scriveva di vino all’epoca, ancora giusto quattro gatti, non sentiva nessuna necessità di preoccuparsi che fosse o no prodotto in quantità “industriale”, e men che meno se arrivasse da una viticoltura naturale, bioqualchecosa o altro del genere: era un Taurasi di Mastroberardino, e quel nome (non del vino sia chiaro – “Taurasi dove?” -, ma dell’azienda!) bastava da solo perché fosse una garanzia.

Un nome già unico, già storia quindi, e continuamente proiettato a scriverla la nuova storia vitivinicola campana: pochi sanno per esempio che fu proprio Mastroberardino, intorno ai primi anni ’70, ad introdurre in Italia l’impiego di colture selezionate di batteri malolattici. E in quegli stessi anni poi, più che la convinzione dell’utilizzo di solo legno grande, rovere di Slavonia e castagno per la precisione (la barrique arriverà solo qualche anno più tardi, negli anni ’90), poté l’introduzione in cantina del freddo per controllare le temperature nel corso delle fermentazioni; uno scatto in avanti per l’epoca impagabile, una conquista assoluta per l’enologia. Curioso pensare invece come oggi tutto ciò suoni quasi come una condanna per chi ama ostinatamente ribadire di fare tutto in maniera naturale e a temperatura ambiente!

L’ottantasei segna un momento importante per l’azienda di Atripalda, l’inizio del progetto “Radici”, risultato di una ricerca lunga e accurata riguardante esposizioni, composizione chimico-fisica e giacitura di tutti i terreni coltivati direttamente dalla proprietà, con l’aumento importante della densità di piante/ha e l’introduzione massiccia di impianti moderni “a spalliera” che andavano sostituendo il tradizionale, suggestivo ma vetusto sistema a raggiera avellinese, tipico soprattutto dell’areale taurasino. Ciò consentiva ai “Mastro” di riuscire a gestire meglio il nuovo parco vigne, le differenze sostanziali dovute sia alle caratteristiche pedoclimatiche che all’incidenza dell’annata, così da poter intervenire più efficacemente sulla filiera di trasformazione, dalla vinificazione all’invecchiamento; una zonazione ante litteram si direbbe.

Un assaggio per certi versi controverso, ma decisamente interessante. Un Taurasi dal colore granato con spiccata tendenza all’aranciato sull’unghia, che conserva però una buona compattezza. Il primo naso è “sporco”, quasi allontana e nonostante le due ore abbondanti concessegli viene da pensare che abbia poco o nulla ancora da offrire. Invece alla distanza viene fuori, sicuramente troppa l’attesa per chi volesse goderne una sera a cena grazie all’amico di turno (a meno che questi non abbia avuto cura di stapparlo in mattinata!), però ne vale veramente la pena. Il giorno dopo infatti il quadro olfattivo pur se scomposto ritorna particolarmente interessante: intriso di terra, humus e torba; del frutto in quanto tale nulla più o quasi, giusto qualche nota spiritosa, un tono caramellizzato, e solo parvenze di note tostate e accenni speziati. Dove però colpisce è al palato: intenso, copioso, dritto; c’è ancora tanta materia, spogliata (ma non del tutto) di quel nerbo a cui fedelmente ci si rifà quando si vuole parlare di Taurasi vecchia maniera, ma sottile, fugace, appagante. Il sorso è pulito, scivola via sulle papille gustative che è una bellezza, disincantato, setoso quasi, in perfetto stato di conservazione. Chissà a quell’epoca cosa ne pensavano gli amerrecani di questo vino?

Questa recensione esce oggi anche su www.lucianopignataro.it.

Mirabella Eclano, Ristorante Morabianca del Radici Resort della famiglia Mastroberardino

7 ottobre 2011

Diciamolo subito, questa non è una recensione come le altre e, probabilmente, nemmeno tanto attendibile :-). Per due validi motivi: il primo è che ormai è così tanta la stima riposta in Francesco che mai un mio giudizio sul suo fine lavoro al Morabianca del Radici Resort della famiglia Mastroberardino potrebbe essere meno entusiasta di quanto già meriti di suo. Il secondo è che chi viene qui rischia con molta probabilità di lasciarci anche un pezzo dell’anima: il luogo, tutt’intorno, l’immenso verde che lo circonda, contribuisce non poco a rassenerare lo spirito, a prepararti al meglio, a stemperare insomma anche quell’ultimo cipiglio critico…

E in verità, più che una “recensione” fine a se stessa mi stuzzicava l’idea di “raccontare” a voi, nostri lettori, un pranzo davvero memorabile; se vogliamo essenziale, “territoriale” come si usa dire di solito per rincarare la dose sulla proposta gastronomica locale, senza alcuna sbavatura e valorizzata tra l’altro da un servizio sinceramente impeccabile coordinato in sala da Rocco Platì. Ecco, uno di quei pranzi che meritano di rimanere nella memoria.

Si comincia con un piccolo appetizer con salsiccia rustica tagliata “a coltello” e un assaggio di Podolico servitoci appena arrivati, sotto al gazebo a due passi dalla terrazza che da immediatamente sulla vigna. Tra le mani, un fresco calice di Lacrimarosa 2010, il rosato da uve aglianico di casa Mastroberardino; poi, poco dopo, a tavola, ci arriva una polpettina di melanzane fritta adagiata su del sugo al pomodoro: fragrante e delicatamente croccante. Via in un sol boccone…

E’ sempre un tantino complicato gestire il Baccalà come portata d’ingresso, questa Trilogia però offre di sé una lettura decisamente ammiccante e per niente banale: in tempura, con una passatina di ceci e pomodoro confit, impanato e fritto, su brunoise di verdurine e, infine, con una delicatissima crema di patate impreziosita da una grattugiata di Tartufo nero di Bagnoli Irpino.

I pani, come gli ottimi grissini, sono naturalmente fatti in casa. Non ho fatto in tempo ad immortalare quello al latte, sparito via come niente fosse anche al secondo servizio: davvero superlativo per elasticità, sofficità e masticabilità. Ottimo comunque anche questo all’acciuga, naturalmente da centellinare per la sua accentuata sapidità.

Ecco poi uno dei must di tutta l’Irpinia che Francesco non fa certo mancare nella sua proposta: Ricotta fritta di Montella con Soppressata della vicina Venticano; qui il salume è preferito servito con un taglio a julienne, la quenelle di ricotta è perfettamente calibrata e la tempura senza un filo d’olio residuo di frittura. E’ qui che il Fiano di Avellino Radici 2010 si esprime al meglio, in tutta la sua franchezza, giocata di fino su intensità e rotonda persistenza gustolfattiva. 

Cavatelli acqua e farina con pomodorini del Vesuvio e Pecorino, aggiungere una sola parola in più sarebbe davvero troppo; aah! se il web potesse farvi arrivare il profumo di questo piatto! Da qui cominciamo a sorseggiare il giovane e fresco Aglianico RediMore 2009, prodotto proprio nella vigna su cui affaccia il ristorante qui a Mirabella Eclano.

Quindi, il piatto forse più complesso da gestire in tavola arrivati a questo punto: il pacchero – trafila in bronzo dell’irpino “Pastificio Baronìa” della famiglia De Matteis -, è perfettamente al dente oltreché ben fuso con la crema di fave, che risulta però un tantino spiazzante per la sua prolungata persistenza amarognola. E’ questa l’occasione per far respirare un attimo il palato, un sorso ancora di aglianico e via a rincorrere Letizia a caccia di fiovi e assaggi d’ùa

Prontii, per la ri-partenza… via!: Sedani (sempre Baronìa) con Ragù di cipolla ramata di Montoro, un vero trionfo di sapori, con una decisa virata alla tendenza dolce appena smorzata dall’acidità della fresca mela con cui vengono saltati prima del servizio. Un assaggio intrigante, di territorio, ben eseguito.

E’ arrivato frattanto nel bicchiere il Taurasi Riserva Radici 2005 che tanto accuratamente Rocco aveva scolmato e lasciato aperto per farlo ossigenare. Che dire, negli ultimi anni – parliamo di Taurasi in generale -, è sempre più palese un ritorno (ove mai vi sia stata una partenza!), al gusto di un tempo, a quella rusticità arcaica persa secondo alcuni nella tra le maglie della memoria di una terra troppe volte sopravvissuta a se stessa; un richiamo a quel gusto talvolta rarefatto di sottile ferrosità che in molti ricorderanno, soprattutto negli anni ’90, veniva drasticamente ricacciato indietro perché tacciato di vetusto, superato, fuori tempo.

Ebbene, nell’ultimo decennio, diciamo dal ’99 ad oggi, dopo alcuni anni ancora di seria confusione – il legno, aah il legno!: grande, piccolo, prima l’uno poi l’altro, viceversa boh! –  in molti hanno finalmente colto che strada intraprendere, offrirsi al proprio destino, decidere per la propria visione. Mastroberardino pare invece aver seguitato a condurre sempre il gioco, almeno per quanto riguarda il “Radici” e i “Riserva“: frutto in primo piano ma mai scaduto in banale confettura, “tannino nobile” propriamente detto e mai, in nessun caso invadente e capriccioso, tutt’altro, sempre finissimo e composto al fine di garantire un sorso asciutto ma mai superato o inefficace. Insomma, la tradizione al tempo di facebook!

Ci servono così il secondo: Guancia di Vitello cotta a bassa temperatura con pappa di pere e pistacchi di Bronte (qui la ricetta). La carne si scioglie in bocca, i pistacchi sbriciolati infondono croccantezza mentre la pappa di pere condensa un sapore intriso di dolcezza che lascia venire fuori una delicata sensazione di pienezza e al contempo pulizia del palato. 

Il vezzo, giunti a questo punto, sarebbe quello di chiudere in dolcezza: Tortino al cioccolato con cuore clado. Lo so, c’entra poco o nulla con l’Irpinia e tutta la poesia di cui sopra, ma vuoi mettere una tale scioglievolezza con la ragione? Poco prima tra l’altro avevo notato in dispensa una bottiglina nera che recava una scritta in verticale: “Halconerìa“. Ma cosa sarà mai?

Detto fatto! E’ un nuovo vino di Mastroberardino, concepito (credo nel 2007, ndr) con l’intento di verificare tutto il potenziale dell’aglianico qui a Mirabella Eclano. Halconerìa 2007 è una vendemmia tardiva di aglianico – non un passito, non un muffato -, un rosso da uve stramature che pare faccia tra l’altro un lungo percorso tra legno e bottiglia. In verità vi dico che non c’ho perso la testa: ha un naso incisivo, fluttuante tra la rosa e la viola passita, tra il pepe in grani e i chiodi di garofano, però in bocca si perde quasi subito, scorre via delicato, manifesto, senza particolari sussulti. E’ chiaro che è solo il primo assaggio, ma si sa, talvolta chi ben comincia… vedremo.

La carta del Ristorante Morabianca propone due passaggi gastronomici tradizionali, a 35 e 45 euro, quest’ultimo in un percorso di sette portate. La carta dei vini è essenzialmente incentrata sulla proposta di casa Mastroberardino – dove comunque c’è tanta sostanza, anche in verticali introvabili altrove, ndr – ma non mancano alcune buone referenze italiane delle più classiche. 

Ristorante Morabianca del Radici Resort
Executive chef Francesco Spagnuolo
Contrada Corpo di Cristo
Mirabella Eclano 83036 (Av)
Tel. +39.0825.431537
Fax. +39 0825.431964
e-mail:info@morabianca.com
Chiuso: Domenica sera e Mercoledi
 

Mirabella Eclano, la vendemmia a Quintodecimo: si rinnova la giostra delle emozioni di Luigi Moio

5 ottobre 2011

Rimettere i piedi per terra, anzi letteralmente nella terra. Molti considerano Capri “il paradiso” – forse lo è -, ma dopo sette mesi sopra le nuvole era proprio necessario ritornare alla normalità, la mia normalità: camminare le vigne, respirare la terra.

Oggi è una splendida giornata, non poteva andarci meglio, e il paesaggio che si staglia all’orizzonte, in direzione Mirabella Eclano – nella più verde provincia irpina -, risulta ancora più gradevole e suggestivo di quanto normalmente possa apparire: il caldo sole, questa luce così splendente stamattina ne armonizza i colori ma al contempo esalta le sue forme, la sinuosa prospettiva di una terra unica: che bello!

A Quintodecimo¤ ci si arriva facilmente, appena una manciata di chilometri dopo l’uscita “Benevento” dell’autostrada A16, uno o due svincoli in direzione Taurasi, poi si prende per Mirabella Eclano. Cavolo! Ma come si fa a non tenere conto di quanto possono vedere, ammirare, rimanere stupiti, i propri occhi quando si arriva qui in contrada Cerzito. E lo senti già da prima – dall’aria che si respira, sottile, pungente, magica -, che qui è tutta un’altra storia.

E’ già tempo di vendemmia! Questa è la parte più bassa della vigna, quella che costeggia immediatamente la strada d’ingresso a Quintodecimo, in contrada Cerzito, sarà l’ultima ad essere raccolta ma comunque nella giornata di oggi. Quest’anno la vendemmia è anticipata, come del resto un po’ ovunque in Italia; i parametri analitici delle uve infatti dicono che sì, può bastare così; allora sotto con le cesoie e giù e su con il trattore.

Eccolo qua Felice, già una istituzione a Quintodecimo. E’ lui a scarrozzare per la vigna, di filare in filare a raccogliere le cassette di aglianico da portare subito in cantina per la cernita. “L’anno scorso è stata molto dura, la pioggia caduta pochi giorni prima del raccolto ci ha reso la vita impossibile, manco coi cingolati si poteva entrare in vigna”.

La collina infatti è particolarmente ripida, in alcuni punti scoscesa a tal punto da divenire persino pericolosa da girare in trattore; ma per fortuna quest’anno l’insistenza del bel tempo aiuta non poco le operazioni di raccolta e trasporto in cantina.

Eccolo qua l’aglianico di Quintodecimo. I frutti sono giunti a piena maturazione, più o meno con due settimane di anticipo sulle previsioni ma comunque perfettamente integri e polposi. Gli zuccheri premettono valori in alcol possibili intorno ai 14,5/15,5 gradi. “In genere – mi racconta Luigi – qui a Mirabella siamo sempre in anticipo di un paio di settimane rispetto ad altre località della denominazione, e questa vendemmia anticipata non fa altro che confermare la regola”. Così raccolti manualmente vengono adagiati in casse e subito portati in cantina dove avviene una cernita particolarmente minuziosa, talvolta spuntando acino per acino.

Ad oggi in cantina c’è già quasi tutta l’uva dell’azienda, manca in effetti di raccogliere solo il greco, mentre il fiano (di Lapio) è già tutto in casa, e oggi lo sarà anche tutto l’aglianico, come la falanghina. A tal proposito, mi piace segnalarvi che proprio di fronte all’azienda, Luigi e Laura hanno da poco rilevato un nuovo piccolo appezzamento dove a breve sarà piantata proprio della falanghina. Quando si dice migliorarsi.

Sapete, negli ultimi due-tre anni si è discusso molto dei vini di Quintodecimo, invero, a dirla tutta più per sbarcare il lunario che per altro. Tutti, ma proprio tutti – taluni addirittura a gamba tesa pur di smarcarsi, farsi notare -, si sono lanciati con una certa vis polemica, talvolta spudorata altre un po’ meno, rilanciando l’annosa questione “territorialità, autenticità e verità espressiva dei vini irpini” che qui – dicono – si farebbe fatica a cogliere. Ebbene, chi mai sarebbe il depositario della territorialità, dell’autenticità, di questa verità espressiva assoluta cui fare riferimento? Fuori il nome… Maddai…!

Come ho già avuto modo di dire altrove, io vedo Luigi Moio un po’ come Angelo Gaja, forte di una solida tradizione alle spalle – fatte le dovute proporzioni -, ma proiettato nel futuro con una propria idea chiara e precisa, millimetrica quasi, di ciò che esige dalle sue vigne ma soprattutto ciò che si aspetta dai suoi vini. Anche a costo di metterla in discussione per crearne una rinnovata, a suo modo, per sua idea, ancor più autentica.

Ma non è di questo che voglio parlarvi oggi, mettiamola così: adesso il più è fatto (più o meno)… adesso non rimane che aspettare. Sì Professore – dai! –, l’uva è finalmente in cantina, nelle tue mani, rimetti in moto la giostra delle emozioni che voglio sognare. Ancora una volta!

Filetto di Baccalà in crosta di pane e erbe, con croccante di zucchine e pomodorini datterini

6 agosto 2011

Ho avuto il piacere di stare alla tavola di Francesco Spagnuolo, al Ristorante Morabianca del Radici Resort della famiglia Mastroberardino, sin dalla prima ora.

Francesco Spagnuolo, executive chef al Morabianca del radici Resort

Poi, causa lavoro, ci siamo un po’ persi di vista, diciamo un paio di annetti (forse tre), prima di rincontrarci – con mio sommo piacere – lo scorso maggio qui a Capri dove è stato nostro ospite in occasione della bella serata messa su con Piero Mastroberardino. Francesco è cresciuto, e non di poco, “ha preso per bene le misure della sua nuova dimensione” in quel di Mirabella Eclano, mi ha detto con piena soddisfazione; fa piatti semplici, immediati e dai sapori autentici, come vuole la tradizione e come ci racconta la sua storia professionale. Urge rinfrescare la memoria, fargli nuovamente visita, frattanto mi ha girato una sua nuova ricetta…  

Ingredienti per 4 persone:

  • 4 Filetti di Baccalà
  • 2 zucchine di media grandezza
  • 6 pomodorini Datterini
  • 2 albumi d’uovo
  • Olio di semi (per la frittura)
  • Pane grattugiato
  • Farina
  • Olio extravergine di Oliva
  • Erbette miste – per la panure – (rosmarino, timo, maggiorana)

Dopo aver dissalato il Baccalà ricavatene solo il filetto tagliandolo grossolanamente; quindi asciugatelo per bene con un canovaccio di stoffa; a parte, preparate il pane grattugiato profumandolo per bene con le erbe, poi in una piccola boule sbattete energicamente i due albumi d’uovo; passiamoci quindi i filetti, adesso nell’albume, poi nel pane grattugiato, prima di passarli a friggere in olio di semi a circa 170°.

A questo punto, lavate e tagliate a dadini piccoli le zucchine, quindi i pomodorini datterini (a cui vanno tolti i semini interni) e saltate il tutto in una padella antiaderente con pochissimo olio extravergine d’oliva per non più di due minuti. Dovranno rimanere croccanti.

Portate in tavola ponendo le zucchine e i pomodorini croccanti al centro del piatto, adagiandovi sopra il filetto di Baccalà, un ciuffo di prezzemolo riccio ed ancora un filo di olio extravergine d’oliva.

Tiepido di vongole veraci, cozze, gamberi rossi e fiori di zucca by Francesco Spagnuolo

28 luglio 2011

Dall’Irpinia (!) una fresca ricetta estiva di mare (!!) di Francesco Spagnuolo, executive chef del Ristorante Morabianca del Radici Resort di Mirabella Eclano della famiglia Mastroberardino; un piatto di facile esecuzione, a cui guardare con grande attenzione nella scelta degli ingredienti e con decisa soddisfazione nel sottoporlo al giudizio degli amici.

Ingredienti per 4 persone:

  • 8 gamberi rossi
  • 250gr di vongole veraci
  • 200gr di cozze
  • 100ml di olio extravergine d’oliva
  • 2 spicchi d’aglio
  • 10 fiori di zucca
  • 8 fettine di pane croccanti

Pulite e lavate i frutti di mare e lasciateli in acqua pulita per circa mezz’ora con un po’ di sale da cucina fino, così da spurgarli da sabbia o altre impurità; fate quindi indorare in una padella ampia uno spicchio d’aglio (che andrà poi tirato via) ed unitevi le cozze e le vongole; coprite la padella tenendola su fuoco vivo sino a che tutti i bivalvi non risultino ben aperti. A parte, frattanto, sbollentate i gamberi rossi e lavate e tagliate i fiori di zucca a julienne. Uno o due serviranno per decorare la i piatti.

Nota bene: i frutti di mare, così come i gamberi rossi, vanno sgusciati; volendo, conservatene integri magari solo una manciata di bivalvi, da usare come decorazione.

A questo punto passiamo al passaggio finale per definire la zuppa: versate in una padella alta dell’olio extravergine d’oliva, lasciatevi soffriggere l’altro spicchio d’aglio (che come prima andrà poi tirato via una volta insaporito l’olio) ed unitevi i frutti di mare e i gamberi rossi, sfumandoli con un po’ di vino bianco poco aromatico; infine i fiori di zucca. Quindi aggiungiamo un po’ di acqua madre di cottura dei frutti di mare, possibilmente passata al setaccio, che avremo in precedenza messo da parte; fate cuocere per circa 4-5 minuti, non di più. Una volta spenti i fuochi, lasciate intiepidire la zuppa e portatela in tavola già porzionata, in un piatto fondo, con le fettine di pane croccanti e, immancabile, un filo abbondante ancora di olio extravergine d’oliva.

Spaghetti con fave, lupini e vongole con la Falanghina Via del Campo 2008 di Quintodecimo

6 aprile 2011

Non sono solito scrivere di abbinamento cibo-vino, pur garantendone ben volentieri, su richiesta, un consiglio spassionato; tuttavia non c’è un momento in cui un piatto o un vino non richiedano una riflessione attenta in merito al loro sposalizio, momento che in verità manco spesso di raccontare su queste pagine per non appesantirne la lettura ai tanti “non addetti ai lavori”; certe occasioni però, come si dice, rappresentano quelle eccezioni che vanno confermando la regola.

Ingredienti per 4 Persone:

  • 320gr di spaghetti n.9 Garofalo
  • 150gr vongole Veraci
  • 200gr Lupini
  • 200gr fave fresche
  • 2 spicchi d’aglio
  • Olio extravergine d’oliva
  • Sale e pepe q.b.
  • Prezzemolo

Preparazione: in una padella versate un abbondante filo d’olio extravergine d’oliva, lasciate soffriggere l’aglio, quindi versatevi, a fiamma bassa, i frutti di mare che avrete precedentemente sciacquati accuratamente. Coprite e lasciate cuocere sino all’apertura delle valve unendovi magari uno o due ciuffi di prezzemolo per profumare ed un pizzico di pepe.

Mettete quindi sul fuoco la pentola con l’acqua, salate con attenzione e portatela ad ebollizione. Frattanto pulite le fave (opportuno che non siano grandissime, ma nemmeno piccoline), vanno tirate via dal baccello e quindi sgusciate una ad una.

Buttate la pasta, appena dopo unitevi nella stessa pentola anche le fave, quando gli spaghetti saranno al dente, tirate via tutto per saltarli immediatamente in padella con i frutti di mare; portate in tavola decorando i piatti con solo un ciuffettino di prezzemolo. Consiglio di non utilizzare prezzemolo tritato, saranno in questo caso le fave a giocare di contrasto con la succulenza e la sapidità del piatto.

Non è azzardato definire il matrimonio con questa stupenda Falanghina Via del Campo 2008 di Luigi Moio¤ perfettamente calzante. I tratti essenziali del piatto vanno esaltandosi ad ogni boccone con l’incipiente persistenza olfattiva di frutta e la profonda mineralità che si distende sul palato ad ogni sorso. Il piatto è essenziale ma giocato su credenziali piuttosto caratterizzanti, tendenza dolce, aromaticità, sapidità, succulenza. Il vino si offre a corrisponderne in abbinamento l’ottima persistenza olfattiva, con un frutto ben espresso, unito a note balsamiche, e gustativa, con freschezza da vendere affiancata da buon corpo, e quindi persistenza. E’ sbocciato l’amore!

Mirabella Eclano, Vigna Cerzito 2001 e il fascino della primissima vendemmia a Quintodecimo

4 ottobre 2010

Mi passa davanti un fotogramma, immagino la vendemmia a Quintodecimo¤ nel 2001: Laura e Luigi, vestiti di tutto punto intenti a pestare coi piedi l’aglianico atto a divenire nettare con il quale brindare all’inizio della nuova avventura di Mirabella Eclano.

Luigi Moio - foto courtesy Laura Di Marzio

Ebbene si, sono passati già quasi dieci anni, e pensare che in molti si ostinano a rincorrere modelli preconfezionati pur di non faticare, spesso non hanno nemmeno un metro quadrato di vigna, a volte nemmeno un indirizzo, nella migliore delle ipotesi una buona cantina nelle vicinanze di casa dove comprano o si fanno fare il vino, imbottigliato e già etichettato, rivendicando poi – che faccia tosta! – di essere proprio loro “autentici”, i loro vini quelli “veri” o come capita sempre più spesso negli ultimi tempi – ahinoi la peggiore delle ipotesi – dei rivoluzionari.

Laura Di Marzio - foto courtesy of Laura Di Marzio

Per Quintodecimo è andata diversamente e chi oggi arriva lì in cantina¤ lo respira appena messi i piedi per terra, non appena varcata la soglia del giardino, appena Moio, con la sua disarmante dialettica, sale in cattedra: è questo il secondo fotogramma a cui mi rifaccio, Luigi¤ ama raccontarsi e raccontare mentre è affacciato sulla terrazza che dà direttamente sulla vigna; spende parole chiare, racconta di esperienze professionali fondamentali, di ricerche, microvinificazioni, zonazione (?), di emozioni reali che riesce a trasmettere con forza e precisione, ha tra le mani, le stesse che mentre parla muove nell’aria quasi ad accarezzarla, la storia dell’enologia campana e la porge con la stessa generosità con la quale l’ha immaginata, studiata, vissuta profondamente, lui sì rivoluzionata, prima di consegnarla oggi ai suoi numerosi posteri allievi.

Il Vigna Cerzito 2001 è stato il primo vino prodotto qui a Mirabella Eclano nonchè l’ultimo dall’omonima vigna¤, di oltre trent’anni, che proprio successivamente alla raccolta è stata completamente espiantata per far posto al nuovo sesto d’impianto secondo i precetti del professore. All’epoca l’idea di metterlo in bottiglia, dopo due anni di legni nuovi, nasceva dalla necessità di lasciare una traccia dell’inizio di tutto, non certamente dall’esigenza di fare vino, fattostà che queste bottiglie non hanno mai visto la porta della cantina, al massimo la tavola della cucina di Laura, che è solita offrire solo agli amici più cari. Un vino quindi mai commercializzato, nemmeno denominato, di cui però è bene, credo, lasciare traccia per piacere di cronaca, e perché se molti si rifanno a questo modello di aglianico, austero, asciutto, tannico, vigoroso, sia utile scrivere che proprio Moio sembra averlo superato, a Quintodecimo, da più o meno una decina di anni.

Quintodecimo, foto A. Di Costanzo

Il colore è maturo, l’unghia ha già ben espressa una chiara nuances aranciata, rimane però cristallino e di buona vivacità. Il naso è decisamente volto a note terziarie, cioè caratterizzato da sensazioni odorose – foglie secche, mallo di noce, terra bagnata, caffè tostato – dovute innanzitutto al lungo invecchiamento passato tra legno e bottiglia; all’assaggio è asciutto, austero, il tannino ancora recalcitrante ma avviato lentamente alla dissoluzione (chissà il nerbo della prima ora?), la beva è generosa ma fluida, marcata da una acidità sottile ma ancora percettibile, appena lievemente amarognolo sul finale di bocca.

Tant’é, pur non esprimendo la verticalità a cui si può fare tranquillamente affidamento nelle più recenti interpretazioni di Luigi, il Riserva Quintodecimo¤ 2004 ne è sintesi disarmante, la complessità, qui compressa da uno start up certamente non facile per una primissima vendemmia, offre una palese dimostrazione di come, pur partendo da una materia prima non di primissimo pelo, Moio sia capace, attraverso una sana ed ineccepibile interpretazione tecnica, la così tanta vituperata ma indispensabile mano dell’uomo, dare voce e lunga vita all’aglianico: eh già, quasi come in un film, professore di nome e di fatto! 

Mirabella Eclano, il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 di Luigi Moio

19 Maggio 2010

L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro. (Milan Kundera, l’insostenibile leggerezza dell’essere).

Come Milan Kundera Luigi Moio¤ esprime un concetto talmente semplice e reale quanto sfuggente, presi come siamo ogni giorno dalla continua ricerca, nella vita come nel vino, di una continuità fine a se stessa impossibile da ottenere sistematicamente senza rinunciare alle emozioni; Alla base di tutto vi è un concetto elementare: ogni nostra azione, ogni nostro istante è irripetibile; Perché la vita stessa è irripetibile. Kundera con il suo meraviglioso libro ci dice che non siamo preparati ad essa e che non abbiamo seconde possibilità. Tutto ciò che scegliamo o consideriamo inizialmente come leggero rivela presto il suo incredibile peso.

Così Moio, in maniera disarmante concede attraverso i suoi vini una chiave di lettura del terroir antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario Vigna Quintodecimo 2004, autentica territorialità ed eleganza da vendere, nettezza d’aglianico e finezza esemplare, lontana anni luce da quel Taurasi che dopo anni di intimo (non tanto) vagar sospeso tra il tutto ed il niente sembra aver riscoperto nelle piccole imperfezioni dei nuovi interpreti la sua franchezza. E’ così tanta la strada da fare, perchè pensare di aver già trovato la quadratura del cerchio? E’ perchè sprecare tempo (leggi denaro) e parole invece di investirli in ricerca e conoscenza? Questo il messaggio che mi è parso rileggere, ancora una volta in questo eccellente vino.

Il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 è vino incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino vivace, concentrato e splendente, con appena accennate sfumature granata sull’unghia. Il naso offre un ventaglio olfattivo delizioso ed intrigante, varietale, intenso e complesso, sensazioni di finissimi terziari in ascesa ma appena espresse. Un ventaglio olfattivo imponente, decisamente aperto a concedere minuto dopo minuto, quarto d’ora dopo quarto d’ora sempre fresche sensazioni olfattive: piccoli frutti neri, fiori passiti a rincorrere nuances di spezie ficcanti ma suadenti, note balsamiche dolcissime cadenzate da nerbo e giustezza. Vino secco, in bocca entra con la stessa delicatezza delle parole di Kundera, innescando con la sottile invadenza una profondità attesa e allo stesso tempo sorprendente; il frutto pervade tutto il palato, costantemente sopra le righe, incanta e coinvolge per bene tutte le papille gustative, si ha quasi la sensazione di metterle costantemente in riga a chiedergli di aver ben compreso il messaggio prima di lasciare il campo allo spesso nerbo acido-tannico, presente ma castamente defilato in attesa di tempi migliori.

Un vino per i prossimi vent’anni, una emozione per i prossimi cento, aperta ad ogni confronto, la terra d’Irpinia racconta, Luigi Moio ci rende partecipe del suo canto!

Qui le degustazioni di tutti gli altri vini di Quintodecimo¤ del millesimo 2007.

Chiacchiere distintive, Luigi Moio

7 dicembre 2009

E’ una bella giornata, e nonostante le prime bizze facciano pensare al peggio, la macchina va e vuole arrivare lontano. Arriviamo a Mirabella Eclano in tarda mattinata, ci lasciamo alle spalle sulla statale il bellissimo Radici Resort dei Mastroberardino prima di imboccare la viuzza che in località Cerzito cia apre allo straordinario scenario del piccolo chateau di Luigi Moio e Laura Di Marzio nel cuore del Taurasi d.o.c.g..

Luigi Moio - foto A. Di Costanzo

Quintodecimo ci appare come un bellissimo giardino d’inverno con colori bruni e giallastri a rincorrersi come nel più ermetico dei quadri impressionisti, con in cima la sua bella e discreta casa colonica con il tetto rosso. Ci accoglie Laura e subito dopo arriva Luigi Moio, è dalla prima mattinata in giro per l’azienda a verificare i dettagli dei lavori ancora in corso su e giù nella cantina. L’approccio, devo dirlo, è un po’ contratto, pare quasi accademico, ma non poteva essere altrimenti, la riverenza nei confronti del professor Moio c’è, traspare, lo riconosciamo, eppure impareremo a scoprirlo sotto una veste diversa, piano piano durante questa mattinata d’un tratto avremo capito perchè qui si fa la storia mentre altrove solo chiacchiere, come grappoli censiti uno ad uno, come acini selezionati uno ad uno arriveremo al cuore di Quintodecimo, alla terra, al sogno, all’uomo, poi al vino, alle sensazioni ed alle emozioni che evocano, esplorano, regalano, all’esaltazione di quella parola di cui tanti abusano ma che pochi riescono a proporre con tale e tanta naturalezza: terroir.

“Quintodecimo nasce qui perchè qui c’è quello di cui avevo bisogno, così immaginavo un giorno la mia azienda, nel cuore dell’irpinia perchè l’irpinia la porto nel cuore; con l’aglianico, il fiano ed il greco in primis perchè sono, senza rischio di smentita, i vitigni più importanti della nostra regione e da questi nascono i vini di grande profilo organolettico. La Falanghina poi è senza dubbio il vitigno a cui sono maggiormente legato, era il momento di concedergli quel riscatto che merita ed il valore straordinario che ha ancora da conquistarsi sul mercato” . Un sogno inseguito e costruito negli anni a macinare chilometri in giro per il mondo a rincorrere conoscenza e tecnica da profondere poi qui, a Mirabella Eclano, in un’azienda con un vigneto giardino, una cantina che scopriremo poi essere stata pensata oltre trent’anni fa, sin dagli ultimi esami da perito agrario, prima di tutto quel percorso che avrebbe formato e forgiato il professore Luigi Moio, ordinario per professione straordinario per vocazione. “Ho nutrito tante passioni sin da piccolo, la chitarra, la pittura, l’arte, il simbolismo, oggi sono profondamente innamorato dei miei figli, della mia Laura e del mio lavoro in questa terra meravigliosa”.

Siamo in cima alla vigna, proprio ai piedi della cantina, mentre parla, mentre racconta la sua storia il clima accademico è già virato nella conversazione, nel confronto, quello concesso all’amico di ritorno da un viaggio straordinario che ha necessità di raccontare e che abbiamo sete di ascoltare. Ascoltare Luigi (a conferma di ciò, nel frattempo abbiamo deciso di darci del tu) è come il sottile piacere provocato dal cioccolato fondente sulla lingua, lentamente cede la sua austerità alla subliminazione della gola, e diviene piacere; ascoltarlo mentre parla senza perdere di vista nemmeno per un attimo il vigneto è come se stesse semplicemente ripetendo ciò che proprio quella vigna gli ha chiesto di fare: “raccontami!”

Cantina a Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Ci spostiamo in cantina, alcuni collaboratori stanno preparando le ultime (poche) casse di vino rimaste, colpisce subito la presenza di tanti piccoli tini d’acciaio¤, inizia proprio qui un’altro viaggio, l’applicazione di tanti accorgimenti profusi negli anni qua e la’ in giro soprattutto nel sud Italia nelle aziende che segue come consulente, ma che solo qui hanno acquisito corpo unico ed espressione oserei dire “totale”: “vengono vinificate uve di tante piccole parcelle dei vari vitigni che lavoriamo, pertanto osservare ognuna di queste peculiarità già dalla prima fase produttiva mi serve per capire, esaltare ogni singola caratterizzazione propria di questo o quel vigneto“.

Ci incamminiamo lungo la barricaia¤ accompagnati dal gradevole profumo di legni nuovi misto al vinoso dell’aglianico che in questi giorni sta subendo i primi travasi, arriviamo nel piccolo caveau dove Luigi ha iniziato a riporre il personale archivio storico liquido, dalle vecchie, vecchissime bottiglie di Michele Moio alle preziose ed alcune introvabili bottiglie di bordolesi e borgognoni (tra cui Hospice de Beune), alle numerose nate e cresciute sotto la sua guida tecnica, dal Taurasi di Antonio Caggiano ai cru di cantina del Taburno, agli ultimi di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini¤: “hanno tutti un posto particolare nel mio cuore, questi come tutti gli altri indistintamente, a loro ho dato tanto impegno e serietà professionale, mi hanno ricambiato negli anni con profonda diligenza e stima, siamo riusciti assieme a dare nuovi impulsi alla viticultura campana, e queste bottiglie sono la testimonianza del mio e del loro lavoro innanzitutto, che voglio sempre tenere a portata di mano”.

Ci avviamo verso l’uscita della cantina, alcune curiose particolarità non potranno che rimanere nell’immaginario dell’avventore di turno, come quella di conservare le teste e le code¤ degli imbottigliamenti (materiale prezioso per le bevute personali) e di stoccare tutte le bottiglie avviate man mano alla commercializzazione in ampie casse di legno anzichè in anonime griglie di ferro. Chiudiamo qui il percorso tra vigna e cantina, ci spostiamo in casa di Laura (che adesso stringe al petto l’ultimo nato, quattro mesi fa) e Luigi, i vini sono lì pronti per la degustazione, ma questa è tutta un’altra storia che non mancherò di raccontare prossimamente…

P.S.: in tutta questa giornata, a parte gli occhi sgranati sul colpo d’occhio della Vigna¤ a Quintodecimo il ricordo più bello che portiamo via è il momento in cui Luigi, prendendoci per mano ci accompagna nel suo studio, dove tutto è nato e attorno al quale poi si è sviluppata l’azienda: ci ha mostrato il suo progetto di allora, datato 1975, presentato poi anche alla commissione d’esami da perito agrario: aveva appena quindici anni, tutto era già scritto!

Aeclanum, Quintodecimo parte II: la cantina

4 dicembre 2009

Il primo particolare della piccola e suggestiva cantina di Quintodecimo a Mirabella Eclano che mi è saltato subito agli occhi. I tini di acciaio dove avvengono le vinificazioni sono di dimensioni piccole, a sottolineare la maniacale ricerca del prof. Moio nelle vinificazioni attente e parcellizzate da vigna a vigna se non addirittura  di filare in filare…

La barriccaia è composta da soli legni nuovi francesi per i diversi cru di aglianico atti a divenire Taurasi, così nasce per esempio il Vigna Quintodecimo. E’ molto affascinante seguire il percorso lungo i corridoi che porteranno negli anni i vini ad affinare di sala in sala sino a raggiungere l’area di imbottigliamento e confezionamento. 

Questa è una novità assoluta per me. Qui a Quintodecimo si eliminano dalla linea di imbottigliamento le “teste” e le “code” , sì proprio come si fa classicamente per i distillati di pregio. Vengono poi conservate privatamente dal prof. Moio come archivio storico.

Tutti i vini dell’azienda, la Falanghina Via del Campo, il Fiano di Avellino Extulet, il Greco di Tufo Giallo d’Arles, l’aglianico Terra d’Eclano ed il primo Taurasi commercializzato, il Riserva Vigna Quintodecimo prima di varcare la soglia della cantina vengono lasciati riposare in queste ampie casse di legno per smaltire lo stress da imbottigliamento.

Una cosa è certa, qui nulla è lasciato al caso…

Aeclanum, Quitodecimo parte I: la terra

3 dicembre 2009
 
Il bellissimo vigneto giardino dell’azienda Quitodecimo di Luigi Moio a Mirabella Eclano, qui inizia il viaggio di una giornata speciale a caccia di stelle, prima qui e poi a Nusco.
Esposizione nord, nord-ovest per il vigneto che discende dalla collinetta dove Luigi Moio ha deciso di realizzare il suo sogno di vigneron.I vigneti di Aglianico hanno circa 8 anni…
I protagonisti: a sinistra, l’argilla, compatta, caratteristica del vigneto Quintodecimo, a destra invece il terreno più sciolto, povero di scheletro, caratterizzante la vigna Cerzito, che diverrà in futuro il secondo cru di Taurasi dell’azienda. Il vigneto è esposto a sud…
Certi colori non si dimenticano mai, e mai si smettono di inseguire, tutto nasce qui, in vigna: La scoperta più grande sta nel ricercare e ritrovare nei bicchieri ciò che avviene perennemente qui, e a breve il report delle eccezionali bevute di questa mattinata…

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: