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Asprinio d’Aversa Extra Brut Ris. Grotta del Sole

25 settembre 2011

L’antefatto – un mio post su facebook che vantava delle grazie e dell’ottimo rapporto prezzo/qualità di questo vino – conduce a una riflessione più o meno azzeccata sul concetto sempre troppo poco chiaro su ciò che è percepito come caro e ciò che invece risulta più semplicemente costoso. O quantomeno più costoso di altri.

Questa è una delle più riuscite operazioni glamour di Louis Vuitton, si chiama Monogram Nova Minaudière; nome piuttosto altisonante per una mini borsetta che pesa un grammo ed è grande più o meno quanto una palla da albero di natale. E’ invece – dicono -, un piccolo capolavoro d’ingegneria nonché di salatissima manodopera (?): è infatti interamente ricoperta di minuscoli Swarovski argentati e neri, incastonati a mano uno ad uno. Costa circa 35.000 dollari, quanto una bmw, con tutti i confort s’intende.

Questa cosa invece è un cannolo siciliano, creato ad hoc da Carey Iennaccaro, pasticcere italo-americano all’opera presso il ristorante Jasper di Kansas City, nel Missouri, Stati Uniti. Preparazione di finissima arte culinaria è arricchita da una collana made in Italy costellata di purissimi diamanti e lavorata dalle mani esperte del gioielliere Tom Tivol che viene servita insieme al dolce, a sua volta ricoperto di foglie d’oro commestibili. E’ servita solo su prenotazione (!), a più o meno 26.000 dollari (si sa che il prezzo della ricotta subisce forti speculazioni negli Usa). Astenersi diabetici.

Questo qui sopra, come è noto a molti, è un vigneto di asprinio “ad alberata aversana”, un modo di fare viticoltura assolutamente fuori dal tempo, consegnatoci da generazioni tanto passate che si perdono nella memoria; loro erano convinti che ne avremmo saputo fare buon uso, noi ne abbiamo contezza da qualche tempo. Da queste uve così piantate nasce un vino sottile e particolarmente acido; tanto sottile da perdersi facilmente nel bailàm dei cento e più vitigni autoctoni campani. Quanto all’acidità invece, ne ha saputo fare vanto, e ne ha tratto solo giovamento, anzi, forse l’unica ragione che l’ha strappato all’oblìo dell’estirpazione e consegnato alle borgognotte della famiglia Martusciello di Grotta del Sole.

Non a caso, molti lo ignorano – in verità pochi lo sanno -, l’asprinio metodo classico di cui vi parlo si chiama proprio Riserva Grotta del Sole, a significare, ove ce ne fosse stato bisogno, quanto valore quest’uva e questo vino abbiano per la famiglia di vignaioli flegrei e quanto abbia contato in assoluto il loro impegno per la salvaguardia di questa antica produzione campana. Sul vino c’è da dire giusto quel poco che serve leggere: ha una spuma copiosa seppur non particolarmente persistente mentre le bollicine s’infilano sottili, fini e piuttosto insistenti. Il colore marca un bel giallo paglierino carico e luminoso, brillante; il naso è pulito, fragrante, offre un bel ventaglio olfattivo sgraziato e intrigante, che chiude su note di frutta secca ed eleganti rimandi speziati. Ciò che sbanca però è il sorso, asciutto ma ricco, profondo e avvolgente, dritto ma senza spigoli eccessivi. A venderlo caro, sui 18 euro in enoteca (un metodo classico così è da incorniciare a memoria d’uomo!).

Questa recensione esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Campi Flegrei Falanghina 2009 Cantine del Mare

9 aprile 2011

Cantine del Mare, Monte di Procida (NA)

Monte di Procida nell’immaginario collettivo di noi flegrei è sempre stata terra di partenza; a buttare uno sguardo agli albi comunali si leggono tracce che raccontano anni di migrazioni di massa; spesso intere famiglie, a volte più generazioni che hanno lasciato questo piccolo comune dei Campi Flegrei per raggiungere mete lontane talvolta migliaia di chilometri: Stati Uniti, Canada, sud America le destinazioni più ambìte; più di una volta senza fare ritorno, se non per la vecchiaia. Monte di Procida annovera anche una marineria tra le più esperte in forza alle numerose compagnie multinazionali di shipping che solcano i mari di tutto il mondo; gente esperta ed impavida, che porta nel proprio dna un legame fortissimo con il mare.

Gennaro Schiano aveva un’idea che gli frullava nella testa da anni; no, non quella di lasciare la sua terra natìa, sentiva anzi sempre più forte l’esigenza, l’impellenza, di piantarvi radici ancora più profonde; così la passione per il vino ha preso il sopravvento, l’idea di una terra in movimento è divenuto un progetto solido e duraturo; si gode così, dalle sue vigne, lo splendore del mare d’inverno, e gli straordinari tramonti all’orizzonte: oggi a girare il mondo preferisce mandare le sue bottiglie di vino, falanghina e per e’palummo.

Così nel duemilatre nasce Cantine del Mare, con la collaborazione dell’amico Pasquale Massa, a cui tocca fare divulgazione, e del giovane Gianluca Tommaselli a cui sono state affidate le redini della piccola e suggestiva cantina in tufo di via Cappella. Le uve predilette, come detto, sono quelle tradizionali flegree; con la falanghina, oltre al delizioso bianco di cui vi parlo oggi, viene prodotto anche un interessante vino spumante, il Brezza Flegrea.

Con questo vino di Cantine del Mare inauguriamo il nuovo corso bianchista della nostra rubrica, che nelle scorse settimane aveva volutamente dato ampio spazio soprattutto al piedirosso, vitigno decisamente meno diffuso della falanghina nei Campi Flegrei, ma non per questo meno ricercato. Nelle prossime uscite quindi vi racconteremo approfonditamente dei nuovi bianchi 2010, anche in virtù di una primavera che, a dispetto del calendario, tarda sì ad arrivare ma, che non possiamo non sentire già nell’aria. Iniziamo però da un duemilanove, dal vecchio millesimo per intenderci, dove eravamo rimasti. Un bianco, questo di Gennaro, essenziale ed immediato, lieve, minerale, franco, proprio come penso debba essere una falanghina della nostra terra; in questo momento, dopo un anno e più di bottiglia, nel suo momento migliore, è al suo apice espressivo. Qui la marcia in più è la sapidità, quella gradevole sensazione di compiuta bevilibilità che solo certi bianchi sanno offrire, e la “nostra” in questo caso ne è regina; un bianco leggiadro, fine ed elegante, che solletica il palato ma non affonda le unghie, che infonde calore ma non appesantisce il palato. Un bel biglietto da visita per i Campi Flegrei!

Questo articolo è stato pubblicato questa settimana su Pozzuolidice nella nostra rubrica di enogastronomia dove abbiamo offerto ai nostri lettori anche una fresca e saporita ricetta di mare consigliataci qualche tempo fa dall’amico Carmine Mazza de Il Poeta Vesuviano di Torre del Greco; piatto perfettamente abbinabile a questa sottile e finissima falanghina flegrea. Ne “il Dizionario del vino” inoltre,  anche un nuovo termine per imparare “a leggere” il vino.

Denver, Colorado Cabernet Franc 2001

30 dicembre 2009

Spero Winery nasce nel 1996 quando June, moglie di Clyde Spero eredita un piccolo appezzamento di terra proprio a ridosso di Denver. Si decide, piuttosto che costruire immobili, di piantare un vigneto con la prospettiva di mettere su, nel tempo, una vera e propria azienda vitivinicola, ripercorrendo in qualche modo le tracce storiche della tradizione familiare paterna. La prima vendemmia arriva nel 2000, ed ai primi assaggi, tutto fa pensare a che si sia fatto un gran bel lavoro. I vini base risultano di particolare pregio, le uve selezionate, perlopiù vitigni internazionali mostrano di avere fittezza di aromi e carattere da vendere, pertanto la via maestra è imboccata.

La storia della famiglia Spero è per certi versi la stessa di tante famiglie italiane che agli inizi del secolo scorso hanno lasciato il nostro paese in cerca di fortuna negli Stati Uniti; Tutto nasce da Gaetano Spero, originario di Potenza, che ha appena 13 anni quando assieme a due amici, anch’essi poco più che adolescenti sbarca a Nuova York, con appena 5 dollari in tasca. Inizia qui il lungo viaggio che lo porterà ad attraversare praticamente tutti gli stati confederati dall’east coast sino in Colorado, dove grazie all’aiuto di alcuni lontani parenti che l’avevano preceduto, riuscirà a trovare lavoro in una miniera di carbone. Come da manuale, con il passare degli anni sono tante le ricorrenze e le tradizioni attraverso le quali si cerca di conservare un forte legame con le proprie origini, e Gaetano, le sue origini vulturine le vuole conservare seriamente tanto che lo portano di anno in anno, tra le altre cose, a produrre, in proprio, discrete quantità di vino (da uve internazionali) per il consumo familiare. Fare vino è un’arte che sa bene come interpretare: scegliere le uve, valutarle, vinificarle nella giusta maniera vengono affrontati con una tale perizia e maestria tanto da dover in più di una occasione rifiutare interessanti proposte di avviare una seria commercializzazione avanzategli da diversi amici-rivenditori locali. Clyde Spero, non ha fatto altro, qualche anno più tardi, che riprendere le fila di questa tradizione e la bontà dei suoi vini ne sono oggi tangibile testimonianza.

Il Cabernet Franc (conosciuto in giro per il mondo anche con i nomi Bouchet, Breton, Carmenet, Grosse-Vidure) predilige ambienti pedoclimtici freddi, è una varietà apprezzatissima se vinificata in uvaggio, soprattutto con il cugino Cabernet Sauvignon, che tende generalmente a stemperarne molto le sue note varietali soprattutto erbacee e vegetali, che ne fanno per questo un vitigno poco ambìto alla lavorazione più o meno al 100% (fatte le dovute eccezioni, una su tutte il mitico Chateau Cheval Blanc di Saint Emilion che è, per gran parte, proprio Cabernet Franc).

Nel bicchiere un vino rosso rubino con unghia granata appena accennata, è vivace e per niente trasparente. Il primo naso è molto invitante, appare subito intenso e complesso, fine; subito note di frutti rossi e fiori secchi, si riconoscono su tutti, sentori caramellati di lampone e amarena, poi lavanda, noce di cocco, poi ancora note balsamiche di liquerizia, cuoio. In bocca è importante, materico, profondo: è secco, molto caldo, possiede discreta acidità e poco tannino, scorre via in una beva di corpo, quasi robusta, con un finale di buona sapidità ed armonia. Un vino quasi masticabile, dal finale dolcemente equlibrato e lungamente piacevole. Da servire, dopo un’attenta ossigenazione, in ampi calici di cristallo per esaltarne tutte le sfumature organolettiche, su piatti importanti, bolliti come “dio comanda” o maialino cotto a bassa temperatura, piatti insomma di buona grassezza e succulenza da vendere, anche con intense aromaticità.


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