Posts Tagged ‘quarto’
6 ottobre 2018
Siamo a Quarto, territorio che a torto non ha mai goduto di una particolare considerazione in ambito vitivinicolo, ma nei pressi della ‘’Montagna Spaccata’’ sull’Antica via Consolare Campana costruita dagli antichi Romani per collegare il porto di Puteoli a Capua, proprio sul confine naturale che la divide da Pozzuoli da un lato e da Napoli (Pianura) dall’altro, c’è una collinetta particolarmente vocata che domina tutta la piana quartese. Da qui, in lontananza, si colgono chiaramente Capo Miseno e buona parte del golfo di Pozzuoli.

Pèr ‘e Palummo dei Campi Flegrei 2017 Carputo Vini
La Collina di Viticella passa dai 50m s.l.m della via omonima ai poco più di 150m s.l.m., niente di particolare si direbbe eppure nella sostanza questo lembo di terra tufacea dà uve particolarmente caratteristiche e segnate da profonda pienezza e fragranza gusto-olfattiva.
Il vigneto conta all’incirca 10 ettari tra vigne vecchie di 25/30 anni piantate con sistemi tradizionali e alcuni nuovi impianti più recenti, vi è perlopiù falanghina ed in parte pèr ‘e palummo¤ – così come si preferisce ancora raccontare quest’ultimo -, coltivato quasi esclusivamente nella parte alta della collina e che generalmente viene vinificato con le altre uve piedirosso provenienti da altre parcelle del circondario che assieme danno vita all’unico rosso flegreo prodotto dall’azienda. Piedirosso 2017 che conserva tutta la sua piacevole verve fruttata e floreale al naso e paga forse un po’ di ritardo di maturazione al palato, il sorso rimane affabile e gradito ma un tantino acerbo, contrapposizione che nulla toglie alla qualità del vino ma che forse dà troppa vivacità alla degustazione.

Falanghina dei Campi Flegrei Collina Viticella 2017 Carputo Vini
Eccolo nel bicchiere il Collina Viticella 2017 dei Carputo¤, ad un anno dalla vendemmia, in tutta la sua freschezza e pienezza gustativa. In questa bottiglia vi finisce solo una parte del raccolto in collina che viene vinificato separatamente e tenuto in serbatoi diversi prima dell’assemblaggio finale. Siamo fortunati a provare una delle ultime bottiglie in circolazione dell’annata duemiladiciassette, millesimo complicato che ha dato vita ad un bianco un po’ sopra le righe già conosciute in precedenza ma pur sempre caratterizzato da un quadro di degustazione pieno di fascino e sostanza.
Se sono infatti da annoverare come una rarità assoluta i tredici gradi e mezzo in etichetta, esempio di come questa vigna sappia distinguersi nettamente in un territorio così frammentato ed eterogeneo, non siamo lontani dai canoni di pulizia e nettezza olfattiva, dalla sua solita complessità dei profumi floreali e fruttati e dalla puntuta freschezza che ne accompagna costantemente ogni sorso, tutto a favore della grande bevibilità del vino!

Falanghina dei Campi Flegrei 2017 Carputo Vini
Del resto non bisogna mai dimenticare quale sia il ruolo principale del vino a tavola, il suo essere funzionale a tutto un pasto completo e non (solo) ad una singola portata: l’abbinamento cibo-vino infatti è una voluttà, pur nobile, che poco appartiene alla nostra cultura enogastronomica che vuole spesso – addirittura lo impone talvolta -, vini mediamente leggeri e poco impegnativi che vadano ad accompagnare certi piatti più che a sostenerli.
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17 novembre 2014
Vieni a Sud che ci trovi il mare, il sole e la fantasia verrebbe da dire ogni qualvolta ti ritrovi a scrivere qualcosa dopo aver mangiato da Marianna e Pino. Che pure se a Quarto il mare non c’è la mia è una mezza verità che nessuno potrà mai smentire.

Marianna Vitale quest’anno ha fatto il botto: è Cuoca dell’anno per la Guida ai Ristoranti d’Italia L’Espresso, Chef donna dell’anno per Paolo Marchi di Identità Golose, dalla Michelin ha visto confermata la sua (luminosa) Stella e il Gambero ne comprova senza mezzi termini la crescita ormai esponenziale; un grande successo insomma, un momento d’oro che si merita tutto e che premia anzitutto il suo talento purissimo, quasi una vocazione, ma anche l’intuizione, il sacrificio enorme di una ragazza che si è letteralmente inventata il lavoro della sua vita. E il bello, pare, deve ancora venire…

Nell’ultimo mese ci sono tornato due volte, dapprima con un po’ di amici per festeggiare la chiusura della stagione a Capri, poi giusto una settimana fa per conto mio. Due momenti da mettere qui sul diario, due momenti colmi di suggestioni, colori, profumi e di straordinaria gioia, quella che viene fuori da ogni piatto di Marianna grazie anche all’armonia che regna in sala con il buon lavoro di Pino, Carmine e Giannantonio.
Allora si comincia così, con Cotechino e friarielli ed una Zuppa di fagioli cannellini, sconcigli e funghi, due piccoli appetizer di benvenuto. Il Cotechino è quello (artigianale) di Mario Carrabs, il resto è bontà del territorio flegreo.

Uno dei migliori piatti per freschezza ed armonia è la Minestra di mare con verdura e frutta di stagione, uno di quelli nuovi in carta quest’anno. Marianna nei suoi piatti sembra amare molto le spigolature, magari anche sovrapporle, andarci in contrasto ma senza annullarle del tutto. Un segnale di forte vitalità. Come l’uso dell’acidità come una sfida non necessariamente da vincere.

Ci arriva quindi la Zuppa di Maruzzielli, o lumachine di mare, un fuori carta giustamente ‘forte’ che mi riporta all’infanzia e a certe domeniche in cui il vero e proprio ‘spasso’ era tirarle vie dal guscio con l’ago di mamma, stando però attenti a che non te le fregassero una volta ‘pulite’. Piatto di straordinaria succulenza.

Tra le decine di bottiglie provate, prima in compagnia di amici e poi successivamente con Lilly mi è rimasto impresso più di tutti questo meraviglioso Trebbiano d’Abruzzo 2011 di Emidio Pepe, bianco di grande carattere, a pieno titolo nella storia del vino italiano ma che mancavo di provare da qualche tempo: mi ha conquistato subito, sin dal primo sorso, vibrante e compulsivo, con un naso ampio e suggestivo, pieno di sfumature ed un sapore mascolino e sapido. Sui generis.

Questo qui potremmo definirlo il trionfo dello Spaghettone: l’abbiamo provato con Ricci di mare e Bufala (1), poi con Cipolla rossa, acciughe e lime (2), infine con Carciofi e colatura di alici (3), grandiosi! Infine l’Impepata¤, il meraviglioso schiaffo alle papille gustative del Mischiato delicato con cozze, pepe e limone (4).

Altro giro altre sensazioni. Molto buono lo Sgombro arrosto, gazpacho e grano spezzato (1), con la vellutata delicatezza del gazpacho che inchioda le velleità dello sgombro; sapori netti invece con il Vitello Stonnato, già un must qui a Sud, ovvero lingua di vitello con pesce azzurro marinato alla shiso, maionese al pomodoro e polvere di capperi (2).
Quindi Il baccalà e la parmigiana di melanzane (3), forse l’unico piatto che pur buono lascia pensare alla necessità di una rivisitazione, quantomeno nel servizio. Infine Il Gran Fritto (4), quello tradizionale presentato però in tavola con grande garbo e finezza. Una gioia per gli occhi e per la gola.

A chiudere, ancora un fuori carta, Calamaretti spillo con il loro quinto quarto e nero di seppia, forse il piatto più ‘gurmè’ della batteria ma che ai palati più attenti ed esigenti piacerà senz’altro. C’è dentro intuizione e tecnica, fattori che non sfuggono (quasi) mai all’appassionato di turno.

Due parole sulla carta dei vini: la cantina di un ristorante negli ultimi dieci anni ha subito cambiamenti epocali, via le carte infinite, quantomeno non sono più il modello da seguire, libroni quasi sempre buoni solo per aumentare di qualche metro quadrato l’ego del patron o sommelier di turno, un cambiamento di rotta che ha dato il là ad un rinnovamento necessario e tangibile anche nei migliori ristoranti ‘stellati’.
Ecco che il lavoro di fino di gente attenta e scrupolosa come Pino, aperta alle novità ma senza strafare, merita rispetto e valorizzazione; Sud ha una carta dei vini che segue pari passo la crescita della sua cucina, continua a girare sulle 250 etichette dove trovano spazio nomi noti ma anche buone chicche, con ricarichi anche abbastanza centrati.
Bene, questo è, sono tornato a Sud con il desiderio di stare bene, me ne sono andato via assaporandone già nuovamente il ritorno. ‘…Però per favore non farlo nuovamente tra due anni’, mi dicono.
Chiacchiere distintive, Marianna Vitale.
Quarto, dietro l’angolo c’è Sud.
Ristorante Sud
Via SS Pietro e Paolo n° 8 Quarto (Napoli)
tel. 081.0202708
www.sudristorante.it
Aperto la sera, domenica e festivi a pranzo Chiuso il lunedì
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15 novembre 2014

4 Cucchiaio&Forchette (luogo di Gran confort)
2 Stelle (Tavola Eccellente)
Grappolo Rosso (Specialità e Vini scelti)
Un vasto e raffinato salotto dove l’illuminazione, tessuti e decorazioni creano un’ineguagliata armonia di stile e benessere; in cucina il giovane Migliaccio si fa portabandiera di piatti mediterranei e creativi, eleganti e sofisticati. Risotto ai ricci di mare con colatura di alici, acqua di pomodoro e friselle al finocchietto. Scorfano in guazzetto con peperoncini verdi e pomodori brasati. Sfera di cioccolato al latte con prugne alla lavanda e mandorle tostate.
Confermata la Stella al Riccio Restaurant&Beach Club.
Entra in Guida 2015 anche LARTE Milano.
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21 ottobre 2014
‘L’alta cucina è una continua ricerca di armonia tra ingredienti diversi che insieme esprimano equilibrio e sostanza…’ Stronzate! L’alta cucina è portare in bocca un cucchiaio di questo piatto di Marianna¤ e dire… Oh cazzo!

Impepata, Mischiato delicato con cozze, pepe e limone. Ci puoi stare ore lì a pensarci, forse anche dei giorni: ti piace, non ti piace, troppo pepe, troppo limone. E poi l’equilibrio, eh… l’equilibrio?
E invece… invece no, qui non serve null’altro, qui vale la memoria, l’intuizione, il talento, l’azzardo, mettere nel piatto e portare in tavola qualcosa che ha del geniale, una zingarata capace di rompere il ghiaccio e scaldare gli animi! Troppo, troppo forte!
Ristorante Sud
Via SS Pietro e Paolo n° 8
Quarto (Napoli)
tel. 081.0202708
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Aperto la sera, domenica e festivi a pranzo
Chiuso il lunedì
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20 febbraio 2014
La domanda dei prossimi anni? Vitigno o Denominazione? Mi spiego: il territorio dei Campi Flegrei è da sempre inteso con buona ragione come culla della falanghina e del piedirosso. Due varietali sempre in primo piano anche sulle etichette che tutti abbiamo ormai imparato a conoscere. Va bene così o si può pensare a un modello di comunicazione diverso?

Non mancano opinioni contrastanti sull’argomento ed il tempo ci dirà chi ha ragione, frattanto alcuni produttori hanno preso già da tempo a minimalizzare sulle proprie etichette il nome del varietale a favore della doc Campi Flegrei impressa invece a carattere cubitali. Ma facciamo un po’ il punto della situazione sul vigneto flegreo, quali sono i luoghi tanto decantati in passato ed oggi cuore pulsante della doc? Successivamente, in alcuni prossimi post, entreremo ancor più nello specifico in quello che ritengo il quadro organolettico maggiormente espressivo che può offrire oggi il territorio. Frattanto giusto qualche nozione geografica.
Pozzuoli. Qui la vigna è ovunque, spesso invischiata nel caos di una città (praticamente) metropolitana che alterna il borgo antico a quartieri popolari e ruralità inaspettate, un modello urbano per così dire eccentrico, segnato profondamente dal bradisismo e apparentemente senza regole, che inghiotte ogni giorno centomila anime e ne rigurgita almeno la metà, un suburbio senza confine con il centro storico circondato dal mare, il vallone tufaceo di Toiano, le colline ricche di lapilli dello Scalandrone e di Monterusciello, la sabbia della costa cumana.

Vigne però talvolta stupende, baciate dal sole, vedi quelle nel Lago d’Averno, suggestive, consegnateci da una tradizione millenaria e da una vocazione unica e rara: filari a Spalatrone sulla salita di via Scalandrone, zona formidabile per il piedirosso, le coste di Agnano a ridosso del vulcano Solfatara; altre volte fazzoletti un po’ più allungati a Monterusciello e in zona Cuma-Licola carezzati dalla brezza marina, in certi casi con piantagioni moderne, allevate con sistemi contemporanei; nuovamente piccole pezze di vigne vecchie sulla collina di Cigliano laddove raramente il buonsenso ha prevalso sul cemento.
Insomma, Pozzuoli è l’epicentro di una viticoltura flegrea che ha tanta materia per fare qualità e ritornare ad un futuro di normalità territoriale, agricola, sostenibile. Qui operano Grotta del Sole (la Tenuta Foglie di Amaltea nella foto, con cantina a Quarto), memoria storica del territorio, Matilde Zasso, Cantine Babbo, Contrada Salandra, Iovino, la neonata Cantine dell’Averno con parte dello storico vigneto della famiglia Mirabella nel Lago d’Averno (foto di copertina).

Marano, i dintorni e le colline più prossime a Napoli. L’areale più popoloso ma che, inaspettatamente, cela il futuro più immediato della viticoltura flegrea; luoghi dal passato distratto che ha visto sacrificare all’altare della politica della speculazione edilizia ettari ed ettari di boschi, colture e vigne che dominavano la città a 360° dalle terrazze dei Camaldoli alla piana di Agnano. L’hanno capito, meglio tardi che mai, anche in regione, dove da qualche tempo vanno sostenendo progetti di ricerca e selezione clonale su falanghina e piedirosso di questo pezzo di terra; e ci credono, ancor più, piccoli e grandi viticoltori-produttori che qui vanno investendo sul futuro piantando vigna anziché colare, ancora, cemento. Forza ragazzi!
Da queste parti ci sono Agnanum di Raffaele Moccia (nella foto), Cantine Astroni, prima ancora la storica Cantine Varchetta, Colle Spadaro, Le Vigne di Parthenope, Cantine Federiciane Monteleone della famiglia Palumbo.
A Quarto. L’areale forse meno battuto della denominazione dove il clima torrido e a volte bizzoso di certe estati fa letteralmente impazzire i vignaioli di tutta la piana; chi ha vigne anche di poco più “alte” è costretto a fare tanta selezione in campagna per riuscire a portare a casa il risultato. La collina di Viticella esprime buoni frutti, qui i vini di maggiore fragranza e leggerezza e a prezzi naturalmente più che ragionevoli. Qui operano prevalentemente Carputo, tra i primi ad imbottigliare la doc, più recentemente Quartum della famiglia Di Criscio e Il IV Miglio anche se quest’ultima negli ultimi tempi in maniera più defilata.

A Bacoli e Monte di Procida. Terrazze e costoni scoscesi con vista mare, la vigna patrimonio di un paesaggio di bellezza unica che lentamente ritorna alla natura. Resti rupestri e vigne storiche in Via Bellavista, su ai ‘Pozzolani’, lungo le terrazze ai Fondi di Baia, in via Panoramica a Monte di Procida con filari a strapiombo sul mare; qui nascono vini con caratteristiche olfattive decisamente interessanti, con una notevole impronta sapida e capaci, tra l’altro, di attraversare il tempo con discreta disinvoltura. Qui ha sede Cantine Farro, hanno splendide vigne e cantina due piccoli gioiellini come La Sibilla e Cantine del Mare (nella foto Gennaro Schiano).
Piccola Guida ai vini dei Campi Flegrei¤
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18 febbraio 2014
Difficile trovare in giro qualcosa di simile per storia e tipicità, soprattutto quando si va alla ricerca di uno spumante metodo classico prodotto con uve autoctone.

Il lavoro ventennale della famiglia Martusciello ha dimostrato che nel lungo periodo l’asprinio sa comportarsi da grande vino, è capace di maturare senza invecchiare, affinare senza disperdersi ed offrire, in certe annate, attraverso anche una meticolosa cuvée, bevute davvero profonde e coinvolgenti.
Si sa che quando il gioco si fa serio chi ha masticato più a lungo certi argomenti riesce a mettere in campo sempre la migliore esperienza. Le bollicine vanno forte ultimamente, soprattutto hanno sempre più appeal a tutto pasto e non più solo da stappare come aperitivo o di accompagno per le feste; una tendenza che ha spinto molti altri produttori a cimentarsi con la tipologia, chi con sapiente maestria chi affidandosi a terzi specializzati.
La recente sboccatura di questa cuvée propone un Extra brut dallo stile più immediato rispetto al recente passato, diciamo un segno di discontinuità, che se da un lato sottolinea la distanza dalla maturità e la complessità a cui ci eravamo abituati dall’altro strizza l’occhio al varietale, rinverdendo quei rimandi erbacei ed agrumati di solito più leggibili nel metodo Martinotti che nel Classico eppure così ancora in primo piano. Nel mezzo circa 24 mesi di attesa, l’assemblaggio di tre annate (2009/2010 e parte del 2011) e nessun dosaggio, ovvero le bottiglie una volta sboccate sono state ricolmate con lo stesso vino. Asprinio tout court quindi, per una bevuta immediata, franca e piena di freschezza.
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13 gennaio 2014
Coste di Cuma è una piccola stradina di campagna in parte asfaltata in parte sterrata che, a poche centinaia di metri dal popoloso quartiere Monterusciello, taglia dritto in media collina e spunta verso Cuma, sulla costa flegrea, nel comune di Pozzuoli.

Qui la terra ha una chiara impronta vulcanica e si giova anche della vicinanza del mare lontano in linea d’aria appena qualche centinaia di metri. Proprio qui, nel 1994, all’apice dell’urbanizzazione dell’area cominciata qualche anno prima causa anche il secondo massivo piano di evacuazione dell’antico centro storico di Pozzuoli, nei primi anni ’80 nuovamente alle prese con il Bradisismo, la famiglia Martusciello ci piantò una piccola vigna a falanghina che nel tempo è stata destinata a dare uva per il vino di punta dell’azienda Grotta del Sole¤, il Coste di Cuma¤ appunto; 2 ettari circa condotti con una certa attenzione colturale – praticamente in regime biologico seppur mai ostentato – da cui si è riusciti sempre ad ottenere mosti di qualità almeno una spanna sopra alle altre tante vigne vocate di proprietà o ‘gestite’ in giro per i Campi Flegrei.
Che non confondano però i numeri dell’azienda, che certo sono importanti, ma continuano a riguardare una molteplicità di impegni che ormai da 20 anni la vedono impegnata su più fronti, dai Campi Flegrei all’Irpinia, dall’Agro aversano¤ al Vesuvio e alla Penisola Sorrentina, sempre con grande impegno e successo. Ma è qui¤, in terra flegrea, che ci sono le radici più forti e dove, senza nulla togliere agli altri ottimi prodotti sembrano venir fuori i vini di maggiore spessore.
Come questo, che rimane un fiore all’occhiello e che ‘cresce’ ogni anno di più. E continua ad esprimersi a grandi livelli questo duemilaundici: fragrante, sostenuto, sottile e di grande piacevolezza. Preciso il colore paglierino, subito invitante il primo naso di ginestra e pesca, caratterizzato in questo momento anche da una discreta nuance salmastra, come preciso è il sorso, di gran lunga fresco e giustamente sapido. Regala proprio un bel bere. Coste di Cuma ha trovato la sua strada.
1994-2014, 20 anni di doc Campi Flegrei
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5 novembre 2013

4 Cucchiaio&Forchette (luogo di Gran confort)
2 Stelle (Tavola Eccellente)
Grappolo Rosso (Specialità e Vini scelti)
Un vasto e raffinato salotto dove illuminazione, tessuti e decorazioni creano un’ineguagliata armonia di stile e benessere; in cucina il giovane Migliaccio si fa portabandiera di piatti mediterranei e creativi, eleganti e sofisticati.
Risotto ai ricci con colatura di alici, acqua di pomodoro e friselle al finocchietto. Merluzzo Nero al vapore con spinaci, pomodori secchi e spuma al whisky torbato. Sfera di cioccolato con prugne alla lavanda e gelato alla birra e liquirizia.
Addendum: con viva soddisfazione ci viene confermata anche la Stella a Il Riccio, il Restaurant&Beach Club in località’ Grotta Azzurra.
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9 aprile 2013
In un momento di mercato dove registriamo una frenesia senza eguali nel fare bollicine di facile lettura, con qualsiasi varietale spendibile, tirar fuori un metodo classico di 25 anni appare pura follia! Un asprinio d’Aversa¤ poi, ma di cosa stiamo parlando?

Già, di cosa stiamo parlando? Eppure basterebbe domandarsi cos’erano nemmeno 20/25 anni fa la Franciacorta¤, la doc Trento¤ o l’Oltrepò Pavese¤ giusto per fare qualche nome tanto in voga oggigiorno. Ecco, fermiamoci qua, e tra un rimpianto e l’altro godiamoci a piccoli sorsi queste poche bottiglie messe via per passione dalla buonanima di Gennaro Martusciello che, nell’88, già da qualche anno – Grotta del Sole¤ così com’è nemmeno esisteva – smanettava in cantina dando forma e sostanza ai suoi studi spesi lì a Conegliano Veneto con quel chiodo fisso in testa: gli autoctoni campani, quelle alberate¤, l’asprinio, il metodo champenois.
L’asprinio è un piccolo grande vitigno, misconosciuto, rude, vigoroso, dalla carica acida impressionante, perfetto per farne spumanti. Sul breve dà vini bianchi secchissimi, asprigni appunto, ma di grande bevibilita’¤. Che alla lunga però sanno regalare piacevoli sorprese¤, conservano vivida freschezza e tirano fuori, col tempo, note olfattive talvolta anche empireumatiche assai suggestive.
Così questo metodo classico gioca di fino su note ossidative, ha un bel colore dorato, un primo naso sottile, lievemente salmastro, poi idrocarburico, quasi un rimando ancestrale, speziato di ginger e via via, lentamente, più definito di camomilla e agrumi canditi. In bocca è invece immediato, asciutto, tuttora vibrante, ben dritto, senza ammiccamenti ‘drai’ o ‘estradrai’, una stilettata segnata dal tempo ma ancora pienamente efficace. Che poi si sa, in altri tempi a 25 anni anche la più capricciosa delle donne sapeva bene quel che desiderava dalla vita.
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5 dicembre 2012
Non v’è dubbio che Grotta del Sole conservi un ruolo di primissimo piano quando si vanno a raccontare certi territori campani ed alcune delle più antiche tradizioni enoiche regionali. E’ così ad esempio per quanto riguarda i Campi Flegrei, come nel ricordare il valore storico di un vino simbolo come il Gragnano, ma anche e soprattutto quando si parla di asprinio d’Aversa.

Un vino e un’uva che non sono mai mancati nel carnet dell’azienda di Quarto sin dalla sua fondazione, sui quali la famiglia Martusciello ha investito tante risorse e preteso sforzi importanti per salvaguardarne la coltura e la produzione. Un territorio vasto e poco battuto l’agro aversano ma che da sempre consegna alle tavole e ai palati più attenti un vino dalle caratteristiche organolettiche molto particolari, uniche per quanto concerne il panorama enoico nazionale; un vino di cui si parla sempre troppo poco, e del quale, ahimé, se ne beve sempre meno. Un bianco assai vivace quando giovane, come nel caso di questo duemilaundici, tenue e franco al naso come sottile e teso in bocca, ma al contempo capace di sfidare il tempo senza temerne l’angustia (leggi qui). Del resto è proprio l’asprinio che vanta una vocazione alla spumantizzazione che pochi altri varietali autoctoni italiani sanno reggere in maniera eguale.

Non a caso Gennaro Martusciello, enologo dalle enormi conoscenze scientifiche prima che tecniche, ne intuì il potenziale sin da subito e lo mise alla prova con il metodo champenois, come testimoniano le primissime produzioni del Don Pedro de Toledo Brut; un ardire che gli valse per molti anni lo scherno quasi di amici e colleghi che fuori regione, con i grandi industriali dello spumante italiano, erano intenti già da tempo a scimmiottare variazioni sul tema Champagne lanciati pedissequamente alla ricerca di un terroir fac-simile che, è chiaro a tutti, non è invece replicabile fuori dal quel comprensorio che va dalla Montagne de Reims a la Vallé de la Marne o la Côte des Blancs.

Ciò che rimane allora non è che il varietale a fare la differenza, con anche tutto quello che si può fare in cantina per costruirgli intorno il vino. Ma se in cantina, tecnicamente, si riuscirebbe in qualche modo a cavare un ragno dal buco, senza un’uva di qualità, con particolari qualità s’intende, non si va da nessuna parte. Tant’è che l’asprinio, soprattutto quando spumante metodo classico, ha dimostrato nel lungo periodo, nel tempo, di comportarsi da grande vino, capace di maturare senza invecchiare, elevarsi senza disperdersi, offrire, in certe annate o cuvée, bevute davvero incredibili, per certi versi sontuose.
Un metodo classico che fa dell’acidità un’arma inesorabile, che il tempo, dalla presa di spuma alla maturazione sui lieviti, durante l’affinamento in bottiglia, ingrassa senza appesantirlo e che, tra l’altro, ha bisogno, chiede, dopo la sboccatura, un dosaggio bassissimo quando talvolta nemmeno necessario. Così si spiega l’intensità e l’armonia dell’Extra Brut di Grotta del Sole che, nella ormai imminente sua prossima uscita, sarà nuovamente senza annata (s.a.), una cuvée di tre raccolti che vuole ancora una volta mettere l’accento sulla più autentica tra le produzioni di vino spumante in Campania. 100% asprinio d’Aversa. A noi non resta che godercelo.
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27 febbraio 2012
Avevo un nodo in gola, e come non potevo: dispiaciuto, commosso, rattristito per la scomparsa di una persona così cara e stimata. Avevo però necessità di rifletterci un po’ su, capire se fosse realmente importante ch’io scrivessi due righe, un pensiero. Così quasi senza pensarci mi son ritrovato a bere nuovamente questo splendido bianco flegreo.

Bene ha fatto qui Luciano Pignataro a riprenderne, in poche chiare righe, la specchiata figura umana e professionale; aggiungo che con la scomparsa di Gennaro Martusciello si chiude dalle nostri parti davvero un’epoca: quella dei pionieri, di coloro i quali avevano come riferimento del mestiere praticamente solo se stessi, il più delle volte costretti, loro malgrado, solo a sognarlo ciò che avrebbero veramente desiderato fare in cantina, dei loro vini; più semplicemente, era necessario fare ciò che andava fatto e nel miglior modo possibile, senza troppi grilli per la testa.
Eh sì, perché quando più o meno vent’anni fa, fuori dai confini regionali, a malapena si era affacciato il greco di Tufo di Mastroberardino, qualche volta il Taurasi, a Quarto si cominciava a ragionare anche sulla falanghina e il piedirosso dei Campi Flegrei: “poveri, ma belli” venivano chiamati (e forse lo sono tutt’ora). Senza contare i primi, incontenibili successi commerciali del rilanciato Gragnano della Penisola Sorrentina o dell’Asprinio d’Aversa fermo e spumante. L’avrete letto centinaia di volte, qui come altrove, un leit motiv pedissequo, quasi stancante, che però pare non bastare mai: “la famiglia Martusciello, che tanto ha contribuito al rilancio vitivinicolo regionale e alla valorizzazione dei vitigni autoctoni campani”. Certo, nei fatti però, non a chiacchiere. E senza dover rincorrere etichette evocative, battaglie bioqualchecosa, sintomatologie naturali. E Gennaro Martusciello in tutto questo, e in molto altro, ha avuto un ruolo cruciale, fondamentale.
Una persona, prima che enologo, stimatissima dall’ambiente; e pur non potendo andare oltre, non ho l’età per maggiori elogi personali – c’ho parlato troppe poche volte, molto di più coi suoi vini -, ho sempre avuto la sensazione come fosse un uomo in tutto e per tutto calato ostinatamente nella sua dimensione: un grande talento, finissimo tecnico e profondo conoscitore della materia, imbrigliato però da una realtà produttiva difficilissima e complicata, misconosciuta, sin da subito dura, talvolta talmente cruda che solo la malattia che l’affliggeva riusciva ad essere più desolante. Un uomo vulcanico don Gennaro, come la sua terra, costretto nella morsa di un malessere che l’ha accompagnato praticamente tutta la vita, segnandolo profondamente nel fisico ma non nell’intelletto, nell’invidiabile talento professionale; un uomo del sud che proprio come la sua terra ha dovuto faticare il doppio, anzi il triplo per emergere, affermarsi. Sì, perché Gennaro Martusciello un riferimento lo è diventato lo stesso, lui con tutta l’azienda di famiglia Grotta del Sole; un esempio per tanti, seguito, emulato, contrastato addirittura, ma un riferimento assoluto, per giovani e vecchie leve di enologi, ma anche di produttori, e non solo in Campania.
E così che saggiando questo Coste di Cuma 2010, oltre a saltarmi al naso bellissimi toni primaverili, con ricordi di macchia mediterranea e poi un sapore asciutto e lungamente sapido, mi ritornano perentorie le parole di Salvatore Martusciello che, lo scorso dicembre, quando mi ha dato questa bottiglia per sapere cosa ne pensassi mi fa: “siamo convinti che sia l’inizio di una nuova epoca in Grotta del Sole, questo duemiladieci del Coste pare condensare tanti degli sforzi che abbiamo fatto sulla falanghina dei Campi Flegrei negli ultimi vent’anni”. E bicchiere alla mano ne sono convinto anch’io, con poco o nulla da aggiungere se non che mi piace, con questa convinzione, pensare a quanto potesse essere felice zio Gennaro di sapere finalmente compiuto un percorso così duro lungo quasi vent’anni, grazie al quale, oltre a lui e ai suoi fratelli, nei vini dei Campi Flegrei hanno imparato a crederci in tanti, e a saggiarli, con attenzione e rispetto, in molti di più.
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18 febbraio 2012
Marianna Vitale ha pensato questo piatto come un divertente assemblaggio di “quel che resta del pomidoro” durante il periodo invernale, in tutte le sue forme di “conserva”: pomodoro secco, pomodorino del piennolo, marmellata di pomodoro e “sotto spirito”. Riproposto poi in 5 momenti della giornata, con il pomodoro che ci accompagna dalla colazione al dolce di fine giornata. Bene, l’intuizione è geniale, disarmante come il talento e la sua capacità di colpire ancora una volta nel segno (A. D.).

Ingredienti per 4 persone:
- A colazione, buongiorno pomodoro.
- 100 g di yogurt
- 10 g di riso soffiato
- 50 g di marmellata di pomodoro (350 g pomodoro, 250 g di zucchero, ½ limone)
- 4 cialdine alle noci (20g burro, 20 g albumi, 20 g noci tritate, 20 g farina, sale q.b. – amalgamare gli ingredienti, stenderli su un silpat e infornare per 10 min a 170°)
Come si fa: adagiare al centro della coppetta 1 cucchiaio di yogurt, 1 cucchiaino di marmellata e completare con la cialda croccante e il riso soffiato.

- A pranzo, crostone di caprese invernale.
- 8 fette di pane cotto a forno a legna
- 150 g di mozzarella di bufala
- 100 g di pomodorini del Vesuvio
- 25 g di pesto di basilico
Come si fa: tagliare il pane in forma rotonda, farcire di mozzarella e piastrarlo finchè non risulta dorato. Completare con i pomodori già conditi e un velo di pesto.
- L’aperitivo, Bloody Mary di pomodoro secco.
- 1 cucchiaio di acqua di ammollo di pomodori secchi
- 4 gocce di tabasco
- 1 cucchiaio di salsa di pomodoro
- 8 gocce di Worchester sauce
- Pepe q.b.
- 6 cucchiaini di vodka
- 4 gambi di sedano
Come si fa: unire il pepe, il tabasco, la salsa Worchester, la salsa di pomodoro, l’acqua di pomodoro secco ed infine la vodka. Completalo con il gambo di sedano.

- Cena, finalmente a casa.
- 4 uova di quaglia
- 300 g di pomodoro San Marzano
- 4 polpettine di vitello
- 1 spicchio d’aglio
- 1 limone
- Sale, pepe e olio q.b.
Come si fa: soffriggere l’aglio e cuocere la passata di pomodoro per almeno 15 minuti. Friggere leggermente le polpettine e preparare le piccole uova a “occhio di bue”. Assemblare e completare il piatto con una grattugiata di buccia di limone.

- Infine il dolce, gelato di concentrato di pomodoro.
- 100 g di gelato di conserva (140g di concentrato di pomodoro, 140 g di latte, 60 g di latte condensato, 20 g di zucchero, 3 tuorli)
- 50 g di panna acida (panna fresca e succo di limone)
- 40 g di “Succedaneo di caviale” (uova di capelin)
Come si fa: disporre su di un piattino il caviale, il gelato e un ciuffo di panna.
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18 gennaio 2012
Il nome dell’azienda deriva dalla pietra miliare che indicando la dicitura “ad quartum” ricorda il quarto miglio Romano tra la città di Pozzuoli e l’attuale Quarto, lungo quella che era l’antica via Consolare Campana che collegava Pozzuoli a Capua.

Ho conosciuto Ciro Verde lo scorso dicembre in occasione della degustazione che avevo pensato e organizzato in collaborazione con alcuni amici sommelier, anche se l’azienda l’avevo già intercettata da tempo in numerose altre degustazioni; ebbene, chiacchierandoci su però mi sono accorto che aveva proprio ragione lui: è vero, non ne avevo ancora mai scritto.
L’occasione è questa deliziosa falanghina, devo dire molto ben riuscita, che oltre a regalare piacevoli sensazioni degustative, un po’ mi rassicura sull’impegno in atto di riportare il territorio a quell’antica vocazione agricola, e vitivinicola, per troppo tempo scordata e, ahimè, sfuggita letteralmente di mano a molti da questi parti, a favore di una delle più forti ed invasive speculazioni edilizie in atto. Il vino di Ciro è davvero un bel bianco, dal colore paglierino carico, con un naso subito maturo, che offre sentori di frutta a polpa gialla, pesca e albicocca. Molto gradevole anche il lieve ritorno dolce di miele di millefiori. Al palato è asciutto, infonde buona tensione gustativa per tutta la bevuta. Solo sul finale di bocca ritorna appena troppo “caldo”, che se vogliamo confonde, ma in realtà non fa altro che confermare la discreta acidità della falanghina di queste terre sovrastata qui dall’ottimo frutto ben maturo.

E già che ci sono, mi prendo la libertà di segnalarvi anche un’altro vino, diciamo diversamente interessante, quale mi è parso Il Macchia bianco 2007; prodotto anch’esso con sole uve falanghina dei Campi Flegrei, è però figlio di un progetto particolare che, come abbiamo già avuto modo di raccontare su questo blog scrivendo di altri, volge a verificare tutto il potenziale espressivo di questo straordinario vitigno.
Nasce infatti anzitutto da una maniacale selezione addirittura di acini, poi subito dopo la tradizionale cernita e vinificazione, il vino base viene lasciato lungamente macerare con le bucce, quindi affinato tra acciaio e bottiglia per diversi mesi prima di essere commercializzato. Qui almeno tre anni. Ha un colore praticamente oro, con un naso buccioso e intriso di note balsamiche e speziate, di zenzero in particolar modo. Il sorso, nonostante l’evidente risolutezza, è ancora integro ed espressivo. Se vi va, fateci un salto in cantina, non è difficile da trovare, e Ciro Verde, ormai dedito completamente all’azienda di famiglia, sarà davvero felice di raccontarvi dal vivo quest’altro bel pezzo di viticoltura dei Campi Flegrei.
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19 novembre 2011
Di cosa aspettarsi dai vini prodotti nella piana quartese ne abbiamo già raccontato tempo fa, quando scrivemmo della giovane ed emergente Cantina Di Criscio e quindi della storica azienda di Franco Carputo. Qui nascono generalmente vini sottili, lievi e di grande piacevolezza gustativa, e molto meglio quando bianchi piuttosto che rossi.

Ci ritorniamo oggi da queste parti, e proprio sorseggiando un finissimo calice di falanghina dei Campi Flegrei, prodotto da una delle aziende più “vecchie” di Quarto, Il Cellaio, che proprio quest’anno taglia l’ambito traguardo dei suoi primi quindici anni di attività. Nata infatti nel 1996 grazie all’impegno delle famiglie Carandente e Marrandino, oggi è nelle mani del giovane Salvatore Carandente Tartaglia, coadiuvato in cantina dall’opera del bravo enologo vesuviano Antonio Pesce, tra l’altro grande conoscitore del terroir flegreo; poco più di tre ettari in tutto, qualcuno in conduzione, e qua e la una minuziosa selezione di altre uve ad ogni vendemmia, per un totale di circa 60.000 bottiglie in prevalenza di vino bianco.

Piccola e suggestiva la cantina di famiglia, situata in via Marmolito, laddove ci si arriva addentrandosi per qualche chilometro da via Campana, sin nel cuore più rurale del comune, in una vasta zona agricola pianeggiante e caratterizzata da terreni perlopiù di tufo giallo e ricchi di minerali; li dove sono ancora palesi tracce delle passate attività vulcaniche a Quarto, soprattutto in località “Punta Marmolite”, e dove è ancora osservabile il cosiddetto “duomo di lava”, sorto a causa di una piccola eruzione nella quale il magma si solidificò non appena uscito dalla bocca eruttiva.
Del vino basti sottolineare una piacevole vivace veste paglierina, limpida e di buona compattezza. Il primo naso è subito floreale, ancora a tratti erbaceo, poi pienamente fruttato, con deliziose sfumature di mandarino e di albicocca. In bocca è secco, di buon corpo e viva bevibilità; è proprio in questo momento dell’anno che va meglio apprezzato l’equilibrio gustativo di un vino come la falanghina dei Campi Flegrei. Smussata infatti la tipica spigolosità acida dei primi mesi dall’imbottigliamento, è proprio dopo un anno dalla vendemmia che si esprime all’apice del suo splendore.
Una piccola azienda che si appresta a tagliare i suoi primi quindici anni di storia, s’è detto; così questa settimana vi raccontiamo, sulle pagine del quindicinale di informazione libera Pozzuolidice, il primo vino della piccola cantina Il Cellaio di Quarto. La ricetta di questa settimana è affidata invece all’estro stagionale della nostra Ledichef.
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25 settembre 2011
L’antefatto – un mio post su facebook che vantava delle grazie e dell’ottimo rapporto prezzo/qualità di questo vino – conduce a una riflessione più o meno azzeccata sul concetto sempre troppo poco chiaro su ciò che è percepito come caro e ciò che invece risulta più semplicemente costoso. O quantomeno più costoso di altri.

Questa è una delle più riuscite operazioni glamour di Louis Vuitton, si chiama Monogram Nova Minaudière; nome piuttosto altisonante per una mini borsetta che pesa un grammo ed è grande più o meno quanto una palla da albero di natale. E’ invece – dicono -, un piccolo capolavoro d’ingegneria nonché di salatissima manodopera (?): è infatti interamente ricoperta di minuscoli Swarovski argentati e neri, incastonati a mano uno ad uno. Costa circa 35.000 dollari, quanto una bmw, con tutti i confort s’intende.

Questa cosa invece è un cannolo siciliano, creato ad hoc da Carey Iennaccaro, pasticcere italo-americano all’opera presso il ristorante Jasper di Kansas City, nel Missouri, Stati Uniti. Preparazione di finissima arte culinaria è arricchita da una collana made in Italy costellata di purissimi diamanti e lavorata dalle mani esperte del gioielliere Tom Tivol che viene servita insieme al dolce, a sua volta ricoperto di foglie d’oro commestibili. E’ servita solo su prenotazione (!), a più o meno 26.000 dollari (si sa che il prezzo della ricotta subisce forti speculazioni negli Usa). Astenersi diabetici.

Questo qui sopra, come è noto a molti, è un vigneto di asprinio “ad alberata aversana”, un modo di fare viticoltura assolutamente fuori dal tempo, consegnatoci da generazioni tanto passate che si perdono nella memoria; loro erano convinti che ne avremmo saputo fare buon uso, noi ne abbiamo contezza da qualche tempo. Da queste uve così piantate nasce un vino sottile e particolarmente acido; tanto sottile da perdersi facilmente nel bailàm dei cento e più vitigni autoctoni campani. Quanto all’acidità invece, ne ha saputo fare vanto, e ne ha tratto solo giovamento, anzi, forse l’unica ragione che l’ha strappato all’oblìo dell’estirpazione e consegnato alle borgognotte della famiglia Martusciello di Grotta del Sole.
Non a caso, molti lo ignorano – in verità pochi lo sanno -, l’asprinio metodo classico di cui vi parlo si chiama proprio Riserva Grotta del Sole, a significare, ove ce ne fosse stato bisogno, quanto valore quest’uva e questo vino abbiano per la famiglia di vignaioli flegrei e quanto abbia contato in assoluto il loro impegno per la salvaguardia di questa antica produzione campana. Sul vino c’è da dire giusto quel poco che serve leggere: ha una spuma copiosa seppur non particolarmente persistente mentre le bollicine s’infilano sottili, fini e piuttosto insistenti. Il colore marca un bel giallo paglierino carico e luminoso, brillante; il naso è pulito, fragrante, offre un bel ventaglio olfattivo sgraziato e intrigante, che chiude su note di frutta secca ed eleganti rimandi speziati. Ciò che sbanca però è il sorso, asciutto ma ricco, profondo e avvolgente, dritto ma senza spigoli eccessivi. A venderlo caro, sui 18 euro in enoteca (un metodo classico così è da incorniciare a memoria d’uomo!).
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10 settembre 2011
Comincia oggi, e sino al 20 settembre prossimo, la manifestazione ArcheoEnoGastronomica dei Campi Flegrei “Malazè, il cratere del gusto”.

Ma cos’è Malazè? Anzitutto, tutti i vocabolari dialettali ignoravano il sostantivo “malazzè“. E’ di detta origine marinara e, a quanto pare, è presente soltanto a Pozzuoli, anche se le nuove generazioni ne ignorano l’etimologia. Fino agli anni cinquanta del secolo scorso, le case e i locali a piano terra del borgo marinaro, O’ Valjone, non ancora sottoposti alle radicali trasformazioni d’uso, rispondevano a precise esigenze di vita, […] infatti erano depositi di attrezzi per la pesca e diverse abitazioni che si affacciavano direttamente sulla Darsena e verso il Porto, avevano aperture che permettevano l’ingresso delle barche. Erano questi i malazzè: “magazzino-magazzeno-malazzè”. (Raffaele Giamminelli, storico, puteolano doc)
Da qualche anno, con questo nome così evocativo – nato in un freddo pomeriggio dall’intuizione di pochi di noi appassionati sostenitori seduti intorno a un tavolo -, si invitano gli avventori dei Campi Flegrei a vivere il territorio per le sue più splendide bellezze: l’archeologia, quindi la cultura, l’enogastronomia e l’enologia. Avanti tutta quindi e buon Malazè! Per saperne di più sulla manifestazione, curata oggi da Rosario Mattera, cliccate qui, oppure qui per scegliere a quali degli appuntamenti partecipare.
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2 agosto 2011
Il vino dell’estate? Forse. Di certo c’è tutto un mondo da scoprire dietro ognuna di queste etichette; storie di una terra straordinaria, di persone che credono in quello che fanno ma soprattutto in quello che hanno da raccontare attraverso i loro vini. Ringrazio Luciano Pignataro per avermi chiesto di scrivere queste righe, da prendere essenzialmente come sintesi delle bevute più significanti di questa stagione di lavoro.
Nessuna classifica – come del resto son certo vi sia qualcuno dimenticato tra gli appunti -, ma solo un modo come un altro per ribadire quanto la mia terra, i Campi Flegrei, continui ad esprimere vini che meritano sempre più di essere bevuti più che raccontati. Infine un invito ai produttori, soprattutto ai “piccoli”, naturalmente senza la pretesa di essere ascoltato: specializzatevi, e puntate il mercato in senso verticale, non in orizzontale…
Nel pezzo, on line qui sul sito di Pignataro, si parla della Falanghina dei Campi Flegrei Agnanum ’10 di Raffaele Moccia, del Coste di Cuma 2009 di Grotta del Sole, della Falanghina Grande Farnia ’10 di Antonio Iovino; poi di Colle Spadaro, Cantine Astroni e di Cantine Di Criscio, Carputo, Cantine del Mare, Michele Farro, senza dimenticare, dulcis in fundo, lo strepitoso Passio 2007 di La Sibilla.
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16 luglio 2011
Di Carputo, più che la storia, ho bene in mente quante ne ho stappate di bottiglie; a metterli in fila, i tappi, si sarebbero coperti, senza esagerazione, chilometri. Erano, c’è da aggiungere, altri tempi, sto parlando di almeno una quindicina d’anni fa; ricordo che il per’ e palummo scorreva a fiumi mentre la falanghina non faceva in tempo a varcare la soglia del frigo che subito usciva in tavola.

Un successone insomma, sia per i numeri tra le mani del buon Antonio Palma, che ne curava le sorti commerciali su Pozzuoli e dintorni, che per il gradimento, indubbiamente alto, da parte di tutti gli avventori del ristorante dove mi dimenavo da ragazzino, la Fattoria del Campiglione; il perché era piuttosto semplice da individuare: vini fini, sottili, lineari come l’areale meglio non riusciva a fare, e a prezzi decisamente alla portata, allora come del resto oggi.
C’è da premettere che Quarto non ha mai goduto di una particolare vocazione vitivinicola, e segni distintivi che ne elevino le vigne a cru imperdibili ve ne sono oltretutto ben pochi; il clima qui è bizzoso e tremendamente umido, in certe estati poi rimane costantemente caratterizzato da una canicola a dir poco sfiancante.
Le condizioni cambiano invece proprio sulla collinetta di Viticella, dove la vigna – coltivata ancora con sistemi tradizionali – riesce, grazie alla sua collocazione che domina la piana quartese, a godere di maggior respiro e – data anche la particolare conformazione dei terreni di natura tufacea – di una migliore condizione pedoclimatica complessiva, facendone così un luogo d’elezione sia per il piedirosso ma anche e soprattutto per la falanghina; qui, come dimostra questo vino, il vitigno pare ravvivarsi notevolmente, e soprattutto, grazie anche alle repentine escursioni termiche che si succedono tra giorno e notte, maturare frutti sani, integri, che esprimono vini sì di bassa gradazione alcolica ma connotati di una rinfrancante freschezza gustativa; elementi questi che contribuiscono in maniera decisiva a farne vini assai apprezzati in accompagnamento alla cucina tradizionale napoletana, sia essa quella marinaresca e schietta dei piccoli e grandi ristoranti di Napoli e provincia, sia quella lenta e godereccia della tavola della domenica partenopea.
Del resto spesso ci si dimentica quale sia il ruolo principale del vino, almeno per quanto riguarda il nostro modo di vivere l’argomento a tavola, e cioè funzionale a tutto un pasto completo e non ad una singola portata: l’abbinamento cibo-vino infatti è una voluttà, pur nobile, che poco appartiene alla nostra cultura enogastronomica, che vuole invece, e spesso addirittura lo impone, vini leggeri e poco impegnativi che vadano ad accompagnare i piatti più che a sostenerli. E quando si hanno tra le mani bottiglie come il nostro per’ e palummo o la nostra falanghina non si va certo alla ricerca, escludendo quelle poche e rare interpretazioni, dell’opulenza o della grassezza, elementi questi, a primo acchito, sempre poco avvicinabili sia all’una che all’altra faccia della nobile tradizione vitivinicola flegrea; la semplicità prima di tutto, primaria espressione della nostra cultura enoica, poi tutto il resto.
Continua l’appassionato racconto della splendida vigna flegrea sulle pagine del quindicinale di informazione libera Pozzuolidice. Questa settimana nella nostra rubrica di enogastronomia vi raccontiamo anche di una gustosa ricetta, da non perdere, per preparare in maniera diversa il pesce bandiera.
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27 Maggio 2011
Domenica prossima 29 Maggio torna in tutta Italia come consuetudine Cantine Aperte, appuntamento decisamente imperdibile per tutti gli irriducibili del vino; ma anche una occasione ghiotta per coloro che desiderando avvicinarsi ad esso preferirebbero farlo entrandovi dalla porta principale, quella che conduce direttamente dalla vigna alla cantina; ecco, quale migliore occasione di questa!

Il calendario eventi in regione è molto fitto, la Campania tra l’altro si propone sempre con grande entusiasmo in questo giorno facendo di questa iniziativa uno dei momenti più attesi dell’anno da parte degli appassionati. Qui sul portale del Movimento Turismo del Vino trovate centinaia di opportunità sparse in regione ed oltre, senza però voler far torto a nessuno, noi abbiamo deciso di proporvi tre interessanti itinerari tutti flegrei, di particolare suggestione e che, volendo, con un po’ di impegno, si possono anche facilmente inanellare l’uno all’altro, giusto per non farsi mancare nulla. A tutti voi, che sia una giornata speciale tra le splendide vigne e cantine flegree, agli amici di sempre, a cui tocca faticare, un “in bocca la lupo!” ed un caloroso augurio di buon lavoro!

Presso Cantine Astroni va in scena “Il Risorgimento di Enotria: cibo, vino e arte per brindare all’unità d’Italia”. Dalle ore 10:30 alle ore 17:00 saranno proposte ad intervalli regolari passeggiate tra le vigne con visite guidate ai vigneti dell’azienda, con vista panoramica della Riserva Naturale del Cratere degli Astroni (orari visite 11.00, 12.15, 15.30). Quindi visita in cantina durante le quali lo staff di Cantine Astroni illustrerà il progetto aziendale, nonché le principali lavorazioni vinicole svolte dall’azienda (orari visite 11.30, 12.45, 16.00). Infine tre diversi Laboratori di Degustazione, “Il Verde, il Bianco e il Rosso” alla ricerca dell’Unità/diversità d’Italia. Qui il programma nei dettagli.
Cantine Astroni
Via Comunale Sartania, 48
Loc. Astroni 80126 (Na)
tel. 081 5884182
info@cantineastroni.com
www.cantineastroni.com

Presso Grotta del Sole invece dalle ore 10.00 sino alle 17.00 è in programma “La falanghina sin dal tempo di Roma”: mostra con le immagini dello scavo della Villa del Torchio, sita proprio a Grotta del Sole, illustrata per l’occasione dalla dr.ssa Costanza Gialanella, Sopr. Arch. delle Province di Napoli e Caserta e dall’archeologa dr.ssa Michela Ascione; il programma della giornata prevede inoltre costanti visite dell’azienda, del vigneto nonché degustazioni guidate dei vini prodotti. Qui il programma completo. Da non perdere il pranzo in vigna a cura dei diplomandi in indirizzo “Servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera” dell’IPSAR Petronio di Pozzuoli, coordinati dalla Prof. Elisabetta Cioffi, con desserts curati per l’occasione dal laboratorio Cake Art (per il pranzo è obbligatoria la prenotazione per telefono a via mail a info@grottadelsole.it).
Grotta del Sole
via Spinelli, 2
80010 Quarto (Na)
Tel. 081 8762566
info@grottadelsole.it
http://www.grottadelsole.it

A Bacoli, la famiglia Di Meo de La Sibilla, propone dalle 10.00 del mattino una sana scampagnata garibaldina tra le vigne e gli orti nella parte occidentale di Baia, nel cuore dei Campi Flegrei. Accompagnati dai contadini e custodi della famiglia, gli avventori saranno guidati attraverso un percorso naturale tra mirabili luoghi e filari di storici vitigni sino al suggestivo panorama sui porti di Cuma e Miseno, testimonianza della presenza della Domus Giulii in Baia. Alle ore 13.00 cicerchiata imperdibile innaffiata da falanghina e piedirosso dei Campi Flegrei. Posti limitati, prenotazione obbligatoria a Tina Di Meo al 329 6007476 oppure via mail a info@sibillavini.it.
Cantina La Sibilla
Via Ottaviano Augusto, 19
80070 Bacoli (Na)
Tel. 081 8688778
info@sibillavini.it
www.sibillavini.it
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23 aprile 2011
Un grande valore della rinascita vitivinicola dei Campi Flegrei, avviata nella prima metà degli anni novanta dalla storica famiglia Martusciello, è senz’altro la giovane età dei protagonisti che vi si affacciano di continuo e vanno affermandosi con la loro dinamicità e voglia di fare.
Lo è stato allora, quando poco più che ventenni debuttavano in società, a Grotta del Sole, i giovanissimi Salvatore e Francesco, innescando un processo virtuoso di passaggio generazionale assolutamente non trascurabile, culminato con l’ingresso in cantina a pieno titolo di regia del giovane (e bravo!) Francesco jr sulle orme dello stimatissimo zio Gennaro; un salto questo seguito tra l’altro negli anni da altri validissimi giovani produttori ed enologi flegrei, impegnati in prima linea nella guida delle aziende di famiglia o di nuove proprie; penso per esempio a Vincenzino Di Meo di La Sibilla, a Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni, a Peppino Fortunato di Contrada Salandra, giusto per citarne alcuni tra i più bravi di cui abbiamo raccontato in precedenza su queste pagine.

Così è stato per i giovani fratelli Di Criscio, Francesca Adelaide, Rosa e Luigi, che dopo gli studi hanno preferito recuperare e valorizzare un’antica tradizione familiare che vedeva, più o meno cento anni fa, i loro nonni, e prima ancora già i bisnonni, impegnati nelle campagne quartesi e di rimbalzo nella ristorazione locale. Due ettari e poco più di vigna nel pieno centro a Quarto, l’azienda produce poche altre bottiglie di aglianico e di un rosato del beneventano, ma personalmente spero che in futuro l’ideale rimanga quello di puntare tutto sulla valorizzazione dei soli vitigni flegrei; perché mai no? Francesca Adelaide, tra l’altro, è da qualche tempo presidente de Le strade del vino dei Campi Flegrei, l’associazione nata per mettere assieme le tante anime dell’enoturismo locale che dopo diversi anni di difficile gestazione, si spera possa finalmente avviarsi a camminare con le proprie gambe, e far girare ai turisti le splendide vigne flegree; per questo confido personalmente nel suo entusiasmo e nella sua notoria caparbietà.

Ma veniamo al vino, questo è solo il primo assaggio di falanghina duemiladieci che vi propongo; ho scelto Quartum una sera a cena dall’amico Rino del Ristorante Il Rudere, “è appena arrivato…” mi dice: “assaggiamolo subito..!” gli rispondo. La luce che attraversa il mio bicchiere evidenzia subito l’espressione più docile del varietale, tipica delle uve coltivate nelle campagne quartesi, il colore è di un paglierino tenue, di discreta vivacità; il primo naso è lieve, sono ancora evidenti in primo piano le note vinose post fermentative, ma un leggero aroma erbaceo ne accompagna un primo sorso fresco, subito franco, leggero, gradevolissimo. Sarà così sino all’ultima goccia, bottiglia che in due va via che è un piacere, poco più di dodici gradi alcolici ben sorretti da una discreta acidità; da portare con se al prossimo invito a cena per offrirla agli amici come benvenuto!
Questo articolo è stato appena pubblicato questa settimana sul quindicinale di informazione libera Pozzuolidice nella nostra rubrica di enogastronomia dove, come sempre, potrete trovare una nuova ed interessante ricetta della nostra Ledichef Lilly Avallone. Questa settimana vi rendiamo anche conto del significato della nostra valutazione in “stelle” dei vini proposti.
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6 febbraio 2011
La settimana scorsa per motivi di lavoro ho trascorso alcuni giorni a Montalcino, in provincia di Siena. A leggere alcuni numeri – il comune conta poco più di cinquemila abitanti per non più di 260 kmq di territorio – si penserebbe a nient’altro che a un piccolo punto sulle mappe stradali, mentre a parlar di vino, nescienti del fenomeno storico, a poco più di una goccia nel mare magnum dell’enologia italiana.

Eppure questi luoghi sono vissuti e riconosciuti da tutto il mondo, e qui, anche in pieno inverno, in gennaio e con le colline di neve imbiancate, non è difficile incontrare, pure in tempo di crisi, turisti e viaggiatori in cerca di scoprire e capire quel luogo che ha dato i natali ad uno dei vini più preziosi ed ambìti al mondo: il Brunello di Montalcino, appunto.
Così, ispirato anche dall’indimenticabile incontro con Franco Biondi Santi, erede della più antica famiglia di vignaioli in Montalcino e produttore di quello che oggi è considerato l’archetipo del vino Brunello, dopo l’esordio dedicato a Raffaele Moccia, tra i più validi interpreti moderni della viticultura flegrea, ho pensato per questa uscita che fosse opportuno, necessario mettere un punto fermo anche sulle origini e la storia della vitienologia flegrea, partendo col raccontarvi di un vino, il Montegauro di Grotta del Sole, ed una famiglia, i Martusciello, che senz’altro rappresentano ad oggi – fatte naturalmente le dovute proporzioni storico, culturali e sociali che ci separano anni luce dalla vitivinicoltura toscana – ciò che i Biondi Santi sono per Montalcino, ovvero la massima espressione tangibile della loro terra in giro per il mondo.

I Martusciello quindi iniziatori di quello che poco più di vent’anni fa, in piena epoca di cementificazione, appariva pura utopia per i Campi Flegrei, la valorizzazione delle risorse agricole, di quella terra, la vigna, i suoi frutti, visti non più come facili prede del calcestruzzo ma bensì come preziose opportunità di creare economia sul territorio, quel territorio, non dimentichiamocelo, a quel tempo ancora profondamente segnato socialmente dallo sgombero del Rione Terra dei primi anni settanta e moralmente devastato dal terremoto-bradisismo dei primi anni ottanta. Fu quella, fine intuizione commerciale o inguaribile follia di un generoso atto d’amore per i Campi Flegrei? Nell’uno o nell’altro caso, a guardare il risultato, vero e proprio rinascimento viticolo flegreo.
Il Montegauro, prodotto con uve per’ e’palummo in purezza, è vinificato e invecchiato con sapiente utilizzo di legno di rovere francese, e sin dai suoi esordi, a metà anni novanta, ha sempre impressionato per qualità e finezza; certo che le prime annate, soprattutto a distanza di anni, hanno mostrato qualche problema nel reggere il tempo, pur concedendosi in qualche gradita sorpresa. Ricordo infatti, a tal proposito, un 1997 bevuto poco più di un anno fa e ritrovato in grandissimo spolvero. Il millesimo 2007 invece ha un bel colore rubino a dir poco cristallino. L’annata, rivelatasi particolarmente calda e austera, ha condensato in questo vino tanta materia che si manifesta attraverso un bouquet ampio e complesso composto di sentori di fiori e frutti rossi ed un gusto alquanto deciso, ricco, profondo, di sontuosa bevibilità, lontano dalla più comune interpretazione del vitigno, che taluni vogliono scolorito, leggiadro e spesso senza nerbo; Il Montegauro è indiscutibilmente l’accezione più alta del piedirosso ascrivibile ai Campi Flegrei, da guardare come riferimento assoluto sul piano del suo massimo potenziale espressivo. Un vino eccellente, manifesto di questa splendida terra che vuole parlare al mondo, aspettando che si decida finalmente, e lo dico a viva voce ai nostri amministratori, che la finiscano di mercanteggiare utopie come se fossero sogni nostri e che comincino costoro a lavorare seriamente affinché il mondo possa finalmente parlarci da vicino, magari camminandola la nostra terra. E Montalcino in questo è di molto più grande!
Questa settimana su Pozzuolidice nella rubrica di enogastronomia dove troverete anche una deliziosa ricetta della nostra Ledichef oltre che nuovi spunti per imparare “a leggere” il vino.
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23 novembre 2010

Ingredienti per per 4 persone:
- 400 gr linguine di Gragnano
- 1,2 kg di zucchine
- 100 gr Bebè di Sorrento*
- 50 gr burro
- 2 dl panna fresca
- 80 gr parmigiano (grattugiato)
- 2 rossi d’uovo
- sale e pepe nero (macinato fresco di mulinell) q. b.
- basilico
- pangrattato
- burro per lo stampo
Il giorno prima tagliare: 1/3 delle zucchine a julienne e metterle ad asciugare su un canovaccio dopo averle scolate in un colapasta; 1/3 a dadini; 1/3 a rondelle (far essiccare anche queste). Friggere le zucchine a dadini e tenerle da parte, friggere le zucchine a rondelle e tenerle da parte. Imburrare una teglia di 28 cm e spolverizzare con il pangrattato, disporre sul fondo e sul lato le zucchine fritte a rondelle; Il tegame così pronto si può riporre in frigo mentre si prepara il timballo.
In un tegame appassire con il burro le zucchine a julienne, trasferirle in una bowl capiente e far raffreddare, aggiungere poi: le zucchine a dadini fritte, le zucchine a rondelle se avanzano, la panna il parmigiano, il basilico, i tuorli leggermente sbattuti , il Bebè di Sorrento tagliato a julienne, il pepe ed aggiustare di sale. Unire poi le linguine cotte a metà (raffreddate) e rigirare in modo da condire il tutto in maniera uniforme. Montare quindi il timballo e completare con del pane grattugiato e fiocchetti di burro. Infornare nel forno preriscaldato a 180° per 50 minuti.
* Il Bebè di Sorrento è un formaggio a pasta filata, semi-cotta, dalla stagionatura di soli pochi giorni. Ottimo da mangiare assoluto ma che ben si presta a preparazioni del genere.
La ricetta, come tantissime altre della nostra cucina regionale, beneficia non poco dell’ingrediente segreto che non deve mai mancare a chi si pone di fronte ai fornelli, cioè l’amore, per il cucinare e per i propri avventori! Questa ricetta, devo dire magistralmente eseguita poche sere fa da Gilda Guida Martusciello, viene pubblicata successivamente alla messa a punto in collaborazione con la sua maestra di cucina Carmela Caputo (www.cucinamica.it). (A. D.)
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10 giugno 2010
Ci sono alcune parole del dizionario della lingua italiana che mi stanno particolarmente a cuore, il loro significato, per alcuni effimero, è per me verbo e motivazione. Tra queste, “valorizzazione”, cioè quell’atto o effetto del valorizzare, “promuovere”, che tra i vari significati esprime un progresso, un avanzamento, un miglioramento, ed infine “territorio”, che gli appassionati di vino sanno bene cosa significa e mi basta questo per rendere l’idea.

Ebbene, il Villa dei Misteri di Mastroberardino è la rappresentazione, nel suo insieme, di quanto un progetto di valorizzazione, tanto originale come ricreare un vino nelle vigne di Pompei, possa essere valido e concettualmente attrattivo nel promuovere un intero territorio; Allo stesso tempo però ci si chiede del perché non si continui a camminare questa via più di tanto, mortificando qua e là idee, progetti, persone inibendo loro il giusto spazio di azione per crescere, svilupparsi ed affermarsi come motore culturale prima che economico di un intero territorio, per altro tanto comune in Campania. Si parla di archeologia e vite ai giorni nostri, ma gli interlocutori chi sono, cosa fanno?

A Pompei grazie al fondamentale impegno della locale soprintendenza archeologica è stato fatto un buon lavoro strutturale e Mastroberardino dal canto suo ha espresso al meglio il potenziale di un progetto particolarmente affascinante ma certamente improbabile agli occhi di molti. Il vino venuto fuori negli anni, a parte il prezzo elevato dettato però soprattutto dalle ingenti difficoltà gestionali, ha espresso quasi sempre qualità intrinseche oggettive, e il 2003 in particolar modo, fortificato soprattutto da un’annata piuttosto calda mostra anche un certo carattere, una possenza non proprio tipica dell’uvaggio di cui si compone, specie del piedirosso, ma certamente riconducibile ad un terreno unico nel suo genere: vulcanico, sciolto, ricco di elementi minerali e lapilli. Anno dopo anno, dal 2001, sempre più espressivo. Un vino dal colore rubino splendido, quasi fermo nel tempo, dalle note olfattive dolci di mirtillo in confettura e di spezie finissime. Non certo un campione di profondità, ma ogni sorso scivola via con estrema piacevolezza, è accompagnato da giustezza e pacatezza, frutto ineccepibile e tanta suggestione, decisamente più godibile oggi che tre anni fa quando l’assaggiai l’ultima volta, nerboluto ed asciutto sino all’asprezza.
Ecco che mi vengono in mente altri esempi, negativi in questo caso, smarriti nel tempo ma non nella mia memoria; Uno su tutti, che mi rattrista particolarmente è proprio sulla strada che mi conduce sotto casa mia: chissà cosa sarebbe stata per i Campi Flegrei la falanghina dei Martusciello se avesse potuto godere solo del fascino della suggestione della “Villa del Torchio” ritrovata appena qualche anno fa proprio ai piedi delle vigne aziendali in via Masullo a Quarto. Allora qualche stupido burocrate, dopo una inattesa “apertura” per il cantine aperte, pensò bene di preservare il prezioso giacimento archeologico vietandolo a tutti e da qualsiasi progetto di integrazione culturale. Oggi gli stessi si vergognino per lo scempio a cui è sottoposto, praticamente inondato di immondizia e di erbacce, lì in un angolo deserto del parcheggio del centro commerciale!
Addensum: ci pensate a cosa sarebbe il lago d’Averno se il Tempio di Apollo, adornato da vigne vocatissime, non fosse così abbandonato a se stesso? Ed i bellissimi reperti che costeggiano le vigne di loc. San Martino a Pozzuoli? Beh, certo, sono queste domande a cui non otterrò mai risposte, spero però almeno in una riflessione, un minimo di indignazione!
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5 marzo 2010

Da buon napoletano, a sentir parlar di vedove non può che farmi rabbrividire. Da discreto sommelier (così dicono) però, mi sono abituato al tema, non fosse altro che per certe straordinarie bottiglie della più famosa delle vedove del vino, la prestigiosa Grande Dame Cliquot-Ponsardin, che negli anni mi sono passate tra le mani. A quanto pare però le veuves nel mondo del vino, dello champagne in questo caso, sembrano continuare a mietere successi, allegramente, ottenendo spesso, come appare, anche risultati eccezionali.
Nel 2006, quando ho incontrato per la prima volta questa etichetta sulla mia strada ero molto scettico, è già difficile scardinare le mie convinzioni in materia di bollicine d’autore, figuriamoci poi con uno champagne, misconosciuto com’era, e mai sentito prima di allora; Ma il fascino della scoperta e del confronto hanno sempre un certo peso nel convincermi all’approccio con un vino, così dopo un giusto tempo di meditazione mi sono avvinghiato alla flute, piuttosto assetato, scoprendo, devo ammetterlo, una piacevole sorpresa. L’occasione in verità era delle più propizie, un pranzo (in)formale domenicale alla tavola di Sud dove “les patronnes” Marianna Vitale e Pino Esposito mi hanno concesso l’opportunità di portarmene un paio di boccie da condividere con i miei ospiti. Ebbene, la Cuvée “D” si è rivelato un gran bel vino, uno Champagne davvero degno di nota e senz’altro meritevole di essere annoverato tra le più piacevoli delle esperienze “brillanti” di questo inizio anno.
Un colore splendente, giallo oro vivace, dalle bollicine fini ed intensamente persitenti; All’olfatto, il primo naso si è dapprima offerto su note di lievito e di crosta di pane, poi aprendosi ci ha regalato sensazioni estrememente eleganti e gradevoli di agrumi, frutta secca, nocciola, polvere di caffè. Un ventaglio olfattivo eccitante e costantemente persistente, sublime, di qualità decisamente superiore.
In bocca un soffio di freschezza, si apre secco, abbastanza caldo, a tratti citrino prima di congedarsi con una vena decisamente cremosa, avvolgente, finissima, quasi vellutata, chiudendo con una piacevolissima sapidità. E’ uno champagne importante, esaltato da piatti altrettanto importanti, giocati su ingredienti di sostanza ma proposti con grande equilibrio e leggerezza: l’abbiamo sorseggiato, in sequenza, con Polpo e Polpessa croccanti su insalata di puntarelle (!), poi sulla cheese cake di baccalà (già divenuto un classico) ed infine sulle succulenti linguine con porri e salsiccia pezzente (da non perdere!). Marianna non poteva che deliziarci, proponendoci, tra gli altri, alcuni dei suoi ultimi piatti, ma la signora vedova Devaux non poteva rallegrarci con meglio!
Note: la Cuvée “D” di Devaux è uno Champagne prodotto con Uve Pinot Noir al 65% e Chardonnay per il restante 35% e mai “sboccato” prima dei 5 anni prima della commercializzazione. E’ Distribuito in Italia da MG-Villa Sandi, costa, in enoteca, sui 60 euro.
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29 novembre 2009
Guardo negli occhi Lilly, le sfioro la mano, metto giù la tazza di caffè: “che ne pensi, un bel pranzo non trovi?” Sì certo, davvero tutto buono! Ho appena scostato più in là la mezza crostatina al cioccolato fondente meringata, sarebbe stato davvero troppo ma era doveroso provarla nonostante non ami particolarmente ne’ la meringa ne’ passare per un golosone: di solito al secondo dessert so dire stop, il terzo al massimo lo assaggio appena.

Finisce così il pranzo della domenica a Sud, il ristorante che la giovane chef Marianna Vitale ha aperto a Quarto poche settimane fa’ realizzando il sogno di una vita, far da mangiare cosa ama mangiare e fare accoglienza così come desidera essere accolta quando va’ fuori con il suo Pino. Iniziano qui le nostre chiacchiere, Marianna ci viene a salutare e ci dedica un po’ del suo tempo appena dopo aver impiattato le ultime portate, con Pino al suo fianco: “allora, tutto bene, vi sono piaciuti i piatti?” Sì Marianna, abbiamo molto apprezzato.
In verità spero non averti creato problemi nell’aver scelto “à la carte”, ma sai, eravamo curiosi di andare oltre il pur invitante menù degustazione (35 euro, 6 portate: a trovarne!). “Assolutamente no, la mia preoccupazione era più che altro se vi fossero intolleranze varie o qualche difficoltà su alcuni ingredienti. Pur essendo tutti molto tradizionali amo molto giocare con essi, accostarli e sovrapporli mi da’ possibilità di sperimentare, di esprimere la mia cucina, perciò ci tengo affinchè non vi siano sbavature.”
Piatti intelligenti, “puliti” nella loro esecuzione e sinceramente espressivi di un talento vero, di buona tecnica e soprattutto di cotture e condimenti delicati, da manuale. Adesso però dicci, come nasce il Sud di Marianna Vitale e perché? “Beh, più o meno si sa’ della mia passione sin da piccola, della nonna che mi ha messo sin da bambina le pentole in mano e permesso di seguirla ai fornelli di casa, ma il grande imput mi è nato soprattutto dalla voglia di esprimere in cucina (e a sua volta Pino in sala) ciò di cui ero sempre alla ricerca ogni volta che uscivo con amici e parenti: equilibrio e semplicità, e farlo soprattutto nei Campi Flegrei.”
Bene, ci sei riuscita, a quanto pare, benissimo. Mi fa’ piacere che ti stia a cuore la sorte di questa terra, sono curioso e mi domando: immagino che da quando è iniziato a circolare il vostro nome ci siano state visite più o meno velate anche di ristoratori della zona, dimmi che impressioni ne hai tratto? “Beh, devo essere sincera, siamo davvero molto felici per questo, ci arrivano anche tante altre persone, la rete è stata un viatico di grande visibilità (un grazie particolare a Luciano Pignataro, ndr) assolutamente fuori dalla nostra quotidianità e spesso chi viene qui a cena esagera anche con gli accostamenti ad altre realtà campane…”
Dicci però la verità, non trovi curioso che molti di questi ristoratori della zona vengano con piacere a “scoprirvi”, magari ritornando con una certa puntualità, pur rimanendo nel loro quotidiano piattume dei 10 antipasti a vagonate e dei menù turistici? Marianna sorride, le lascio il tempo di un gesto veloce, quasi imbarazzato, si tocca la punta del naso come a tirare via uno sbuffo di farina, che non c’è. Ci siamo capiti al volo, non insisto oltre sull’argomento e Pino mi dà la possibilità di parlar d’altro.
“Adesso dicci tu, come hai trovato la carta dei vini, ti piace? Ci tengo alla tua opinione”. Assolutamente in linea con la vostra proposta, inutile avere carte sterminate, meglio far girare la cantina e saper consigliare un buon vino adatto ad ogni momento. Se qualche stolto oserà avanzare riserve gli basti guardarsi intorno e capire che si trova in un locale con meno di 30 posti;
Piuttosto – ma questa è una mia pura e personale deformazione professionale che non manco mai di esprimere – non amo le carte per “varietale”, una moda abbastanza in voga ultimamente ma sempre poco realista e praticabile, soprattutto quando con l’intenzione di fare servigio al cliente ci si complica la vita e spesso con poco successo (la Falanghina di Telaro non è monovarietale, Il Flòres di Spada pure, l’Amarone men che meno ecc…), meglio essere razionali, chi vuole sa cosa scegliere e dove cercare, il padrone di casa fa il resto. Sorridono.

La cucina ha un’ampia vetrata, la brigata è tutta al femminile, movimenti ridotti all’essenziale e sincronizzati al millesimo; con Marianna, c’è la mamma stretta al suo fianco tra colapasta e fruste mentre lei è all’opera e gira intorno ai fornelli in cucina come a danzare, in sala, invece, con l’ottimo Pino, cordiale, propositivo, attento, c’è Stefania, davvero brava, puntuale e perfetta nello spiegare e motivare i piatti che escono dalla cucina; l’ho ascoltata parlare anche con gli altri clienti, non una parola di troppo con chi si è mostrato riservato, assolutamente disponibile e solare con la bambina capricciosa di turno, complimenti davvero per il savoir faire!
Siamo ai saluti finali, le chiacchiere quindi stanno a zero, Sud merita l’attenzione che si è guadagnata e potrei anche chiuderla qua: ma i piatti? Tutti buoni, punto. Andateli a scoprire in via Santi Pietro e Paolo a Quarto, in barba ai coglioni che non riescono ad immaginare un futuro diverso per chi ancora crede nei valori che questa terra, i Campi Flegrei ci lascia scorrere nelle vene.
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23 novembre 2009
E’ domenica mattina, ancora alle prese con i ringraziamenti per gli auguri per il mio compleanno appena trascorso quando mi imbatto sul promemoria di oggi che mi dice: Sud!

Oggi si va fuori, proprio dietro l’angolo di casa, più o meno, mi metto al telefono e chiamo per prenotare il tavolo nel ristorante di Marianna Vitale e Pino Esposito a Quarto. Arriviamo perfettamente in orario, sono circa le due, ci accoglie Stefania che ci accompagna al nostro tavolo; Pino ci saluta con calore, quel “vi aspettavamo” più che un accoglienza doverosa suona come un grande attestato di stima, potenza della rete.
Il menu nel complesso è esaustivo, cinque antipasti, altrettanti primi piatti e secondi, una deliziosa proposta di desserts; sono tentato dal “degustazione”, 6 piatti con due antipasti e due primi, un secondo ed un dessert a libera scelta dalla carta, davvero encomiabile per il prezzo (35 euro!), ma decidiamo con Lilly di scegliere à la carte.
Ci arrivano in sequenza il tortino di scarole, pane croccante e polpo su passatina di fagioli cannellini e ristretto di piedirosso (nella foto di M. Alaimo), un piatto dall’armonia disarmante, poi la lasagnetta di lingua di vitello con friarielli e tartufi di mare, che vuoi o non vuoi merita un applauso oltre che per la bontà, per l’intuizione e per il coraggio nel proporla e una cheesecake di baccalà profumato al finocchietto con ceci e pomodori confit, un gioco di tendenze dolci, acidità e sapidità ancora a favore delle prime ma di riuscita appetibilità.
I due primi sono due esecuzioni esemplari di innovazione e tradizione, le linguine con astice e cicerchie dei Campi Flegrei (quelle di Luigi Di Meo de La Sibilla) e gli ziti lardiati al sugo di coniglio, quest’ultimo più leggero (e digeribile) di quanto appaia citato in carta. Segue il trancio di lampuga in guazzetto di frutti di mare e broccoli e il Baccalà fritto in pastella, sapori nitidi di un mare vivo, non poi così distante da quella vista sul golfo di Pozzuoli dove Pino e Marianna avevano sognato di aprire il loro Sud prima di scegliere Quarto. Chiudiamo con un delizioso cremoso al caffè ed un morbido di “ricotta&pera” convincente, ci lasciamo poi persuadere dall’assaggio della crostatina al cioccolato fondente meringata, chiusura ad hoc per un pranzo della domenica da Diario enogastronomico.

Dalla carta, sinceramente esaustiva nella proposta, ho scelto di bere dapprima un tradizionale Greco di Tufo Novaserra 2007 di Mastroberardino, ma non convinto del tutto dalla bottiglia (lievissimo “tappo”) con la comprensione di Pino abbiamo optato per un solido e fresco Fiano Colli di Lapio di Clelia Romano. Intelligente l’offerta del benvenuto con l’Asprinio d’Aversa brut di Grotta del Sole (così si fa, territorio!) accompagnato da una interessante amouse bouche, pancetta arrostita su quenelle di ricotta e passatina di friarielli. L’ambiente è molto curato, caldo nonostante i colori apparentemente freddi, la tavola è apparecchiata in maniera elegante, moderna ma non eccentrica, a guardarsi intorno risulta molto interessante il sobrio passaggio fotografico che gira tutt’intorno la sala; il servizio è gestito molto bene dallo stesso Pino e dalla brava Stefania, attenta, puntuale (talvolta oltremodo), assolutamente professionale nei tempi e nei modi con i quali si propone agli avventori. Questo è Sud, quello che ci piace cercare e trovare nei piatti, condividere!!
Nota aggiuntiva del 28 Febbraio 2010: torniamo con piacere alla tavola di Pino e Marianna per un pranzo domenicale, con noi alcuni amici. Scopriamo l’inedito di nuovi piatti tra quelli già divenuti un classico della proposta di Sud, come la cheesecake di Baccalà o desserts come la crostatina meringata piuttosto che il cremoso alla liquirizia; aggiungiamo alla lista dei ricordi più saporiti, Polpo e Polpessa croccanti su insalatina di puntarelle, un modo elegante e composto di proporre “la frittura”, con materia prima freschissima, cottura biondissima ed insalata perfettamente condita. Da plauso le linguine con porri e salsiccia pezzente, connubio intenso ed armonico di aromaticità, tendenza dolce e succulenza, davvero un piatto intelligente, semplice nella sua essenza, ma perfettamente eseguito ed integrato in un menù degustazione che rimane, nella sua interezza, sempre su standards elevatissimi e a prezzi favorevolissimi.
La carta dei vini ha subìto qualche ritocco in positivo, la presenza di alcune verticali di vini campani sta a dimostrazione del fatto che si vuole crescere anche in cantina, opportuno però rivedere, di questi, alcuni ricarichi, un po’ troppo fuori mercato. Il servizio ricevuto, nonostante il locale fosse pieno, conferma, se ce ne fosse stato bisogno, le ottime attitudini di Pino e Stefania: garbati, presenti, disponibili. Da segnalare infine gli ottimi pani serviti, quello con le alghe veramente delizioso!
Nota aggiuntiva del 12 Marzo 2010. Ancora a Sud: la voglia di farlo scoprire ad alcuni amici a cui era ancora sfuggente era tanta. Ci sediamo di venerdì sera in un clima da sold out, le prime avvisaglie si hanno con la frenetica corsa di Pino e Stefania, che lo aiuta in sala, ad aprire la porta agli ospiti. Siamo raccomandati, o più semplicemente, avendo la carrozzina della bimba, ingombranti, otteniamo quindi lo stesso tavolo della volta precedente: comodo, a prima vista sulla cucina e però latente al vocìo che man mano si alza alle nostre spalle.
Tra le conferme, innanzitutto gli standards sempre costanti del servizio, si dispensano sorrisi, educazione, disponibilità. Proviamo oltre ai consolidati piatti citati nelle precendenti recensioni, ancora tre novità: Spaghettoni cacio e pepe con bianchetti, perfetto equilibrio tra l’aromaticità del condimento e la fragranza dei freschi bianchetti, grassezza e succulenza del cacio unita magistralmente alla sottile speziatura del pepe; ottime anche le fettucce con il coniglio ed olive nere sploverate di mandorle, anche qui esaltazione, quasi didattica, di tutti gli elementi componenti il piatto: cottura della pasta al bacio, coniglio saporito, condimento essenziale, avvolgente e non stucchevole.
Marianna sembra rincorrere nei suoi piatti oltre la perfetta coniugazione dei sapori che li compongono, anche i colori, ognuna delle sue preparazioni esprime una cromaticità che non passa inosservata, lampante ad esempio quando ci si ritrova davanti la sua cheesecake di baccalà, una girandola di colori prima che di profumi e sapori nitidi. Deliziose le costine di agnello, fuori carta e proposte scottate in padella con un semplice contorno di broccoli: anche la semplicità pare acquisire maggior fascino tra i fuochi di Sud. Questo è tutto, cronaca di una costante ascesa, a cui ogni buon appassionato della buona cucina vorrà partecipare!
Ristorante Sud
Via SS Pietro e Paolo n° 8
Quarto (Napoli)
tel. 081.0202708
www.sudristorante.it
Aperto la sera, domenica e festivi a pranzo
Chiuso il lunedì
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16 novembre 2009
Quando scrivo della famiglia Martusciello e di Grotta del Sole, lo ammetto, mi capita sempre di farlo con grande trasporto.

Esser di parte, lo so non può che risultare deleterio agli occhi di chi mi legge ed apprezza il mio senso critico obiettivo e schietto, ma guardandomi indietro mi accorgo che in fin dei conti ci sono in giro talmente poche mie recensioni dei loro vini quasi a manifestare proprio il contrario del mio sentimento di profonda stima ed affetto per questa azienda alla quale va riconosciuto il grande ruolo storico per i Campi Flegrei e per alcune realtà campane letteralmente salvate dall’estinzione come Gragnano ed Aversa con il suo Asprinio.

E’ pur vero che i numeri sono alti, le etichette tante e più di una volta io stesso ho dibattuto con Salvatore e Francesco Sr Martusciello sulla opportunità e funzionalità di continuare ad operare in molte delle denominazioni campane ma conti alla mano e fatte le giuste considerazioni storiche, per “essere presenti” sul mercato italiano e mondiale bisogna costruire una competitività oggettiva sul portafoglio prodotti e sulla sua qualità e pertanto sino a che i vini risponderanno alle esigenze dettate dal mercato stesso (originalità-qualità-prezzo) che soprattutto in questa fase attuale non teme di fagocitare in un sol boccone chi non ha costruito solide basi di tracciabilità e convenienza val bene continuare la strada tracciata anni orsono dal buon Angelo e dall’enologo Gennaro Martusciello.

In effetti tutto nasce da qui, dal sogno di realizzare un’azienda flegrea di riferimento che potesse nel tempo arrivare a valorizzare i vini storici e tradizionali dell’area e di altre denominazioni regionali al tempo, inizio anni ‘90, in assoluto decadimento. Percorso storico assolutamente tangibile attraverso questo sorprendente Riserva Montegauro 1997 da uve piedirosso al 100% coltivate a piedefranco nello storico vigneto di lago d’Averno, uno dei cru maggiormente vocati dei Campi Flegrei.
Una bottiglia strappata alla noncuranza di un caro amico, incosciente del grande valore, per me storico, buttato lì in un luogo buio e polveroso del suo scantinato (sempre meglio che sulla cappa di cucina, come alcune bottiglie di Brunello Col d’Orcia), delizia e scoperta di un vino straordinariamente godibile ed affascinante. Di un bel rosso granato con ampi riflessi aranciati, di media consistenza nel bicchiere ed abbastanza trasparente.
Il primo naso è naturalmente su note molto evolute, inizialmente coperto da forte riduzione ma dopo averlo lasciato ampiamente respirare si coglievano nettamente note tostate, di polvere di cacao, mallo di noce e pelliccia di animale. In bocca la sua verve è decisamente in fase calante, nel senso di conservare ancora una certa gradevolezza ma senza nessun picco di particolare consistenza, è secco, morbido di un piacevole finale speziato.
L’abbiamo bevuto da solo, senza abbinamento, tanto per stapparla, nella convinzione (degli altri, ndr) di trovarci “poco di buono lì dentro”, il tappo tra l’altro era piuttosto integro, 12 anni e non svanire, un altro, nuovo tassello sul percorso storico-liquido del Piedirosso dei Campi Flegrei: conservate gente, conservate!
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