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Varrains, Saumur Champigny Les Bonneveaux 2015 Le P’tit Domaine

8 ottobre 2019

Una delle primissime recensioni dei suoi vini, sicuramente tra le più preziose per Richard Desouche, gliel’aveva regalata La Revue du Vin de France che, sibillina, scriveva: ”in settimana è a lavorare in cantina a Clos Rougeard, nel week end a fare vino per conto proprio”, e che vini aggiungeremmo noi!.

Non male come inizio per Desouche che dopo aver speso tanti anni dai fratelli Charly e Nady Focault presso uno dei più apprezzati Domaine di Francia, Clos Rougeard, si è messo in proprio comprando 2 ettari e mezzo di vigna a Bonneveaux; da qui, sin da subito, sono venuti fuori vini davvero interessanti. Per meglio orientarci, siamo proprio nel mezzo di quella straordinaria terra che passa tra Saumur e Nantes, lungo la Valle della Loira, verso l’Atlantico. Da queste parti si coltiva perlopiù Chenin Blanc e Cabernet Franc, vitigno quest’ultimo di provenienza bordolese che qui viene chiamato anche Breton, perché pare sia arrivato qui via mare, proprio da Nantes, a quel tempo provincia bretone.

A queste latitudini i terreni e i microclimi sono assai diversi tra loro e consentono a quest’areale, siamo per l’appunto in Anjou Saumur, di coltivare varietà e produrre vini di ampio respiro e con caratteristiche spesso molto differenti tra loro: si pensi infatti ai cosiddetti Moelleux (vini bianchi soffici, morbidi) oppure alla personalità di alcuni vini fermi, secchi o speciali, e ancora ai rossi particolarmente fruttati, rotondi e pronti da bere come questo Les Bonneveaux, per finire con certi grandi vini risoluti, serbevoli, da lungo invecchiamento. E’ questa infatti la terra di straordinari Chenin Blanc come il Quarts de Chaume¤, o di Savennières del calibro de La Coulée de Serrant¤ di Nicolas Joly, come pure di Cabernet Franc come il Les Poyeaux di Clos Rougeard¤.

Carte Vignoble Anjou Saumur - foto tratta dal web

Venendo a noi invece, ci sono poi i primi vagiti di piccoli gioielli come questo del Le P’tit Domaine. Viene fuori da terreni di origine calcareo argillosa, da vigne che hanno mediamente un’età tra i 35 e i 55 anni, coltivate secondo i più stretti dettami dell’agricoltura biologica; danno così uve di grande qualità e i vini che ne vengono fuori hanno generalmente una forte impronta minerale, i bianchi sono ossuti e sapidi, i rossi ricchi e fruttati, e in alcune annate caratterizzati finanche da speziatura di pregevole finezza.

A parlare di certi vini, è abbastanza facile lasciarsi andare davanti a una bottiglia di Clos Rougeard, più difficile viene di restare attenti a non far passare inosservato il lavoro di chi come Richard Desouche ha scelto di fare vini in maniera diversa, puntando di più sul frutto, ma non per questo sono da ritenersi banali, anzi, hanno carattere da vendere e sono invece piacevolissimi da bere tanto che richiamano immediatamente a versarsi un altro calice.

Ci ha molto colpito questo vino, avvenente e fresco, seducente, magari non ampissimo nel suo carnet aromatico ma risulta delizioso e soddisfacente, di quei Cabernet Franc di cui fare incetta. E’ un rosso dal bellissimo colore violaceo, con anche toni più scuri sull’unghia del vino nel bicchiere, che sa come conquistare l’appassionato, per le sensazioni attraenti e dolci del naso e per l’autenticità del sorso, minerale e profondo, sensazioni che si aggrappano alle papille gustative con misura e delizia. Cercatelo e godetene tutti!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Saint-Emilion, Chateau Pavie Macquin 2004

6 agosto 2013

Chateau Pavie-Macquin è un premier grand cru classé (B) di Saint-Emilion. I 15 ettari della proprietà sono tutti collocati sul pianoro più alto di Saint-Emilion. Che poi parlare di altitudine sembra quasi irriverente se pensiamo di trovarci a circa 75/100 metri s. l. m..

Saint-Emilion 2004 Chateau Pavie-Macquin - foto L'Arcante

Devo essere sincero: Bordeaux mi manca. Nel senso che sono ormai cinque/sei anni che cerco di provarmeli tutti quelli che mi passano tra le mani. Ma non è abbastanza. Una mia idea per la verità me la sono pure fatta, sembrerà banale ma è così: grandi vini ce ne sono ma bisogna spendere cifre importanti per poter godere di una ‘grande esperienza’. Tuttavia non mancano belle sorprese come certi cru bourgeois e secondi e terzi vini poco conosciuti; ma bisogna starci dietro assiduamente e più che in altri casi nel mondo fare bene attenzione alle annate in circolazione. Buoni e cattivi non ne mancano mai.

Non posso dire di esserne rimasto rapito ma questo 2004 mi è sicuramente piaciuto. Ho letto un po’ di cose di Albert Macquin, il fondatore dello Chateau, un vero pioniere cui in molti riconoscono un ruolo importante nel rilancio di Bordeaux devastata dalla Fillossera. Come delle tante difficoltà che non ha mai consentito a Pavie-Macquin di esprimere grandi vini prima del 1998, quando, con l’avvento della nuova proprietà, oggi in mano a Benoit e Bruno Corre e Marie-Jacques Charpentier, si è cominciato a cambiare registro e farsi notare un poco di più.

Di Bordeaux, e più in generale della Francia, mi ha sempre affascinato enormemente quanto siano capaci di esaltare al massimo il concetto di terroir che viene prima dell’uva e della stessa idea di vino che si vuole realizzare. Un terroir qui complesso più che mai: dalle precipitazioni che sembrano cambiare di metro in metro alle particolari condizioni colturali; nella sola proprietà di Chateau Pavie-Macquin si contano 9 diversi tipi di terreno per la maggior parte caratterizzato da argilla e calcare. Così si è piantato più merlot (80%) che cabernet franc (18%) e cabernet sauvignon (appena il 2%).

Il colore di questo duemilaquattro è nerastro, profondo, intransigente. Il naso si lascia attendere un po’, al primo approccio non è proprio pulito, quasi idrocarburico ma di buona complessità: tira fuori sentori di frutta rossa matura e sotto spirito (è netto il cassis), erbette, pepe nero ma anche tabacco bagnato, liquirizia. Il sorso è vellutato, centrale, appena caldo con un buonissimo ritorno fruttato sul finale. Tutto sommato se li porta davvero bene i suoi quasi 10 anni. Una buona bottiglia di quelle da mettere tra gli assaggi dell’anno da ricordare.

Supertuscan tra passato, presente e (poco) futuro

9 aprile 2012

Non che siano mancati argomenti, anzi, come inizio non poteva andare meglio. Più degli altri anni però durante questa “apertura” di stagione m’è mancato quel poco di tempo in più per potervi raccontare subito le prime bottiglie passatemi per mano: priorità all’attenzione a certi dettagli, alcune novità, gli ingranaggi da oliare e un programma di eventi enogastronomici decisamente coi fiocchi¤. Poi… l’abiocco! 🙂

Insomma, uno start up di gran soddisfazione ma parecchio impegnativo. Ancora qualche giorno di pazienza quindi e L’Arcante riprenderà a consegnarvi cose buone (nuove) dal mondo del vino con la solita frequenza; frattanto “copioincollo” dai primi appunti e vi consegno un paio di assaggi notevoli di cui vale la pena scrivere almeno qualche riga; il primo è l’Acciaiolo ’97 di Castello d’Albola¤: gran rosso, una garanzia, dal colore ancora vivace e dal naso estremamente fitto e verticale, in splendida forma. Si certo, annata fortunata quella, verrebbe da dire “impressionante”, ma giuro che non me l’aspettavo ancora così profonda: il sorso è integro, ancora vibrante e ricco, puntuto e avvolgente, decisamente “fresco” ed invitante, sorprendente!

Di proprietà della famiglia Zonin¤, Castello d’Albola è a Radda in Chianti, su per le splendide colline chiantigiane; 850 ettari di cui circa 160 a vigneto frazionato in tanti piccoli cru tra cui spiccano Montevertine, Crognole, Solatio, Ellere e Acciaiolo, appunto. Quasi il 90% delle superficie vitata è occupata dal sangiovese, poi cabernet sauvignon, chardonnay e canaiolo.

Rimanendo da queste parti, intendo in Toscana, due facce della stessa medaglia  e convincenti per metà: Le Serre Nuove 2004 e Ornellaia 2008 di Tenute dell’Ornellaia¤. Il primo, second-vin dell’azienda-mito bolgherese è nato nel ’97 per dare manforte al più blasonato Bolgheri Superiore: vi finisce infatti, solitamente come prima ricaduta, tutta l’uva ritenuta non adatta per l’Ornellaia. Sin dal colore è evidente che vive ancora una splendida stagione, è in perfetto equilibrio degustativo e laddove necessario non avrei dubbi che sarebbe il meglio da offrire a coloro i quali vanno in cerca di un bordolese toscano da cogliere a pieno e nell’immediato: al naso è fulgido, soave, asciutto in bocca. Il sorso è risoluto, composto ma con un ritorno felice e ancora pimpante, di buona stoffa e profondità. Non sarà magari il vino della vita ma ne mette parecchi in fila, anche di più blasonati, pure volendo fare due conti in casa propria.

Il secondo, dal curriculum certamente invidiabile, m’è parso invece in questa versione un tantino troppo sovraestratto, e pur vestito da uno splendido colore e da un naso incalzante – amaroneggiante – ne ho colto un sorso sostanzialmente eccessivo, surmaturo e debordante; non vorrei dirlo ma già al secondo sorso fa registrare un attacco piuttosto invadente, monocorde, quasi stancante. Paga probabilmente ognuno dei 15 gradi d’alcol (onestamente troppi).

St. Emilion 1er Grand Cru Classé 2004 Chateau Figeac, ovvero quando Bordeaux sale in cattedra

3 agosto 2011

Ancora Bordeaux, stavolta però “rive droite”, per un passaggio di primissimo piano tra le eccellenze d’oltralpe; siamo a Saint-Emilion e nel bicchiere ci godiamo uno Chateau Figeac 2004 davvero avvincente, in grande spolvero!

Lo chateau: Figeac è a Saint-Émilion, la rive droite di Bordeaux, una delle più ambìte delle appellation del bordolese. Numeri alla mano, quello della famiglia Manoncourt – Thierry è scomparso appena un anno fa a 92 anni – è il vigneto più grande dell’areale con i suoi 40 ettari piantati quasi in egual misura con cabernet sauvignon (35%), cabernet franc (35%) e merlot (circa il 30%). Di molto ridimensionato rispetto alla sua origine, ben più estesa e dalla cui spartizione, per vicissitudini ereditarie e/o finanziarie susseguitesi negli anni, ne hanno beneficiato in parecchi, ha conservato tuttavia intatto il grandissimo fascino di uno dei luoghi più vocati del bordolese. Qui, contrariamente alla consuetudine che vuole il merlot predominante negli assemblaggi, questi vi è presente per appena un terzo dell’uvaggio; il vino viene solitamente lasciato maturare esclusivamente in legni nuovi. Per quanto possa valere la classificazione – qui davvero poco se non nel merito puramente commerciale -, Figeac viene annoverato come un premier grand cru classé, seppur ancora di classe B nonostante la lunga battaglia (persa) di una riqualificazione in classe A.

La vigna: poco da dire, se non che il terreno qui è eccezionalmente caratterizzato dai cosiddetti graves de feu, letteralmente ciottoli di fuoco, collocati all’estremità nord-occidentale della denominazione, al confine con Pomerol. L’areale è suddiviso perlopiù in cinque microaree ben definite, due delle quali partoriscono oggi quel fenomeno chiamato Cheval Blanc, mentre le restanti tre, Le Moulins, La Terrasse e L’Enfer ricadono ancora nel dominio di Figeac.

Il vino: è palese quanto sia disdicevole appassionarsi a certi vini, apparentemente tutti uguali di anno in anno come se nulla mutasse di millesimo in millesimo; in realtà così non è: qui, più che altrove, l’annata incide notevolmente sull’imprinting del vino, e si fa sentire e come. Questo duemilaquattro pare calzare perfettamente lo stile dello chateau, meno – dicono – quello dell’appellation: Figeac, con questo uvaggio, se vogliamo atipico, è storicamente forse il meno rappresentativo dei vini di Saint-Émilion, ma quasi sempre estremamente fedele alla migliore delle interpretazioni dell’annata; così con questo millesimo, con un vino complesso, di nerbo e freschezza gustativa da vendere, tannini particolarmente eleganti.

Il colore è ricco, rubino vivo e poco trasparente; il primo naso è emblematico, frutti rossi croccanti, prugna e mirtillo in grande evidenza e note eteree, più di quelle balsamiche e speziate, piacevolissime, che richiamano tra l’altro un sentore piuttosto caratterizzante, sottile ma insistente, di brodo di carne. Al palato è asciutto, quasi arido, con un ritorno di frutta secca e spezie molto gradevole; il tannino non è aggressivo, per nulla invadente, ma non manca di sfoderare una certa vivacità gustativa, soprattutto sul finale di bocca quasi vibrante, di ottima fattura. In definitiva, un rosso di grande efficacia, con una spina dorsale importante ma tannino finissimo ed elegante e, non ultimo, una beva a dir poco gratificante dal primo all’ultimo sorso.

Curiosità: Château Figeac produce anche un secondo vino, La Grange Neuve de Figeac; non è da confondere invece con Château La Tour Figeac o con lo Château La Tour du Pin Figeac con i quali non ha, oggi, nulla a che spartire. Pensate inoltre che in tutta la Francia vi sono almeno 150 chateaux che in un modo o in altro recano nel proprio nome la parola Figeac, molti dei quali proprio nei dintorni di Saint-Émilion.

Margaux 3eme cru classé 2006 Chateau Kirwan

23 luglio 2011

Il Desiderio è uno stato di affezione dell’io, consistente in un impulso volitivo diretto a un oggetto esterno, di cui si desidera la contemplazione oppure, più facilmente, il possesso. La condizione propria al desiderio comporta per l’io sensazioni che possono essere dolorose o piacevoli, a seconda della soddisfazione o meno del desiderio stesso.

Il dolore morale subentra con la consapevolezza dell’impossibilità di soddisfarlo, e quanto più forte è il desiderio disatteso – per esempio la mancanza della persona amata o un oggetto o ancora una condizione di cui si ha assolutamente bisogno -, tanto più forte è la delusione, quindi, la decadenza del desiderio stesso. Chi ne è capace però, per una rinnovata opportunità, per innata forza di carattere, o più semplicemente per un reiterato amor del vero, può riprovarci, talvolta con spirito rinnovato, anche solo per quella sottile quanto forte e coinvolgente sensazione di poter presto rivivere la stessa attesa, quel desiderio appunto, che la mente riesce a rievocare, e rinnovare, in modi più o meno evanescenti e/o realistici nonostante le percezioni dell’esperienza effettivamente vissuta.

Questo Margaux, classificato come 3eme cru classè, è di sovente prodotto con un uvaggio composto al 40% da cabernet sauvignon, 30% merlot, 20% cabernet franc e circa il 10% di petit verdot; un classico bordolese insomma. Più o meno. Al primo vino dello Chateau Kirwan, questo per l’appunto, viene destinato circa il 65% della raccolta, pertanto è lecito pensare che vi sia una gran cura nello scegliere solo i grappoli migliori per la sua produzione. Il duemilasei in questione è rimasto in legno – un terzo dei quali nuovi – per circa diciotto mesi; non tantissimi, ma nemmeno pochini.

Nel bicchiere mi son ritrovato un vino piuttosto vivo, non c’è che dire, sia nel colore rubino, bello concentrato, che nel frutto, certamente piacevole al naso – ampio e composito delle più classiche sfumature e sensazioni olfattive -, nonché concentrato ed abbastanza fresco al palato; il sorso però, tra l’altro nemmeno così persistente, non è proprio invitante, sinuoso e rotondo come le aspettative spesso lasciano intendere; appare materico e voluttuoso ma l’incidenza speziata, in particolar modo, risulta decisamente debordante sino a conferirgli, nel finale di bocca, sensazioni di amarezza e scompostezza eccessive. Da quel che ricordo, il duemilaquattro non mi dispiacque affatto, però dicono di questo ’06 che sia un Margaux di maggiore carattere, spigoloso quanto basta e con una bella struttura: “eccellenza  in divenire”. Beh, in verità vi dico che no, ad oggi non ci siamo proprio. Io da certi vini voglio decisamente di più. E subito!

Pauillac, Grand Vin de Chateau Latour 2004

28 aprile 2011

Eccola qua, l’attendevo; e come se l’attendevo. Una delle ragioni per cui pensi valga la pena fare certi sacrifici, stare lontano da casa, dai tuoi affetti, lavorare dodici, a volte anche quattordici ore al giorno; no, non è una bottiglia che ti ripaga di tanta dedizione, può solo la soddisfazione del cliente, e non quella scritta sulla comment card di fine servizio, se vogliamo algida e buona forse per le statistiche, ma quella che spunta sui saluti finali, che senti trasalire dalla tensione della stretta di mano.

Si dice che quando Bordeaux cade in disgrazia per un cattivo millesimo, sia il Grand Vin de Latour l’unico riferimento, l’unica garanzia per godere comunque del miglior frutto del terroir bordolese anche in una pessima annata. In verità vi dico che rimango scettico, non poco, sulla grandezza di certi vini presi così, d’emblée, al netto della liturgica suggestione della loro storia, pur costruita – tra l’altro con minuziosa perizia, soprattutto commerciale – in oltre duecento anni di storia viticola, almeno quelli più tangibili dalla critica enologica.

Tant’é che parliamo di un gran vino, di nome, e di fatto; Latour duemilaquattro è cabernet sauvignon per l’80%, merlot al 18%, cabernet franc e petit verdot per il restante 2%; un taglio millimetrico, si direbbe. Gli annali dicono di 78 ettari di proprietà tutti allocati lungo la sponda sinistra della Gironda, nei dintorni di Pauillac, dove però solo 47 ettari concorrono alla produzione del Grand Vin, mentre il resto viene distribuito tra il secondo vino rosso, Les Forts, ed il Pauillac propriamente detto.

Il colore è rubino scuro, decisamente caratterizzato, di notevole estrazione, impenetrabile, denso; il primo naso è sottile, volto al terroso, apparentemente scomposto; gli bastano però pochi minuti per riproporsi, con particolare suggestione, sulle più classiche note di frutti neri, ribes e mirtillo, poi ancora ginepro; lascio il bicchiere per qualche ora, mi dedico al servizio, c’è gente stasera. Quindi ci ritorno su a fine serata. Le bottiglie aperte qua e là mi hanno frattanto offerto altri piacevoli stappi, ancora assaggi interessanti di cui conservo qualcuno dei nuovi. Discutiamo, con Sabatino, il mio cantiniere, sull’opportunità o meno di proporlo il Biserno ’07 del Marchese Ludovico Antinori – “Angelo, sicuro? Pe’ mmé è ancora così giovane…” – ma il cliente ha pur sempre ragione; e il mio budget pure. Un sorriso tira l’altro, così riprendo tra le mani questo benedetto Latour 2004, stipato con tanta gelosia da occhi indiscreti: il timbro olfattivo adesso è virato, ora primeggiano note minerali, salmastre, corteccia; poi finissimo pellame, infine tabacco. Il sorso è intenso, caldo e profondo, e non potrebbe essere altrimenti; il tannino, dolcissimo, non smette di carezzare il palato, avvinghiato a finissima acidità.

E’ vero, certe etichette restano maledettamente inarrivabili, forse assurde, eppure… Bonne chance! Monsieur Dauphin, grazie mille per avermi concesso, per tre volte, di condividere con lei questo prezioso ed esclusivo passaggio a Medòc…

Pomerol, Chateau La Conseillante 2005

14 ottobre 2010

Un vino incomprensibile! Con un evidente difetto enologico! Davvero strano, si avvia ad una evoluzione inaspettata. Cavolo! Un vino davvero incredibile, eccezionale!

Vi siete mai chiesti perchè Bordeaux è, nell’immaginario collettivo, un luogo culto per il vino nel mondo? La risposta è banalmente semplice, ma purtroppo non così scontata come appare: qui si fanno grandi vini, ma soprattutto si costruiscono grandissime leggende. E’ vero, i francesi in questo ci sono andati a nozze alla grande, furbetti come sono hanno creato ad hoc storie e storielle varie mettendoci di mezzo ora la nobiltà dei terreni, la preziosità delle uve locali, poi la nobile arte dei vignerons, la maestria dei negotiants: insomma, dei gran commercianti!

Ma i vini? Ehmbè, non tutto quello che ci arriva da bordò è da prendere per oro colato, ma certi vini hanno la capacità di entrarti dentro alla grande, ficcarti bene in mente che 150 vendemmie hanno pur un significato superiore all’ultimo coglione arrivato, che una terra seppur sia baciata da Dio ha avuto la fortuna, sfacciata, di essere camminata e vissuta da uomini capaci di valorizzarla e non solo di depredarla, e soprattutto, che i vini qui partoriti sono figli di tutti non per la stupida idea venuta a qualcuno di cabernettizzare o merlottizzare le vigne di ogni dove ma più semplicemente perchè i cabernet ed i merlot che qui nascono hanno una identità precisa, un dna compiuto, un profilo unico ficcatogli nelle radici e poi nel vino dalla terra e non dall’uomo!

La Conseillante è a Pomerol, ed è a tutti gli effetti uno tra i più ambìti Chateau dell’appellation, le sue vigne ricadono proprio al confine tra quelle di St. Emilion e per l’appunto Pomerol, nelle vicinanze di Chateau Cheval Blanc e Petrus. Il vigneto è di circa 29 ettari, piantato a Merlot e Cabernet Franc su terreni composti perlopiù di argilla misto a ghiaia, con evidenti depositi di sabbie e ferro.

Il Pomerol 2005 è un vino incredibile, capace di allontanare, farti storcere il naso, poi di conquistarti sino a lasciarti sciogliere dall’invidia per non aver mai bevuto prima nessun merlottone così buono come questo!

Il colore è un colpo al cuore, nerastro con evidenti sfumature porpora, praticamente impenetrabile; del primo naso ne faresti a lungo a meno, tracce ematiche miste a ferro e funghi, un vino con un tale esordio olfattivo ha di solito i secondi più o meno contati prima di vedere le rotondità del mio lavandino, ma qualcosa mi tiene il naso attaccato al bicchiere, più me ne allontano per non lasciare assuefare le narici più ne rimango affascinato; c’è, dietro l’angolo, un vortice di sensazioni olfattive che di li a poco si manifesteranno in maniera a dir poco entusiasmante.

Così armato di santa pazienza, travaso il vino da un calice all’altro, e via così per almeno un quatro d’ora, adesso quello che per alcuni è un timbro identitario ma che per me era solo una mera sgradevole sensazione, ha lasciato il posto a note certamente più interesanti e intriganti: il frutto prima di tutto, fresco e polposo, lamponi neri e mirtillo su tutti, poi note floreali di violetta, sino a liquirizia e vaniglia, tutte note speziate fini ed eleganti, che rendono a questo vino una trama olfattiva molto suggestiva, che vira continuamente tra la frutta e l’etereo, tra la confettura e l’inchiostro. In bocca  poi è possente, l’ingresso è ricco, il frutto quasi masticabile, il palato viene preso d’assalto da un vino di nerbo e voluttuoso, non proprio seta pura ma certamente caratterizzato da tannini nobili e più che digeribili. Il tempo gli conferirà maggiore grazia, adesso esprime tutta la fierezza dell’uvaggio e della sua nobile terra di origine. Un gran bel vino!

Questo vino è il nostro vino straniero dell’anno.

Denver, Colorado Cabernet Franc 2001

30 dicembre 2009

Spero Winery nasce nel 1996 quando June, moglie di Clyde Spero eredita un piccolo appezzamento di terra proprio a ridosso di Denver. Si decide, piuttosto che costruire immobili, di piantare un vigneto con la prospettiva di mettere su, nel tempo, una vera e propria azienda vitivinicola, ripercorrendo in qualche modo le tracce storiche della tradizione familiare paterna. La prima vendemmia arriva nel 2000, ed ai primi assaggi, tutto fa pensare a che si sia fatto un gran bel lavoro. I vini base risultano di particolare pregio, le uve selezionate, perlopiù vitigni internazionali mostrano di avere fittezza di aromi e carattere da vendere, pertanto la via maestra è imboccata.

La storia della famiglia Spero è per certi versi la stessa di tante famiglie italiane che agli inizi del secolo scorso hanno lasciato il nostro paese in cerca di fortuna negli Stati Uniti; Tutto nasce da Gaetano Spero, originario di Potenza, che ha appena 13 anni quando assieme a due amici, anch’essi poco più che adolescenti sbarca a Nuova York, con appena 5 dollari in tasca. Inizia qui il lungo viaggio che lo porterà ad attraversare praticamente tutti gli stati confederati dall’east coast sino in Colorado, dove grazie all’aiuto di alcuni lontani parenti che l’avevano preceduto, riuscirà a trovare lavoro in una miniera di carbone. Come da manuale, con il passare degli anni sono tante le ricorrenze e le tradizioni attraverso le quali si cerca di conservare un forte legame con le proprie origini, e Gaetano, le sue origini vulturine le vuole conservare seriamente tanto che lo portano di anno in anno, tra le altre cose, a produrre, in proprio, discrete quantità di vino (da uve internazionali) per il consumo familiare. Fare vino è un’arte che sa bene come interpretare: scegliere le uve, valutarle, vinificarle nella giusta maniera vengono affrontati con una tale perizia e maestria tanto da dover in più di una occasione rifiutare interessanti proposte di avviare una seria commercializzazione avanzategli da diversi amici-rivenditori locali. Clyde Spero, non ha fatto altro, qualche anno più tardi, che riprendere le fila di questa tradizione e la bontà dei suoi vini ne sono oggi tangibile testimonianza.

Il Cabernet Franc (conosciuto in giro per il mondo anche con i nomi Bouchet, Breton, Carmenet, Grosse-Vidure) predilige ambienti pedoclimtici freddi, è una varietà apprezzatissima se vinificata in uvaggio, soprattutto con il cugino Cabernet Sauvignon, che tende generalmente a stemperarne molto le sue note varietali soprattutto erbacee e vegetali, che ne fanno per questo un vitigno poco ambìto alla lavorazione più o meno al 100% (fatte le dovute eccezioni, una su tutte il mitico Chateau Cheval Blanc di Saint Emilion che è, per gran parte, proprio Cabernet Franc).

Nel bicchiere un vino rosso rubino con unghia granata appena accennata, è vivace e per niente trasparente. Il primo naso è molto invitante, appare subito intenso e complesso, fine; subito note di frutti rossi e fiori secchi, si riconoscono su tutti, sentori caramellati di lampone e amarena, poi lavanda, noce di cocco, poi ancora note balsamiche di liquerizia, cuoio. In bocca è importante, materico, profondo: è secco, molto caldo, possiede discreta acidità e poco tannino, scorre via in una beva di corpo, quasi robusta, con un finale di buona sapidità ed armonia. Un vino quasi masticabile, dal finale dolcemente equlibrato e lungamente piacevole. Da servire, dopo un’attenta ossigenazione, in ampi calici di cristallo per esaltarne tutte le sfumature organolettiche, su piatti importanti, bolliti come “dio comanda” o maialino cotto a bassa temperatura, piatti insomma di buona grassezza e succulenza da vendere, anche con intense aromaticità.


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