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Pozzuoli, Piedirosso Campi Flegrei 2015 Contrada Salandra

5 Maggio 2019

Negli ultimi dieci anni ci sono almeno due annate di particolare rilievo nei Campi Flegrei dalle quali sono nati dei veri piccoli capolavori da Piedirosso, la prima è stata la duemilaundici, la seconda è senza dubbio la duemilaquindici.

Piedirosso Campi Flegrei 2015 Contrada Salandra - foto L'Arcante

Due millesimi per così dire ”celebrativi”, a loro modo diversi ma che hanno consegnato uve di particolare pregio capaci di regalarci tante belle bottiglie e sensazioni che crediamo siano state di grande incoraggiamento per molti dei migliori produttori flegrei.

Due annate capaci di rivelare tutto lo straordinario potenziale del territorio e del Piedirosso, quest’ultimo finalmente libero di volare lontano dal cono d’ombra dell’Aglianico, rinnovato nel suo spirito sfrontato, con bottiglie dal taglio decisamente più moderno, rinvigorite dalla scoperta di non avere alcun bisogno di andare alla forsennata ricerca di ciccia e di sovrastrutture particolari per giocarsela con i migliori vini italiani, etichette capaci di valorizzare il loro tradizionale bouquet, anzitutto orizzontale, talvolta concentrico ma sottile e ficcante – anche quando non immediato come in questo caso -, eppure profondo, dal sorso vibrante, giovanile e arguto al tempo stesso, anzi, astuto per meglio dire.

Come il Piedirosso di Giuseppe Fortunato¤, vino dal colore rubino intenso, appena trasparente, dal naso inizialmente timido ma che, lentamente, si apre su sentori maturi ma molto invitanti, in un susseguirsi di fiori, frutta e sensazioni speziate, finanche eteree. Note di viola passita, ciliegia sotto spirito, balsami e spezie dolci, di incenso e polvere. Il sorso è rigoroso, a suo modo varietale, dalla beva estremamente piacevole, stuzzicante e dal finale di bocca asciutto. E’ da bere proprio adesso, con grande piacere, ma se non ora, quando?!

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© L’Arcante – riproduzione riservata

No che non ce ne siamo scordati di Peppino Fortunato, della Falanghina Campi Flegrei 2016 di Contrada Salandra

20 aprile 2019

Mai i Campi Flegrei, il Piedirosso e la Falanghina hanno ricevuto tante attenzioni come negli ultimi 4 o 5 anni e mai così tanti appassionati e addetti ai lavori appaiono letteralmente innamorati ogni giorno di più di questo straordinario territorio e questi vini finalmente apprezzati in tutto e per tutto quel che rappresentano per storia, tradizione e bontà!

Grande merito va certamente a taluni produttori che da anni lavorano duramente per migliorarsi, capaci di scrollarsi di dosso limiti tecnici e colturali azzerando stereotipi finalmente superati. Negli ultimi sei mesi di visite, chiacchiere, approfondimenti, assaggi ripetuti, ci viene d’obbligo ribadire che la vendemmia duemilasedici a Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Marano e sulle colline più prossime a Napoli ha per certi versi delineato uno spartiacque, una sorta di punto e a capo, una linea temporale dalla quale ripartire con grande slancio, dopodiché nulla più può essere considerato come prima, non solo per i rossi, anzi, in particolar modo per i bianchi, proprio per quella Falanghina che, non scordiamolo, numeri alla mano, continua a tirare instancabilmente la carretta di tutto il comparto, anche per una piccolissima realtà come quella di Peppino Fortunato¤.

Silente e riflessivo com’è nella sua natura, Peppino ha continuato nella sua opera di recupero e valorizzazione della vigna di famiglia, poco più di 4 ettari tra Monterusciello e Licola, nel cuore dei Campi Flegrei, nel comune di Pozzuoli, dove da poco più di quindici anni ha affiancato alla vocazione dell’apicoltura la coltivazione e la produzione di vini esclusivamente con i due vitigni tipici del territorio, Piedirosso e Falanghina con risultati di tutto rispetto.

I suoi vini hanno sempre un profilo organolettico austero, sono ricchi di personalità, minerali e pieni di tensione gustativa, sono per questo generalmente vini ”da aspettare”, poco avvezzi cioè alle necessità impellenti di mercato tant’è che entrambi vengono abitualmente commercializzati dopo almeno un anno e mezzo/due di affinamento in bottiglia, un tempo quasi necessario per lasciarli distendere prima poterne cogliere tutta la matrice territoriale.

Qui i terreni sono perlopiù sabbiosi, di origine marcatamente vulcanica, per niente sorpresi quindi nel ritrovarci nel bicchiere una Falanghina Campi Flegrei  duemilasedici di grande personalità, dal colore paglierino luminoso e maturo, ampio al naso e vibrante al palato. Le uve di questo angolo della Costa cumana coltivate a poche centinaia di metri in linea d’aria dal mare, sanno donare vini di personalità e caratterizzati da tanta freschezza, pienezza e sapidità, a questo giro, in questo vino, particolarmente centrate.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Pozzuoli, Piedirosso dei Campi Flegrei Pro-Polis 2011 Contrada Salandra

23 Maggio 2016

Mai il piedirosso ha ricevuto tante attenzioni come negli ultimi 4 o 5 anni e mai così tanti appassionati e addetti ai lavori appaiono letteralmente innamorati ogni giorno di più di questo straordinario rosso finalmente apprezzato in tutto e per tutto quel che rappresenta per storia, tradizione, vocazione e bontà!

Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Pro-Polis 2011 Contrada Salandra - foto L'Arcante

Per tanti anni misconosciuto e relegato ai soli confini metropolitani nonostante le origini antichissime del varietale ed un ruolo da prezioso co-protagonista riconosciutogli in molte denominazioni campane di forte richiamo territoriale come Taurasi, Falerno e Vesuvio su tutte. E naturalmente Campi Flegrei¤ di cui è invece padrone indiscusso. Apologia silente capace oggi di mettere tutti d’accordo.

Una denominazione di appena vent’anni quella flegrea caratterizzata però da una storia antica unica ed affascinante, che da sola vale il viaggio per vigne e cantine sparse sul territorio tra la costa, le colline baciate dal sole, i laghi e vecchi e nuovi crateri. Luoghi dove l’uva e il vino si mischiano continuamente al Mito e alle contraddizioni del nostro tempo. Una doc che molto deve al lavoro della famiglia Martusciello¤ e che oggi vanta numerosi interpreti ognuno dei quali capace a suo modo di essere un riferimento di qualità, proprio come Peppino Fortunato.

Qui, una quindicina di anni fa, tra la costa vicino Cuma e Licola Peppino ha preso a fare vino riportando a nuova vita un vecchio vigneto di famiglia di circa due ettari piantato a metà anni ’90. Oggi sono circa 4 e mezzo gli ettari, in tutto 18.000 bottiglie divise tra falanghina e piedirosso. I suoi vini, quelli di Contrada Salandra¤ hanno sempre un profilo organolettico austero, sono vibranti di personalità, minerali e ricchi di tensione gustativa, sono generalmente vini ”da aspettare” quindi poco avvezzi alle necessità di mercato tant’è che entrambi vengono abitualmente commercializzati dopo almeno un anno o due di affinamento in bottiglia.

Pro-Polis 2011 va ben oltre questi precetti, è un cru di per ‘e palummo che celebra a suo modo un millesimo¤ di particolare pregio qui nei Campi Flegrei; annata straordinaria che ci ha già regalato ad esempio il Vigne Storiche¤ di Vincenzino Di Meo e lo splendido Tenuta Camaldoli¤ di Gerardo Vernazzaro.

Un anno, il 2011, che ha visto tra l’altro riscrivere parte della denominazione¤ con l’introduzione nel disciplinare di alcune novità importanti, tra le quali la creazione della doc Campi Flegrei bianco e rosso proprio in virtù di una più ampia visione produttiva che guardi con maggiore attenzione alle mille peculiarità del territorio più che alla coltura varietale spesso relegata ufficialmente al solo binomio falanghina-piedirosso, una grande sfida per i prossimi anni. 

Un piedirosso quello di Peppino dal colore rubino scuro, dal naso inizialmente timido ma che si eleva su sentori ciliegiosi, balsamici e speziati, di incenso e polvere. Rigoroso al palato, si distende con estrema franchezza varietale, regala una beva piacevole, vivace e rotonda sul finale di bocca appena asciutto. Da bere adesso non senza la curiosità di ritrovarlo fra dieci anni, affermazione questa che appena 4/5 anni fa poteva suonare per molti come una vera e propria bestemmia, ma per fortuna i tempi cambiano.

Il naso, i napoletani e l’apologia del Piedirosso #1¤.

Il naso, i napoletani e l’apologia del Piedirosso #2¤.

Le strade del vino dei Campi Flegrei¤.

Piccola Guida ai vini dei Campi Flegrei¤.

L’Arcante raccomanda di servire questa tipologia di vini con Fresh¤, il nuovo seau a glace di Nando Salemme.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #2

7 giugno 2011

Una faccenda simile a quella descritta nel finale del post precedente, che vuole cioè difetti originati da una cattiva gestione del vigneto o della vinificazione nonché dell’affinamento, proposti ed insidiati nell’immaginario collettivo come tipicità, è stata per anni propinata raccontando del nostro piedirosso dei Campi Flegrei, che ha, guarda caso, una spiccata tendenza sia alla riduzione, durante le fasi di lavorazione in cantina e, se le uve raccolte non godono di perfetta maturazione, al vegetale.

I napoletani e l’apologia del piedirosso. Per lungo e troppo tempo abbiamo sentito affermare che la puzzetta del piedirosso è un tratto caratteriale tipico del vitigno, o del territorio: affatto! Il carattere vegetale poi, come detto, è riconducibile solo ed esclusivamente ad una non corretta maturità dell’uva, derivante da una non ottimale gestione del vigneto (pirazine), mentre la riduzione è dovuta dalla produzione di idrogeno solforato (uova marce) e metantiolo (acqua stagnante, straccio bagnato) ad opera del lievito, sia esso indigeno o selezionato, quando è in condizioni di particolare stress per carenza di ossigeno o per carenza di azoto. I suoli vulcanici composti principalmente da sabbie sono terreni sciolti, poveri di azoto, tale macroelemento è indispensabile per il corretto metabolismo del lievito, quindi avendo valori di azoto prontamente assimilabile (APA) bassi – in media tra 80-120 mg/l quando solitamente ne occorrono circa il doppio -, non è difficile decifrare quale fosse l’origine del male di certi piedirosso sempre troppo sospesi tra l’inferno ed il purgatorio. A questo aggiungiamoci certe pratiche enologiche che definire scorrette è poco, dalla cattiva gestione dell’ossigeno, o un eccesso di anidride solforosa in fase di ammostamento, alla noncuranza delle uve in fase di pre-lavorazione con il doppio effetto negativo di produzione di esenoli – note erbacee – e l’eccessiva produzione di feccia vegetale che tende a sottrarre ossigeno al lievito. Bisogna fare pertanto attenzione quando si parla di tipicità e soprattutto di territorio. Il territorio negli ultimi quarant’anni ha subito notevoli trasformazioni, per di più il clima è cambiato, le buone pratiche di campagna abbandonate e le stalle, quelle vere, scomparse.

Il sovescio per esempio, veniva applicato sistematicamente in tutte le vigne del circondario flegreo, e qualcuno ancora riesce a mantenere, con non poca fatica, questa tradizione; consiste nel seminare in autunno leguminose, in modo particolare favino e lupinella, per interrarle poi in primavera; un sistema naturale atto ad arricchire il terreno anzitutto di azoto, ma anche di ferro grazie alla congiunta semina del rapestone. Il letame proveniente dalle stalle, stabulato e maturato, arricchiva il suolo di sostanza organica e carbonio, aumentandone così capacità di scambio cationico (C.S.C), cioè la capacità intrinseca del terreno di rendere disponibile i macro e i microelementi all’apparato radicale delle piante. Il letame, inoltre, ripristinava ogni anno la carica batterica del suolo fondamentale per rendere “vivo” il terreno.

Anziani contadini delle mie parti di sovente mi raccontano che il vino piedirosso presentava al tempo colore rubino brillante e spesso gradazioni alcoliche sostenute e buona struttura tannica, ovviamente il tutto in zone vocate e in particolare da vini prodotti con uve da viti vecchie.

Oltretutto le temperature erano più fresche e di conseguenza anche l’acidità era più alta ed il Ph più basso, ciò era molto interessante per tutte le ricadute microbiologiche e chimico-fisiche e per la capacità del vino di tenere nel tempo. Inoltre, il mosto veniva fermentato in tini di legno aperti con grande disponibilità di ossigeno per i lieviti indigeni, aspetto di fondamentale importanza per quanto detto prima. Infine, l’affinamento, anzi, a quel tempo era un mero stoccaggio in previsione di un trasporto che avveniva generalmente in fusti di castagno e ciliegio, non certo quindi per velleità ma per necessità; tra l’altro, il ciliegio a poco alla volta andava sostituito nel corso del tempo dal castagno, a causa della sua elevata porosità e quindi incidente sulla diminuzione di quantità di vino. In ogni modo anche questi legni conferivano tipicità al prodotto.

Il castagno, se ben stagionato, conferiva struttura e probabilmente al primo passaggio anche una nota amarognola e mentolata, con il tempo di sicuro il suo contributo migliorava perché meno aggressivo e comunque restava la capacità di ossigenare il vino attraverso il cocchiume e le doghe, cosa sicuramente positiva per l’evoluzione. Il ciliegio, fintanto che è stato presente nella filiera, in perfetto equilibrio con il castagno, donava dolcezza e frutto. Oltre a queste perdite naturali che hanno definito in passato la cosiddetta tipicità del piedirosso, un forte aggravio lo si è avuto dall’introduzione dell’acciaio in cantina. Il vitigno, si può dire quindi, è vittima del mal d’acciaio. Essendo l’acciaio un contenitore inerte, non traspirante, incide notevolmente sulla tendenza che ha il vitigno alla chiusura ed alla riduzione, talvolta irreversibile se non si ha l’accortezza di gestire bene i travasi, oppure adoperando la tecnica della micro ossigenazione; il per e’ palummo vinificato in acciaio è come un uomo stretto da una morsa al collo, che ha non poche difficoltà a respirare.

Come si evidenzia da quest’ultimo breve periodo, tante cose sono cambiate, ma una appare chiaramente non mutata nel tempo, la fretta del napoletano. Il napoletano è fast, comprende poco o nulla della cultura Slow, vive di precarietà da secoli e l’aforisma Carpe Diem pare cucitogli addosso in maniera calzante: poco, maledetto e subito!

Così per il vino, un prodotto da consumare subito, entro l’anno. Per fortuna oggi c’è qualche segnale di cambiamento, c’è qualcuno, qualche mosca bianca che inizia a rallentare ad andare più Slow, a sperimentare quell’arte di “saper attendere” anche sulla produzione dei vini. Questi segnali sono più che evidenti nell’ultimo decennio, tangibili nelle aziende storiche flegree come pure in quelle piccole realtà venute fuori negli ultimi tempi; di questi ci sono alcuni piedirosso, nomi e cognomi alla mano, La Sibilla, Contrada Salandra, Agnanum, dei quali godere appieno, e nessuno di questi caratterizzato, pur rappresentati come espressioni tipiche del territorio, da quella “tipica puzzetta” fastidiosa e certamente ben lontana, per quanto detto, dal varietale e dai Campi Flegrei; evidentemente quindi tutti lavorati bene e figli della scienza e di una enologia pulita. Si, perché dietro ad ognuna di queste aziende c’è un bravo enologo: a Bacoli, a La Sibilla c’è il giovane e bravo enologo di famiglia Vincenzo Di Meo, Giuseppe Fortunato di Contrada Salandra si avvale dei preziosi consigli di Antonio Pesce, che tra l’altro con i vini delle sabbie vulcaniche ha grande dimestichezza, mentre Raffaele Moccia, Agnanum, ha potuto beneficiare dell’imprinting iniziale dello start-up del vulcanico, competente ed estroso Maurizio De Simone.

In definitiva, il piedirosso incarna forse anche la marginalità di Napoli, a volerlo dire con una espressione greca usata nelle scritture apocalittiche, Napoli e il piedirosso si trovano sempre Parà ta éscheta ovvero prossimi ai limiti estremi, vicini alle cose ultime, sull’orlo dell’abisso, in bilico, sempre a un passo dalla resurrezione ma anche ad un passo dal precipizio. Infatti, uno dei grandi problemi irrisolti di questo vitigno è la scarsa produttività e quindi la definizione di un modello viticolo moderno, capace di esaltarne le peculiarità limitandone le avversità; intanto i contadini, proprio per questo motivo lo stanno estirpando, sostituendolo nella migliore delle ipotesi con la falanghina, di certo più plastica e generosa; quindi è d’obbligo lanciare un appello al mondo della ricerca, della produzione e della comunicazione, per lavorare uniti al fine di preservare il valore assoluto di questo straordinario vitigno, l’orgoglio agricolo nonché ancora di salvezza, rinascita viticola della nostra città. Save the piedirosso!

 Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte prima.

Qui l’articolo in versione integrale  su www.lucianopignataro.it.

Pozzuoli, del Piedirosso 2008 di Contrada Salandra e di come nulla il tempo possa smentire

10 dicembre 2010

Pozzuoli, autunno 2003. Vanno via gli ultimi clienti, rimaniamo in cinque o sei, forse qualcuno in più, ma comunque solo buoni amici; abbiamo ancora voglia di bere, brindare, non di festeggiare, ma di fissare bene nella memoria questo giorno, l’inizio di una nuova, splendida avventura nel fantastico mondo del vino: nasce così, dopo un anno di intenso rodaggio, “Amici di Bevute”, e non poteva trovare, a L’Arcante, una casa migliore.

Tra i pochi rimasti, Sandra e Giuseppe Fortunato, conosciuti già qualche anno prima per i loro deliziosi mieli flegrei. Peppino, timidamente, chiede di poterci far assaggiare il suo vino, prodotto artigianalmente e frutto del duro lavoro di recupero della vigna di famiglia di via Tre Piccioni, sulla litoranea che da Pozzuoli conduce alla marina di Licola (per capirci, in zona coste di Cuma), un posto baciato dalla natura ma come spesso accade dalle nostre parti sventrato dall’abusivismo edilizio dilagante degli anni ottanta e novanta. Tant’è che ci arrivano sul tavolo, nella curiosità generale, due bottiglie di per e’palummo.

Ne apriamo una prima, bello il colore vivace, ma il vino al naso è marcato da una decisa nota di riduzione che non lascia spazio a molto altro, se non al piacevole e coinvolgente racconto; dissertiamo infatti, con ampie premesse, su cosa ci si aspetta da quel pezzo di terra fortemente voluto preservare ma che deve in qualche modo trovare una sua dimensione, soprattutto per evitare di finire nel limbo dell’abbandono, o peggio, della cementificazione. Su questo Peppino ha sempre avuto le idee molto chiare, lui e Sandra sono da sempre fortemente sensibili alla salvaguardia dell’ambiente ed hanno imparato, girando per fiere con i loro mieli, che seppur lento, c’è un ideale che puntualmente ritorna, in ogni generazione, a spazzare via ogni conquista qualunquista: è il valore assoluto della terra, per cui vale la pena lottare!

Frattanto decidiamo di aprire la seconda bottiglia, i tratti espressivi non si discostano più di tanto, è chiaro che c’è una mano poco esperta in cantina, eppure non manca di frutto, di carattere; la passione e l’amore per ciò che si fa non sono tutto e Peppino ne è consapevole, ma a parte gli evidenti difetti di manico cerchiamo, con gli accoliti, di comprendere l’anima ribelle di quel frutto che deve pur sfociare nella realizzazione di un sogno, ma è solo l’inizio, ed il tempo si sa, è un gran dottore; qualcuno tra noi chiosa, con poche parole ma che ci aiutano a ben sperare: “ha quel sapore d’uva che mi ricorda il vecchio per e’palummo sopra Cigliano, quello o’vero”. Risata a parte, li ricordo anch’io quei vini, ruvidi, austeri, squilibrati, che piacciono – quando piacciono – più alla pancia che alla bocca, eppure non mentono mai, anche quanto allontanano!

Da allora sono passati sette anni, Peppino Fortunato, silente e riflessivo come è nella sua natura, ha continuato nella sua opera di recupero e valorizzazione della vigna di famiglia, ha chiamato ad aiutarlo in cantina quella mano di cui tanto aveva bisogno, quell’Antonio Pesce che tanto conosce di piedirosso e che tanto ha imparato a rispettarlo e valorizzarlo, così appena messo piede in cantina si è subito cambiato registro. Ottimo fu il 2005, il primo millesimo di riferimento assoluto per Contrada Salandra; ricordo ancora come fosse ieri, l’amichevole “scontro” verbale avuto proprio quell’anno con Peppino, che impaurito dalle prime difficoltà commerciali, aveva deciso di declassare buona parte della vendemmia precedente per meglio collocarlo – come igt – sul mercato locale ad un prezzo decisamente appetibile: “scellerato, gli dissi, non te ne curare, i tuoi obiettivi sono altri!”.  

Il 2008 è la rappresentazione esemplare di quegli obiettivi, prima la terra, poi l’uva, quindi l’uomo, capaci di interagire ma in nessun modo di superarsi; un millesimo, qui come altrove nei Campi Flegrei, specchio di quell’anima, tutta flegrea, appannaggio di pochissimi sul territorio che del territorio ne hanno tessuto la storia e si propongono oggi più che mai di salvaguardarla e valorizzarla. E parlo dello storico, fondamentale coinvolgimento della famiglia Martusciello, del silenzioso ma efficacissimo lavoro dei Di Meo piuttosto che la maniacale ricerca di Gerardo Vernazzaro, ma anche della rincorsa dei vari Antonio Iovino o di Cantine del Mare. Oggi il piedirosso sembra avviato ad arrivare sulla bocca di tutti, o meglio, da più parti si spinge affinchè sia proprio questo rosso tutto nostrano a soppiantare il fallimento – solo temporale – del più nobile dei vitigni campani, l’aglianico. E’ il piedirosso o dover riscaldare gli animi, a fare da apripista al ben più austero e longevo aglianico, il chiavistello da insinuare nelle maglie, sempre più intricate, di un mercato in persistente agonia e perennemente oppressivo sulle esigenze che hanno invece certi rossi da invecchiamento.

Per qualcuno insomma, la cosiddetta manna dal cielo, ma si badi bene, e questo è un monito, non un semplice invito, non si tenti di fare di questo straordinario vitigno un figlio di puttana qualunque da prostrare ai piedi dell’ignorante di turno, soprattutto perchè è in terra flegrea, dove giace in gran parte ancora a piede franco, che meglio riesce, più di qualunque altro luogo in Campania, ad esprimere la sua verità varietale.

Il Piedirosso 2008 di Contrada Salandra esprime un gran bel vino, e più di ogni altra parola val la pena veramente di berlo, quasi ascoltato in ognuno dei sorsi che suggerisce. Una eccellenza frutto di un lavoro durato almeno cinque anni, secondo me già sfiorata, di una o due spanne, nel 2007, ma qui, oggi, decisamente colta nel segno. Le uve sono state raccolte il 25 e 26 ottobre nei vigneti di Monterusciello e Licola, dopo la diraspapigiatura hanno subito criomacerazione a 4 – 5°c per circa 24 -36 ore; successivamente all’avvio del processo di fermentazione la stessa è stata prolungata per circa 22 gg, con rimontaggi leggeri più o meno ogni 8 ore (tre al giorno!). E’ un vino che non è stato chiarificato, ma filtrato, ha fatto solo acciaio ed è stato imbottigliato solo lo scorso giugno 2010. Il colore, rubino scarico, ricorda la ciliegia in via di maturazione, vivace e particolarmente luminoso.

Il primo naso è volto a sensazioni molto sottili e fini di fragranti fiori e frutti rossi, molto gradevole anche la vinosità, pacata e ben fusa al quadro olfattivo generale, che spesso caratterizza il per e’palummo flegreo. In bocca è secco, pervade il palato con una decisa sensazione di freschezza e nonostante gli oltre 13 gradi e mezzo non sembra affatto soffrire di alcuna pesantezza gustativa, offre infatti una beva costantemente pulita e fine, con un ritorno di frutto, anche sul finale, piacevolmente minerale. Un rosso di estrema piacevolezza, da pochi giorni commercializzato, da non far mancare alla vostra tavola natalizia. Avete presente gli spaghetti col ragù di polpo?


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