Posts Tagged ‘luigi di meo’

Cruna DeLago, il bianco flegreo che sa di vento di mare e di terra ardente

5 Maggio 2020

Non sono tantissimi i vini bianchi italiani capaci di resistere al tempo senza subirne in maniera decisiva il peso degli anni, tra questi, di certo, è abbastanza improbabile trovarci menzione di una Falanghina dei Campi Flegrei.

Eppure non vi è territorio in Campania più dei Campi Flegrei che riesce a stupire e sa di potersela giocare ad armi pari con chiunque in questo preciso momento storico per il vino italiano, capace di tirare fuori vini sempre più autentici, snelli e agili nella beva ma anche ricchi di spiccata personalità, ancor più con qualche anno di bottiglia alle spalle. Grande merito va ad alcuni produttori che da anni lavorano duramente per migliorarsi, capaci di scrollarsi di dosso limiti colturali e vizi tecnici azzerando così stereotipi, errori e falsi miti.

Abbiamo alle spalle anni di visite, chiacchiere, approfondimenti, ripetuti assaggi, ci viene così d’obbligo avanzare l’idea che proprio la vendemmia duemilasedici da queste parti a Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Marano e sulle colline più prossime a Napoli ha per certi versi delineato uno spartiacque, una sorta di punto e a capo, una linea temporale dalla quale si è ripartiti spediti dopodiché nulla può essere più come prima, con i pro e i contro necessari, un’assunzione di piena responsabilità senza più sconti, nessuna scusa.

Un cambio di passo che qualcuno ha saputo anticipare, arduo e faticoso ma ormai ben avviato, indispensabile per non continuare a dilapidare un patrimonio vitivinicolo unico e irripetibile che aveva bisogno solo di essere approcciato con maggiore rispetto, conoscenza e capacità tecniche, dopo (troppi) anni di discontinuità e disattenzioni.

Una strada che la famiglia Di Meo cammina da tempo con grande senso di responsabilità, con Luigi ormai pienamente votato alla vigna e i figli Mattia, Salvatore e Vincenzo man mano avviati nella gestione della cantina, quest’ultimo tra i più giovani enologi campani in campo ma già con una decina di vendemmia alle spalle che gli hanno consentito di anno in anno di ”leggere” e comprendere sempre meglio tutto il potenziale delle sue vigne flegree.

Ne abbiamo piena testimonianza con un po’ tutte le etichette di La Sibilla, alcune delle quali vanno esprimendo vini flegrei tra i più buoni di sempre mai bevuti, tra queste senz’altro c’è il Cruna DeLago duemilasedici¤, verosimilmente tra i più costanti negli ultimi anni, avviato a marcare un benchmark ormai chiaro per tutto il territorio, risultato di un percorso lungo e ben definito oggi nei suoi obiettivi. Ci arriva così nel bicchiere un bianco dal colore oro cristallino, radioso, dal naso anzitutto orizzontale e complesso, pieno di sensazioni floreali e fruttate, sfumature eteree,  lungamente salmastro, un corredo aromatico che richiama vento di mare e terra ardente, capace di regalare sapori che risuonano energia, un sorso puntuto e sapido, fresco e minerale, un autentico richiamo al territorio flegreo.

Leggi anche Piedirosso Campi Flegrei Vigna Madre 2013 La Sibilla Qui.

Leggi anche Falanghina Campi Flegrei 2018 La Sibilla Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Cartoline dai Campi Flegrei, o della Falanghina 2018 di La Sibilla

12 agosto 2019

Possiamo dire di conoscere la famiglia Di Meo da oltre quindici anni, di seguire appassionatamente la loro storia vitivinicola sin dai primi esordi a cavallo degli anni ’90 e duemila. Abbiamo imparato ad apprezzarne, prima che i vini, la levatura umana e la profonda dedizione nella salvaguardia e la difesa della terra con una viticoltura sostenibile, buona, pulita, giusta.

Valori che ne hanno fatto sin dagli esordi un papabile riferimento assoluto, non un contorno di cronaca enoica che in quegli anni contava sul territorio pochissimi attori riconoscibili e forse solo uno o due capaci di scaldare veramente gli animi di chi si avvicinava ai vini flegrei con una qualche aspettativa in più che non fosse una semplice e fugace bevuta.

Dopo tre lustri abbondanti, oggi Luigi si dedica completamente (”finalmente!”, dice) alla cura del vigneto, tra i più belli e curati dei Campi Flegrei, mentre Vincenzo, il primogenito, ha ormai pieno controllo della cantina e di tutte le fasi tecniche di produzione; poi c’è Salvatore, che sostiene il lavoro del fratello e si occupa perlopiù dell’accoglienza in cantina, dove muovono decise i primi passi anche le loro giovani mogli con al fianco l’ultimogenito di famiglia, il giovanissimo Mattia. A fare da faro, da sempre, c’è Restituta, la mamma.

Godiamo di questo Campione di verace Falanghina dei Campi Flegrei duemiladiciotto affacciati, di sera, su uno dei panorami più belli di questa terra, sul Canale di Procida. Lo stretto lembo di mare che separa questa parte di costa flegrea dalle splendide isole di Procida e Ischia, trafficatissimo e perennemente spazzato dai venti, pare lo scenario liquido perfetto per ricordare, come un déjà-vu, gli ultimi 20 anni di storia di questo territorio: così piccolo, sovra-urbanizzato e disordinato, talvolta fin troppo vivace, eppure capace di conservare una così profonda memoria di tradizione e lentezza contadina, pura resistenza.

Ecco, con il profumo autentico di terra vulcanica che ne anticipa il sorso, così schietto e vibrante, ci congediamo dal calice e dalla vuota bottiglia non senza un pizzico di orgoglio per aver visto nascere, crescere, affermarsi una delle più belle realtà flegree che si appresta a mettere alle spalle i suoi primi 20 anni di straordinaria resilienza. Che dire, ad maiora semper!

Leggi anche Piccola Guida ragionata ai vini dei Campi Flegrei Qui.

Leggi anche altro riguardo La Sibilla su questo sito Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Falanghina Domus Giulii 2011 La Sibilla

14 gennaio 2019

E’ un vino con il quale continuiamo ad avere una certa distanza emozionale, convinti l’uno dell’altro di non piacerci abbastanza. Non riuscendo a perderci di vista, le ragioni del cuore sono tante e profonde, ci rasserena l’idea, ad ogni nuovo assaggio, che qualche anno è passato ma non invano.


Cento per cento Falanghina dei Campi Flegrei. Per la verità il vitigno si sa è diffusissimo in Campania ma sembra avere proprio qui nei comuni a ridosso della provincia di Napoli il suo terroir migliore – suoli vulcanici, microclima temperato con sole a mezzogiorno, il mare dentro –, che unito alle basse rese contribuisce ad esaltarne la spiccata vivacità e l’antica sgraziata tipicità.

Domus Giulii viene fuori da una selezione dei migliori grappoli provenienti da alcune vigne vecchie coltivate tra i comuni di Bacoli e Pozzuoli dalla famiglia Di Meo. Vincenzo, enologo giovanissimo ma con merito sin da subito pienamente immerso nelle responsabilità produttive della realtà famigliare flegrea, ne volle “sperimentare” anni fa con la dumeilaotto una versione decisamente diversa dal solito, un bianco macerato ed affinato sulle fecce fini. Luigi, pur restìo all’idea, lo lasciò fare, così, tanto per capire.

L’originalità con la quale questi vini tendono ad esprimersi è spesso figlia di un lungo percorso di maturazione, le macerazioni sono più o meno lunghe sulle fecce fini a cui talvolta si susseguono particolari passaggi di affinamento (anfore ecc.) e/o invecchiamento; ciò naturalmente premette una grande qualità della materia prima, quindi la certezza di un gran lavoro in vigna, oltre che un’abile capacità di intelligere il terroir di provenienza, col rischio, talvolta accade, di passare come una trovata estemporanea.

Non di meno, certe particolarità come il tono ombroso del colore – qui spiazzante -, i profumi eterei, il gusto quantomeno lontano dal solito, necessitano di una certa esperienza da parte dell’appassionato di turno o quantomeno una certa predisposizione per esser colte come marcatori di autenticità e non come un mero esercizio di stile fine a se stesso, talvolta addirittura deleterio per la tipologia se non per il produttore. Non a caso sono spesso vini prodotti senza i lacci delle denominazioni in cui ricadono le vigne di provenienza.

Venendo a noi, questo duemilaundici ha un bel colore oro cangiante, tendente all’ambra, quasi fulvo. Si sta con un vino di sette anni nel bicchiere, non so se rendiamo l’idea. Il primo naso è buccioso, poi si fa speziato, e di frutta secca; sa di uvetta, tè e camomilla, di scorzette d’agrumi e albicocca candite, il tono è un po’ iodato ma pulito e franco. Il sorso è subito materico, sulle prime un po’ spiazzante ma di buon carattere e discreta acidità e persistenza, anche qui pulito e senza sbavature, anzi, intriga profondamente e lascia la bocca piacevolmente ammantata di vino e di sale. Inutile negarglielo ancora un passo avanti rispetto agli esordi, restiamo  ideologicamente ancora lontani, però, forse, finalmente equidistanti, Domus Giulii rimane una valida alternativa espressiva che continueremo senz’altro a scrutare con sufficiente interesse.

Leggi anche Falanghina Domus Giulii 2009 Qui.

Leggi anche Falanghina Domus Giulii 2008 Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

La grande bellezza del Piedirosso dei Campi Flegrei 2017 di La Sibilla

8 gennaio 2019

Scrivere e raccontare di vino e dei suoi protagonisti non può essere mero esercizio di stile, né può limitarsi alla scarna lettura delle analisi dei numeri di questa o quell’annata prodotta. Vieppiù la tentazione di provarne alcuni e pensare così di saperne su tutti, l’inciampo è dietro l’angolo, ci si perde il meglio e si corre il rischio di farsi ridere dietro. 

Campi Flegrei Piedirosso 2017 La Sibilla - foto L'Arcante

Della 2017 si è detto praticamente tutto e il contrario di tutto: difficile, complessa, per qualcuno dannata per altri semplicemente da dimenticare. Vero è che l’annata è stata per molti particolarmente stressante, non solo nei Campi Flegrei, l’assenza prolungata di piogge unita al caldo torrido estivo ha rischiato di presentare in vendemmia un conto salatissimo, ma qui pare abbia creato meno problemi che altrove. Questo pezzo di terra sembrerebbe baciato da Dio oppure, più semplicemente, chi coltiva sapienza raccoglie saggezza.

Per la verità qualche passo falso lo abbiamo colto, eppure pare vi sia parecchio da salvare di questo millesimo che promette vini generosi e godibilissimi, che sia tanto o poco, magari anche autoreferenziale, ci basta. Questo Piedirosso duemiladiciassette riesce a rappresentare al meglio la distanza siderale che c’è tra chi fa vino e chi coltiva la terra e ne fa uva da vino, scoperchiando il vuoto da dove fuoriescono i fantasmi di chi si gratta il pancino tra una raccolta e l’altra e continua a credere che pure gli asini possano comunque volare. 

La grande bellezza di questo vino sta tutta nella sua disarmante armonia espressiva: il colore rubino è netto pur se un po’ ombroso. Al naso viene subito fuori con un profumo di piccoli frutti rossi e neri, di quelli ricchi di polpa, con la buccia spessa che quando schioccano in bocca infondono dolcezza ad ogni morso, quella sensazione piacevolissima che chiude con un sottofondo che sa lievemente di terra e sottobosco, tutto molto, molto coinvolgente. Il sapore è squillante, morbido e gustoso, con un ritorno di mora e amarena scura sul finale di bocca che conferma tutta la bontà del lavoro di Luigi in vigna e di suo figlio Vincenzo in cantina. Da qui, dai Campi Flegrei non poteva mancare ancora uno squillo d’amore imperdibile!

Leggi anche Vigne Storiche, il nuovo Piedirosso dei Di Meo Qui.

Leggi anche il Naso, i Napoletani e l’apologia del Piedirosso #1 Qui.

Leggi anche il Naso, i Napoletani e l’apologia del Piedirosso #2 Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Bacoli, Per ‘e Palummo 2004 La Sibilla. Il sapore della storia e la scoperta del tempo

26 febbraio 2014

Quanto vale una bottiglia come questa? Non ha prezzo, ovvio. E ce ne sono ancora solo quattro e non sono su piazza. Reca in fondo all’etichetta ‘CrunaDeLago’, che a quel tempo distingueva entrambe le etichette doc di falanghina e piedirosso.

CrunaDeLago, vigneto La sibilla - foto A. Di Costanzo

Bastano poche parole per descrivere la splendida sorpresa di questa bottiglia. A quasi dieci anni di distanza mi sembra di ricordare proprio tutto di quell’anno, il 2004, forse per questo quando Vincenzo mi ha permesso di scegliere una bottiglia dalla piccola cantina storica non ci ho pensato su due volte. Lui, un po’ timoroso di andare così indietro nel tempo ha subito messo le mani avanti. L’ho immediatamente rassicurato: ‘guarda che di quell’anno ne ho vendute un sacco, gli ho detto, sta sicuro che papà fece un gran lavoro!’.

Campi Flegrei Per 'e Palummo 2004 La Sibilla - foto A. Di Costanzo

La grande bellezza di questo vino sta tutta nell’armonia: pure il colore lo è, un po’ ombroso, giustamente segnato dal tempo. Al naso invece viene fuori ancora tanto frutto, macerato e balsamico, dolce, con un sottofondo che sa di terra,  di china e sottobosco, ma molto latenti. Il sapore è ancora integro, affatto seduto, asciutto con un ritorno di prugna e liquirizia sul finale di bocca che conferma tutta la bontà del lavoro di Luigi sin dai suoi primi passi. E quell’anno, me lo ricordo come fosse ieri, ne vendemmo a secchiate!

1994-2014, 20 anni dalla doc Campi Flegrei

© L’Arcante – riproduzione riservata

Monte di Procida, Cantine del Mare

28 novembre 2011

Non è più da considerare una anomalia quella di un vino rosato della scorsa annata addirittura non ancora commercializzato, quando siamo praticamente sul finire del 2011: un anno è più dalla vendemmia, tra l’altro con la nuova già in cantina in affinamento nelle vasche d’acciaio.

Unico e prezioso. E’ così che Gennaro Schiano, volto nuovo della viticoltura flegrea, vignaiolo appena quarantenne, ha deciso debba essere il suo rosato ancora in affinamento in acciaio (!): uscirà infatti solo poco prima di natale prossimo, e solo per gli affezionati clienti che si recheranno a comprarlo in cantina da lui a Monte di Procida, o ne faranno magari richiesta esplicita. Una rarità insomma.

E la conferma arriva saggiandolo questo rosato, e viene in mente come in realtà troppo spesso si ha troppa fretta di mettere in tavola certi vini, quando invece potrebbero tranquillamente maturare per poi riproporsi con slancio maggiore. Ma in verità in questa iniziativa non c’è nulla di precostituito, pensato, più semplicemente vi è un numero di bottiglie, appena un migliaio, che sarebbero volate via in un battibaleno e senza nemmeno, forse, una logica commerciale costruttiva vista anche l’improbabilità di riproporlo quest’altro anno. E’ ricco e vivace il colore tra il cerasuolo e il chiaretto, con vivide nuances ramate; primo naso vibrante, intenso di note floreali, e poi officinali; in bocca è asciutto, fresco, il sorso è sapido, appena caldo. Una vera delizia.

Così l’idea di conservarlo per chi ha il piacere di venire qui in cantina, camminare le vigne, conoscere la loro giovane ma intensa storia. E infatti Cantine del Mare è davvero una bella scoperta, lo è stato per me che, scioccamente forse, avevo affidato quasi esclusivamente alla buona presenza ed espressione dei loro vini la sola tangibilità di quanto di buono si faceva da queste parti. E invece no, la sorpresa è stata, per rendere bene l’idea a chi legge, decisamente enorme!

L’azienda è annoverata tra le più giovani del comprensorio flegreo, stiamo parlando del 2003 come costituzione e forse del 2006 come prima vera vendemmia, quella realmente espressiva del progetto di Gennaro, aiutato in questa avventura dalla giovane moglie Sandra e per qualche tempo da suo cognato Pasquale Massa, che ha curato perlopiù soprattutto i primi passi commerciali dell’azienda. Circa due ettari di proprietà, che praticamente cingono la piccola e suggestiva cantina di via Cappella Vecchia a Monte di Procida, più altri 6 in conduzione diretta sparsi qua e là sul territorio: “La mia idea di vino nasce in vigna, in ognuna di esse, e quindi solo gestendole in prima persona potrei dedicarmici a pieno. Ragion per cui, per tutti i vini da me prodotti nei Campi Flegrei, siano essi doc o igt, come per lo spumante e per il passito, non compro uve (nè vino, ndr) da terzi”.

I vigneti in conduzione sono collocati nelle aree tra le più vocate della denominazione, tra Bacoli, Monte di Procida e Pozzuoli; alcuni, dei quali si possono ammirare le splendide immagini qui riportate, sono davvero sorprendenti. Personalmente non ne avevo contezza prima d’oggi, e di questa scoperta sono davvero felice. Il vigneto “stadio” per esempio, praticamente sulla panoramica di Monte di Procida, da dove vi si accede per una piccola viuzza che discende una scarpata di recente ripristinata al passaggio, è di una suggestione unica: un catino di poco più di 2 ettari e mezzo, piantato con sola falanghina – a piede franco, già in produzione -, letteralmente affacciato sul golfo, con vista sulla prospiciente Procida e più in la l’isola d’Ischia.

Un luogo un tempo letteralmente abbandonato a se stesso e recuperato in maniera splendida proprio grazie all’operato di Cantine del Mare. L’impianto è moderno, piuttosto regolare e fitto, e nonostante sia facile immaginare le alte temperature agostane e altrettanto evidente, data la posizione, il beneficio della frescura della brezza marina e delle escursioni termiche che qui già a fine agosto si fanno sentire importanti.

Altra storia è la vigna sul Belvedere, ai più è già conosciuta perché di proprietà della famiglia Vitale che, per qualche anno, ha prodotto in proprio – con l’aiuto di Luigi Di Meo – col marchio dell’Azienda Agricola Il Ramo d’Oro. A loro, una volta decisi a mollare, è subentrato nella conduzione delle vigne Gennaro Schiano: da qui arriva oggi una parte del loro piedirosso “base”. Un vigneto anch’esso suggestivo, caratterizzato da un terreno piuttosto povero e quindi capace di stressare per bene il varietale e dare buona uva. Soffre però particolarmente l’esposizione ai venti forti che soprattutto in settembre, un momento delicatissimo per la vigna, spazzano decisi, talvolta violenti, questo costone collocato tra il Fusaro, Baia e Bacoli. Non è difficile infatti vedere perso tutto o in parte il raccolto, come è già successo per esempio due anni fa.

Ma questo delizioso Rosato, da piedirosso in purezza, è solo una delle chicche della preziosa proposta dell’azienda montese degli Schiano, guidata oggi in cantina dal giovane tecnico Gianluca Tommaselli, subentrato a Maurizio De Simone; e gli assaggi, praticamente di tutti i vini, anche quelli 2011 in vasca e in elevazione tra acciaio e legno, non hanno fatto altro che confermare le già solide mie personali convinzioni di un lavoro sempre costruito con integrità e vivida espressione, in vigna così come in cantina. Queste che seguono alcune tra le più interessanti impressioni.

V. S. Q. Brezza Flegrea Spumante di Falanghina. Assaggio prima il “vino base” appena a fine fermentazione; il prossimo Marzo questa piccola cisterna, così com’è, verrà caricata e spedita a Valdobbiadene per la spumantizzazione in autoclave: ha buona acidità, un buon tenore alcolico, darà un brut quasi al limite con l’extra dry, di indubbie qualità. Poi il vino dell’anno scorso (che al momento però è terminato); offre sensazioni organolettiche naturalmente più compiute: è brillante, fragrante nei profumi varietali, sorso immediato, secco e godereccio. Da bere a fiumi! (per saperne di più, leggi anche qui).

Falanghina dei Campi Flegrei 2010. colori sempre particolarmente cristallini quelli dei vini di Gennaro Schiano, baciati dal sole e rinfrescati dal mare. Naso floreale e agrumato, tenue ma gradevolissimo. Il sorso è secco, ben dritto e di felice bevibilità.

Piedirosso dei Campi Flegrei 2010. Colore intenso, vivo e maturo, con qualche sfumatura ancora porpora sull’unghia. Il primo naso vinoso, floreale e finemente speziato, comunque molto varietale. In bocca è asciutto e rotondo, non manca di nerbo. Un guizzo pepato sul finire.

Campania igt bianco passito Vento di Grecale 2007. Da sole uve falanghina. Splendido il colore oro, ricco e intenso. Naso molto invitante, pronunciato su note candite, confettura di albicocca e cioccolato bianco. Forse solo un tono dolce di troppo, ma il sorso rimane interessante e chiude con una delicatissima nota di crema pasticcera assai persistente.

Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2006. Parzialmente fermentato in legno, poi in acciaio e quindi in bottiglia. Lungamente affinato in bottiglia. Naso ancora caratterizzato dall’evidente passaggio in rovere, si esprime meglio e molto bene in bocca: voluminoso e di buona persistenza.

Piedirosso dei Campi Flegrei Sorbo rosso “Annata Riserva” 2006. Vino decisamente intenso. Ne avevo già bevuto e scritto in passato, conferma l’ottima trama gustolfattiva e la capacità di reggere il tempo senza particolari sofferenze. Forse solo il naso esprime toni un po’ avanti, maturi, qui la prugna si fa confettura, ma il sorso sa regalare ancora buona intensità e profondità.

Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. L’idea è quella di ritornare all’utilizzo del “nostro” legno di castagno anziché insistere sul rovere francese. Così una parte di riserve sta venendo affinata in tonneau di castagno. Il naso qui è ancora marcato da note fermentative, siamo ancora agli albori, ma rimangono piacevolmente evocativi i sentori agrumati e fruttati. Vabbè, il lievito, selezionato, è di quelli giusti, ma c’è tanta buona materia, quindi svaniti i primi accordi si dovrà attendere la musica vera. Sorso già pulito.

Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Sorbo rosso 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. Qui il discorso pare avere già un profilo molto interessante, e più promettente. Colore molto vivace, intenso e di ottima consistenza. Naso varietale, esplosivo in questa fase, tra classica vinosità ma anche tanta frutta rossa polposa. Nessuna traccia del legno. In bocca è arcigno, ancora acerbo, certo, ma v’è tanta materia. Interessante.

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #2

7 giugno 2011

Una faccenda simile a quella descritta nel finale del post precedente, che vuole cioè difetti originati da una cattiva gestione del vigneto o della vinificazione nonché dell’affinamento, proposti ed insidiati nell’immaginario collettivo come tipicità, è stata per anni propinata raccontando del nostro piedirosso dei Campi Flegrei, che ha, guarda caso, una spiccata tendenza sia alla riduzione, durante le fasi di lavorazione in cantina e, se le uve raccolte non godono di perfetta maturazione, al vegetale.

I napoletani e l’apologia del piedirosso. Per lungo e troppo tempo abbiamo sentito affermare che la puzzetta del piedirosso è un tratto caratteriale tipico del vitigno, o del territorio: affatto! Il carattere vegetale poi, come detto, è riconducibile solo ed esclusivamente ad una non corretta maturità dell’uva, derivante da una non ottimale gestione del vigneto (pirazine), mentre la riduzione è dovuta dalla produzione di idrogeno solforato (uova marce) e metantiolo (acqua stagnante, straccio bagnato) ad opera del lievito, sia esso indigeno o selezionato, quando è in condizioni di particolare stress per carenza di ossigeno o per carenza di azoto. I suoli vulcanici composti principalmente da sabbie sono terreni sciolti, poveri di azoto, tale macroelemento è indispensabile per il corretto metabolismo del lievito, quindi avendo valori di azoto prontamente assimilabile (APA) bassi – in media tra 80-120 mg/l quando solitamente ne occorrono circa il doppio -, non è difficile decifrare quale fosse l’origine del male di certi piedirosso sempre troppo sospesi tra l’inferno ed il purgatorio. A questo aggiungiamoci certe pratiche enologiche che definire scorrette è poco, dalla cattiva gestione dell’ossigeno, o un eccesso di anidride solforosa in fase di ammostamento, alla noncuranza delle uve in fase di pre-lavorazione con il doppio effetto negativo di produzione di esenoli – note erbacee – e l’eccessiva produzione di feccia vegetale che tende a sottrarre ossigeno al lievito. Bisogna fare pertanto attenzione quando si parla di tipicità e soprattutto di territorio. Il territorio negli ultimi quarant’anni ha subito notevoli trasformazioni, per di più il clima è cambiato, le buone pratiche di campagna abbandonate e le stalle, quelle vere, scomparse.

Il sovescio per esempio, veniva applicato sistematicamente in tutte le vigne del circondario flegreo, e qualcuno ancora riesce a mantenere, con non poca fatica, questa tradizione; consiste nel seminare in autunno leguminose, in modo particolare favino e lupinella, per interrarle poi in primavera; un sistema naturale atto ad arricchire il terreno anzitutto di azoto, ma anche di ferro grazie alla congiunta semina del rapestone. Il letame proveniente dalle stalle, stabulato e maturato, arricchiva il suolo di sostanza organica e carbonio, aumentandone così capacità di scambio cationico (C.S.C), cioè la capacità intrinseca del terreno di rendere disponibile i macro e i microelementi all’apparato radicale delle piante. Il letame, inoltre, ripristinava ogni anno la carica batterica del suolo fondamentale per rendere “vivo” il terreno.

Anziani contadini delle mie parti di sovente mi raccontano che il vino piedirosso presentava al tempo colore rubino brillante e spesso gradazioni alcoliche sostenute e buona struttura tannica, ovviamente il tutto in zone vocate e in particolare da vini prodotti con uve da viti vecchie.

Oltretutto le temperature erano più fresche e di conseguenza anche l’acidità era più alta ed il Ph più basso, ciò era molto interessante per tutte le ricadute microbiologiche e chimico-fisiche e per la capacità del vino di tenere nel tempo. Inoltre, il mosto veniva fermentato in tini di legno aperti con grande disponibilità di ossigeno per i lieviti indigeni, aspetto di fondamentale importanza per quanto detto prima. Infine, l’affinamento, anzi, a quel tempo era un mero stoccaggio in previsione di un trasporto che avveniva generalmente in fusti di castagno e ciliegio, non certo quindi per velleità ma per necessità; tra l’altro, il ciliegio a poco alla volta andava sostituito nel corso del tempo dal castagno, a causa della sua elevata porosità e quindi incidente sulla diminuzione di quantità di vino. In ogni modo anche questi legni conferivano tipicità al prodotto.

Il castagno, se ben stagionato, conferiva struttura e probabilmente al primo passaggio anche una nota amarognola e mentolata, con il tempo di sicuro il suo contributo migliorava perché meno aggressivo e comunque restava la capacità di ossigenare il vino attraverso il cocchiume e le doghe, cosa sicuramente positiva per l’evoluzione. Il ciliegio, fintanto che è stato presente nella filiera, in perfetto equilibrio con il castagno, donava dolcezza e frutto. Oltre a queste perdite naturali che hanno definito in passato la cosiddetta tipicità del piedirosso, un forte aggravio lo si è avuto dall’introduzione dell’acciaio in cantina. Il vitigno, si può dire quindi, è vittima del mal d’acciaio. Essendo l’acciaio un contenitore inerte, non traspirante, incide notevolmente sulla tendenza che ha il vitigno alla chiusura ed alla riduzione, talvolta irreversibile se non si ha l’accortezza di gestire bene i travasi, oppure adoperando la tecnica della micro ossigenazione; il per e’ palummo vinificato in acciaio è come un uomo stretto da una morsa al collo, che ha non poche difficoltà a respirare.

Come si evidenzia da quest’ultimo breve periodo, tante cose sono cambiate, ma una appare chiaramente non mutata nel tempo, la fretta del napoletano. Il napoletano è fast, comprende poco o nulla della cultura Slow, vive di precarietà da secoli e l’aforisma Carpe Diem pare cucitogli addosso in maniera calzante: poco, maledetto e subito!

Così per il vino, un prodotto da consumare subito, entro l’anno. Per fortuna oggi c’è qualche segnale di cambiamento, c’è qualcuno, qualche mosca bianca che inizia a rallentare ad andare più Slow, a sperimentare quell’arte di “saper attendere” anche sulla produzione dei vini. Questi segnali sono più che evidenti nell’ultimo decennio, tangibili nelle aziende storiche flegree come pure in quelle piccole realtà venute fuori negli ultimi tempi; di questi ci sono alcuni piedirosso, nomi e cognomi alla mano, La Sibilla, Contrada Salandra, Agnanum, dei quali godere appieno, e nessuno di questi caratterizzato, pur rappresentati come espressioni tipiche del territorio, da quella “tipica puzzetta” fastidiosa e certamente ben lontana, per quanto detto, dal varietale e dai Campi Flegrei; evidentemente quindi tutti lavorati bene e figli della scienza e di una enologia pulita. Si, perché dietro ad ognuna di queste aziende c’è un bravo enologo: a Bacoli, a La Sibilla c’è il giovane e bravo enologo di famiglia Vincenzo Di Meo, Giuseppe Fortunato di Contrada Salandra si avvale dei preziosi consigli di Antonio Pesce, che tra l’altro con i vini delle sabbie vulcaniche ha grande dimestichezza, mentre Raffaele Moccia, Agnanum, ha potuto beneficiare dell’imprinting iniziale dello start-up del vulcanico, competente ed estroso Maurizio De Simone.

In definitiva, il piedirosso incarna forse anche la marginalità di Napoli, a volerlo dire con una espressione greca usata nelle scritture apocalittiche, Napoli e il piedirosso si trovano sempre Parà ta éscheta ovvero prossimi ai limiti estremi, vicini alle cose ultime, sull’orlo dell’abisso, in bilico, sempre a un passo dalla resurrezione ma anche ad un passo dal precipizio. Infatti, uno dei grandi problemi irrisolti di questo vitigno è la scarsa produttività e quindi la definizione di un modello viticolo moderno, capace di esaltarne le peculiarità limitandone le avversità; intanto i contadini, proprio per questo motivo lo stanno estirpando, sostituendolo nella migliore delle ipotesi con la falanghina, di certo più plastica e generosa; quindi è d’obbligo lanciare un appello al mondo della ricerca, della produzione e della comunicazione, per lavorare uniti al fine di preservare il valore assoluto di questo straordinario vitigno, l’orgoglio agricolo nonché ancora di salvezza, rinascita viticola della nostra città. Save the piedirosso!

 Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte prima.

Qui l’articolo in versione integrale  su www.lucianopignataro.it.

Passio 2007 La Sibilla, m’è dolce la falanghina

27 febbraio 2011

Conosco Luigi Di Meo ormai da un decennio, negli anni ho imparato ad apprezzare una persona di grandissima levatura umana, semplice, appiccicato alla sua terra tanto che non la lascerebbe mai sul vero senso della parola.

E’ schivo, tanto profondamente restìo ad apparire che ha atteso la maggiore età di due dei suoi tre figli (prima Vincenzo e poi Salvatore, l’ultimogenito è invece il piccolo Mattia) come una manna dal cielo così da poter mandare loro in giro per fiere ed eventi a promuovere e raccontare i loro vini e l’antica storia di fatica contadina che questi  rappresentano, lasciando per se il duro lavoro in campagna con la quale dice di aver un legame profondo tutta una vita. Tra l’altro Vincenzo, il giovanissimo primogenito, è già un validissimo enologo,  oggi detiene lui le redini in cantina, ed è uno degli allievi più stimati di Roberto Cipresso, winemaker di grido ormai internazionale che ha trovato proprio nelle vigne flegree della famiglia Di Meo tanto materiale di studio e sperimentazione.

Il Passio è un vino bianco passito dolce prodotto con uve falanghina dei Campi Flegrei; l’annata duemilasette succede alla già felice duemilacinque, ma non si può dire certo che la gestazione di questo vino non sia stata lunga ed alquanto complessa, durata quasi cinque anni. Cinque vendemmie durante le quali appariva impossibile far quadrare il cerchio. Prima alcune copiose precipitazioni tartariche, poi una partita di tappo difettosi, poi ancora un cattivo andamento climatico ci hanno tenuto col fiato sospeso su un vino al quale sembrava mancare sempre qualcosa per poter gridare «eureka!». Qui però ha avuto giocoforza la caparbietà di Luigi, e soprattutto di Tina, la moglie a cui si deve la ferrea volontà di riuscire in questo vino che ci consegna, ahimè solo in rarissime annate, un nettare prelibato che ha pochissimi rivali in Campania se non lo straordinario passito Eleusi di Villa Matilde di Maria Ida e Tani Avallone. Le uve del Passio provengono da una minuziosa selezione di grappoli surmaturi di un piccolo vigneto proprio nei pressi dell’azienda, lasciati appassire in cantina su di uno apposito stenditoio, fatto di falangi – pali generalmente utilizzati come sostegno per le viti – e fil di ferro, tanto artigianale quanto evocativo di tempi antichi e suggestivi.

La pigiatura avviene con il tradizionale sistema di vinificazione in bianco a temperatura controllata dopo la quale segue un percorso di affinamento in barriques di legno di rovere ed una prolungata  maturazione in bottiglia che alla fine conterà quasi 30 mesi; un percorso tanto lungo quanto necessario per definire un profilo organolettico a dir poco sorprendente. Il vino si presenta con un bellissimo colore oro antico, cristallino, con buona consistenza nel bicchiere. Il primo naso è particolarmente intenso ed avvincente, su note olfattive di fieno, albicocca secca e miele d’acacia, continua poi su sensazioni eteree, quasi smaltate, caratteristiche proprio della lunga elevazione del vino in legno e bottiglia. Il sorso è dolce, avvolgente, ricco e di notevole persistenza gustativa, chiude con un buon apporto di acidità che ben equilibra l’alto contenuto zuccherino. Un vino dolce importante, per occasioni importanti, da spendere su desserts cremosi e alla frutta oppure sulla tradizionale pasticceria secca; da servire in piccoli calici a tulipano ad una temperatura intorno ai 12 gradi. Sono davvero poche le bottiglie prodotte, appena una manciata, un migliaio, destinate certamente ai migliori ristoranti italiani, altrimenti non vi resta che fare un salto in cantina, che consiglio vivamente di visitare.

Questo articolo è stato pubblicato questa settimana su Pozzuolidice nella rubrica di enogastronomia dove troverete tra l’altro anche ricetta delle Chiacchiere di Carnevale della nostra Ledichef, nonché nuovi spunti per imparare “a leggere” il vino.

Bacoli, Falanghina Domus Giulii ’08 La Sibilla

29 dicembre 2010

I Campi Flegrei offrono sempre nuovi spunti di riflessione e degustazione, così dopo l’exploit che si sta vivendo sul versante rossista con la sempre maggiore specializzazione di coloro i quali hanno creduto e valorizzato il piedirosso anziché lanciarsi in rincorse empireumatiche internazionali, è davvero piacevole notare come anche la falanghina sia non poco attenzionata e riferimento di interessanti lavori in corso.

Così dopo l’intuizione di Gerardo Vernazzaro (Cantine Astroni) che con il suo Strione ha introdotto anche in terra flegrea la “sperimentazione” di una versione più spinta di falanghina, cioè lungamente macerata sulle bucce, eccovi un’altra chicca proposta questa volta da una delle aziende più amate e dinamiche del territorio, La Sibilla di Luigi e Tina Di Meo che con i figli Vincenzo e Salvatore vanno ritagliandosi un posto di primissimo piano nella spledida iconografia viticolturale non solo locale.

Questa variazione sul tema falanghina, ci tengo a precisare, non è di quelle per la quale vado perdendo la testa, e chi mi conosce sa bene che non ne faccio certo un mistero; invero, durante tutto quest’ultimo anno, armato dell’idea di scardinare definitivamente quello che ritenevo un mio evidente limite culturale sulla tipologia in generale, mi ci sono dedicato abbastanza, sino a maturare, per adesso, l’idea che no, non ci sono al momento – tolti alcuni, pochi grandi classici friulani/sloveni – vini bianchi macerati per cui mi strapperei i capelli.

E’ bene ribadire infatti, che, se culturalmente certi vini appartengono ad un ideale del tutto condivisibile, da un punto di vista strettamente degustativo, vini del genere, soprattutto quando bianchi, hanno necessità di un approccio  piuttosto disinvolto a quel che verrà poi nel bicchiere: generalmente, riferendomi anzitutto ad un appassionato medio, sono questi vini che per almeno 2/3 dell’esame organolettico più classico – quello per esempio di sovente utilizzato dai sommeliers – sovvertono, a volte stravolgendoli, buona parte dei canoni estetici nonchè le più basilari aspettative olfattive.

Infatti, l’originalità con la quale questi vini tendono ad esprimersi, è spesso figlia di lunghissime macerazioni sulle fecce fini quando non di particolari passaggi di affinamento (anfore ecc.) e/o invecchiamento; ciò naturalmente premette grande qualità della materia prima, quindi la certezza di un gran lavoro in vigna, oltre che finissima capacità di intelligere il terroir da parte del vignaiolo di turno; ma il vino, come spesso può accadere, rischia di passare come una boutade estemporanea piuttosto che un serio riferimento di qualità. Ecco quindi che, una tale concentrazione di colore e particolarità di profumi abbiano necessità – da parte dell’avventore di turno – di una certa esperienza degustativa o quantomeno apertura mentale, per poter esser colti come marcatori di autenticità e non come un frainteso esercizio di stile, fine a se stesso, se non addirittura deleterio per la tipologia, quando soprattutto denominata.

Il Domus Giulii 2008 nasce da una piccola vigna di falanghina, poco più di un ettaro, allocata in località pozzolani al Fusaro, nei pressi di Bacoli, che la famiglia Di Meo, dopo praticamente un quarto di secolo di esproprio, si è vista riconsegnare in gestione dalla soprintendenza ai beni archeologici. Il nome infatti trae evidente origine dalla vicina villa di Giulio Cesare, una delle tante dimore flegree degli imperatori romani tanto innamorati di questa terra quanto – è indubbio pensarlo – delusi dai loro posteri per come l’hanno poi ridotta e sacrificata all’altare dell’ignavia.

E’ un vino certamente atipico, come già accennato, fuori cioè dai soliti canoni estetici ed odorosi a cui siamo felicemente abituati con il vitigno più diffuso nei Campi Flegrei. Il colore è oro pallido, la vivacità è evidentemente sacrificata alla concentrazione che è il primo dei tanti segnali da leggere per meglio apprezzare tutte le sfumature che questo vino è capace di offrire. Il primo naso è vinoso, marcato fortemente da quel sentore buccioso tipico dei vini che subiscono lunghe macerazioni sulle fecce fini. E’ importante bere questo vino alla sua giusta temperatura di servizio, più vicina ai 14° che ai 12° spesso raccomandati per i vini bianchi di maggiore struttura. Un bianco di grande estrazione, dal quale vengono fuori sentori molto interessanti, mela annurca, uva spina, scorza d’arancia candita, e lasciandolo respirare a lungo, persino note di mais e di polvere di zenzero. I sei mesi di macerazione offrono un frutto polposo e decisamente persistente, in bocca è morbido, rotondo, non certo tannico come comunque si può essere indotti a pensare, il tempo ha in verità ben levigato persino la discreta acidità di cui il vitigno non ha mai mancanza. Un vino da bere adesso, per compiacere magari piatti di pesce piuttosto speziati o formaggi mediamente stagionati.

Ad oggi, il Domus Giulii è ancora in affinamento in bottiglia, verrà commercializzato, con molta probabilità solo nei prossimi giorni di fine gennaio e, data l’esigua quantità a disposizione per questo millesimo, sarà inizialmente acquistabile solo recandosi in cantina al Fusaro: poco più di 600 le bottiglie, presumibilmente classificate come igt Campania e non come d.o.c. Campi Flegrei; un vino simbolo del grande lavoro di ricerca e sperimentazione, in maniera del tutto autonoma, che questa azienda sta maturando negli ultimi anni, iniziato dieci anni orsono con il coraggioso studio avviato sui vitigni minori – leggi per esempio marsigliese – e parallelamente votato all’assoluta fedeltà alla valorizzazione della falanghina che ha trovato, già da un paio di vendemmie, la massima espressione di questo pezzo di terra flegrea nel loro ottimo Cruna DeLago, come poche altre etichette della denominazione, vero e proprio vessillo di tipicità territoriale!

Falanghina, dieci etichette sulla bocca di tutti ovvero da non far mancare nella vostra cantina..!

21 settembre 2010

E’ il bianco dell’estate 2010! E’, senza dubbio alcuno, lo stupore per i palati più fini in cerca di un easy to drink finalmente convincente, è la protagonista assoluta delle nostre e vostre tavole, è letteralmente, una escalation di il, lo, la che più di uno schiaffo all’Accademia della Crusca sembra essere la conferma di un paradosso tutto italiano: versatilità unica e decisamente rara per un unico vitigno, che fa, di una tra le uve più coltivate in Campania, a seconda della vocazione territoriale (o se vogliamo delle esigenze di mercato) adesso un vino spumante, poi fermo, degno di nota pur quando macerato o all’evenienza dolce frutto passito: insomma, ogni volta decisamente fuori dall’ordinario, una vera potenza al servizio della bevibilità e, dato non trascurabile, per tutte le tasche 🙂 !

Astro brut spumante di Falanghina s.a. Cantine Astroni, rimane una delle interpretazioni più gradevoli e corroboranti del vitigno spumantizzato con il metodo charmat. Le uve sono in parte flegree ed in parte beneventane, la beva danza sull’equilibrio minerale delle prime e sulla acidità delle seconde: una bottiglia, in due, va via più veloce della luce: quanto valgono 8 euro?

Brezza Flegrea spumante di Falanghina s.a. Cantina del Mare. Ad oggi è la bollicina che più mi ha impressionato tra quelle pensate in terra flegrea. Siamo sulle coste a strapiombo sul mare di Monte di Procida, il vino di Pasquale Massa e Gennaro Schiano ha personalità e complessità da vendere, davvero una bella sorpresa anche per i palati più preparati alla tipologia, da tutto pasto. Da € 15

Campi Flegrei Falanghina Cruna DeLago 2008 La Sibilla, Ne ho raccontato, ampiamente, in un precedente post, continuo a pensare che negli anni l’azienda di Luigi Di Meo e Tina Somma e questo vino in particolare, vanno delinendosi un ruolo nei Campi Flegrei tanto rilevante quanto, per esempio, Sandro Lonardo a Taurasi: autentica espressione territoriale! Da € 15

Campi Flegrei Falanghina Vigna del Pino 2006 Agnanum. Raffaele Moccia è viticoltore ad Agnano, se non fosse per lo storico ippodromo fareste fatica anche a capire dove sia, a Napoli, Agnano. Molti, negli anni, lo hanno identificato come un vignaiolo di città, lui continua a preferire definirsi più semplicemente un agricoltore, come a voler sottolineare, semmai ce ne fosse bisogno, il suo legame con la terra di origine, che non ammette – dice – specializzazioni, richiede solo tanta fatica, sacrifici; Quei 3 ettari e mezzo di vigna sono la stessa terra solcata nel tempo dal nonno e dal padre, e oggi, con viva speranza, sogna di consegnarla, un giorno, nelle mani del nipotino. I vini di Raffaele gli assomigliano, sono terra vulcanica e frescura notturna, sono crudi ed imperfetti come cruda ed imperfetta è la realtà che circonda le sue vigne. Ma sono vini veri, seri, “fatti con l’uva”, direbbe se fosse qui al mio fianco nel dettarmi cosa scrivere. Il cru Vigna del Pino ’06 ha avuto tempo per aggiustare il tiro, la pulizia olfattiva non è mai stato il suo forte, e forse nemmeno il colore, oggi bello carico, un po sopito, ma se volete avere idea di come e cosa può esprimere una falanghina dei Campi Flegrei negli anni, segnatevi in agenda questo vino, vi aprirà la mente: è figlio di frutti selezionati e trattati come perle, il timbro gustativo è maturo ma di ficcante acidità, pieno, salino, evocativo! Da € 14 (ma non ne troverete in giro, ndr).

Falanghina Beneventano 2008 Poggi Reali (Guido Marsella). La verità, diciamocela, è che proprio non ci va giù che un produttore, vigneron d’avanguardia in terra di fiano di avellino vada predicando il mercato con vini che non appartengono alla sua vocazione. Così per rimpinguare il listino, oltre ad un mediocre Greco di Tufo, il buon Guido si è inventato con il marchio Poggi Reali questa falanghina che invece va detto, è davvero deliziosa, affiancandola al suo già famoso fiano di Summonte. Cercatela e bevetene, è un vino che merita l’assaggio, bello da vedere, docile al naso, asciutto e piacevolmente acido al palato. Da € 12

Sannio Falanghina Via del Campo 2008 Quintodecimo. Siamo alle solite, il sommelier che non riesce a far altro che parlar bene del professor Luigi Moio: ebbene si! Sfido chiunque a non riconoscere nei vini di Quintodecimo un determinato senso di appagamento gustolfattivo. Anche su questa falanghina, raffinata esecuzione il cui nome va all’indimenticata sonata di Fabrizio De Andrè, dove aleggia l’anima nobile di un vigneron che insegue il proprio ideale, non è forse il maggiore conoscitore in circolazione del varietale?“[…] e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso, non credevi che il paradiso fosse solo lì, al primo piano sorso […]”. Da € 28

Roccamonfina Fiorflòres 2009 Tenuta Adolfo Spada, Ernesto Spada è un gran signore, con il fratello Vincenzo hanno preso molto sul serio un mestiere che in realtà nasce dalla voglia di mettersi in gioco, guardare con occhi diversi un’antico pallino familiare, il desiderio del papà Adolfo di fare a Galluccio un grande vino, ed il Gladius se ancora non lo è poco gli manca. Il Fiorflòres invece è appena sbocciato, un passo avanti – mi dicono – alla falanghina+fiano Flòres che aveva esordito appena un paio di vendemmie fa ed accantonata (solo per il momento?) per far spazio a questo cru 100% falanghina con origini, e timbro organolettico, flegrei. Dal colore paglierino tenue, ha naso lieve ma fine, in bocca mostra una bella spalla acida ed un finale decisamente piacevole, con qualche mese in più di bottiglia si potrà goderne pienamente il frutto, per cui aspetto e spero. Da € 9

Sant’Agata de’ Goti Falanghina 2009 Mustilli, imbattibile per leggerezza e bevibilità, rimane, assieme a pochi altri, il vino di riferimento per la tipologia in Campania. La storica azienda di Sant’Agata dei Goti, che ha letteralmente inventato la falanghina come vino da tavola di qualità offre puntualmente, ad ogni vendemmia, una interpretazione assoluta della sua falanghina. Dal colore sempre cristallino, ha un ventaglio olfattivo pronunciato e schietto, in bocca è secco, fresco e sul finale si evidenzia una delicata amarognola. Pochi i vini bianchi da pesce come questo! Da € 8

Taburno Falanghina Adria 2009 Torre dei Chiusi. Domenico Pulcino lavora in maniera essenziale, fermo nel sostenere i principi dettati dai suoi predecessori ed è indiscutibilmente un ottimo interprete della sua terra. Il Taburno ha da tempo trovato i suoi protagonisti assoluti, i volumi della Cantina del Taburno, le visioni di Libero Rillo (ricordate la falanghina “2001”?), la costante crescita di Fattoria La Rivolta e via via sino a dare spazio e degno lustro ai nuovi arrivati, Nifo Sarrapochiello e per l’appunto l’azienda Torre dei Chiusi. Falanghina di gran nerbo questa di Domenico, spiccatamente varietale al naso ed incalzante nella beva, un vino pulito, buono e non di meno di giustissimo prezzo! Da € 8

Roccamonfina passito Eleusi 2006 Villa Matilde. Non poteva mancare, in questo breve viaggio nel mondo della falanghina, una segnalazione ad hoc versione dulcis in fundo. Sia chiaro, in molti si sono cimentati negli anni nella tipologia, ed i risultati di eccellenza non si sono certo fatti attendere, si pensi ad esempio al beneventano Jocalis dei fratelli Pascale di Aia dei Colombi o magari al particolarissimo Passio di La Sibilla nei Campi Flegrei, però l’Eleusi di Tani e Maria Ida Avallone rimane il bianco dolce di maggiore riferimento in regione, costanza ed affidabilità sul varietale sui generis. Dal colore ambra cristallino, naso soavemente incentrato su frutta secca, scorze di agrumi e di albicocca candita e malto d’orzo. Come da manuale l’acidità che ritorna appena dopo la deglutizione ad infondere equilibrio e compostezza. Da € 21 (0,375)

Questo vino è il nostro vino dolce dell’anno.

Nota a margine: come sempre nessun voto, solo esperienze tangibili di bevute sul campo e constatazioni tra i tavoli, ma cosa insolita, vi indichiamo per tutte le etichette segnalate il prezzo; Non lo facciamo spesso perchè ci sono tante variabili (distribuzione, regione, enoteca o ristorante, ecc…) che incidono sul prezzo finale al consumatore, pertanto quello segnalato qui – in enoteca – è da ritenere puramente indicativo. A voi, una volta bevuti, l’ardua sentenza; Per saperne di più sul varietale, potete leggere qui la radiografia del vitigno.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: