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Firenze, dell’Enoteca Pinchiorri e Le Roi Giorgio

20 ottobre 2013

Enoteca Pinchiorri, Sala Degustazione - foto L'Arcante

Per chi come me è cresciuto nel mito di Giorgio Pinchiorri potergli fare visita e stringergli la mano è stato un momento memorabile, da consegnare agli annali. Ho approfittato della salita¤ a Firenze per strappare un appuntamento per fare un giro in cantina all’Enoteca in via Ghibellina¤.

Borgogna da Pinchiorri - foto L'Arcante

Pinchiorri¤ è ‘il’ posto dei sogni, manco a dirlo. E al di là del valore che credo incalcolabile delle preziose bottiglie nonché di certe etichette introvabili ciò che affascina qui, sopra tutto, è quella particolare atmosfera che si respira passando da una stanza all’altra della cantina, assolutamente fuori dal tempo.

Centinaia di migliaia di bottiglie stipate con una cura a dir poco maniacale – proprio come piace a me! – con ognuna delle bottiglie al suo posto, tutte chiaramente identificabili e a portata di mano. Un lavoro immane che non sfugge nemmeno ai meno attenti, curato in ogni minimo particolare da uno staff (!) di sommelier chiaramente di primissimo livello.

N.1 - foto L'Arcante

Trovo quasi scontato soffermarmi sull’unicità di certe etichette, basta dare un’occhiata ai preziosissimi ‘vuoti’ sparsi qua e là a testimoniare passaggi che sicuramente avranno fatto storia per coloro che l’hanno stappate: Bordeaux e Borgognoni di annate rarissime, millesimi addirittura dei primi del novecento e bottiglie ‘uniche’ (ormai introvabili) di Petrus, Jayer, Coche-Dury, Romanée Conti e tutti quanti quelli che vi potrebbero venire in mente da qui a un’ora.

Sono qui, e in larga parte anche con formati speciali che recano in etichetta il fatidico N.1: un particolare che deve necessariamente far riflettere su quanto quest’uomo e questo luogo rappresentino nel campo una icona di altissima levatura della professionalità italiana riconosciutaci in tutto il mondo.

Romanée Conti 1985, bott. N.1 - foto L'Arcante

Mi riprendo con in mano un sorso di La Mission Haut Brion (credo 2009), mi porto via così un bellissimo momento, di grande intensità e valore, indimenticabile; un bagno di umiltà essenziale per capire quanta strada c’è sempre da fare e che in sostanza, per quanto sia duro il nostro mestiere sa però regalarti dei momenti davvero indimenticabili. Applausi per Giorgio Pinchiorri¤.

Enoteca Pinchiorri
Via Ghibellina 87 50122 Firenze
Tel.+39.055.242757 / +39.055.242777
Fax +39.055.244983
http://www.enotecapinchiorri.it
ristorante@enotecapinchiorri.com
 

Saint-Emilion, Chateau Pavie Macquin 2004

6 agosto 2013

Chateau Pavie-Macquin è un premier grand cru classé (B) di Saint-Emilion. I 15 ettari della proprietà sono tutti collocati sul pianoro più alto di Saint-Emilion. Che poi parlare di altitudine sembra quasi irriverente se pensiamo di trovarci a circa 75/100 metri s. l. m..

Saint-Emilion 2004 Chateau Pavie-Macquin - foto L'Arcante

Devo essere sincero: Bordeaux mi manca. Nel senso che sono ormai cinque/sei anni che cerco di provarmeli tutti quelli che mi passano tra le mani. Ma non è abbastanza. Una mia idea per la verità me la sono pure fatta, sembrerà banale ma è così: grandi vini ce ne sono ma bisogna spendere cifre importanti per poter godere di una ‘grande esperienza’. Tuttavia non mancano belle sorprese come certi cru bourgeois e secondi e terzi vini poco conosciuti; ma bisogna starci dietro assiduamente e più che in altri casi nel mondo fare bene attenzione alle annate in circolazione. Buoni e cattivi non ne mancano mai.

Non posso dire di esserne rimasto rapito ma questo 2004 mi è sicuramente piaciuto. Ho letto un po’ di cose di Albert Macquin, il fondatore dello Chateau, un vero pioniere cui in molti riconoscono un ruolo importante nel rilancio di Bordeaux devastata dalla Fillossera. Come delle tante difficoltà che non ha mai consentito a Pavie-Macquin di esprimere grandi vini prima del 1998, quando, con l’avvento della nuova proprietà, oggi in mano a Benoit e Bruno Corre e Marie-Jacques Charpentier, si è cominciato a cambiare registro e farsi notare un poco di più.

Di Bordeaux, e più in generale della Francia, mi ha sempre affascinato enormemente quanto siano capaci di esaltare al massimo il concetto di terroir che viene prima dell’uva e della stessa idea di vino che si vuole realizzare. Un terroir qui complesso più che mai: dalle precipitazioni che sembrano cambiare di metro in metro alle particolari condizioni colturali; nella sola proprietà di Chateau Pavie-Macquin si contano 9 diversi tipi di terreno per la maggior parte caratterizzato da argilla e calcare. Così si è piantato più merlot (80%) che cabernet franc (18%) e cabernet sauvignon (appena il 2%).

Il colore di questo duemilaquattro è nerastro, profondo, intransigente. Il naso si lascia attendere un po’, al primo approccio non è proprio pulito, quasi idrocarburico ma di buona complessità: tira fuori sentori di frutta rossa matura e sotto spirito (è netto il cassis), erbette, pepe nero ma anche tabacco bagnato, liquirizia. Il sorso è vellutato, centrale, appena caldo con un buonissimo ritorno fruttato sul finale. Tutto sommato se li porta davvero bene i suoi quasi 10 anni. Una buona bottiglia di quelle da mettere tra gli assaggi dell’anno da ricordare.

L’Arcante Wine Award® 2011, The very best of

19 dicembre 2011

and the winner is…

 

Asprinio d’Aversa Spumante Extra Brut s. a. Riserva Grotta del SoleCerti vini per conquistarti definitivamente debbono avere anche dell’altro. Questo mi son detto, decidendo ad occhi chiusi di premiare questo buonissimo metodo classico italiano. Ha tutte le carte in regola il vino: luminoso, brillante, vivace e complesso al naso come vibrante e lungo al palato. Certo, è puro campanilismo, e intelligenza suggerirebbe che non può ancora competere con certi mostri sacri italiani, però mi domando: chi altri può vantare la sua storia, quale metodo classico conserva una memoria, oltre che un gusto, così profondi da perdersi nella notte dei tempi? Suvvia care Guide, ogni tanto un po’ di coraggio.

Collio Sauvignon de LaTour 2008 Villa Russiz, perché è indiscutibilmente uno dei più buoni sauvignon mai bevuti prima d’ora, più buono anche dello stesso del 2009 che a sentir molti autorevoli addetti ai lavori se la gioca e stravince alla grande pure con i più blasonati cugini blanc fumé della Loira.

Toscana Rosato del Greppo 2008 Biondi Santi Nel link qui appena segnalatovi trovate traccia del 2007; ma il 2008, bevuto praticamente in anteprima lo scorso febbraio proprio in compagnia di Franco Biondi Santi e riassaggiato più volte di recente, conferma quanto al Greppo certe cose o vanno come devono andare oppure non se ne fa proprio nulla; rosato sì, ma con tutta l’anima del più nobile dei sangiovese di questa storica tenuta nel cuore di Montalcino, ottenuto mediante salasso e senza macerazione alcuna sulle bucce: il risultato? Semplicemente eccezionale!

Amarone della Valpolicella 2007 Le Vigne di San Pietro. Ok, va bene, può risultare ripetitivo premiare per due anni consecutivi come miglior rosso passatoci per mano un vino della Valpolicella, però credetemi, dinanzi a questa bottiglia, non c’è da porsi riflessioni del genere bensì chiedersi dove correre a comprarne ancora una. Un vino questo che per voluttà, equilibrio e franchezza ma soprattutto, visti i tempi, dal prezzo onestissimo. Vi farà riconciliare con l’Amarone. Un grande vino davvero!

Campania rosso passito Fastignano 2008 Papa. Eh si, va detto: non so quanti hanno avuto la fortuna di berlo questo vino, prodotto com’è in appena un migliaio di unità; ma una cosa è certa, è stata una delle più gradevoli e sorprendenti novità di quest’anno passataci per mano. Un rosso dolce, da uve primitivo di Falciano del Massico, di inaudita profondità ed equilibrio gustativo.

Pauillac Grand Vin de Latour 2004 Chateau Latour. Sua maestà “il vino”, sua altezza “l’eleganza”, bontà sua. Cosa aggiungere? Null’altro che una preghierina: confido o mio signore sempre più benevolo nel buon samaritano di turno, per poterne godere ancora di certi vini, assolutamente, definitivamente impossibili da raggiungere altrimenti.

Diego Molinari/Cerbaiona, Montalcino. Una delle ragioni di tante scorribande in giro per l’Italia a camminar le vigne è anche questa: poter dire “si, io l’ho conosciuto, io c’ero”. Eravamo seduti intorno a un tavolo, tre amici, con lui sua moglie Nora. A casa loro. Almeno tre giorni per organizzare la cosa, incluso la più classica delle telefonate dell’ultim’ora con preventiva disdetta in caso di ritardo. Poi invece son bastati due secondi, appena due dita di vino, per sciogliere la tensione e portarci per mano nel bel mezzo degli ultimi trent’anni di storia del vino a Montalcino. Grazie Comandante!

Prof. Luigi Moio, Consulente/Az.Agr.Quintodecimo. Fermi tutti, sale in cattedra il professore Moio. Non ho scritto tanto di lui e dei suoi vini quest’anno, anzi, forse giusto un paio di annotazioni. Apposta. Il meraviglioso lavoro di Luigi (e Laura), soprattutto in quel di Mirabella Eclano a Quintodecimo, andava per un po’ ammirato con distacco. Era necessario farlo, era importante capire senza per forza insistere. Bene, chi ha il piacere di conoscerlo Luigi Moio, o ha avuto anche solo  il piacere di bere quest’anno almeno uno dei vini bianchi 2009 di Quintodecimo, se ne farà subito un’idea del perché di questo premio (l’Exultet 2009 per esempio, è stratosferico!), e ci darà senz’altro ragione. Agli altri, quelli che non lo capiscono, beh, non resta che continuare a rosicare.

 

Franco Biondi Santi.  La motivazione? Bene, ve ne do almeno un paio: “a quei tempi la colla per le etichette veniva fatta con la farina del grano. L’inconveniente era che seccava molto lentamente, per cui era necessario tenere le bottiglie tutte in piedi e, per ordine di mio padre, perfettamente allineate. Capitava talvolta che l’allineamento presentasse una curva, ce ne accorgevamo non appena Tancredi esclamava <<oggi è tirato vento…!>>.

“Sono nato al Greppo nel 1922, ho cominciato nel 1930 a lavorare in cantina e la mia prima vera vendemmia fu quella del 1940. Nessun agricoltore in tutta la Toscana ha come me sulle spalle sessantanove vendemmie, eppure sono in molti oggi a parlare di vino”.

I brani citati sono tratti da “Questa è la mia terra” di M. Boldrini, Bruno Brucchi, Andrea Cappelli, © 2009 Protagon Editori; trascritti qui praticamente a memoria. Conserverò questo libro con dedica autenticata come una delle più preziose esperienze di vita legata al mondo del vino della mia vita. E con questo riconoscimento, per quel che vale, Angelo Di Costanzo, con stima, ricambia.

Queste le nominations selezionate. Ora tocca a voi decidere da che parte stare!

Ricchi e Poveri

20 agosto 2011

Tema scottante la ricchezza di questi tempi, soprattutto nell’ottica di come siamo abituati, irrimediabilmente oramai, a sentirci ogni giorno più poveri, e non solo in termini economici. Giustapporre questi due vini non nasce certo dall’idea di un confronto possibile, evidentemente paradossale, ma da un fugace momento di riflessione su quanto siano costretti sempre più ad emozionare certi grandi vini nonostante le aspettative volgano a loro favore e quanto invece risultino sempre più sorprendenti certi altri meno blasonati, diciamo pure inesistenti agli occhi dei più, ma di indiscusso valore territoriale, morale, evocativo.

La Baroness Philippine de Rothschild si mostra in tutto il suo splendore, icona abbondante di una ricchezza debordante, materiale, scintillante, zecchina. La sua storia, quella della famiglia, ci racconta una storia suggestiva a tratti caratterizzata da episodi implacabili; ma ciò che interessa di più a noi del blasone de Rothschild lo ritroviamo tutto in questo mezzo bicchiere offertomi da Mr Adam per avere controprova del perché sia così infinita la sua passione per Mouton e, più in generale, per i vini di questo pezzo di Bordeaux da sempre luogo d’elezione per vini di altissimo profilo.

Un Pauillac 2004 strepitoso, non c’è che dire: colore rubino vivo, denso, quasi impenetrabile. Il naso è ampio, caldo, considerevole, a tratti ridondante di quei piccoli frutti rossi e neri talvolta stancanti altre volte immancabilmente attesi, desiderati, quasi rapiti; in bocca è consistente, copioso, fastoso, grasso, intenso, oltremodo largo, opulento, polposo di un frutto infinito, notevole, pieno, sontuoso mi verrebbe da dire. Ci sta tutto. L’attacco al palato è calorico, il vino ha parecchio spinta e non lo nasconde, esprime freschezza e tannino incisivi e voluttuosi, il ritorno gustolfattivo poi è elegante e raffinato: come te lo aspetti. Il finale di bocca chiude saporito, sfarzoso, soffice quanto basta e squillante quanto lo hai potuto solo immaginare, succoso, carezzevole. Un rosso pregnante, roba da ricchi insomma, mica male!

Raffaele Moccia¤ è invece una persona semplice, allevatore e vignaiolo nei Campi Flegrei. Le sue mani, segnate dal lavoro quotidiano in vigna, sono l’unico biglietto da visita che sa offrire all’avventore di turno. Quell’aria sorniona poi, che non riesce mai a svestire, rimane uno dei tratti più belli della sua personalità forgiata da grande fierezza e lucida caparbietà.  Un uomo d’altri tempi.

Il Per ‘e palummo dei Campi Flegrei Agnanum 2010 è uno dei più buoni rossi mai usciti dalla piccola cantina di Raffaele: austero, disadorno da ammiccamenti inutili e sovraestrattivi, scevro da ogni maquillage che ne confonda l’origine, l’essenza, l’espressività. C’ha messo un po’ ad uscire il duemiladieci, le solite cavolate burocratiche della doc – unito ad un colpevole ritardo del produttore nel consegnare i campioni per le varie commissioni d’assaggio – ne hanno coscritto la commercializzazione a fine giugno quando invece molti clienti – taluni puntando anche i piedi – ne sollecitavano la pronta consegna già in maggio, a causa soprattutto delle numerose richieste ricevute. Invero, male non fa ai vini di Raffaele uscire qualche mese più tardi in là sulla stagione, ma essere una piccola azienda, che fa poche, pochissime bottiglie, talvolta rappresenta tanto un pregio quanto un limite difficile da comunicare e, peggio, far comprendere.

Il colore è chiaramente rubino vivace, appare magro e trasparente nel bicchiere, nudo, così come la terra pare averlo consegnato nelle mani del vignaiolo. Il primo naso è avaro, ma gli basta giusto un giro di orologio per mostrarsi in tutta la sua franchezza, spoglio di nuances carnose e gliceriche e guarnito di frutta a polpa croccante, succosa ed invitante. In bocca è spicciolo ma non approssimativo, stiracchiato su di un equilibrio dolcissimo tirato tutto tra fresca acidità e insistente vinosità, misurato, composto, efficace. In tempo di crisi, poveri noi, per bere bene senza sentirsi più di tanto in colpa!

Pauillac, Grand Vin de Chateau Latour 2004

28 aprile 2011

Eccola qua, l’attendevo; e come se l’attendevo. Una delle ragioni per cui pensi valga la pena fare certi sacrifici, stare lontano da casa, dai tuoi affetti, lavorare dodici, a volte anche quattordici ore al giorno; no, non è una bottiglia che ti ripaga di tanta dedizione, può solo la soddisfazione del cliente, e non quella scritta sulla comment card di fine servizio, se vogliamo algida e buona forse per le statistiche, ma quella che spunta sui saluti finali, che senti trasalire dalla tensione della stretta di mano.

Si dice che quando Bordeaux cade in disgrazia per un cattivo millesimo, sia il Grand Vin de Latour l’unico riferimento, l’unica garanzia per godere comunque del miglior frutto del terroir bordolese anche in una pessima annata. In verità vi dico che rimango scettico, non poco, sulla grandezza di certi vini presi così, d’emblée, al netto della liturgica suggestione della loro storia, pur costruita – tra l’altro con minuziosa perizia, soprattutto commerciale – in oltre duecento anni di storia viticola, almeno quelli più tangibili dalla critica enologica.

Tant’é che parliamo di un gran vino, di nome, e di fatto; Latour duemilaquattro è cabernet sauvignon per l’80%, merlot al 18%, cabernet franc e petit verdot per il restante 2%; un taglio millimetrico, si direbbe. Gli annali dicono di 78 ettari di proprietà tutti allocati lungo la sponda sinistra della Gironda, nei dintorni di Pauillac, dove però solo 47 ettari concorrono alla produzione del Grand Vin, mentre il resto viene distribuito tra il secondo vino rosso, Les Forts, ed il Pauillac propriamente detto.

Il colore è rubino scuro, decisamente caratterizzato, di notevole estrazione, impenetrabile, denso; il primo naso è sottile, volto al terroso, apparentemente scomposto; gli bastano però pochi minuti per riproporsi, con particolare suggestione, sulle più classiche note di frutti neri, ribes e mirtillo, poi ancora ginepro; lascio il bicchiere per qualche ora, mi dedico al servizio, c’è gente stasera. Quindi ci ritorno su a fine serata. Le bottiglie aperte qua e là mi hanno frattanto offerto altri piacevoli stappi, ancora assaggi interessanti di cui conservo qualcuno dei nuovi. Discutiamo, con Sabatino, il mio cantiniere, sull’opportunità o meno di proporlo il Biserno ’07 del Marchese Ludovico Antinori – “Angelo, sicuro? Pe’ mmé è ancora così giovane…” – ma il cliente ha pur sempre ragione; e il mio budget pure. Un sorriso tira l’altro, così riprendo tra le mani questo benedetto Latour 2004, stipato con tanta gelosia da occhi indiscreti: il timbro olfattivo adesso è virato, ora primeggiano note minerali, salmastre, corteccia; poi finissimo pellame, infine tabacco. Il sorso è intenso, caldo e profondo, e non potrebbe essere altrimenti; il tannino, dolcissimo, non smette di carezzare il palato, avvinghiato a finissima acidità.

E’ vero, certe etichette restano maledettamente inarrivabili, forse assurde, eppure… Bonne chance! Monsieur Dauphin, grazie mille per avermi concesso, per tre volte, di condividere con lei questo prezioso ed esclusivo passaggio a Medòc…

Dieci anime (più o meno) intorno a me da portare volentieri sull’Arca nel 2011

1 gennaio 2011

Rieccoci! Si riparte alla grande in questo 2011 con subito tanti appuntamenti a cui dedicare particolare attenzione, ma prima di tutto, senza voler essere troppo pallosi, eccovi un piccolo classico con il quale desideriamo sottolineare alcuni riferimenti che ci fanno pensare in positivo per quest’anno appena arrivato. Non è una classifica, solo il piacere – sincero – di ringraziare alcune persone per quello che fanno e sono capaci di trasmettere e dunque una sottolineatura a persone, cose, eventi, fatti che non ci sono risultati indifferenti. Così è se vi pare. Buon anno a tutti!

Rosanna Petrozziello. Moglie, mamma, sommelier, vignaiola di finissime intuizioni sotto l’egida di suo marito Piersabino Favati nonchè – da qualche tempo sempre più ferrata – abile tecnico di cantina grazie agli insegnamenti del suo consulente Vincenzo Mercurio. Potrei anche fermarmi qui, perchè di certe persone basta dire anche meno, per lasciarne carpire il valore umano e morale, ed il suo brillante futuro in questo più o meno meraviglioso mondo del vino. Ci tengo però ad aggiungere solo un ulteriore considerazione, rifacendomi ad una delle più leggere ma al tempo stesso efficaci battute di Totò: in un mondo costellato di mille e più primedonne “tutte pittate*” che sgomitano per ottenere un primo piano, ebbene, come chiosava il più nobile dei comici napoletani ne Il Turco Napoletano, “in questo negozio, fra tanti fichi secchi, un po di poesia non guasta mai”, e Rosanna, con il suo solare splendore, forgiato da sani e saldi principi di un tempo che fu, non guasta davvero no, e guai a chi se ne dimentica! (*) pittate, truccate

Gerardo Vernazzaro, mai senza Emanuela Russo però. E sì, perchè Gerardo è un tipo giusto, che sa il fatto suo, cresciuto come me nella cruda periferia napoletana ma che ha saputo leggere e vivere il presente senza mai rinunciare al suo futuro, ai suoi sogni, pur nella loro reale dimensione, senza cioè voli pindarici. Gerardo fa vino, e seguirlo nel suo lavoro, correre cioè tra le vigne, camminare con lui tra le vasche e rincorrere i suoi ideali nelle bottiglie è, credetemi, uno spasso; Perchè più del valore della fatica, del sacrificio della costruzione, condividere una bevuta con lui significa riuscire a cogliere di un vino”l’essenza” che vuole manifestare, più del territorio che si arroga la presunzione di rappresentare, il suo ideale. E mai compagno di bevute mi fu più gradito!

Teletubbies, sono off topic, lo so, ma aspetto da sei mesi di inserirli in qualche modo in un mio post; Senza di loro non so proprio come farei. Dei quattro, chi mi fa scompisciare è Dipsy, con il suo cappello sempre alla moda ed i suoi balli originalissimi, anche se, per amor del vero, sono quasi costretto a tifare sempre per Po e Laa-Laa, Letizia poi di quest’ultima è follemente invaghita. E che dire poi di Tinky Winky, il più grande (e grosso) della ciurma che se ne va in giro sempre con una borsa rossa (della serie ci fa o ci è?). Tutti protagonisti di storie incredibili alla luce di un sempre splendente Sole-bambina, un po come le mie giornate da quando sono diventato padre, altro che sommelier…

Carmine Mazza. In un tempo in cui Napoli e la sua provincia esprime tutto quello di cui mai ci si potrebbe innamorare ogni tanto salta fuori qualcosa di buono. Il Poeta Vesuviano non è solo un ristorante, prendiamolo come un avamposto di modernariato culinario nella popolosa e popolata provincia napoletana. Torre del Greco non è poi così lontana e andare da Carmine, nella foto con la deliziosa compagna Amalia, val bene il viaggio; Perchè Carmine ha voglia di fare e lo si vede in ognuno dei suoi piatti, ha talento da coltivare e motivazioni da preservare, insomma, il poeta va ascoltato!

La Francia. Credo di aver letto tutto il possibile sulla vitienologia francese e di non essermi mai fatto mancare il tempo per approfondire e cercare di capire: un mondo infinito, altro che bordò e burgogn! La cosa più curiosa è che più ci entri nei dettagli del vigneto Francia e più ne ami, ti appassionano, le mille sfumature più che le poche, solide architetture di un paese del vino straordinariamente ricco di cultura enoica. Così l’approccio dello scorso giugno al sogno borgognone diviene solo l’appetizer di una sì forte motivazione di cominciare quel viaggio fantastico che non si pone mete bensì obiettivi: vivere le terre di Francia.

Pasquale Torrente. Mi dicono che una volta capitato a Cetara si rischia di rimanerci secco, di cetarite o giù di lì. Aggiungono però che trattasi di un male buono, che si insinua dapprima nella mente ma che non perde tempo di rapirti l’anima. Cetara è un borgo marinaro tra i più suggestivi della costiera, vissuto da gente che praticamente si conosce tutta, tra questi c’è Pasquale. Di lui ho incontrato prima la sua fama, di persona per bene appassionata del buono e lento della vita nonchè gran cultore di amicizia. Poi il suo lavoro, di chef e patron dello storico ristorante “Al Convento” e quindi la sua persona: schietta, sincera, onesta, disponibile, trasparente. Un signore, si direbbe. Quanti come lui? Ne conosco solo alcuni altri, e comunque meno bravi con la sciabola!  

Angelo Gaja gira che ti rigira te lo trovi sempre davanti, ma anche no. E’ indubbio che sia un personaggio tra i più ambìti della nomenclatura enologica italiana, tra i pochi, pochissimi a cui va indiscutibilmente concesso il merito di aver creato un aspettativa sempre crescente sui suoi vini. Vuoi per passione, vuoi per critica, i vini di messer Barbaresco – checchè se ne dica – sono sempre un riferimento certo della vitienologia italiana, un caposaldo che sai di avere e di potertelo giocare – con tutti – a tuo piacimento. A lui, come forse a nessun altro, è concesso di apparire e sparire dalla scena a suo piacimento, lui come nessun altro ha maturato, soprattutto negli ultimi anni, quella sottile capacità di essere massmediologo senza esserlo, a volte senza nemmeno proferire parola, lasciando semplicemente parlare i fatti. Altre volte, quando proprio gli girano, ci ha abituato invece a sonore prese di posizioni, più o meno condivisibili, proprio come i suoi vini. Un riferimento Angelo Gaja, meno male che c’è!

Annalisa Barbagli. Il suo vecchio profilo sul sito del Gambero Rosso, per il quale ha collaborato sino a poco meno di un paio d’anni fa, la descriveva come “una persona pratica che vive l’impegno della casa (la spesa, il bucato, le pulizie, il cucinare ecc.) come un tutt’uno da fare all’insegna della massima professionalità”. Ed in verità dalle sue pubblicazioni si è sempre respirato quel non so che di vero che molti tentano – invano – di replicare costantemente nelle ultime uscite culinarie. Negli ultimi tempi non si riesce nemmeno più a contarli i vani tentativi di imitazione, ma chi come noi è cresciuto con La cucina di casa e si è ritrovato in quelle mille e più ricette che ha quasi tutte “vissute”, non v’è tubo catodico che tenga: che se le cuociano e mangino pure tra loro, il mio manuale di cucina è differente!

In ultimo, i miei primi dieci anni di Ais. E sì, son passati dieci anni; Era il 2001 quando mi sono avvicinato all’associazione italiana sommelier, per vocazione e non ripiego; Per molti dei miei amici/colleghi del tempo, quella rimane una “classe di ferro”, per altri addirittura mai più ripetuta. A me basta pensare di aver percorso, anche con alcuni di questi, un bel pezzo di strada professionale, appassionati e mai piegati all’arroganza di chi, nel tempo, ha preferito mettere avanti la scadenza mensile della sua prossima rata del mutuo alle ragioni, umane e morali, di un associazione che fortunatamente rimane un riferimento assoluto per la qualificazione e l’affermazione professionale dei comunicatori del vino, in Italia come nel resto del mondo. L’anno appena messo alle spalle ci ha consegnato una bella ventata di rinnovamento e tanti, tantissimi buoni propositi, a livello nazionale ma anche regionale qui in Campania: staremo a vedere cosa succederà, anche perchè, di cose da cambiare pare che ce ne fossero, chi vivrà vedrà!

Così la mia Arca l’anno scorso. (A. D.)

Pomerol, Chateau La Conseillante 2005

14 ottobre 2010

Un vino incomprensibile! Con un evidente difetto enologico! Davvero strano, si avvia ad una evoluzione inaspettata. Cavolo! Un vino davvero incredibile, eccezionale!

Vi siete mai chiesti perchè Bordeaux è, nell’immaginario collettivo, un luogo culto per il vino nel mondo? La risposta è banalmente semplice, ma purtroppo non così scontata come appare: qui si fanno grandi vini, ma soprattutto si costruiscono grandissime leggende. E’ vero, i francesi in questo ci sono andati a nozze alla grande, furbetti come sono hanno creato ad hoc storie e storielle varie mettendoci di mezzo ora la nobiltà dei terreni, la preziosità delle uve locali, poi la nobile arte dei vignerons, la maestria dei negotiants: insomma, dei gran commercianti!

Ma i vini? Ehmbè, non tutto quello che ci arriva da bordò è da prendere per oro colato, ma certi vini hanno la capacità di entrarti dentro alla grande, ficcarti bene in mente che 150 vendemmie hanno pur un significato superiore all’ultimo coglione arrivato, che una terra seppur sia baciata da Dio ha avuto la fortuna, sfacciata, di essere camminata e vissuta da uomini capaci di valorizzarla e non solo di depredarla, e soprattutto, che i vini qui partoriti sono figli di tutti non per la stupida idea venuta a qualcuno di cabernettizzare o merlottizzare le vigne di ogni dove ma più semplicemente perchè i cabernet ed i merlot che qui nascono hanno una identità precisa, un dna compiuto, un profilo unico ficcatogli nelle radici e poi nel vino dalla terra e non dall’uomo!

La Conseillante è a Pomerol, ed è a tutti gli effetti uno tra i più ambìti Chateau dell’appellation, le sue vigne ricadono proprio al confine tra quelle di St. Emilion e per l’appunto Pomerol, nelle vicinanze di Chateau Cheval Blanc e Petrus. Il vigneto è di circa 29 ettari, piantato a Merlot e Cabernet Franc su terreni composti perlopiù di argilla misto a ghiaia, con evidenti depositi di sabbie e ferro.

Il Pomerol 2005 è un vino incredibile, capace di allontanare, farti storcere il naso, poi di conquistarti sino a lasciarti sciogliere dall’invidia per non aver mai bevuto prima nessun merlottone così buono come questo!

Il colore è un colpo al cuore, nerastro con evidenti sfumature porpora, praticamente impenetrabile; del primo naso ne faresti a lungo a meno, tracce ematiche miste a ferro e funghi, un vino con un tale esordio olfattivo ha di solito i secondi più o meno contati prima di vedere le rotondità del mio lavandino, ma qualcosa mi tiene il naso attaccato al bicchiere, più me ne allontano per non lasciare assuefare le narici più ne rimango affascinato; c’è, dietro l’angolo, un vortice di sensazioni olfattive che di li a poco si manifesteranno in maniera a dir poco entusiasmante.

Così armato di santa pazienza, travaso il vino da un calice all’altro, e via così per almeno un quatro d’ora, adesso quello che per alcuni è un timbro identitario ma che per me era solo una mera sgradevole sensazione, ha lasciato il posto a note certamente più interesanti e intriganti: il frutto prima di tutto, fresco e polposo, lamponi neri e mirtillo su tutti, poi note floreali di violetta, sino a liquirizia e vaniglia, tutte note speziate fini ed eleganti, che rendono a questo vino una trama olfattiva molto suggestiva, che vira continuamente tra la frutta e l’etereo, tra la confettura e l’inchiostro. In bocca  poi è possente, l’ingresso è ricco, il frutto quasi masticabile, il palato viene preso d’assalto da un vino di nerbo e voluttuoso, non proprio seta pura ma certamente caratterizzato da tannini nobili e più che digeribili. Il tempo gli conferirà maggiore grazia, adesso esprime tutta la fierezza dell’uvaggio e della sua nobile terra di origine. Un gran bel vino!

Questo vino è il nostro vino straniero dell’anno.

Sauternes 1er cru 2004 Chateau d’Yquem

3 settembre 2010

Ci sono poche certezze nel mondo del vino, una di queste è sicuramente la grandeur che circonda Bordeaux ed il mito di Chateau d’Yquem, “il Sauternes” per antonomasia, il nettare divino, il piacere puro, in alcuni casi millesimi, a detta dei più, una vera e propria libidine palatale. Ma qual è il modo migliore per apprezzarne appieno il frutto, la piacevolezza, l’infinita profondità? Sappiamo come bere un Yquem? La prima risposta è certo che sì, che cavolo, siamo o no dei professionisti? Ma non è questa che conta, non in questo caso, in verità sarebbe più opportuno prendere tempo, perchè forse è no, e questa pare divenire, di assaggio in assaggio, più che una certezza: non vale una sega essere bravi sommelier, narcisi professionisti o travestiti tali per il fine settimana, ci saranno, prima o poi, due dita di di Premier Cru Superieur 2004 a sbattervi in faccia il vostro curriculum, il vostro superbo autoreferenzialismo del ca**o dicendovi: “riprova, sarai più fortunato!”

Ci hanno educato (o provato a farlo) a studiarne la storia, a riconoscerne il blasone, a carpirne i segreti e desiderare l’assaggio, a divulgarne poi il verbo come profeti di un comandamento preziosissimo e dalla sacralità unica. Ne abbiamo tratto, nel tempo, palese visibilio, sino alla frustrazione, costretti tra le altre cose ad adorarlo e al tempo stesso, a seconda dei casi, ad odiarne l’aura sacrale, alla continua ricerca di un degno compagno di merenda per un vino apparentemente inavvicinabile: un adone dai biondi capelli d’angelo, oro puro, cristallino come solo la luce che in esso si riflette. Il tempo rifugge il tempo, e nonostante i tanti tappi levati al cielo, con somma soddisfazione, mai piena consapevolezza dell’accostamento perfetto, mai abbinamento assoluto, mai. Nessun ingrediente all’altezza della soave fragranza di un ventaglio finissimo, verticale sino alle vertigini, del dolce insinuarsi tra le papille, della sfrontatezza che lo vuole, sul finale di bocca, l’unico protagonista della messinscena.

E Le ostriche? Si vabbè, a lume di candela e con la velina di turno; Ma come, e l’amatissimo fois gras? Ecco, allora mettiamoci pure l’Almas Beluga o magari il Roquefort ed abbiamo chiuso con i luoghi comuni!

Voglio allora pensare, ingenuamente, realista come sono, che abbiamo negli anni preferito rivolgere lo sguardo altrove pur di non darla vinta ai cugini francesi: i loro sono solo sentimentalismi puerili, non ci affascinano per niente, i vini invece certo che sì, ma rimangono vini, e come tali replicabili all’infinito e con molta probabilità ovunque, o quasi. Un luogo comune, anche questo, che ha fatto il suo tempo.

Ecco, ho finito le mie due dita di Premier Cru Superieur 2004 d’Yquem, indiscutibilmente il più autentico dei vini da meditazione in circolazione!

Professione Sommelier, pillole di buona Francia

24 aprile 2010

No, non è una foto d’antan, ho solo sbagliato a non resettare la funzione “agè” della macchina digitale in dotazione. Da sinistra: Fabio Raucci (L’Olivo Restaurant Manager), Agostino Roberto, Marco Del Garbo, Fabio Di Costanzo, Albino Filippo e Yannick Kovac (Wijn Makelaarsunie), io, Pietro Di Palma, Fabio Vullo, Gennaro Caiazzo.

L’idea ci è venuta qualche mese fa, pensando all’opportunità di organizzare un laboratorio-formazione per lo staff del Capri Palace potendo contare sulla qualità professionale ed umana di Albino Filippo e Yannick Kovac, Directeur di Wijn Makelaarsunie Olanda il primo,  una delle compagnie leader della distribuzione vini in nord Europa, e pregiato Master of wine francese il secondo, grande professionista e pure simpatico nonchè appassionato assertore della grandezza dell’aglianico come uno tra i vitigni principi italiani (ruffiano 🙂 ).

L’appuntamento: ci siamo così riuniti un pomeriggio di un giovedì d’Aprile, queste giornate di tiepida primavera sono lavorativamente parlando, abbastanza tranquille, seppur gli orari di lavoro rimangono comunque gli stessi, ecco pertanto che abbiamo dovuto incastonare questo momento di alta formazione nelle due ore che quotidianamente dedichiamo al riposo mentale e fisico, l’agognato volgarmente detto “spezzato”.

L’obiettivo: Manager, Sommelier, Chef de Rang, Commis, chiamati all’appello per ascoltare, conoscere, approfondire, scoprire, sapere, bere, tradurre, finalmente capire.

Ecco le mie personali note di degustazione colte durante i lavori e sviluppate anche grazie alle preziose notizie di Albino Filippo e Yannick Kovac. Quale vino il migliore? Fate Vobis…

Sancerre Chevignol 2008 François Cotat bianco sicuramente poco incline al gusto di molti, dal colore molto scarico, verde decisamente pallido. Il naso è subito vegetale, nota di peperone verde, menta piperita, poi fruttato di mela cotogna. Gli bastano però pochi minuti nel bicchiere per virare decisamente su note terziarie anche piuttosto complesse e particolari, vicine a sentori del tipo idrocarburi. Notevole la spalla acida e la mineralità che profondono il palato sul finale di bocca.

Mersault Les Poruzots 2006 Henri Boillot Grandioso bianco! Basterebbero queste due sole parole a definirne l’entusiamo che ha accolto questo straordinario chardonnay borgognone. Merito del terroir non v’è dubbio, ma anche dell’annata 2006 che è stata piuttosto fresca, i bianchi borgognoni se ne giovano parecchio quando il clima rimane costante  e non soffre di picchi di canicola come per esempio è capitato nel 2005. Henri Boillot è un Negotians, ovvero possiede anche diverse particelle di vigne in Meursault ma non del 1er cru Les Poruzots pur curandone in maniera maniacale la selezione delle uve, rimane infatti uno dei più grandi conoscitori ed interpreti di una terra meravigliosa. Bellissimo il colore paglia, splendente; il naso è mastodontico, caldo ed avvolgente, erbaceo, floreale, fruttato, speziato: è menta, è ananas, è mango, è timo limone, vaniglia, grafite, ho dimenticato qualcosa? In bocca è grasso, voluminoso ma fresco, profondo e delicato, accattivante ed avvincente. Chapeau!

Gevrey Chambertin Les Evocelles 2005 Philippe Charlopin-Parizot Ecco l’altra faccia della medaglia: annata calda la 2005,  in Cote de Nuits se ne sono avvantaggiati i rossi, arricchiti soprattutto da un frutto più voluminoso, quasi polposo lasciando in degustazione un ruolo non certo di secondo piano ai tannini ma comunque meno invadenti del solito. Il Pinot Noir è risaputo è una gran bestia nera ovunque nel mondo, non certo a casa propria e non certo in una delle appellations più vocate per la sua coltivazione. Il colore è avvincente, piuttosto atipico con la sua vivacità così espressiva, ma è tipico del lavoro del vigneron che addirittura nelle annate più calde, 2003 su tutte, non usa nemmeno il legno per affinare i suoi Pinot, il sole fa già un gran bel lavoro di riduzione delle asperità; piccoli frutti rossi e neri al primo naso. Lamponi, ribes, solo sul finale sensazioni lievemente tostate. Palato assolutamente appagante, consistente, di una eleganza e finezza inaudita in un vino di cotanta freschezza.    

Pauillac Reserve de la Comtesse de Lalande 2005 Chateau Pichon-Longueville Bordeaux non è poi così lontana, o sì. Inutile nascondere che la crisi economica mondiale ha dato un bel colpo di assestamento al mercato dei Premier cru di Bordeaux, ed ecco che si affacciano con sempre maggiore crescita qualitativa ottime opportunità di investimento sui secondi e terzi vini di alcuni chateaux girondini: la reserve de la Comtesse de Lalande 2005 pare essere una di queste, tenete presente che certi secondi vini dei millesimi 2005 e 2006, in particolare il Carruades de Lafite-Rothschild o Les Forts de Latour sono praticamente apparsi come meteore sul mercato poichè andati letteralmente a ruba. L’eccezionale bontà dell’annata 2005 a Bordeaux ha fatto il resto. E’ composto dal 45% Cabernet Sauvignon, 35% Merlot, 12% Cabernet Franc e 8% Petit Verdot: un vino molto immediato, con note olfattive adirittura quasi vinose prima di divenire vegetali e fruttate intense e persistenti, sentore di peperone rosso e mirtillo, poi note balsamiche e tostate. In bocca è persuasivo, avvenente, asciutto e profondo. Finale di bocca caldo, appena al di sopra della soglia della perfezione la nota alcolica percepita, un ottimo bordolese. 

Sauternes 2001 Chateau d’Arche Non certo il vino per cui morire, nel senso che è certamente un buon Sauternes ma è altrettanto certo che dista anni luce da certi “conterranei” nettari della più affascinante appellations girondina. Prodotto da uve semillon, sauvignon e muscadelle offre una trama cromatica molto bella, oro splendente. Offre un bel ventaglio olfattivo giocato tutto su note di frutti candidi e piacevoli nuances mielose, in bocca è dolce seppur manifesti una discreta acidità, qualità che l’aiuta non poco a non affogare nella stucchevolezza ad ogni sorso sempre latente.

Conclusione: E’ stata senza ombra di dubbio una gran bella esperienza soprattutto gustolfattiva, full immersion proposta con elegante fermezza e maestria dai nostri educatori nonchè molto sentita dallo staff tutto che così ha avuto opportunità di respirare a pieni polmoni di un po’ di terra d’oltralpe di prim’ordine.

Adesso però mi (ci) sta frullando per la testa un’altra idea, più ambiziosa e dedicata a tutti i colleghi professionisti della regione, ma questa potrà prendere forma e sostanza solo a fine stagione, a bocce tranquille; per adesso schiena dritta, mento alto e, come si dice “non perdiamoci in dislin gui sconsi e… andèm a laurà!”

© L’Arcante – riproduzione riservata


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