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Grands Echezeaux 2004 de La Romanée Conti

12 ottobre 2010

Ci sono occasioni da cogliere al volo, situazioni da non lasciarsi sfuggire, degustazioni da non perdere, di quelle che ne capitano davvero poche, soprattutto di questi tempi! Così scoprire che proprio dietro l’angolo danno una degustazione eccezionale di quattro fuoriclasse francesi, solletica – non poco – l’idea che dieci o quattordici ore di lavoro non fanno poi così tanta differenza quando di mezzo c’è la passione 🙂 !

Il Domaine de la Romanée Conti ha una storia tanto tribolata ed affascinate quanto preziosa e inarrivabile la grandezza dello scudo gentilizio di cui si fregia oggi: è icona fatto vino, un feticcio, di cui ogni buon appassionato sente, naturalmente, la necessità di nutrire, conservare gelosamente, raccontare con infinito trasporto. Camminare le vigne di Vosne Romanée poi è una esperienza indimenticabile, pestare ogni singolo decimetro quadrato di quella terra può assurgere, in alcuni casi, ad un primo passo sulla luna. Incredibile ma vero!

La storia comincia nel 1451 quando i monaci del convento di St. Vivant decidono di vendere alla famiglia Croonembourg la piccola vigna chiamata Cros de Clou, di appena 2 ettari. Mai avrebbero pensato di stare cedendo quella che poi sarebbe divenuta la vigna più ricercata, preziosa, costosa nel mondo! Nel 1760 compaiono sulla scena i Principi di Conti, che rilevano la proprietà e decidono che il nome del piccolo domaine passi da Cros del Clou a La Romanée; la storia più recente invece è costellata di innumerevoli fatti e vicende in chiaroscuro, di proprietà poco lungimiranti, di negotians poco avveduti e capitalisti stranieri che nel venire come nell’andarsene tanto ci hanno messo di loro quanto ben guadagnato: il marchio, quello de La Romanée Conti oggi gestito dai monsieurs Aubert de Villaine ed Henry Roche – comunque siano andati i fatti, rimane indiscutibilmente il più amato, ambito ed osannato nel mondo del vino.

Il nome Grands Echezeaux (nella mappa in alto è ben visibile proprio al confine con il Grand cru Vougeot) trae origine da “chezal” (chezeaux al plurale), termine che un tempo stava ad indicare un casale o un raggruppamento di alcune case. E’ nel 1855, quasi in contemporanea con la classificazione in atto nel bordolese, che l’autore  Jules Lavalle, sull’esperienza precedente di Denis Morelot, decise di identificare Les Grands Èchezeaux come tête de Cuvée, una distinzione che potremmo definire, in termini di qualità, ancora più restrittiva di quella del Grand cru attuale, di cui ha conservato nel tempo, pressochè immutata, anche la superficie. 

Il vino ha un bellissimo colore rubino scarico, la luce riflette armoniosamente tutte le sfumature ramate pennellate di prima mano dalla terra. Il primo naso è uno schiaffo minerale, in quel bicchiere, nelle due ore trascorse da bravo scolaretto dietro il mio banco, ci rimetterò il naso almeno un centinaio di volte; Invitante, verticale, complesso, note di frutta croccante, cipria nell’aria, polvere di argilla, un naso profondo, elegante, finissimo. In bocca è secco, austero, ma di una bevibilità assoluta, rivelata in maniera ineccepibile, tannini raffinati, di lineare aristocraticità, nessuna sbavatura alcuna, solo nel finale di bocca si piega ad una sterzata terragna, un ritorno quasi ferroso, certamente minerale. Probabilmente non sarà questo il vino di Romanée Conti da condividere nuovamente con i posteri di qui a 20 o 30 anni, pare troppa grazia già espressa, prontissimo da bere, a suo modo troppo sincero per vendersi tale promessa: però che bevuta, che esperienza, e pronto a rifarmi la bocca!

La degustazione – guidata dal Master of Fine Wine di Vinifera – Paolo Repetto, si è tenuta Lunedì 11 ottobre al Grand Hotel Quisisana in Capri, organizzata dall’ Enoteca Segreta della famiglia Pollio.

Vosne-Romanée, qui pulsa l’anima del Pinot Noir

7 luglio 2010

Certi post(i) non hanno bisogno di parole per essere compresi, buttare giù centinaia di melense parole, anche ben legate tra loro, di trama e grammatica, potrebbero aiutare a capire quanto amore si possa profondere per alcuni luoghi, non cosa significhi per un appassionato camminarli, viverli!

Vosne-Romanée è appena fuori Nuits St Georges, appena prima di Vougeot sulla strada per Gevrey Chambertin e la capitale della Borgogna, Digione. Il terreno del vigneto è piuttosto eterogeneo ma poggia tutto su una roccia calcarea abbastanza solida che arriva ad avere, in cima alla collina che abbraccia i Grands Crus, uno spessore piuttosto importante lasciando invece in superficie, a vari substrati, altri conglomerati di natura sedimentaria frammista ad argilla. L’Appellation Village Vosne-Romanée è estesa su oltre cento ettari circostanti il comune omonimo è possono fregiarsi di tale denominazione anche parcelle allocate in altri comuni o ricadenti in appellations locali come per esempio alcune vigne della vicina Flagey a nord o Nuits St Georges a sud.

Benvenuti nel cuore della Borgogna più ambita, ricercata, apprezzata; Vosne è sinonimo di rara eleganza, di preziosa finezza, ne sono testimoni i grandissimi e costosissimi vini che nascono nelle vigne a La Tache, Richebourg, Romanée Conti, La Romanée, ma non di meno nella Romanée St Vivant ed Echezeaux. Se la grandezza di questi ultimi è spesso offuscata (ma non più di tanto) dall’immensità dei primi, i vini che vengono fuori nella vigna de La Grande-Rue, divisa da La Tache proprio da una minuscola stradina sterrata poco asfaltata, esprimono di quest’ultimo l’alter-ego, naso empireumatico e palato, ci raccontano, marcato da una nerbatura acido-tannica molto lontana dalla voluttà del pur confinante La Tache.

La Romanée è uno dei Grands Crus di Pinot Noir più ricercati al mondo eppure rappresenta la più piccola delle appellation di Francia, pensate meno di un ettaro di vigna, caratterizzato anche qui da un terreno marnoso-calcareo frammisto ad argilla. Confina a sud con parte della vigna de La Grand Rue ed in parte con Aux Champs Perdrix (Village), poco più in la spostato verso est con il mitico vigneto de La Romanée Conti e a nord con Romanée St Vivant e Richebourg.

La Romanée Conti è anch’esso un piccolo giardino al sole di Vosne-Romanée, il Grand Cru per eccellenza, consacrato al mito grazie a vini di una longevità impressionante, di una finezza e costante pulizia olfattiva incredibili ed una opulenza insindacabile. Meno di due ettari nel cuore di Vosne, proprio a due passi dal centro del borgo cittadino, appena voltato l’angolo del “Mairie”, il palazzo comunale. Una curiosità del momento mi è saltata agli occhi, un manipolo di corridori sudati ed affannati presi dalla loro corsa antistress lungo le viuzze di campagna, proprio dai filari dei grands crus: che fortunati, mi è venuto da pensare, a pensare a chi è costretto a fare jogging sui marciapiedi di periferie grigie e fumose di città… 

In conclusione, per chi si appassiona alle cifre piuttosto che alle sensazioni, sono circa 225 gli ettari a vigneto di tutto l’areale, per una produzione annuale che varia a seconda della qualità della vendemmia dai novemila ai novemilacinquecento ettolitri l’anno. Come già accennato possono richiedere hanno diritto all’appellation Vosne-Romanée anche alcune parcelle che allignano nei comuni confinanti di Vosne, come per esempio Flagey-Echezeaux; il quadro che ne viene fuori è un “vignoble” di 8 Grands Crus e 15 Premiers Crus, praticamente dei più conosciuti ed apprezzati di tutta la produzione vitivinicola francese. Qui ogni pianta è un piccolo gioiello donato all’uomo dalla terra, gelosamente custodito, non è difficile tra l’altro trovare lungo i filari continui inviti a non invadere il vigneto, non disturbare l’equilibrio naturale instaurato…

E questo perchè puntualmente, più che preoccuparsi dei numeri è proprio camminare le vigne il più emozionante dei passatempi borgognoni…

Morey St Denis, Domaine Dujac

23 giugno 2010

“Noi non crediamo nella grandeur dei vini di Borgogna, di certo non l’abbiamo mai percepita come un alibi, e sinceramente ne faremmo davvero a meno..!”

E’ quanto meno inaspettata, per non dire disarmante, una rivelazione del genere, una frase così esplicita, per niente malcelata e costantemente presente nell’aria in ogni momento successivo all’aver varcato la soglia del Domaine Dujac a Morey St Denis. Ma come? Verrebbe da chiedersi, e noi che almeno tremila chilometri più in là ci lasciamo scaldare l’anima e sbattere il cuore non appena ne sentiamo parlare, di Pinot Noir, di Borgogna, di Clos e di “pippe” varie ed eventuali sulla loro unicità, storia, fascino per di più sostenute da una bio-dinamicità-naturale che tanto significato ha in un mondo del vino in profonda conversione; In realtà, scusatemi il gioco di parole, è la pura e nuda realtà, definiamola pure cruda e mal servita, (praticamente sbattuta in faccia) ma che ci piaccia o no, questo è!

Questa è l’impressione che ci portiamo a casa dall’incontro con il giovanissimo Alec Seysses, figliol prodigo in quel di Morey St Denis, cuore dell’Haute Cotes de Nuits, che con il fratello ed il papà-winemaker Jacques si occupa a tempo pieno dei 16 ettari del domaine dislocati in circa 18 appellations tra i vari villages, premier e grand cru dell’areale. Come sempre la smentita è dietro l’angolo, della quale in verità ne saremmo davvero felici, per questo (e non solo) ci siamo ripromessi un nuovo passaggio da quelle parti ( 🙂 ). Stando ai fatti però, non è stato un buon approccio con il territorio, quello desiderato, auspicato, nonostante i vini serviti, evidentemente mal volentieri, ci hanno impressionato non poco, aiutandoci a capire che l’anima controversa del terroir borgognone è più marcata di quanto si possa pensare e che alcuni dei suoi interpreti più autentici per essere tali hanno necessità di privilegiare il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente, da veri e propri “espressionisti” del vino piuttosto che commercianti delle proprie emozioni. Queste, in sintesi, le impressioni sui vini più interessanti degustati, tutti prodotti seguendo il più austero dei protocolli biodinamici, dettato cioè da uno stile di vita piuttosto che dalla moda o la richiesta del mercato.

Marsannay 2008, appellation communale disposta a nord di Morey St Denis, sulla strada di Digione, dove dimorano i due ettari e mezzo di proprietà del Domaine votati perlopiù a chardonnay. Un vino bianco molto fresco, cioè asciutto e minerale, dal colore paglierino tenue e di media consistenza. Il naso è incentrato su note erbacee e floreali, fine ed elegante seppur non lunghissimo, in bocca è, come detto, secco e piuttosto sapido, molto gradevole la chiusura quasi citrina che riporta alla mente agrumi ed al palato una picevolissima sensazione di pulizia. Alla stessa stregua, per intenderci, di un ottimo Fiano del Cilento in tenera età.

Morey St Denis 2008, dalle vigne più o meno prospicenti il Domaine più altri conferimenti del circondario; naturalmente da uve Pinot Nero in purezza, viene vinificato, fermentato ed affinato esclusivamente in “pieces” di secondo e terzo passaggio. Il Colore è piuttosto scarico, rubino/granata con accennatiflessi aranciati, un naso decisamente empireumatico, che offre cioè un ven ritaglio olfattivo organico piuttosto accentuato: note tostate, secche, pungenti, per certi versi affumicate. In bocca è poco carezzevole, in effetti sappiamo benissimo che vini del genere hanno bisogno di almeno un lustro per venire fuori al palato, per rivelare cioè quella voluttà al palato tanto frequentemente espressa in certi Pinot Nero nostrani, ma non dunque di queste terre, di questi interpreti. Bel nerbo, acidità da vendere, finale di bocca lunghissimo, waiting for the glory.

Clos St Denis 1966, il cuore batte ancora mi verrebe da dire. Probabilmente, ripensandoci, il freddo Alec avrebbe voluto riservarci una accoglienza migliore, magari condensata da una manciata di sorrisi in più, non di circostanza, e offerto un panorama delle proprie attività nel Domaine un tantino più esaustivo. Eravamo lì per ascoltare, imparare, non certo per rubare, tempo e spazio. Si salva in “zona Cesarini”, tirando fuori dal caveau, assolutamente non visitabile questo Grand Cru che al tempo, ci dice, Grand Cru non era: “era il vino che circolava in casa, per gli amici, per i parenti”. Sfogliando gli annali scopriremo poi (mannaggia li sommelier!) che non si tratta della migliore delle annate in casa Dujac, e nemmeno della migliore tra le peggiori, un vino insomma del quale certamente non si va fieri. Invece il bicchiere svela una bella esperienza visiva e degustativa, non segnata da clamore e sospiri ma certamente degna di nota. Il colore è praticamente integro, le sfumature aranciate sono appena più marcate del precedente, e la trasparenza pure. Il naso offre un ventaglio olfattivo molto interessante, addirittura ancora spiritoso di frutta, ma balsamico, caramellato, speziato innanzitutto. In bocca è asciutto, austero, lineare sul finale di bocca, equilibrato e minerale.

Ci è piaciuto Morey St Denis, davvero un bel borgo, a misura d’uomo, come del resto tutti quelli visitati durante questo viaggio; La pioggia ed il grigiore del tempo non hanno intaccato più di tanto i colori e il fascino di una terra bellissima.

Non ci è piaciuto, unanimamente, la freddezza con la quale siamo stati accolti, soprattutto contando sul fatto che dai numerosi precedenti contatti non fosse assolutamente trasparita, decisamente una giornata no!

Non ci è piaciuta, l’abitudine del padrone di casa, dichiarata con estrema nonchalance, di recuperare il vino lasciato nei calici dai convenuti, utilizzato a suo dire, successivamente, per colmare le botti in affinamento: “è nettare prezioso, perchè sprecarlo!”

Il sogno di mezza estate, la mia Borgogna

19 giugno 2010

“E’ la sottile immensità del Pinot Nero  il solo racconto della bianca pietra della mia terra; il solo capace di scaldare gli animi e di frenare i sussulti.”

Prologo: è appena l’alba, l’aria è tersa e l’aereoporto di Capodichino comincia ad animarsi, il check in è abbastanza veloce, siamo fortunati, ci dicono, l’aereo è già li che ci attende, un Bombardier crj900 (!) puntato in direzione Torino: Borgogna stiamo arrivando!

Il volo è sempre una emozione stupenda, lasciarsi alle spalle la terra e varcare le nuvole provoca sempre un certo brivido; da qui l’azzurro del cielo in lontananza sembra più azzurro e la stessa luce che rimbalza sui flap delle ali dell’aereo prima di svanire nel nulla mi appare più limpida, luccicante. Nemmeno il tempo di raggiungere quota e la velocità di crociera (850 Km/h!) che sorvoliamo in un soffio le isole Pontine: adesso l’aria è chiarissima, Palmarola, con le sue rocce bianche, un graffio nel mare laziale; pochi minuti dopo ci lasciamo l’Elba alla nostra destra, adesso lì davanti, sotto le nuvole appena più dense, appare la costa ligure. Le nuvole d’un tratto si infittiscono, poi divengono grigie, gonfie, sul vetro passa sottile un rivolo d’acqua, è l’annuncio di un temporale: benvenuti a Torino!

Inizia da qui il sogno di mezza estate, la mia Borgogna, cronaca di una passione infinita, di un desiderio realizzato. Dopo poco ci riuniamo nel pullmann che attraverso il traforo del Frejus ci accompagna in terra di Francia attraverso la statale italo-francese costeggiata da un paesaggio ancora grigio sullo sfondo ma molto suggestivo, fatto di foreste di abeti, corsi d’acqua rocciosi e pontili sull’ignoto. 

Dopo un centinaio di chilometri ed una melanconica pausa caffé in un bislacco Café l’Arche (pessima interpretazione di un nostro Autogrill) ci immettiamo sulla dipartimentale che ci condurrà a Tournus, un piccolo borgo del 1100, avamposto della cristianità (testimonianza ne è la bellissima abbazia romanica di St. Philibert¤) ed oggi importante centro turistico-culturale dedito soprattutto ad una sopraffina offerta di artigianato locale, di tessuti impreziositi da ricami artistici in particolar modo, di rara bellezza. Più in là a poche decine di chilomentri, Chalon sur Saone,  praticamente la nostra porta sulla Borgogna… (continua)


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