Posts Tagged ‘pinot noir’

La Francia possibile, Chénas e Moulin à Vent, ecco come Philippe Pacalet ti legge Beaujolais!

23 Maggio 2019

Philippe Pacalet è uno dei più apprezzati produttori di Borgogna, si muove con destrezza tra Pommard, Gevrey-Chambertin, Meursault, Chambolle-Musigny, Puligny-Montrachet, Vosne-Romanée, Nuits-Saint-Georges dove si è scelto con cura alcune piccole particelle dove mettere le mani, talvolta accontentandosi addirittura di pochi filari. Da queste ci fa almeno 25 vini diversi, starci dietro può essere davvero un’impresa, anche se molto piacevole.

Con questi presupposti i suoi sono generalmente piccoli capolavori di finezza ed equilibrio, ne abbiamo le prove e ci torneremo su a breve. Questi invece sono due vini certamente poco conosciuti qui in Italia, se non delle vere e proprie rarità, comunque da considerarsi due splendidi rossi provenienti dalle Aoc Chénas e Moulin-à-Vent, due dei 10 Crus del Beaujolais ai quali Pacalet, a suo modo, ha voluto dare degna interpretazione. Chénas è la più piccola tra le denominazioni di questo pezzo di Borgogna con i suoi 227 ettari, appellation per la verità un po’ disattesa perché i vini qui prodotti possono essere generalmente rivendicati anche sotto la più nota – e redditizia, ndr – Aoc Moulin-à-Vent.

Qui la terra è di origine granitica e i terreni sono perlopiù caratterizzati da argille e sabbie. Il vino è prodotto al 100% con uve Pinot Nero, ha un bellissimo colore rubino intenso, il naso è piacevolissimo, intriso di note floreali e frutti rossi  e neri, ciliegia, uva spina, mirtilli, more. Il sorso è gradevolissimo, sottile e di grande equilibrio gustativo, in particolare quando servito intorno ai 14°, fresco rivela pienamente tutto il suo fascino evocativo. Lo Chénas duemiladiciassette di Philippe Pacalet è una piacevolissima sorpresa!

Un passo avanti, per struttura e complessità è il Moulin-à-Vent pari annata prodotto però con 100% da uve Gamay. L’Aoc qui copre poco più di 640 ettari, anche da queste parti i terreni sono costituiti perlopiù da suolo granitico ricoperto da sabbie di origine alluvionali, sono quindi terreni magri e ben drenanti. L’Aoc prevede inoltre la distinzione di 15 particelle, i cosiddetti lieux-dits che possono talvolta essere riportate in etichetta: Les Carquelins, Les Rouchaux, Champ de cour, En Morperay, Les Burdelines, La Roche, La Delatte, Les Bois maréchaux, La Pierre, Les Joies, Rochegrès, La Rochelle, Champagne, Les Caves, Les Vérillats.

Anche in questo caso ci ritroviamo nel bicchiere un bel rosso dal colore rubino luminosissimo, con sfumature violacee, dal naso molto intenso e ampio, si coglie anzitutto violetta, con ancora i frutti rossi e neri maturi a prevalere: ciliegia, ribes a cui si aggiungono sentori speziati e balsami. In bocca ha chiaramente una marcia in più, ha struttura invitante e un po’ più carnosa, eppure di grande bevibilità, avvolge il palato con tanto frutto e una trama tannica sottile, ben tesa e fine, il sorso è vellutato e gaudente. Imperdibile! 

Leggi anche Corton-Charlemagne 2010 di Philippe Pacalet Qui.

Philippe Pacalet¤ è distribuito in Italia da Balan.

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Savigny-Lès-Beaune 1er Cru Cuvée Arthur Girard 2005 Hospices de Beaune

8 febbraio 2019

Questi luoghi possiedono un fascino incredibile e quando ci metti piede te ne porti via con te un pezzettino che conservi gelosamente per sempre. Qui, all’Hôtel-Dieu¤, ogni anno, da quasi 160 anni, a novembre, va in scena l’asta dei vini che contribuisce in maniera decisiva all’economia dell’Hospices, fondato nel 1443 dal cancelliere del duca di Borgogna, Nicolas Rolin nonché a sostenere tante altre iniziative benefiche sparse nel mondo.

Savigny-Les-Beaune Cuvée Arthur Girard 2005 Hospices de Beaune - Foto L'Arcante

A Savigny-Lès-Beaune di vino se ne fa tanto, il villaggio infatti sembrerebbe essere terzo solo a Mersault (che fa essenzialmente bianchi) e Gevrey Chambertin (rossi) per le quantità di vino negoziate ogni anno. L’appellation inoltre trae senz’altro giovamento anche dal più ampio e riconosciuto successo dei nobili vicini, pur garantendo Pinot Noir sempre abbastanza netti, ancorché sgraziati, ma molto vicini alla qualità dei più ricercati rossi di Beaune, con a favore un rapporto prezzo-qualità davvero affidabile, almeno nel 80-90% dei casi.

L’etichetta che vi raccontiamo richiama la memoria di Arthur Girard che alla sua morte, nel 1936, donò una parte dei suoi beni di proprietà all’Hôtel-Dieu, tra questi i terreni a Savigny-lès-Beaune les Guettottes, les Peuillets, les Hauts Marconnets e Bas Marconnets, les Lavières, les Charnières, les Champs Charbons e Aux Fourches. La Cuvée che porta il suo nome viene generalmente prodotta con le uve provenienti principlamente dai due Premiers Cru les Bas Marconnets e les Peuillets proprio a ridosso di Savigny.

L’impronta di questo duemilacinque è importante, è una piacevolissima esperienza sensoriale, il colore è splendido, una pennellata di vivace rosso rubino, trasparente e luminoso. Il naso è ampio e intenso, sa di frutti rossi ben maturi, amarena e susina, note di sottobosco, poi cuoio, tabacco biondo e pietra bagnata, infine spezie fini. Il sorso è vibrante, il vino ha una tessitura fine e buon nerbo, non ha la profondità dei grandi vini di Borgogna ma il tannino è vivido e chiude con una carezza il finale di bocca. Come tutti i vini provenienti da questo areale e con questa etichetta anche questa bottiglia è un buon affare che coniuga al meglio la suggestione dell’istituzione con una buona sostanziale rappresentazione territoriale.

Leggi anche Viaggio in Borgogna, Vosne-Romanée Qui.

Leggi anche Viaggio in Borgogna, Gevrey-Chambertin Qui.

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Il gelo in Borgogna, un colpo al cuore!

30 aprile 2016

Nelle scorse giornate del 26 e 27 Aprile delle gelate inaspettate hanno fatto un bel po’ di disastri nelle vigne di molte aree dell’Europa continentale, alcune di queste aree hanno subito perdite ingenti, in certe zone sino al 100% del raccolto 2016 nemmeno sbocciato, come in Stiria in Austria.

Veglia notturna per le gelate in Borgogna - foto Bourgogne Libe

Anche in Italia si sono registrati problemi, in alcune zone più di altre come in Abruzzo, Molise, Toscana e Liguria ad esempio, e anche qui in Campania, in alta Irpinia, dove però sembra ancora presto per fare un bilancio dei danni.

Non si può dire la stessa cosa per la Francia, in particolar modo per alcune aree tanto care un po’ a tutti noi, in Loira e Provenza e ancora in Champagne e Borgogna, da Chablis a Meursault dove tra le varietà più colpite proprio lo chardonnay, notoriamente precoce ma anche nei comuni più a sud e per il pinot noir di prestigiose appellations come Volnay e Pommard. Qui le prime stime raccontano di danni tra il 60 e l’80% del raccolto 2016. Scontata e sentita la vicinanza a tutti i vigneron d’oltralpe.

Una delle rappresentazioni del momento che più mi ha colpito è questa foto scattata in Svizzera, nel Cantone dei Grigioni dove, proprio come in Borgogna, i viticoltori hanno trascorso notti insonni vegliando le vigne con piccoli fuochi per riscaldare le piante e scongiurare così il gelo.

Immagine che ha fatto il giro del mondo con la quale ripropongo un commento di François Despierre di Bourgognelive.com sul particolare momento francese. Da qui il nostro invito è di tenere duro e guardare avanti con forza e coraggio, Allez mes amis!!

“Quel contraste entre la beauté des photos et l’angoisse des vignerons qui ont passé plusieurs nuits à veiller sur leur trésor ! Pour l’avoir vécu à leur côtés ces photos reflètent bien ces nuits surréalistes […] la beauté des images et la dure réalité derrière, car tout le monde dans les vignobles de Bourgogne, de Loire, de Champagne, de Cognac et même de Provence n’a pu malheureusement éviter l’attaque du gel sur les jeunes bourgeons”.

”On connaitre la semaine prochaine un premier bilan officiel des dégâts mais à la vue des nombreuses photos postées cette semaine et des commentaires des vigneron(nes), cela risque d’être important”.

“On ne peut qu’être admiratif face à toutes ces personnes qui chaque année confient leur travail à la nature qui décide elle seule de donner ou de prendre”.

François Despierre, Bourgogne live¤.

Foto Silvain Ross, tratta dal web.

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Rovereto, Pinot Nero 2010 Elisabetta Dalzocchio

3 giugno 2014

A dirla con tutta sincerità ultimamente faccio uno sforzo enorme anche solo a tirare le fila di una recensione degna di questo nome. La testa è altrove, un giorno per una ragione un giorno per un’altra.

Vigneti delle Dolomiti Pinot Nero 2010 - Elisabetta Dalzocchio, foto A. Di Costanzo

Fortuna che c’è il pinot nero, mi verrebbe da dire, un bene di rifugio non certo per stipare grana – ad avercela quella! – ma quantomeno utilissimo a rilassare i nervi tesi e rasserenare l’animo.

I vini di Elisabetta Dalzocchio mi sono sempre piaciuti, certo sono difficili da raggiungere, non sempre disponibili quantomeno per me che sono costretto a programmare i miei acquisti talvolta con largo anticipo altre con colpevole ritardo, il suo pinot nero però è sempre degno di attenzione ed ammirazione che merita di essere rincorso.

Un piccolo gioiello per grandi appassionati. Chi l’ha veduta dice che l’azienda è di una suggestione notevole, circondata da montagne, boschi di querce e piante di conifere, immersa in un ambiente unico. Poco più di due ettari, una manciata di bottiglie, quattro, forse cinque sorsi e via, finito.

Il naso quasi mai dice tutto subito, anzi, qui su questo 2010 pare giocare a nascondino, dispettoso e frugale. Si smarca continuamente, almeno però ti lascia cogliere il meglio delle sue innumerevoli sfumature, un po’ varietali ma soprattutto dall’impronta fortemente identitaria: sa di queste terre, di sottobosco, erbe officinali, té nero, di mandorla. Il sorso ha spessore e grande matrice, spiega un lunghissimo tempo avanti e chiede pazienza, il che rende questo assaggio solo un primo piccolo consiglio per gli acquisti. Di certo non ve ne pentirete!

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Champillon, Les Perles de la Dhuy ’05 Autréau

2 novembre 2013

Champagne Grand Cru Prestige Millésimé Les Perles de la Dhuy 2002 Autréau de Champillon - foto L'Arcante

A guardare in giro sembra sempre sfuggirti qualcosa ma la differenza che passa tra gli Champagne e gli altri sta proprio nel fatto che da quelle parti sono possibili continuamente nuove scoperte.

Gli Autreau¤ si danno da fare dalle parti di Champillon, nei dintorni di Epernay sin dal 1670. Ma quello che portano in bottiglia oggi sono una piccola serie di buone etichette (poche bottiglie per la verità) che dalle nostre parti sfuggono ai più ma che grazie all’amico Andrea Gori¤ ho pensato di andarmi a cercare per capirci qualcosina in più. La chiave di lettura appare molto semplice ma al contempo estremamente contemporanea: bevibilità!

Questo Champagne Prestige Millésime Grand Cru ’05 è secondo me la loro punta di diamante. Fa tesoro di un millesimo straordinario, proprio per questo non ha sovrastrutture inutili e cosa a me sempre molto cara non ha bisogno di un libretto d’istruzione prima dello stappo. Nel senso che a leggere l’etichetta tutto quello che pensi di trovarci dentro te lo ritrovi pari pari nel bicchiere. Chardonnay della Cote des Blancs (Chouilly) e pinot noir in larga parte di Ay per una cuvée di straordinaria intensità, fittezza ed eleganza. Il naso è pulito, fresco e balsamico, sa di frutto della passione e ananas, menta ed erbe di montagna e chiude delicato e sapido con un ritorno finale di note dolci d’acacia. Una bottiglia davvero deliziosa!

Echezeaux Grand Cru 2011 Liger-Belair

17 agosto 2013

Hanno ripreso a fare vino da poco più di vent’anni i Liger-Belair¤, se vi va, qua¤ potete leggerne di più sull’azienda, la loro filosofia, i loro vini importati in Italia da Gaja Distribuzione¤.

Echezeaux Grand Cru 2011 Liger-Belair

Inutile sottrarsi a un po’ di sana riverenza davanti a certe bottiglie, al blasone del nome di quella terra¤, al cospetto di un pinot noir tra i più ricercati e apprezzati al mondo. Ad ogni buon conto l’Echezeaux Grand Cru 2011 di Liger-Belair è un grande vino. Emozionante!

Va però sottolineato che berlo oggi, scriverne oggi, tentare di descriverlo compiutamente oggi è un mero esercizio di stile che riduce (di molto) lo slancio emotivo che questa etichetta riuscirà senz’altro a regalare nei prossimi 30 anni.

Detto questo, vale la pena lasciare traccia di qualche appunto. E’ impressionante la centralità del frutto, in primissimo piano e già finissimo ed elegante, incastonato tra balsami e sentori speziati dolcissimi. Ha spessore, una chiara e rilevante trama acido-tannica, di una lunghezza infinita. E non fa che migliorare sorso dopo sorso. Il giorno dopo, quella mezza bottiglia, l’ho ritrovata ancor più invitante, inebriante, succosa del giorno prima.

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Qui¤ e qui¤ su NonSoloDiVino¤, altro materiale interessante da leggere.

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Savigny-les-Beaune 2005 Leroy

24 novembre 2012

Savigny-les-Beaune (in italiano suonerebbe Savigny “vicino” Beaune, ndr) è un grande villaggio nella Cote de Beaune, sul versante della Cote d’Or in Borgogna, regno incontrastato del pinot noir.

Qui si fa tanto vino, il villaggio infatti sembrerebbe essere terzo solo a Mersault (che fa essenzialmente bianchi) e Gevrey Chambertin (rossi) per le quantità negoziate ogni anno. E l’appellation trae senz’altro giovamento dal più ampio e riconosciuto successo dei nobili vicini, pur garantendo – al di là di questa blasonata etichetta di Leroy che sembra piovuta dal cielo -, pinot noir sempre abbastanza netti, anche quando sgraziati, e molto vicini alla qualità dei più ricercati rossi di Beaune; dato poi mai trascurabile quando si va per questi mari, con un rapporto prezzo-qualità davvero affidabile, almeno nel 90% dei casi. 

Di Leroy, per chi non ne sapesse, val bene ribadire solo un paio di cose. Oltre a possedere il 50% del Domaine de la Romanée-Conti è anche tra i più ricercati ed affermati Negotiàns di Borgogna con, tra l’altro, vigne di proprietà un po’ ovunque, sia Grand Cru che Premier Cru e tutte a conduzione biodinamica certificata, compreso il climat les Narbantons a Savigny-les-Beaune da dove nasce l’omonimo primo vino e, nelle annate più floride come la duemilacinque, anche questa seconda etichetta. E poi c’è lei, M.me Lalou Bize-Leroy, molto più di una semplice icona, un mito vero e proprio che, per dirla con Michel Bettane “Leroy ricorda puntualmente a tutti quale sia la sostanziale differenza tra un vino molto buono ed uno invece semplicemente grande”.

Questo Savigny-les-Beaune 2005 di Leroy ci mette un poco a venire fuori, ma quando comincia ad aprirsi offre veramente una bella esperienza degustativa; ci tengo infatti a sottolineare che non è affatto una banalità approcciarsi a bottiglie come queste con una certa attenzione, dalla loro conservazione al servizio, dalla ricerca della giusta temperatura allo stappo definitivo. Che poi proprio questa ricordavo avesse passato pure un paio d’anni non proprio facilissimi nella mia cantina di casa, tanto che infatti ne portava evidenti alcuni segni: il tappo sembrava aver ceduto leggermente così il vino aveva cominciato a sfuggirgli lievemente, sino a bagnarne praticamente tutto il sughero. Pensandoci un po’ su l’avevo riposta per qualche ora in frigo, tenendola intorno ai 14 gradi prima di stapparla; nel servirla poi ho preferito non caraffarla, per berla lentamente, condividendola e seguirne così l’evoluzione sorso dopo sorso: un rosso che alla fine s’è rivelato decisamente coivolgente!

All’approccio subito una nota animale, quel sentore che di solito si definisce “foxy”, quindi note di sottobosco, poi di tabacco biondo e pietra bagnata. Ma il bello sembrava dovesse ancora venire: cominciava infatti a rivelarsi il frutto, maturo e di spessore, che sapeva di amarena e susina, quasi dolci, mentre sul finale di bocca tendeva a sferzare il palato con gran nerbo e un tannino vispo e anche un po’ rude. Non certo un vino “facile” questo Savigny, nel senso che va aspettato (non in eterno però) e “letto” con molta attenzione. Ma che sia buono lo capisci sin da subito, e che, nonostante venga fuori da un’appellation sicuramente minore, si comporta da gran vino, pure. In fondo, non è tutto qui lo spread enoico tra Francia e Italia?

L’eau de roche, o più semplicemente Champagne d’autore. La più bella bevuta dopo il week-end

2 novembre 2012

Ci sono bevute che rimangono ben fisse nella memoria. E poi le bottiglie, quelle che Anselme Selosse vuole fatte con “eau de roche” – “acqua di roccia”, da ricordare per sempre. Con chi le fa, quei luoghi, le storie che raccontano. E poi ci sono altre persone, quelle con le quali le vivi certe esperienze, che contribuiscono a farne momenti definitivamente indimenticabili. Così viene una delle più belle esperienze degli ultimi tempi, fatta con tanti amici del cuore e guidati da uno dei massimi esperti sull’argomento, Pepi Mongiardino.

Philipponnat Réserve Spéciale Brut 1983Négociant/Manipulant*Mareuil-sur-Aÿ. Una di quelle bottiglie che ti fanno fare pace con il tempo. Avevo appena otto anni nell’83 e, di lì a poco, mi sarei già perso qualcosa di straordinario. Venne prodotto con in larga parte pinot noir di Aÿ e Mareuil-sur-Aÿ e un saldo del 30% di chardonnay della Côte des Blancs; oggi, dopo quasi tent’anni, ha un colore che è oro colato e un naso che è una porta a oriente. Il sorso conserva ancora tanta buona freschezza, e un guizzo minerale importante e lungo. Meravigliosamente maturo.

Philipponnat Royale Réserve Non Dosé. 30-35% chardonnay, 40-50% pinot noir e 15-25% pinot meunier. Tecnicamente è una cuvée Première di uve Premier e Grand Cru; senza girarci troppo intorno invece, è una di quelle bottiglie che in due finisce in men che non si dica. Appena versato regala una spuma molto densa, ha un colore paglierino tenue e un naso piuttosto avvenente centrato sull’esotico e note agrumate (cedro, chinotto, kumquat). In bocca è asciutto, di buon corpo e gradevolmente citrino. 

Gaston Chiquet Millésime Or Premier Cru 2003 – Récoltant/Manipulant*Dizy. Cuvée composta per il 40% da chardonnay e 60% da pinot noir dalle vigne di Hautvillers, Dizy e Mareuil-sur-Aÿ. E’ lo Champagne per chi ama bulles decise, grasse, con un timbro più da vino a tutto pasto che per allietare il palato ad inizio corsa. Ha colore oro antico, il naso è tra i più ricchi e complessi della batteria: frutta secca, pane tostato, nocciola, burro fuso. Il sorso è avvolgente, con poche spigolature, si distende morbido e rimane lungamente persistente. Bisogna amarlo. 

Jacques Selosse Initial Grand Cru Blanc des Blancs Brut – Récoltant/ManipulantAvize. 100% chardonnay. Il primo fuoriclasse della batteria, fermo restando le splendide impressioni della Réserve Spéciale ’83 di Philipponnat. E’ generalmente composto da tre annate successive che fanno elevage sui lieviti in bottiglia per almeno 2 anni e mezzo, durante i quali le bottiglie vengono spostate e nuovamente accatastate in cantina, due volte, favorendo così la rimessa in sospensione dei lieviti. Il colore è di uno splendido paglierino brillante, le bulles sono fini e assai persistenti. Il naso è variopinto, parecchio balsamico ma ciò che conquista di questo vino è il sorso, tremendamente minerale, lungo, dritto, sgraziato, tale da regalare un bicchiere sempre diverso dal precedente. Una escalation piacevolissima. 

David Léclapart  L’Apotre Premier Cru Blanc des Blancs Extra Brut – Récoltant/ManipulantTrépail. Léclapart è uno di quelli che ha saputo cogliere dal fenomeno biodinamica tutto il meglio possibile. L’Apotre viene fuori da una piccola e unica vigna di chardonnay con piante vecchie oltre 50 anni. Conserva tutto il carattere varietale innescato da una esecuzione magistrale: splendido il colore paglierino, brillante, ha naso fitto, burroso, intriso di richiami agrumati e di spezie dolci. Lo caratterizza una piacevolissima sapidità e grande bevibilità.

Jérome Prévost La Closerie Les Béguines Blanc des Noirs Extra Brut Récoltant/ManipulantGueux. Uno degli allievi di Anselme Selosse. Les Béguines colpisce immediatamente per la sua finissima complessità, anzitutto al naso, dove si coglie subito l’ottimo lavoro col legno su uno Champagne 100% pinot meunier quasi sempre di non facile lettura. Solo il sorso è un po’ in ritardo, un tantino scomposto, forse un po’ duro rispetto all’armonia che anticipa un naso così quadrato. Una di quelle bottiglie da saper aspettare, o da prendere così com’è. 

Philipponnat Royale Réserve Millésimée ’99. 70% pinot noir da Aÿ e Mareuil-sur-Aÿ e 30% chardonnay della Côte des Blancs. Ha dalla sua tanta voluttà ed una certa struttura, d’altronde con un uvaggio del genere non potrebbe essere altrimenti. Il colore è tra i più maturi della batteria subito dopo l’Or di Chiquet. Il naso offre immediatamente tanti spunti, ha buona materia e si sente subito: è ampio, maturo, con al centro frutta gialla, camomilla, zenzero, e cedro candito. Il sorso è sapido, di corpo, quasi grasso se non fosse per una sferzata citrina che arriva proprio in chiusura di bocca. Una di quelle bottiglie da mangiarci su persino degli arrosti. 

Fernand Thill Grand Cru Brut RoséRécoltant/ManipulantVerzy. Marie Thérèse Thill è una delle poche donne in Champagne immerse completamente con le mani in pasta. Questo suo rosé è composto con il 90% di chardonnay e un 10% pinot noir di Bouzy. Colpisce il colore, ciliegioso, quasi da saignée. Il naso infatti è caratterizzato soprattutto da questo corredo di piccoli frutti rossi e neri tipico proprio degli Champagne rosé prodotti in questa maniera. In bocca però sparisce troppo in fretta, il ché se da un lato gli dona grande bevibilità, per contro non conferma l’avvenenza del naso che induce a pensare ad un quadro organolettico, nel complesso, di maggior respiro. Rimane però un buon sorso d’ouverture. 

Egly-Ouriet Grand Cru Brut Rosé – Récoltant/ManipulantAmbonnay. 65% pinot noir, vinificato in legno per il 40% di cui il 10% composto da vini base della Coteaux Champenois e 35% chardonnay. Francis Egly rimane per me un riferimento assoluto, ha dalla sua una straordinaria capacità, quella di saper leggere, in prospettiva, ognuna delle sfumature dei vini che gli vengono ad ogni vendemmia. Della diversità infatti, ne fa un tratto imprescindibile della sua opera di chef de cave. E il suo Grand Cru Rosé è il suo manifesto. I vini base vanno a fermentazione naturalmente, senza lieviti aggiunti (si utilizzano solo lieviti indigeni) e la messa in bottiglia avviene senza filtraggio né collaggio*, con un dosage di appena 2 g/l. Il colore è un po’ più luminoso del ramato, il naso è un trionfo di fiori e frutti rossi, il sorso poi è disincantato, vinoso, avvolto dalla sapidità e dalla persistenza del frutto.

Prodotti distribuiti in Italia da Moon Import.

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Récoltant/Manipulant, in etichetta RM: indica un produttore che possiede vigneti e che produce Champagne con il proprio raccolto. Per legge è possible acquistare un massimo del 5 per cento di uve da terze parti.

Négociant/Manipulant, in etichetta NM: indica un produttore di champagne che compra uve di altri e le assembla per elaborare e commercializzare il vino; si tratta in generale di Champagne pregiati, prodotti soprattutti dalle case dai nomi più famosi.

Collaggio: Pratica enologica di chiarificazione e stabilizzazione del vino mediante l’uso di additivi. Così facendo, le particelle sospese vengono portate sul fondo del recipiente. Il collaggio permette anche di ammorbidire i vini liberandoli dalle sostanze polifenoliche molto astringenti.

Reims, Champagne Cuvée Brut Rosé Alain Thiénot

7 settembre 2012

Il mio riferimento sotto il Prestige Rosé di Taittinger – per rapporto prezzo/qualità incredibile! – rimane il Blason Rosé di Perrier Jouet. Poi ti capitano a tiro cuvée come questa, e non si può non dedicargli almeno due righe: il Rosé Brut di Thiénot è proprio un gran bel bere.

Viene assemblato con una buona percentuale di pinot noir di cui una discreta quantità proveniente da vini base di vecchie annate, poi chardonnay e quindi pinot meunier. Per dirla con le stesse parole di Alain Thiénot, ha tutta la qualità, il carattere e l’eleganza che uno Champagne – un rosé in particolare, aggiungo di mio -, è importante possa garantire all’appassionato.

E’ da un po’ che ci ritorno su con una certa continuità, mi piace molto questa cuvée, è proprio una bella scoperta, ha equilibrio e franchezza: bello il colore salmone brillante e assai attraente (florida e cremosa) invece la spuma. Al naso, smarriti quasi immediatamente i classici sentori post-fermentativi s’innescano piacevoli tonalità di piccoli frutti rossi e neri e lievi sentori di spezie dolci; les bulles non sono fittissime ma piuttosto persistenti e fini. Ha sapore asciutto e delicato, il sorso è fresco, comincia amabile e finisce meglio, rotondo ed appassionante. E’ senza dubbio un bell’asso nella manica.

Beaune, Corton-Charlemagne ’10 Philippe Pacalet

30 agosto 2012

Un bianco sontuoso, quadrato, impeccabile. Ha un colore biondo luminoso, mentre il naso è un portento: ampio, fitto, orizzontale. Il sorso è subito materico, va però sciogliendosi dolcemente in bocca, lentamente, sino a dissolversi rarefatto e minerale…

Qualcuno di voi lo conoscerà senz’altro, questo qui è Philippe Pacalet, di mestiere fa il Négotiant e sta in Borgogna dove si prende cura – più o meno – di circa 9 ettari di vigna. Ci fa generalmente grandi vini. Si muove con destrezza tra Pommard, Gevrey-Chambertin, Meursault, Chambolle-Musigny, Puligny-Montrachet, Vosne-Romanée, Nuits-St. Georges dove si è scelto con cura alcune piccole particelle dove mettere le mani, talvolta accontentandosi addirittura di pochi filari. Da queste ci fa almeno 25 vini diversi, starci dietro può essere davvero un’impresa. Anche se molto piacevole.

Sa il fatto suo sia sul pinot noir che sullo chardonnay (più sul primo che sul secondo, a dirla con tutta franchezza), è uno che in vigna ci sa fare e per questo tra i cosiddetti vini naturali le sue selezioni sono tra le più ricercate ed ambite. I rossi hanno generalmente bisogno di un po’ di tempo per distendersi ma non è trascurabile la loro finezza sin dalla giovine età. Talvolta possono essere un vero e proprio manifesto dell’annata. I bianchi, Chassagne-Montrachet, Puligny-Montrachet e Corton-Charlemagne su tutti, forse una decina d’anni in meno ma quest’ultimo, a mio modesto parere, rimane il più buono in assoluto: in poche, semplici, esaustive parole, c’è tanta vita qua dentro.

Addendum: e non mi venite a dire che mi piace vincere facile e che è troppo presto per stappare un Corton-Charlemagne 2010 perché lo so ma non me ne può fregar di meno!

Cristal 1997 (Magnum) Louis Roederer. Belle sono belle, e vivaci… ma che sapore hanno le stelle?

17 agosto 2012

Scrivevo un paio di post fa di quanto è veramente buono il Cristal di Louis Roederer, ma anche quanto fosse importante, necessario per certe bottiglie – nonostante la cronaca ce le racconti come superlative e che la storia ce le consegna come icone assolute – conquistarsi ogni volta i galloni che portano in dote…

Così a meno di una settimana dall’assaggio del 2004 ecco con questo ‘97 la riprova della straordinarietà di questo celeberrimo Champagne; un’etichetta ahimè spesso contrastata più per un principio anticonformista che per altro. E’ notorio infatti come questa cuvée de prestige soffra terribilmente di un’immagine sovraesposta e spesso controproducente: uno Champagne da esibizionisti, perfetto per chi desidera ostentare la propria ricchezza, il proprio potere o più semplicemente l’eccitazione del momento.

Il primo di tutti fu lo zar Alessandro II per il quale Louis Roederer in persona nel 1876 confezionò per la prima volta questa cuvée nella storica bottiglia trasparente a fondo piatto, in quell’epoca di cristallo, da cui poi prese il nome. Ancora oggi viene fuori dai migliori vini base pinot noir e chardonnay e solo da vigne di proprietà della Montagne de Reims, Vallée de la Marne e la Côte des Blancs. Il Cristal rimane nelle caves della maison di Reims almeno 6 anni (a volte anche 7) prima della commercializzazione; quasi sempre però, questo è un consiglio personale appassionato, è bene puntare, laddove è possibile a millesimi con almeno 2/3 anni in più sul groppone. Arrivando magari ai 10. Il perché è presto svelato, sta tutto nella tagliente acidità che questo Champagne si porta dietro per almeno 20 anni, nonostante la maturità di frutto ed una certa grassezza espressa in alcuni millesimi più che in altri; il timbro gustativo, grazie anche ad un dosaggio volutamente contenuto intorno agli 8-10 g/l, rimane sorprendentemente fresco e prodigo di stilettate oltreché di vibrante mineralità.

Ha una grande personalità questo Cristal 1997, nonostante i 15 anni lo facciano pensare ancora nella piena adolescenza (!). Il colore è appena appena maturo ma luminoso, il naso rimane inizialmente un tantino curvo su note salmastre che vanno però via quasi immediatamente consegnando uno spettro olfattivo niveo, di grande fascino e profondità centrato – ancora – su toni esotici, agrumati e minerali. In bocca è appena materico, il sorso comincia grasso e un poco nocciolato ma poi riporta alle papille deliziosi sapori balsamici e agrumati. Infinitamente vivace e sapido. Da almanacco dei ricordi indimenticabili!

Chiacchiere sotto l’ombrellone, tra sconosciuti

2 agosto 2012

Capita una mattina di ritrovarsi sotto l’ombrellone a fare due chiacchiere sulla sera prima: l’aperitivo al tramonto, l’atmosfera unica al Faro di Anacapri, le grasse risate per quel vassoio rovesciato – l’imbarazzo della cameriera per aver rovinato quel vestito di Prada è impensabile! -, ma soprattutto l’ottima cena e, immancabili, le buone bottiglie bevute. Bottiglie per una volta sconosciute. E sorprendenti…

Quando si ha una idea precisa di cosa sia o cosa possa divenire nel tempo uno Champagne, anche un assaggio controverso può rivelarsi invece una bella scoperta da appuntare subito sul taccuino, ovvero mettere subito in rete. Sconosciuta e sorprendente era l’etichetta Prestige Brut 2003 di Jacques Picard, récoltantmanipulant a Berru, un paesino di poche anime appena fuori Reims; i protagonisti, ancor più sconosciuti, sono José Lievens e sua moglie Corinne Picard, che dalle loro migliori vigne tirano via uva per circa 8.000 bottiglie di questo ottimo haut de gamme, una piccolissima fetta di quella immensa torta che è il mercato dello Champagne, una fetta però dolcissima e imperdibile.

Ecco perché ci ritornerò su volentieri, non appena possibile; per adesso val bene segnalarvi che trattasi di una bella storia d’amore sbocciata tra le vigne, di agricoltura sostenibile e di uno stile champenois tagliente e implacabile – controverso, appunto – e di prezzi vivaddìo più che umani.

E sconosciuta era la bottiglia di Vita Menia 2011, rosato da piedirosso e aglianico prodotto nelle vigne a Raito, minuscola frazione sopra la costiera amalfitana, sopra il mare di Vietri per intenderci. Panorama mozzafiato, la vigna qui è tutta a conduzione biologica. Di questo sottile e profumato rosato se ne fanno appena seicento bottiglie l’anno, Patrizia Malanga ha voluto mandarmene qualcuna; un pensiero prezioso, almeno quanto il vino saggiato.

Bello e invitante il colore cerasuolo, il naso è ciliegioso ma anche un po’ marino, mentre il sorso è secco, leggiadro e sapido. Il frutto ritorna perentorio in bocca, aggraziando il palato sollazzato da una beva fresca e gradevole. Andatela a trovare Patrizia, siete ancora in tempo per sposare il mare alla vigna che lì, dalle quelle parti mi dicono essere entrambi bellissimi. 🙂

Aloxe, Aloxe-Corton 2006 Joseph Drouhin

4 Maggio 2012

Con i suoi 73 ettari il Domaine Joseph Drouhin è una delle realtà più importanti di tutta la Borgogna. Un Négociant col tempo divenuto un riferimento assoluto tanto che oggi possiede vigne praticamente in tutta la regione: 39 ettari a Chablis, 30 in Côte de Nuits e Côte de Beaune, 3 ettari nello Chalonnaise e tutti perlopiù Premier e Grand Crus.

Dei vini di Drouhin oltre alla precisa espressività delle varie appellations ho sempre apprezzato anzitutto il loro rapporto prezzo-qualità, penso quasi mai al di sotto delle aspettative, soprattutto sui bianchi di Chablis. Poi che dire, un suo pinot noir Village è già un approccio raccomandabile oltre ogni ragionevole dubbio, ma quando si cominciano a stappare le prime bottiglie di appellations communales di maggiore rilevanza si intuisce subito quanto conti, soprattutto per i neofiti, poter contare su un riferimento del genere.

Aloxe è un suggestivo borgo situato a nord di Beaune, si distende appena sotto la collina imponente di Corton dove insistono come è noto diversi vigneti Grands Crus sia a chardonnay – quel Corton Charlemagne lì nella foto vi ricorda qualcosa? – che a pinot noir (l’omonimo Corton o i meno famosi Grèves e Pougets, giusto per citarne alcuni).

Il terreno qui è calcareo con una grande concentrazione di ossido di ferro, la terra è infatti rossastra ed i vini che ne vengono fuori un carattere talvolta davvero inconfondibile. Tanti gli ettari di proprietà, ma si lavorano anche uve in mano a conferitori di lunga data con i quali esistono talvolta intese ultraventennali che riescono così a garantire una qualità costante nel tempo nonostante i numeri.

Questo Aloxe-Corton 2006 ha fatto circa tre settimane di fermentazione ed affinamento su lieviti indigeni, in acciaio, poi finisce in piéces per circa 18 mesi. Il vino mostra un colore splendido, una pennellata di vivace rosso rubino, trasparente ma con una luminosità assai avvincente. Il naso è fulgido, imponente, il ventaglio olfattivo si apre con note di frutta candita e sentori muschiati, subito dopo arrivano spezie fini e nuances più eteree, di pietra minerale, cuoio e pellame conciato. Il sorso è asciutto, di fine tessitura, piacevolissima la nerbatura acida che ne accompagna la beva, del tannino invece solo una caratteristica carezza sul finale di bocca.

In poscritto: delle regole di servire certi vini alla giusta temperatura ne sono pieni i manuali, però mai come in questo caso val bene rimanere intorno ai quattordici gradi per riuscire a godere al meglio di tutte, proprie tutte le invitanti sfumature che questo vino saprà regalare; e anche il gusto, vedrete, ne guadagnerà senz’altro!

Newberg, Estate Pinot Noir ’05 Patricia Green

4 febbraio 2012

Generalmente riesco a farlo con una certa convinzione, non che mi metta a definire un calendario, sia chiaro, sarei un tantino esagerato se lo facessi. Però aspettare, saper aspettare un vino, rimane una di quelle belle cose che donano senz’altro al vino e al suo mondo quell’irresistibile fascino per cui merita d’essere raccontato.

Avevo questa bottiglia da più o meno cinque anni, conservata là, nella cantinetta dei miei coups de coeur; un regalo prezioso ed apprezzato da parte dei miei amici Steve e Tammy, prima della loro partenza definitiva per gli states. Se ne tornavano a casa, o su di lì. E ci tenevano ch’io saggiassi, prima o poi, questa etichetta, che ritenevano tra le più “vere” espressioni del pinot nero in Oregon.“Patty Green fa vini con uno stile ben definito, non è difficile che ad alcune persone non piacciano, ma vale la pena provarli”, mi dissero. Così decisi di tenerla lì per un po’, non senza, lo ammetto, una sana curiosità che già altre volte mi avrebbe tentato nell’aprirla.

Sapevo che Ribbon Ridge è letteralmente un “nastro” collinare lungo il quale si sono insediate negli anni alcune delle migliori aziende produttrici dell’Oregon, fuori dalla Borgogna uno dei luoghi per elezione per il pinot noir; pensate, per dirne una,  che qui viene coltivato con ben oltre 42 selezioni clonali differenti. Un posto dove le particolari condizioni dei suoli, di chiara origine sedimentaria marina, e l’unicità dell’ambiente pedoclimatico con le montagne Chehalem sullo sfondo, conferiscono ai vini qui prodotti molto altro che quel frutto tanto ricercato nei pinots del cosiddetto “nuovo mondo”, che sanno solitamente di rosa, lampone e ciliegia giusto tal quale un succo o una caramella alla frutta.

Questo vino ha poco o nulla per apparire piacione o alla mano, tutt’altro. Il timbro degustativo è senz’altro borgognone, ma di quelli veramente autentici, che non fanno sconti nemmeno a favore dell’eleganza. Il colore infatti è bruno, con già nuances aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere, ma vivo e limpido. Il naso è composito, i sentori fruttati sono solo una reminescenza, ciò che lo contraddistingue, profondamente, è il profilo quasi terroso, di sottobosco, macchia mediterranea, china che ne disegna il carattere austero, forse anche monolitico, ma sicuramente inconfondibile. E il sorso ne da subito conferma: ha tessitura fibrosa e minerale, sollazza il palato con insistenza e finisce chiaramente sapido. Per darvi idea della maniacalità con la quale si continua a fare ricerca da queste parti, Patricia Green produce addirittura 12 etichette diverse solo dei suoi pinot nero, talvolta una per ogni singola botte di vino in cantina, una sorta di single vineyard che più espressivo non può essere.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Reims, Champagne Cuvée Louise 1999 Pommery

30 gennaio 2012

Come scrivevo qualche post più in là, sarebbe stato opportuno ritornare sul breve ma intenso viaggio speso in terra di Champagne, alla scoperta del Domaine Vranken-Pommery di Reims. Così rieccoci qua con in mano gli appunti di quei giorni…

Invero, già essere accolti da Thierry Gasco è stato di per se un inizio piuttosto coinvolgente, non fosse altro che il personaggio, uomo chiave in Pommery, dove in qualità di chef de cave tiene in mano il destino di tutte le cuvée aziendali, è anche una figura di un certo spessore per tutta la Champagne ricoprendo, tra gli altri, un ruolo di prim’ordine nel civc nonché di presidente dell’Union des oenologues de France; ma nello specifico, vestito di grande disponibilità, ci ha tenuto a presentarci in prima persona alcune delle etichette che hanno contribuito definitivamente al rilancio di Pommery nel mondo in questi ultimi anni: il Grand Cru Millésimé, l’Apanage rosé, per dire, ma anche quello che in molti tra critici ed appassionati di settore dicono essere il suo personale capolavoro assoluto, la Cuvée Louise.

Dedicato alla figura leggendaria della fondatrice Madame Louise Pommery, tra le prime Grand Dames ad intuire il valore assoluto dell’arte come fine attrattore culturale – ne sono testimonianza viva le tante straordinarie opere fatte scolpire sin da inizio ‘800 nel gesso vivo delle caves del Domaine – questa cuvée nasce essenzialmente dalle vigne di tre Grand Cru di proprietà ad Avize e Cramant, da dove arriva lo chardonnay, e ad Ay, dove raccolgono le uve per la base pinot noir. Poi almeno otto anni, talvolta dieci, di affinamento nelle buie gallerie che si estendono per diciotto lunghi chilometri nel sottosuolo di Reims. E come ho avuto già modo di sottolinearvi in occasione della recensione del Grand Cru 2004, Thierry ci tiene a “dosare” sempre con molta attenzione e parsimonia le sue cuvée per conservare al massimo tutta l’espressività dei vini base.

Eccolo qua il vino, con questo suo colore paglierino carico e brillante, con spuma fine, densa e sostenuta. Il naso è subito molto invitante, verticale, anche se inizialmente un tantino pungente; offre indubbiamente un bel ventaglio olfattivo, diciamo pure di rara eleganza e compostezza: agrumi, ma anche burro fuso e frutta secca, canditi, con le prime note scandite nitidamente. Tenendolo però un poco nel bicchiere, in verità versandone ancora due dita dopo il primo assaggio, vengono fuori anche piacevoli rimandi di spezie dolci. Il sorso è asciutto e di buona intensità; si beve indubbiamente con una certa soddisfazione. Come accennato, della liquer nessuna traccia così evidente come talvolta può capitare in certi grandi Champagne, spesso volutamente “marcati” dallo chef de cave per firmarne lo stile; però è indubbio che risulti un vino sostanzialmente più adatto ad un approccio meditato piuttosto che per accompagnare aperitivi o tutto un pasto.

Tra qualche mese, in Italia, arriverà anche il 2000, che per la verità trovate già in giro ma solo in formato magnum. Generalmente non sono uno di quelli che ama raccomandare di stipare bottiglie di Champagne, pure quando si tratta di un Grand Cru o un Vintage particolare, però non mi farei troppi problemi nel dimenticarne qualcuna di queste in cantina per ritrovarle magari dopo ancora un po’ di stagioni di affinamento. Naturalmente senza esagerare.

Pinot Noir? Meursault Les Durots ’08 Pierre Morey

11 luglio 2011

Il Pinot Nero sa essere una varietà decisamente ostica da maneggiare, soprattutto quando non gli si riesce a corrispondere un giusto metodo di interpretazione e quell’attenzione assoluta necessaria in tutte le fasi produttive del vino; rimane infatti un’uva delle più difficili da collocare, quindi da coltivare e, come appena accennato, da vinificare ed elevare con giustezza.

Non è difficile intuire perché in molti non sappiano cogliere tutto il suo fascino; quel sottile nerbo che ne fa un vino tanto austero, quasi mistico in certe uscite, quanto unico ed elegante come solo pochi vini sanno essere; si potrebbe dire – di questo vino come di pochissimi altri – che o lo ami o lo odi, ma il più delle volte il rancore verso questo varietale, i suoi vini, è più imputabile alla superficialità di chi l’ha pensato che all’espressione stessa del terroir che l’ha generato; come dire che il pinot nero non è cosa per tutti, né quindi per ogni dove.

I fattori che nel tempo ne hanno alimentato il mito sono tanti, e tutti strettamente correlati gli uni agli altri: il vitigno, come detto, fa la sua parte, poi gli interpreti, alcuni dei quali capaci di farne esecuzioni magistrali (leggi qui), infine, ma non certamente per ultimi, la terra, i microclimi, che con i protagonisti appena citati partecipano al cosiddetto terroir; la Borgogna, è stranoto, rimane la regione per elezione, certe vigne poi irraggiungibili per equilibrio pedoclimatico, e non è un caso che proprio qui vengono prodotti, da sempre, molti vini semplicemente inarrivabili; di certo non sono trascurabili nemmeno alcune belle versioni altoatesine, quanto, perché non dirlo, parecchie bottiglie nordamericane e qualche buona versione dalla California (date un’occhiata quiqui). La Borgogna però rimane, per questo vino e per i suoi adepti più appassionati, l’ombelico del mondo.

Meursault è, nell’immaginario collettivo, di sovente associata agli opulenti bianchi a base chardonnay, e non a caso visto che l’areale è destinato alla produzione di questi vini per circa il 98% della sua estensione; tuttavia però, non mancano, come testimonia questo splendido rosso, pinot nero capaci di stupire e conquistare anche l’avventore più appassionato. Les Durots è confinante con Les Santenots, forse il più conosciuto ed apprezzato dei climats qui classificati premier cru, che poco più a nord, attraverso  Les Santenots du milieu e Les Santenots blancs va congiungendosi con le vigne e l’appellation di Volnay, spesso, in quanto alla produzione di pinot nero, preferita – per la sua notorietà per i vini rossi – a quella di Meursault; Pierre Morey è una di quelle aziende di cui raccontare troppo contribuirebbe solo a dirne una in più di quanto già detto o scritto da altri, quindi vi basti leggere di una famiglia di vignerons con più o meno un centinaio di anni di storia alle spalle e che dal 1998 l’azienda è totalmente votata all’agricoltura biologica. I vini qui prodotti, certificati Biodyvin, hanno un senso materico particolare, inconfondibile, profondo.

E il Meursault Les Durots 2008 ha tutti i tratti distintivi di un vino, un pinot nero, raccomandabile ad occhi chiusi a chi si volesse avvicinare ai cosiddetti “vini naturali” senza rischiare di beccarsi l’ennesima sola. Il colore è di uno splendido rubino/porpora trasparente, il primo naso è subito pronunciato su note erbacee e vegetali come menta, foglia di pomodoro e aneto, ma ciò che impressiona particolarmente è la schiettezza del frutto che lentamente governa tutto l’imprinting olfattivo e, successivamente, quello gustativo: la polposità dell’uva è incredibile, ciliegia, lampone, fragola e mirtillo in splendida evidenza, poi tutto il resto compreso note di spezie e caffè tostato, compreso un tannino fine, perfettamente calzato e sostenuto di giustezza da soli 12 gradi e mezzo d’alcol. Uno splendore di vino, decisamente da non perdere!

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Vosne-Romanée, qui pulsa l’anima del Pinot Noir

7 luglio 2010

Certi post(i) non hanno bisogno di parole per essere compresi, buttare giù centinaia di melense parole, anche ben legate tra loro, di trama e grammatica, potrebbero aiutare a capire quanto amore si possa profondere per alcuni luoghi, non cosa significhi per un appassionato camminarli, viverli!

Vosne-Romanée è appena fuori Nuits St Georges, appena prima di Vougeot sulla strada per Gevrey Chambertin e la capitale della Borgogna, Digione. Il terreno del vigneto è piuttosto eterogeneo ma poggia tutto su una roccia calcarea abbastanza solida che arriva ad avere, in cima alla collina che abbraccia i Grands Crus, uno spessore piuttosto importante lasciando invece in superficie, a vari substrati, altri conglomerati di natura sedimentaria frammista ad argilla. L’Appellation Village Vosne-Romanée è estesa su oltre cento ettari circostanti il comune omonimo è possono fregiarsi di tale denominazione anche parcelle allocate in altri comuni o ricadenti in appellations locali come per esempio alcune vigne della vicina Flagey a nord o Nuits St Georges a sud.

Benvenuti nel cuore della Borgogna più ambita, ricercata, apprezzata; Vosne è sinonimo di rara eleganza, di preziosa finezza, ne sono testimoni i grandissimi e costosissimi vini che nascono nelle vigne a La Tache, Richebourg, Romanée Conti, La Romanée, ma non di meno nella Romanée St Vivant ed Echezeaux. Se la grandezza di questi ultimi è spesso offuscata (ma non più di tanto) dall’immensità dei primi, i vini che vengono fuori nella vigna de La Grande-Rue, divisa da La Tache proprio da una minuscola stradina sterrata poco asfaltata, esprimono di quest’ultimo l’alter-ego, naso empireumatico e palato, ci raccontano, marcato da una nerbatura acido-tannica molto lontana dalla voluttà del pur confinante La Tache.

La Romanée è uno dei Grands Crus di Pinot Noir più ricercati al mondo eppure rappresenta la più piccola delle appellation di Francia, pensate meno di un ettaro di vigna, caratterizzato anche qui da un terreno marnoso-calcareo frammisto ad argilla. Confina a sud con parte della vigna de La Grand Rue ed in parte con Aux Champs Perdrix (Village), poco più in la spostato verso est con il mitico vigneto de La Romanée Conti e a nord con Romanée St Vivant e Richebourg.

La Romanée Conti è anch’esso un piccolo giardino al sole di Vosne-Romanée, il Grand Cru per eccellenza, consacrato al mito grazie a vini di una longevità impressionante, di una finezza e costante pulizia olfattiva incredibili ed una opulenza insindacabile. Meno di due ettari nel cuore di Vosne, proprio a due passi dal centro del borgo cittadino, appena voltato l’angolo del “Mairie”, il palazzo comunale. Una curiosità del momento mi è saltata agli occhi, un manipolo di corridori sudati ed affannati presi dalla loro corsa antistress lungo le viuzze di campagna, proprio dai filari dei grands crus: che fortunati, mi è venuto da pensare, a pensare a chi è costretto a fare jogging sui marciapiedi di periferie grigie e fumose di città… 

In conclusione, per chi si appassiona alle cifre piuttosto che alle sensazioni, sono circa 225 gli ettari a vigneto di tutto l’areale, per una produzione annuale che varia a seconda della qualità della vendemmia dai novemila ai novemilacinquecento ettolitri l’anno. Come già accennato possono richiedere hanno diritto all’appellation Vosne-Romanée anche alcune parcelle che allignano nei comuni confinanti di Vosne, come per esempio Flagey-Echezeaux; il quadro che ne viene fuori è un “vignoble” di 8 Grands Crus e 15 Premiers Crus, praticamente dei più conosciuti ed apprezzati di tutta la produzione vitivinicola francese. Qui ogni pianta è un piccolo gioiello donato all’uomo dalla terra, gelosamente custodito, non è difficile tra l’altro trovare lungo i filari continui inviti a non invadere il vigneto, non disturbare l’equilibrio naturale instaurato…

E questo perchè puntualmente, più che preoccuparsi dei numeri è proprio camminare le vigne il più emozionante dei passatempi borgognoni…

Gevrey-Chambertin, Trapet Pere et Fils

4 luglio 2010

Un viaggio è incredibile quando riesce a svelare nuove scoperte, luoghi mai esplorati prima, una realtà immaginata sognata e finalmente lì, a portata di mano, praticamente sotto il tuo naso, finalmente.

Il paesaggio delle Hautes Cotes de Nuits è bellissimo, a mirare l’orizzonte si rischia davvero di perdere la testa! E che dire dei vini, di vigna in vigna un sospiro, di calice in calice una soddisfazione ma praticamente rimane impossibile scegliere il proprio riferimento assoluto, eppure forse, è solo qui che ognuno, contratto nel proprio intimo tentennamento può cogliere del Pinot Noir la sua anima più autentica, qui, proprio tra le vigne che dimorano lungo la “Route des Grands Crus”: vini splendenti, austeri, ricchissimi di nerbo e di grande prospettiva. Certo è che si rischia facilmente di perdere la bussola, e non tanto per la lunga strada da camminare, la quale pare accompagnarti attraverso il mito in maniera assolutamente disarmante, sinuosa come le linee di una perversione eccentrica ma al tempo stesso carezzevola come la più dolce delle mani tra i capelli; è, piuttosto, l’innumerevole concentrazione di luoghi, persone e vigne che sprizzano un fascino unico ed un carattere raro a renderti, per così dire, “vita difficile”. 

Chambertin è uno di questi luoghi, ed è senza ombra di dubbio il più celebre tra i crus di Gevrey, appena poco fuori Nuits St Georges e, verso nord, proprio ad un tiro di schioppo da Morey St. Denis¤, altro luogo d’elezione per il Pinot Noir; Qui giacciono in tutto appena 13 ettari di vigna, suddivisi tra 21 proprietaires (!), piantati tutti con una intensità che supera abbondantemente i 10/12.000 ceppi/h (!!) in un contesto microclimatico di parcella in parcella molto eterogeneo tanto da consegnare un ventaglio zonale davvero sorprendente, che tra l’altro si eleva, partendo proprio dalla strada, sino a circa 300 metri slm. La terra è rossastra, particolarmente calcarea e sassosa in superficie, come dire manna dal cielo per il Pinot Noir, qui come in pochissimi altri areali borgognoni capace di acquisire una particolare ricchezza e profondità di aromi.

A Gevrey-Chambertin sono riconosciuti almeno settantacinque “Climats” (appezzamenti) diversi, ripartiti tra le varie denominazioni comunali “Villages”, “Premiers Crus” e “Grands Crus”, tra questi ultimi in particolare sono annoverate nove parcelle: Chambertin propriamente detto, Clos-de-Bèze, il vigneto più vecchio di Borgogna, individuato già prima dell’anno mille e denominato Aoc sin dal 1934, Mazis-Chambertin, Ruchottes-Chambertin, Côte Morey-Chambertin, Latricières-Chambertin, Chappelle-Chambertin, Charmes-Chambertin, Mazoyères-Chambertin.

Il Domaine Trapet è proprio sulla “Route des Grands” appena entrati in Gevrey-Chambertin. La famiglia Trapet è consacrata al vino sin dal 1919, ma questa azienda in particolare, Trapet Pere et Fils¤, vede la nascita “solo” nel 1990 dopo la suddivisione (avvenuta per motivi di successione familiare) del patrimonio viticolo con i cugini Rossignol. Il Domaine ha conservato da allora una superficie di circa 13 ettari, divenuti poi 15 con le parcelle di proprietà acquisite nell’areale di Marsannay (dove si produce con l’omonima appellation lo Chardonnay) e senza dubbio rilanciato brillantemente le proprie sorti anche grazie al prezioso domaine in Alsazia con vigne e cantine a Riquewhir, dove sempre con il marchio Trapet, ma a Blebenheim¤, si producono interessantissimi Riesling e Gewurztraminer nonchè Tokay Pinot Gris. A capo dell’azienda, da sempre votata alla biodinamica, come stile di vita e non come moda, c’è sin dalla sua fondazione Jean Louis Trapet, vigneron giovane ma già stimatissimo da tutti soprattutto per la sua grande dinamicità e concretezza in vigna e cantina come nella vita.

Gevrey-Chambertin 2007, in una parola, spiazzante. L’annata piuttosto recente ci indurrebbe ad una esplosione di frutto o quanto meno una certa indole nerboluta. Invece si pone su tutt’altra riga organolettica. Il naso è subito etereo, di frutto, del varietale, ben poco; In evidenza invece sensazioni particolarmente evolute, ventaglio olfattivo terziario, terroso, note se vogliamo anche poco fini ma sinceramente espressive, autentiche. E’ prodotto dalle vigne proprio a ridosso della Route des Grands Crus.

Gevrey-Chambertin Premier cru “Capita” 2007, è la cuvée di tre delle migliori parcelle classificate come Premiere Cru e situate proprio ai piedi della collina che anticipa l’area boschiva che sovrasta Gevrey-Chambertin. Dal colore rubino-granato è deliziosamente trasparente, il primo naso è ampio ed elegante, il ventaglio olfattivo qui è incentrato su sensazioni passite e speziate, note lampanti di fiori secchi, mallo di noce, polvere di caffè. In bocca è fresco, davvero in grande spolvero, l’ingresso è polposo, l’attacco al palato nerboluto, il tannino non è increscioso, appare piuttosto risoluto e concedendo al palato un finale degustativo particolarmente lungo.

Gevrey-Chambertin “Chappelle-Latricières” 2006, un vino espressione della maniacale ricerca dell’unicità dei vignerons borgognoni. Un Grand Cru prodotto dalle uve allevate nelle due parcelle Chappelle e Latricières; della prima è facile intuirne l’origine dell’etimo, quest’ultima invece deve il suo nome al termine latino “tricae” che indica questo appezzamento come  luogo “di poco valore, terra non fertile”. Invero il suolo è sì poco profondo e magro di elementi nutrienti, ma è proprio questa particolarità, certamente inidonea alla coltivazione di sementi, che conferisce a questo terreno particolare vocazione alla coltura della vigna. Si pensi che qui appena 7 ettari di vigna sono suddivisi tra 9 proprietari diversi, praticamente minuscoli fazzoletti di terra tra 1.5 e 0.16 ettari come diamanti grezzi dal valore inestimabile! Il vino ha un colore rubino-granato vivace, un naso particolarmente votato all’etereo, note di cipria furtivamente rubano la scena al varietale intriso di vinosa sostanza. Palato secco, solo apparentemente delicato, la beva risulta piuttosto corroborante, il tannino è irto e l’acidità quasi insolente, un continuo invito ad aspettare. Quanto? Più di quanto si possa pensare, ma intanto la prima bottiglia è già andata!

 Chambertin Grand Cru 2006, altro gran bel vino, ritorna il frutto, molto espressivo, in primissimo piano, in grande spolvero. Dal colore rubino con venature granato rivela una trasparenza molto invitante, il primo naso è freschissimo di petali di rosa rossa con un sottofondo di spiccata vinosità (una caratteristica che timbra tutti o quasi i vini di Trapet, anche andando piuttosto indietro con i millesimi). In bocca poi è finissimo, l’approccio è di una freschezza incredibile, l’attacco al palato è deciso, asciutto, ma basta appena un attimo e la piacevolezza del frutto, l’uva croccante, succosa ristabilisce la giusta armonia degustativa. Il finale è assai gradevole, chiude su lievi note tostate, il tannino per tutta la beva non è sovrastante, direi quasi bilanciato seppur non si possa ancora parlare di pieno equilibrio espressivo. L’altra bottiglia, gelosamente sepolta in cantina per un riassaggio tra qualche tempo!

Ci è piaciuto, basta!

Non ci è piaciuto, niente da rilevare.

Vougeot, Chateau de La Tour

27 giugno 2010

Vougeot, 17 Giugno 2010. Il tempo continua nell’essere inclemente, il cielo rifugge ancora i raggi del sole, che pure sorride, l’aria è frescolina a tal punto dal sembrare più un annuncio dell’autunno che uno spiraglio alle porte dell’estate. Ma è Borgogna e noi siamo qui, a camminare le vigne di una terra incredibile, tanto semplice quanto preziosa, tanto ricercata quanto famosa, letteralmente sulla bocca di tutti, eppure terra austera, assolutamente spoglia di quel glamour che tutto il mondo tenta di affibiargli, vestita di una ruralità incredibilmente unica, disarmante: fermo nel cuore del Clos de Vougeot mi giro intorno, il verde tutto mi appare immobile, eppure sento nell’aria una vivacità incredibile!

Vougeot è senza dubbio, dopo Vosne-Romanée, uno dei vigneti più belli del mondo, 50 ettari perlopiù a Pinot Noir (la piantagione a Chardonnay è davvero risicata) frazionati  in oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, il che la dice lunga sull’enorme valore patrimoniale di anche uno solo dei filari, di ogni singola pianta, dei suoi preziosissimi frutti. Chi arriva qui, conoscendo l’alto numero dei “proprietaires” della vigna si aspetta una concentrazione massiccia di piccole cantine sul posto, ma in realtà l’unico indizio che si può avere nel riconoscere i vari appezzamenti sono le piccole pietre di confine o per chi ne ha fatto l’uso, di piccoli cancelli ornamentali, posizionati lungo il margine della Route des Grands Crus. 

Lasciando stare per un attimo la suggestione di trovarsi dinanzi ad un vero e proprio castello (Chateau non a caso, ndr), ci accoglie a Chateau de La Tour, Claire Naigeon, ma prima di lei il suo sorriso, aperto, smagliante, sincero, poi la sua vitalità, la sua voglia di coinvolgerci subito nella scoperta della splendida proprietà oggi condotta dalla vigna alla cantina da Pierre Labet e sua moglie Julie, tra l’altro titolare anche di un domaine a Beaune nonchè di vigne di proprietà a Mersault. Claire è responsabile alle vendite, ma non è solo questo che giustifica la sua discreta conoscenza dell’italiano, va maturando, ci racconta, una crescente passione per l’Italia, per alcuni dei suoi luoghi incantati, in particolare per l’Umbria e l’isoletta di Pantelleria (!), ma non per i vini qui prodotti bensì per gli scenari naturali che propongono; Ci fa accomodare nell’accogliente sala degustazione invitandoci a più riprese a non esitare nel fare domande nonostante tenterà di essere quanto più esaustiva possibile: ci guardiamo finalmente soddisfatti, non è forse questa la Borgogna che ci avevano raccontato? 

La storia del Clos de Vougeot risulta essere piuttosto travagliata, quasi una saga d’altri tempi, tra compravendite fittizie, spartizioni tra eredi e presunti tali, négotiants e “furbetti del quartierino” che tra una zampata e l’altra non hanno mancato di accasarsi nei dintorni al solo fine speculativo, “ogni mondo è paese” si direbbe, Claire nel sorridere ci conferma di aver ben inteso il senso di questa frase; A noi in realtà ci basta registrare che vige un controllo ferreo su tutto quello che si muove in vigna e soprattutto in cantina, del resto siamo qui per una esperienza emozional-sensoriale, non certo per riscrivere la storia! Chateau de La Tour sorge ad un tiro di schioppo dall’omonimo Clos de Vougeot propriamente detto, dal quale lo separa proprio la torre di guardia a cui deve il nome, circondata dalle verdissime vigne di Pinot Noir (il germogliamento risulta in ritardo di almeno tre settimane rispetto all’Italia, ndr), nelle sue fondamenta la cantina ed alcune stanze-caveaux dove conserva oltre che la memoria storica liquida dello Chateau anche dell’intero Clos, si scorgono qua e là almeno un centinaio di vendemmie, alcune delle quali assolutamente rare e perciò preziosissime, sin dalla fine dell’800!

Il vino che più ci ha impresssionato è stato senz’altro il Clos Vougeot, soprattutto in propettiva, ma non sono risultati scontati i due ottimi Beaune Village bevuti, il bianco ed il rosso a marchio Pierre Labet molto freschi e di gran lunga sapidi. Il bianco in particolar modo, che si giova oltretutto dell’augusta veneranda età delle vigne, sui trent’anni, ha mostrato una spalla acida ben espressa, davvero gradevole per non dire ottimo. Altro che Chardonnay… 

Clos Vougeot 2007, l’annata in molte regioni della Francia e del mondo è stata recepita come una annata particolarmente calda, per alcuni, vedi i produttori di Rodano e Provenza in primis addirittura siccitosa; “E pensare che a Vougeot, ci racconta Claire, è capitato non di rado, anche a metà agosto di avere a mezzogiorno 8°”! Il colore è di un rubino granata cristallino, il primo naso è subito ampio e finissimo su note floreali e fruttate mature, addirittura dolcissime sensazioni di caramella al lampone,  e poi spezie, note eteree appena percettibili di cipria e smalto. In bocca è asciutto, è concentrico, con il frutto in primo piano, tutt’intorno il tannino, la glicerina, l’acidità, la mineralità. Bella bevuta, avanscoperta di ben altre grandi bevute future; In effetti di questi vini, in questo stadio di “immaturità” non si può che percepirne il grande potenziale ed accontentarsi dell’impressione positiva di estratto e concentrazione.

Clos Vougeot 2004, ovvero di Pinot Noir straordinario come pochi bevuti prima. Eppure figlio di una annata non felicissima, a fine luglio infatti una fortissima grandinata, praticamente caricata a pallettoni ha distrutto il 30% almeno del raccolto, complicando e non di poco anche il lavoro in cantina. Comunque stupendo il colore rubino, scarico, trasparente, dal primo naso subito affascinante, davvero interessante, ampio, complesso, di quel varietale in grande spolvero e così difficile da replicare. Le note olfattive sono aromatiche, intense e lunghissime, il ventaglio olfattivo fruttato è divenuto succoso, l’etereo sottile profumo di terra asciutta e pietra bianca, la nota di cipria adesso è più evidente, il cassis esplicito, la succulente mineralità una goduria immensa.

Ci è piaciuto, la precisione della tempestica con la quale è stata gestita la visita, e moltissimo l’accoglienza riservataci, a dir poco calorosa.

Particolare curioso: in cantina, da queste parti, gli enotecnici preferiscono il vecchio attempato tastevin al comune calice per la degustazione dei vini in affinamento. 

nei dintorni, da segnare in agenda:

Le Clos de La Vouge. Appena fuori Vougeot, sulla strada per Vosne-Romanée, praticamente all’incrocio con Flagey-Echezeaux c’è questo delizioso Hotel Restaurant; L’ambiente è informale, un po Brasserie, un po Bistrot, il servizio non è dei migliori, lento e a dire il vero anche un tantino impacciato, ma la cucina, tipicamente borgognone, è assolutamente da provare almeno una volta giunti in questa terra. Materie prime eccelse e preparazioni molto sostanziose e saporite, ottimo in particolare l’uovo in camicia in fondue d’Epoisses  (ne parliamo qui) come eccellente il Boef Bourguignonne soprattutto se mangiato come piatto unico.

Hotel – Restaurant – Séminaire
Le Clos de La Vouge
1, rue du moulin
21640 Vougeot
Tel. 0380628965
Fax 0380628314
www.vougeot-hotel.com
closdelavouge@wanadoo.fr

Morey St Denis, Domaine Dujac

23 giugno 2010

“Noi non crediamo nella grandeur dei vini di Borgogna, di certo non l’abbiamo mai percepita come un alibi, e sinceramente ne faremmo davvero a meno..!”

E’ quanto meno inaspettata, per non dire disarmante, una rivelazione del genere, una frase così esplicita, per niente malcelata e costantemente presente nell’aria in ogni momento successivo all’aver varcato la soglia del Domaine Dujac a Morey St Denis. Ma come? Verrebbe da chiedersi, e noi che almeno tremila chilometri più in là ci lasciamo scaldare l’anima e sbattere il cuore non appena ne sentiamo parlare, di Pinot Noir, di Borgogna, di Clos e di “pippe” varie ed eventuali sulla loro unicità, storia, fascino per di più sostenute da una bio-dinamicità-naturale che tanto significato ha in un mondo del vino in profonda conversione; In realtà, scusatemi il gioco di parole, è la pura e nuda realtà, definiamola pure cruda e mal servita, (praticamente sbattuta in faccia) ma che ci piaccia o no, questo è!

Questa è l’impressione che ci portiamo a casa dall’incontro con il giovanissimo Alec Seysses, figliol prodigo in quel di Morey St Denis, cuore dell’Haute Cotes de Nuits, che con il fratello ed il papà-winemaker Jacques si occupa a tempo pieno dei 16 ettari del domaine dislocati in circa 18 appellations tra i vari villages, premier e grand cru dell’areale. Come sempre la smentita è dietro l’angolo, della quale in verità ne saremmo davvero felici, per questo (e non solo) ci siamo ripromessi un nuovo passaggio da quelle parti ( 🙂 ). Stando ai fatti però, non è stato un buon approccio con il territorio, quello desiderato, auspicato, nonostante i vini serviti, evidentemente mal volentieri, ci hanno impressionato non poco, aiutandoci a capire che l’anima controversa del terroir borgognone è più marcata di quanto si possa pensare e che alcuni dei suoi interpreti più autentici per essere tali hanno necessità di privilegiare il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente, da veri e propri “espressionisti” del vino piuttosto che commercianti delle proprie emozioni. Queste, in sintesi, le impressioni sui vini più interessanti degustati, tutti prodotti seguendo il più austero dei protocolli biodinamici, dettato cioè da uno stile di vita piuttosto che dalla moda o la richiesta del mercato.

Marsannay 2008, appellation communale disposta a nord di Morey St Denis, sulla strada di Digione, dove dimorano i due ettari e mezzo di proprietà del Domaine votati perlopiù a chardonnay. Un vino bianco molto fresco, cioè asciutto e minerale, dal colore paglierino tenue e di media consistenza. Il naso è incentrato su note erbacee e floreali, fine ed elegante seppur non lunghissimo, in bocca è, come detto, secco e piuttosto sapido, molto gradevole la chiusura quasi citrina che riporta alla mente agrumi ed al palato una picevolissima sensazione di pulizia. Alla stessa stregua, per intenderci, di un ottimo Fiano del Cilento in tenera età.

Morey St Denis 2008, dalle vigne più o meno prospicenti il Domaine più altri conferimenti del circondario; naturalmente da uve Pinot Nero in purezza, viene vinificato, fermentato ed affinato esclusivamente in “pieces” di secondo e terzo passaggio. Il Colore è piuttosto scarico, rubino/granata con accennatiflessi aranciati, un naso decisamente empireumatico, che offre cioè un ven ritaglio olfattivo organico piuttosto accentuato: note tostate, secche, pungenti, per certi versi affumicate. In bocca è poco carezzevole, in effetti sappiamo benissimo che vini del genere hanno bisogno di almeno un lustro per venire fuori al palato, per rivelare cioè quella voluttà al palato tanto frequentemente espressa in certi Pinot Nero nostrani, ma non dunque di queste terre, di questi interpreti. Bel nerbo, acidità da vendere, finale di bocca lunghissimo, waiting for the glory.

Clos St Denis 1966, il cuore batte ancora mi verrebe da dire. Probabilmente, ripensandoci, il freddo Alec avrebbe voluto riservarci una accoglienza migliore, magari condensata da una manciata di sorrisi in più, non di circostanza, e offerto un panorama delle proprie attività nel Domaine un tantino più esaustivo. Eravamo lì per ascoltare, imparare, non certo per rubare, tempo e spazio. Si salva in “zona Cesarini”, tirando fuori dal caveau, assolutamente non visitabile questo Grand Cru che al tempo, ci dice, Grand Cru non era: “era il vino che circolava in casa, per gli amici, per i parenti”. Sfogliando gli annali scopriremo poi (mannaggia li sommelier!) che non si tratta della migliore delle annate in casa Dujac, e nemmeno della migliore tra le peggiori, un vino insomma del quale certamente non si va fieri. Invece il bicchiere svela una bella esperienza visiva e degustativa, non segnata da clamore e sospiri ma certamente degna di nota. Il colore è praticamente integro, le sfumature aranciate sono appena più marcate del precedente, e la trasparenza pure. Il naso offre un ventaglio olfattivo molto interessante, addirittura ancora spiritoso di frutta, ma balsamico, caramellato, speziato innanzitutto. In bocca è asciutto, austero, lineare sul finale di bocca, equilibrato e minerale.

Ci è piaciuto Morey St Denis, davvero un bel borgo, a misura d’uomo, come del resto tutti quelli visitati durante questo viaggio; La pioggia ed il grigiore del tempo non hanno intaccato più di tanto i colori e il fascino di una terra bellissima.

Non ci è piaciuto, unanimamente, la freddezza con la quale siamo stati accolti, soprattutto contando sul fatto che dai numerosi precedenti contatti non fosse assolutamente trasparita, decisamente una giornata no!

Non ci è piaciuta, l’abitudine del padrone di casa, dichiarata con estrema nonchalance, di recuperare il vino lasciato nei calici dai convenuti, utilizzato a suo dire, successivamente, per colmare le botti in affinamento: “è nettare prezioso, perchè sprecarlo!”

Chalon-sur-Saone, il mercato di Borgogna

22 giugno 2010

Chalon è costruita sui bordi del fiume Saône, vanta una storia di almeno tremila anni ed è stata sempre un punto di riferimento assoluto per l’economia di tutta la regione borgognona: prima, in antichità, come porto navale militare, poi in tempi più moderni come centro di florido scambio commerciale, centro fieristico di prim’ordine: un mercato continuo.

L’ingresso in città non suscita particolari aspettative, pare attenderci una città come tante lasciate lungo strada sino a qui, un po grigie e goffamente frammiste di una ruralità forzata e quella modernità un tantino datata. Ma bastano appena due curve per ricredersi, basta allontanarsi dai viali di cemento che costeggiano il fiume per entrare d’un colpo nella città vecchia, nel cuore di un borgo in cui il tempo pur tiranno sembra soccombere da una tradizione insopprimibile. E’ domenica, ed è la domenica del mercato, un tripudio di colori e di profumi che si rincorrono lungo i vicoli che da Place de l’Obélisque si diramano sin nell’anima del quartiere vecchio. I negozi di ogni genere che durante tutta una settimana animano Chalon alla domenica lasciano il campo a persone ed intenzioni che sembrano venire da ogni dove con i frutti del loro duro lavoro, della loro antica tradizione, della loro profonda cultura.

L’atmosfera riporta alla mente i nostri mercati, in fondo le voci, le urla, il richiamo che si innalza continuamente nell’aria non è poi così differente da quello dei venditori delle nostre borgate, dei nostri quartieri, delle nostre piazze rionali; i colori dei banchi si alternano dal rosso splendente dei pomodori “cuore di bue” a quello “sangue” delle cerise “stark” croquante, il verde dei carciofi giganti del sud con il bianco dei turioni di asparagi delle campagne circostanti; e poi i profumi, quello dolcissimo dei fiori dai mille splendidi soli e quello pungente delle erbe officinali che qualcuno sta pestando poco più in là, quello inebriante delle pentole e delle caccavelle che sbuffano i vapori delle zuppe di pesce e delle fritturine di verdure in cottura, così a la volèe, una cucina in strada che definirei in maniera disincantata senza cucina ma con tanta storia di strada.

Continuiamo a scorrere i banchi, con essi le facce, gli inviti, le raccomandazioni, le preferenze, le simpatie, la voglia di non perdersi nemmeno un attimo, uno sguardo di questa domenica speciale: Jean Luc ci guarda perplesso, stiamo contrattando per diverse pezzature di buonissimo “Epoisses”, il formaggio più amato e consumato in Borgogna, ma non ci lascia margini di favore, il fratello, Arnauld è più propenso a lasciarci come omaggio una manciata di sostanziosi “saucisson” ma non ne vuole sapere ne sui formaggi ne sul delizioso pane di “campagne”, davvero saporito, superlativo; alla fine, “les italiens…” la spuntano, così ci avviamo sulla strada del ritorno. Qui intorno c’è di tutto, dal robivecchi che per una manciata di euro vende il vecchio soprammobile della nonna al finissimo “patissier” intento a rifinire gli ultimi cioccolatini appena sformati, l’urlatore dei tappeti e dei tendaggi di Tournus¤ al formaggiaro della Savoia che ci tiene a sottolineare che i suoi formaggi sono sì brutti da vedere ma solo perchè desidera che li compri solo il vero appassionato: niente forma, solo sostanza! Ripete in continuazione.

E’ vero, è quello che anche noi ci aspettiamo di incontrare sulla nostra strada nei prossimi giorni, niente o quasi forma, molta, moltissima sostanza! (continua)

da non perdere il museo della fotografia
Musée Nicéphore Niépce
28 Quai des Messageries
71100 Chalon sur Saône
tel.: 03 85 48 41 98
fax: 03 85 48 63 20
Entrata libera
Aperto tutti i giorni, eccetto il martedì e i giorni festivi
dalle ore 9.30 alle ore 11.45
dalle ore 14.00 alle ore 17.45
Luglio – agosto
dalle ore 10.00 alle ore 18.00

Neumarkt, è Gottardi e non è secondo a nessuno

29 marzo 2010

Ci risiamo, gira che ti rigira ricado sul Pinot Nero, e ritorno, volentieri, sulle trasparenze del Blauburgunder di Mazzon di Bruno Gottardi; l’azienda è forse la più giovane del vocatissimo areale atesino ad essersi guadagnato l’accesso nell’olimpo dei migliori produttori di Pinot Nero fuori dalla storica patria di origine, oltre cioè quei confini di quel luogo sacro e di difficile (per qualcuno impossibile) emulazione che rimane la Borgogna.

Vado a naso, ovvero a memoria, nell’ultimo anno questo 2006 l’avrò bevuto almeno due-tre volte: mai fuori dalle righe, composto, in crescendo, un vino-frutto incredibile; Un plauso al varietale, uno all’areale, qualcuno di più all’interprete. Sì, perchè trattasi di un grande interprete, quel Bruno Gottardi che è sceso dal nord, pare esserci un nord anche per il profondo nord, per mettere su, proprio ai piedi di Neumarkt, un piccolo gioiello di viticoltura-scuola, da subito entrata nella memoria dell’appassionato come esempio di sensibilità superiore all’esaltazione di quel che molti chiamato semplicemente “terroir”!

Gli annali dicono che è 1986 quando Bruno Gottardi decide di rispolverare le origini alto atesine rilevando a Mazzon poco più di 6 ettari di vigne da destinare alla sua più grande passione, il mito borgognone ed il Pinot Noir come sua unica, immensa, inarrivabile espressione. Gli anni di duro lavoro nella rivendita austriaca di vini e liquori di famiglia gli hanno consentito di affinare un naso ed un palato sopraffino ed i lunghi viaggi in giro per il mondo gli sono serviti per confrontare le varie anime, tra le poche superbe scoperte, capaci di colpire il suo immaginario di idealtipo borgognone. Mazzon il punto di arrivo, prima di lui già piccoli e grandi “pasionari”, con lui uno in più a tirare le fila di esperienze sensoriali tra le poche raccomandabili ad occhi chiusi e tra le pochissime indimenticabili.

Il Blauburgunder 2006 esprime un colore soavemente rubino-granato, trasparente; Il naso è lontano dall’esprimersi immediatamente, è come se avesse bisogno di distendersi, sgranchire le note olfattive: fiori secchi e frutta rosso sangue, poi spezie fini e note balsamiche dolcissime. In bocca è pura seta, di qualità estrema, il tannino tace, l’acidità se la spassa, così si confondono infondendo equilibrio ed ampio respiro alla beva. Cosa aggiungere, un piatto asciutto, formaggio, o un filetto appena scottato con un rametto solo di origano fresco e del buono olio extravergine di oliva. Excelsus!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Healdsburg, Alexander Valley Pinot Noir 2006

18 marzo 2010

Quando hai un “modello” piuttosto che assuefarti alle sue facili reiterazioni devi ricercare la sua massima espressione, o le tante che si possono cogliere in giro, anche fosse nel mondo. Così quando ho deciso che “il mio vino” sarebbe stato il Pinot Noir è iniziata la mia rincorsa, non verso la ricerca della perfezione, semmai ne esista una al di fuori della Borgogna e in quello stretto lembo di terra chiamato La Tache, ma alla scoperta della sua più alta considerazione ed interpretazione, identità possibilmente precise, certamente diverse, ma reali espressioni di un luogo, di una vigna, di un vigneron, e quando sono stato fortunato, di una singola bottiglia!

Ecco che entrano in corsa gli amici, quelli veri, quelli che sanno che più dell’orologio o del borsellino Louis Vuitton (chissenefrega!) può una buona bottiglia del beneamato noir, fortuna mia li vuole, questi cari, superbi Amici di Bevute, sparsi qua e là nel mondo, o quantomeno capaci di girare (tanto e più di me) luoghi da vigne fantastiche o città dalle enoteche da sogno.

Alexander Valley Vineyards nasce nel 1962, quando vengono piantate nel vigneto le prime marze,  come consuetudine, di Cabernet Sauvignon, poi qualche anno più tardi, nel 1975 viene costruita la cantina e via via diversificato il vigneto. La storia ci consegna l’epopea di Cyrus Alexander che sarà in tutto e per tutto “deus es machina” di un successo rinnovato ogni anno ad ogni vendemmia nonché artefice promotore della denominazione che oggi porta in giro per il mondo con i vini dell’omonima azienda, passata nel frattempo nelle mani della famiglia Wetzel. Siamo in California, nella omonima AVA interna alla Sonoma County, per intenderci, ad una ventina di chilometri dalla vicina Napa Valley, senza dubbio una delle regioni viticole più famose al mondo.

Il vino è di un colore bellissimo, rubino con accenni tendenti al granato sull’unghia, trasparente ma non troppo. Il primo naso è intenso e particolarmente complesso, finissimo, franco, pare infinito. Si succedono profumi floreali e fruttati, poi speziati, balsamici, minerali: rosa e viola, lamponi e mora, cannella e liquirizia, grafite, un susseguirsi di sensazioni prima lievi, poi fragranti, ma per tutto il tempo costantemente presenti, non una semplice ascesa ma una persistenza nitida, un timbro olfattivo preciso, lineare, perfettamente integrato. In bocca è secco, certamente caldo e non fa niente per nascondere i suoi 14 gradi, acidità, tannino e glicerina fuse all’unisono, ma non si può dire certo ovattato, in poche parole, non è per niente “americanizzato”, il legno, rovere francese nuovo e di primo e secondo passaggio, è ben dosato, quasi impercettibile nella sua percezione gustativa, onestamente, un gran bel vino. Bevuto con altri Amici di Bevute alla tavola di Sud, un venerdì di passione, gourmet, con un piatto di Fettucce con coniglio alle olive nere e spolverati di mandorle: da applauso, entrambi ovviamente!

Nota a margine: negli Stati Uniti, sugli scaffali intorno ai 25 $, se non è questo un affare!

Villars Fontaine, Le Haute Cote 2005

14 gennaio 2010

Croix et délice, croce e delizia, così mi appare questo rosso sanguigno borgognone di Bernard Hudelot. Abbiamo bevuto, qualche settimana fa con l’amica Cathy Stockermans un 2002 davvero giù di corda, dal colore gradevolmente brillante ma poco espressivo al naso, sottilissimo, fermo, e al palato aggressivo sino all’imbarazzo. Un frutto troppo amaro per continuare a sperare nel divenire. Ci ho riprovato l’altra sera, con il 2005, servito alla cieca ad un gruppo di Amici di Bevute. Il risultato? Niente a che vedere con l’esperienza precedente ma ciononostante lontano dagli standards manifesti della piccola azienda di Villars Fontaine e dalle aspettative trasferitemi dalla stessa amica blogger ed aspirante sommelier Cathy. 

L’azienda è stata creata da Bernard Hudelot che l’ha ereditata dal padre Ferdinand e riportata in vita dopo la parziale devastazione subita durante la seconda guerra mondiale. E’ il 1971 quando, dopo diversi anni di duro lavoro di consolidamento si iniziano ad innestare le prime nuove vigne di Pinot Noir e Chardonnay tra i vari climat della tenuta a seconda della specifica vocazione, nel Domaine di Montmain, a Les Jiromée ed intorno allo Chateau Villars Fontaine propriamente detto. Siamo nell’haute cote de Nuits, appena ad un palmo dal cuore della Borgogna più nobile, qui intorno infatti si levano al mondo i sospiri di alcuni dei migliori Pinot Noir in circolazione distesi sui terreni di Gevrey Chambertin, Aloxe Corton, Nuits Saint Georges e chi più ne ha più ne metta; il terreno ha una conformazione scheletrica profonda, a tratti rocciosa e spesso scosceso ed il clima è certamente più rigido rispetto ai paesi limitrofi, elementi che non hanno certamente reso vita facile, negli anni, al lavoro della famiglia Hudelot. Condizioni pedoclimatiche particolari, dicevamo, comunque buone per i bianchi a base Chardonnay, sempre ricchi di note aromatiche intense e complesse e con un gusto deciso e profondo, in certi millesimi avvicinabili ai migliori Mersault, la faccenda diviene un po più complicata per il Pinot Nero, quantomeno riflettendo sui tratti dipinti nel calice proprio qui nella mia mano, con un naso abbastanza pronunciato ma un palato sempre troppo duro da digerire con nonchalance. L’haute cote 2005 si presenta con un colore rosso rubino vivace, abbastanza trasparente e di media consistenza. Il primo naso è molto piacevole, invitante, note fruttate dolci ed ampio respiro ai sentori di origine secondaria e terziaria: ai primi riconoscimenti di mora di rovo e mirtillo si aggiungono subito dopo una netta sensazione di gomma e di leggero goudron, sottili ma abbastanza intense e persistenti, nel complesso abbastanza fini. In bocca l’inversione di tendenza, le note olfattive “ammiccanti” e comunque avvolgenti si trasformano in un gusto arcigno, duro, per niente levigato dal tempo, più che tannino appare acidità elevata alla massima espressione, insistente, permanente, oltemodo invadente. Sia ben chiaro, un vino certamente integro e a tratti, dopo una lunga ossigenazione, interessante, ma sempre troppo scostante, distante da un equilibrio gustativo pur necessario per poterne godere al meglio del frutto. Da rivedere tra qualche tempo, indagandone nel frattempo, il dna produttivo.

Arvier, un Enfer très suitable

27 dicembre 2009

Pensi al profondo nord ed immagini paesaggi dai colori chiari, pastello, spesso grigi quando non innevati e bianchissimi. Vuoi pensare ad un vino del profondo nord e scegli subito un bianco, magari aromatico, abbastanza fresco, bello sapido, magari anche più o meno beverino: ma quanti ne hai già bevuti di così? Allora ti fermi un attimo e sforzando le meningi tiri fuori un rosso: ecco! Andrebbe bene anche un rosso, un Lagrein, un Teroldego, una Schiava, esagerando a fare il sofisticato ti arriva alla mente un Refosco, un nerbato Tazzelenghe, il Terrano. Ok, lasciamo stare il dito sulla carta, lasciam perdere cosa vuole chi e tiriamo in ballo l’intuizione del sommelier: scelga lei, ma che sia un rosso interessante! Ti fai aprire la bottiglia, naturalmente alla cieca, e comincia il gioco dei sensi: c’è da divertirsi, quasi sempre, non ci azzecchi mai, quasi sempre!

La storia: l’Enfer d’Arvier è stato tra i primi vini valdostani ad ottenere la Denominazione di Origine Controllata, nel 1972. I vigneti da cui trae origine si estendono lungo l’areale comunale di Arvier, prevalentemente sulla sponda sinistra della Dora Baltea. Lo scenario che si staglia con i terrazzamenti che si inerpicano fino alla base dei pendii rocciosi sovrastanti è formidabile, pensare che qui si fa’ viticultura è pensare di amare la propria terra sopra ogni limite comprensibile. Qui la vallata costituisce un anfiteatro naturale, la vite si sviluppa in un ambiente pedoclimatico davvero particolare: l’altitudine, le forti escursioni termiche, la composizione dei terreni e poi il sole, che soprattutto d’estate è costantemente alto e caldo tanto da dare a tutta la vallata l’appellativo, appunto, di “inferno”. Qui nasce la Coopérative de l’Enfer (Coenfer) nel 1978, pochi anni dopo l’istituzione della d.o.c., che riunisce circa 90 soci conferitori e gestisce tutt’oggi tutta l’attività vitivinicola dell’areale inclusi l’imbottigliamento e la commercializzazione.

Il vino: Il “Clos de l’Enfer” viene prodotto solo nelle migliori annate e raggiunge una produzione di circa 40 mila bottiglie, tante quante servono perlopiù per il mercato locale che soprattutto in estate, con l’arrivo dei vacanzieri che scelgono la montagna al mare ne aumenta smisuratamente la domanda. L’Enfer 2006 è realizzato per l’85% da uve Petit Rouge e da altri vitigni per il 15%: Pinot Noir (varietà internazionale tra le più coltivate  assieme alla Chardonnay), Vien de Nus, NeyretMayolet tutte allocate all’interno del comune di Arvier. Il vino ha un bellissimo colore rosso rubino, vivace e poco trasparente. Il primo naso è intenso su note fruttate mature ed in confettura, poi leggermente balsamico, speziato, etereo. Vengono fuori lentamente note di mora selvatica, mirtillo, liquerizia e smalto. In bocca è secco, di corpo importante, il tannino è mascherato da una buona carica alcolica (scopriremo poi, 14,50%), comunque non risulta particolarmente incisivo, il vino gode di una media freschezza e di buona sapidità. In primo piano, anche in bocca rimane il frutto, sempre in buona evidenza e disteso su di un euquilibrio gustativo complessivo abbastanza armonico anche se la beva chiude con una nota lievemente amarognola. Un vino rosso di corpo, da aprire e bere (con parsimonia), invitante, immediato, piacevole, da accompagnare a carni arrostite anche aromatizzate, anche se non troppo succulenti oppure a formaggi mediamente stagionati (Petit Tomme Valdotaine).

Rochioli 2001, Pinot Noir californication

21 novembre 2009

California patria di chardonnay e terra eletta del cabernet sauvignon, ma anche terroir eccezionale, nella Russian River valley per il pinot noir. Siamo nel cuore della Sonoma County, lungo le sponde del fiume Russian che da il nome all’Ava (american viticultural area) che denomina questo superbo vino. Difficile pensare ad un Pinot Noir con questa materia estrattiva, e pensare che anche in Italia ci hanno provato in molti, aldilà dell’areale che molti vedono come maggiormente vocato nel nostro paese come l’altipiano di Mazzon, in Alto Adige: da Antinori a Castello della Sala al Gruppo Italiano Vini nella tenuta di Machiavelli nel cuore del Chianti Classico, Fontodi nella stessa Toscana piuttosto che Maurizio Zanella in Lombardia ma i risultati sono sempre stati poco entusiasmanti.

Il ragionamento di base è quasi sempre lo stesso, terreni più o meno avvicinabili per caratteristiche di natura e composizione simili, la scelta delle migliori marze spesso di origine borgognone, condizioni climatiche con non poche similitudini, esperienza da vendere dei vignerons ma ahimè il risultato non è mai stato così scontato come appare. Il Pinot Noir ha forse bisogno di qualcos’altro, forse di quell’alchimia che non è possibile prevedere, che non è assolutamente possibile creare artificialmente, replicare schiacciando magari un bottone: ecco, forse come nascono i grandi Pinot Noir!

Questo vino è sinceramente buonissimo, nasce come detto in una delle aree più vocate al mondo fuori dal vecchio mondo; Quando, nel 1938 la California è stata inondata di tagli bordolesi solo qui si è pensato di dare respiro al sogno di una eleganza senza la grassezza del Cabernet o la vivacità del Merlot puntando alla subliminazione del vitigno principe, quel Pinot Noir così complicato da decifrare ma tanto affascinate, così austero quanto generoso nel tempo, magari tanto da concedersi alla stessa maniera dei grandi Volnay, Musigny, Richebourg ecc…

Il vino si presenta con un bel colore rubino tendente al granato, soavemente trasparente e di media consistenza. Il primo naso è davvero affascinante, le note olfattive sono in piena elevazione, la bottiglia è aperta da parecchio e le sensazioni dapprima fruttate mature virano costantemente su note tostate, caramellate, speziate, animali sino a sfumature di terra e lievemente ferrose. In bocca è secco, caldo e di buona profondità gustativa. Un vino costantemente appagante. Chi ama non può che lasciarsi amare da questo vino, hai voglia di pensare agli abbinamenti, non vi è nulla che non possa subliminare il piacere di girare questo nettare nel bicchiere. Utile come accennato aprire la bottiglia un paio d’ore prima, da servire in ampi balloon ad una temperatura intorno ai 16 gradi.

© L’Arcante – riproduzione riservata


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