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Terra di Lavoro 2006, appuntamento mancato

21 novembre 2009

Premessa: ho scoperto personalmente Galardi poco più di una decina di anni fa, ne avevo sentito parlare durante una bella serata di degustazione presso l’enoteca La Botte di Casagiove, dove, aspirante sommelier mi ero recato con alcuni amici di bevute. Poco dopo, incuriosito e convinto che ne valesse la pena organizzai con gli stessi amici una giornata fuoriporta a Roccamonfina, ufficialmente per raccogliere castagne e mangiare il casatiello ma in realtà avevo già fissato un appuntamento con la signora Maria Luisa Murena con la speranza di fare un giro in cantina a San Carlo di Sessa Aurunca alla scoperta di questo nuovo gioiello di cui si parlava un gran bene e si diceva lanciata alla conquista di un posto al sole nella enologia campana.

L’azienda era un cantiere aperto, si stava lavorando alacremente alla nuova piccola area di vinificazione dove c’erano già i primi macchinari tecnologicamente avanzati consigliati da Cotarella per salvaguardare la grande qualità della materia prima raccolta in vigna; ascoltare il racconto del progetto Galardi da Maria Luisa e poi le parole di Arturo Celentano che ci raggiunse più tardi giù nella barriccaia (scarna ma molto suggestiva) bastò a darmi la sensazione che di questo vino se ne sarebbe parlato a lungo e difficilmente con sufficienza: e così è stato.

Da allora sono passati diversi anni, tutti i Novanta dei “vini bianchi burrosi e vanigliati” e dei rossi merlotizzati e cabernetizzati, sta passando lentamente anche questo primo decennio del duemila che tra le tante ha visto passarci tra le mani vini di molti produttori improvvisati e di tanti affaristi sprovveduti che speravano in un’onda lunga infinita e che invece si sono ritrovati svuotati e decisamente “alla canna”: ecco, queste sono alcune deficienze di cui per fortuna non avremo certamente rimpianti. Ci rimangono però diverse certezze, soprattutto in Campania, seppur qualcuno ancora fatichi a comprenderlo, una delle quali è che il futuro del nostro vino è racchiuso in due aggettivi semplici e complementari, a volte talmente naturali da apparire banali, eppure mai scontati: autenticità ed originalità. Una originalità – sia chiaro – non dettata da chiusure antiche e vetuste ma bensì dall’intuito e dal pensiero moderno che si deve avere oggi della “tradizione”, ed una autenticità che solo chi ama la terra ed i suoi frutti sa esprimere a livelli altissimi.

 

Dell’annata 2006 me ne sono occupato già agli inizi di quest’anno (vedi qui) e in linea di massima non c’è granchè da aggiungere tranne che per una (mancata) evoluzione soprattutto gustativa che mi ha lasciato non poco perplesso. Il vino è spesso sinonimo di moto continuo, si spera in continua evoluzione e nonostante l’annata duemilasei sia stata definita da qualcuno minore, pare e mi aveva certamente convinto già al primo assaggio di aprile che ne fosse venuto fuori comunque un piccolo capolavoro di equilibrio e godibilità tra le componenti austere ed eleganti dell’aglianico e del piedirosso di cui è composto, nonostante il ricordo dell’eccellente 2004 rischi ogni volta di sopraffare le mie aspettative.

Il colore è rimasto di un bel rosso rubino integro e poco trasparente, mediamente consistente. Il primo naso è caratterizzato da sentori floreali secchi e fruttati in confettura, col tempo, nel bicchiere si distinguono nitidamente sentori rosa passita, amarena, poi mora e mirtillo sino a note di pepe nero, carruba ed una lieve sensazione balsamica. In bocca è secco, abbastanza caldo e di buon corpo, il tannino già evidente e pronunciato all’esordio qui è amplificato da una nota acida slegata che ne esalta in maniera inopportuna una durezza tanto inaspettata quanto pressante e per niente supportata dalla sapidità. Ne risente innanzitutto l’equilibrio gustativo oltre che l’armonia complessiva, un frutto così nitido e così avvincente al naso non può rivelarsi così risoluto ed in così poco tempo: è vero sono note di durezza che tendenzialmente dovrebbero assopirsi, ma appena pochi mesi fà questa durezza era più contenuta, meno evidente, non così invadente.

Insomma rimane quell’anima draconiana che affascina e che lascia davvero poco spazio all’ovvietà ma di certo mi conduce a rivedere, al momento, quell’apertura alle molte aspettative che in questo caso appaiono sfuggite ad una complessità non proprio esemplare ed avvincente come da manuale. A volte certi vini manifestano staticità, ma non per questo hanno finito il loro percorso evolutivo, così mi strappo una promessa, di riassaggiarlo almeno tra sei mesi, e vediamo cosa accade.

Casale di Carinola, il Rampaniuci di Migliozzi

18 novembre 2009

Nasce un nuovo indirizzo per la denominazione Falerno del Massico, nasce a Casale di Carinola e si chiama Viticoltori Migliozzi, ovvero Rampaniuci.

La storia di famiglia ci racconta un legame forte con la terra, quell’Ager falernus tanto decantato e tanto amato dagli storici quanto non ancora del tutto riportato a giusta collocazione territoriale, ovvero ancora si scoprono versioni interessanti e fonti meritorie di attenzione sulla vera estensione di questa antica denominazione che già in epoca romana risultava alla storia come custode di inebriante nettare bacchiano. La tenuta vanta in totale circa 20 ettari incentrati perlopiù sulla coltivazione di frutteti e prodotti generici della terra che rappresentano il “core buisness” aziendale e di questi un piccolo appezzamento di circa 5 ettari è votato a vigneto, in località Rampaniuci, una piccola collina che da il nome all’unico vino prodotto.

Il Falerno del Massico Rampaniuci nasce con l’intento di esprimere letteralmente ciò che rappresenta questa collina, un piccolo crù per dirla alla francese capace di distinguersi dalle altre espressioni della doc, da Cellole a Mondragone sino a Falciano non senza caratterizzarsi di una identità precisa e riconoscibile nel tempo. Circa 20.000 le bottiglie che si raggiungeranno con l’annata 2008, attualmente in affinamento, prodotte con la supervisione di Fortunato Sebastiano, giovane e bravo enologo campano che continua a farsi le ossa con i vitigni autoctoni più tradizionali (Aglianico e Piedirosso in testa) nelle varie aree viticole campane che segue, soprattutto in Costa d’Amalfi (Reale, Tramonti) e Benevento (Mustilli, S. Agata de’Goti); Proprio in merito all’Aglianico appare evidente, anche in questo Rampaniuci, nel quale blend entra in proporzione del 70% che continui la sua personale interpretazione e caratterizzazione del vitigno a bacca rossa più diffuso in regione, già manifesta con l’ottimo risultato tirato fuori con il Grifo di Rocca di Mustilli, un vino dal frutto riconoscibile ed estrememente equilibrato in acidità e tannino avvincente e coinvolgente tanto per il degustatore esperto quanto per l’avventore medio.

Un lavoro fatto di ricerca, di prove e perseveranza, basato su di una “idea del vino” precisa ed inattaccabile da preconcetti e pregiudizi, che nasce innanzitutto in vigna, con una cura maniacale del vigneto e della sua resa in uva, che continua in cantina con la massima cura di tutti i processi produttivi non senza qualche decisa applicazione controtendenza, su tutte una: lunga, lunghissima macerazione, fino a 50-60 giorni, tale da rendere unico il rapporto vino-terroir, da rendere impossibile ogni fraintendimento, per rendere quanto più limitato possibile il lavoro (e quindi di elementi ceduti) del legno utilizzato per il successivo affinamento, che avviene in botte grande e non in Barrique. Le altre uve che concorrono alla composizione di questo Falerno sono il Piedirosso al 20% ed il Primitivo al 10%, tutte uve di proprietà presenti in eguali percentuali nel vigneto Rampaniuci da circa 30 anni. Come detto, un vino espressione fedele del terroir che rappresenta.

Falerno del Massico Rampaniuci 2007 Senza dubbio il vino più complesso delle tre annate assaggiate in occasione della sessione di degustazione, caratterizzato da un primo naso estremamente intenso e persistente su note che vanno dal fruttato al floreale e da sensazioni via via più eteree, terragne, con sfumature addirittura tartufate. In bocca è secco, caldo con una spiccata acidità indice di carattere e presagio di aspettative di tutte rispetto. La riconoscibilità del frutto è avvincente è gli concede una beva assai gratificante, per chi ama vini di spessore ma non pesanti, un Falerno poco allineato alle altre espressioni della denominazione ma dal sicuro effetto sorpresa. 15.000 circa le bottiglie prodotte, da bere in calici mediamenti ampi, su pietanze arrosto e con una buona aromaticità.

Falerno del Massico Rampaniuci 2006 Di colore rosso rubino con nitide sfumature porpora si presenta con una buona consistenza nel calice e poco trasparente. Il primo naso è caratterizzato da note olfattive immediatamente riconoscibili, uva fragola e sensazioni floreali passite; Poi note di polvere di cacao ed ancora sensazioni di terra, di humus. In bocca è secco, caldo di buon corpo e manifesta un equilibrio gustativo più immediato, è piacevolemente rotondo, carezzevole nella sua beva. Questa è l’annata attualmente in commercio del Rampaniuci, un vino di estrema franchezza ed immediatezza consegnato al mercato proprio come le tendenze degli ultimi anni hanno per certi versi imposto e richiesto, ma prodotto da uve autoctone e con una propria identità precisa e già riconoscibile. Da abbinare a preparazioni di carni non particolarmente grasse seppur caratterizzate da buona succulenza ed aromaticità.

Falerno del Massico Rampaniuci 2005 Risultato del lavoro profuso in prima persona da Giovanni Migliozzi, titolare della omonima azienda che ha trascorso lunghe giornate in cantina e molte notti insonni per tirare fuori questa prima annata del Rampaniuci, con una resa in vigna di circa 60 quintali per ettaro ed un duro, durissimo lavoro in cantina tra serbatoi e barriques. Ebbene sì, l’intraprendenza del giovane vignaiolo lo aveva condotto a scegliere la barrique, un pò per convizione che potesse essere la scelta ottimale, un pò per nouvelle vogue visto che sino ad allora ancora molto di moda. Il vino si presenta con una veste cromatica molto interessante, a distanza di quattro anni il colore è ancora vivace, rosso rubino con nuances leggermente granata, poco trasparente. Il primo naso è molto interessante, intenso ed abbastanza persistente su note terziarie molto gradevoli: note balsamiche, polvere di cacao, tabacco, liquerizia di estrema finezza e franchezza. In bocca ha un buon ingresso, con il frutto sempre in buona espressione ma che non riesce a sostenere una persistenza meritoria come i due millesimi dui cui sopra, quasi svanisce. Effetto questo legato proprio alla diversa interpretazione iniziale soprattutto in fase di lavorazione in cantina, dove la macerazione raggiungeva appena le due settimane e dove il lavoro del legno delle barrique utilizzato non ha sortito l’esito sperato. Molto gradevole da bere su primi piatti al sugo di carne, pensando ad una Bolognese tradizionale.

Chiacchiere distintive, Nicola Venditti

15 novembre 2009

Una delle mie prime esperienze come “cronista on line” la debbo certamente all’amico Vito Trotta, fiduciario Slow Food dei Campi Flegrei che dopo una cena-degustazione, una delle prime, otto anni orsono, tenutasi a L’Arcante Enoteca mi invitò a scrivere per l’allora neonascente sito della condotta napoletana. Il progetto ebbe vita breve, a causa soprattutto della mancanza di una “struttura” che curasse il sito, ma lo slancio con il quale avevo intrapreso quel percorso non ebbe contraccolpi, forte soprattutto della continuata esperienza come “degustatore-lettore” del Gambero Rosso che nel frattempo dava sempre più spazio alle mie divagazioni enoiche. Avvenne poi l’incontro con il wineblog di Luciano Pignataro, che non esito a definire un “incubatore di bevitori responsabili”, il primo a credere nel valore della mia scrittura tanto da meritarsi ancora oggi ogni mia prima intuizione degustativa, nero su bianco, a seguito di esalazioni etiliche di qualità meritevoli di attenzioni.

Le Vigne di Villa Dora

Questa breve autocelebrazione per introdurre una piacevola chiacchierata con Nicola Venditti, enologo e patron dell’Antica Masseria Venditti di Castelvenere, persona perbene e di grande slancio evocativo di una viticoltura ed una enologia tanto semplice da attuare quando difficile e complessa da recepire. Suo infatti, fu il primo vino da me degustato e raccontato allora, il delizioso bianco Bacalat 2001, disarmante nella sua verve olfattiva e nella sua sapida beva tanto da confondermi le idee sulla sua origine certa nell’areale d.o.c. Solopaca. Con Nicola ci eravamo spesso incrociati in precedenza in manifestazioni delle più svariate, poi ultimamente anche su fb, pochi giorni fa ad AGLIANICO&AGLIANICO 2009, dove galeotto, se così si può dire è stato l’aglianico Marraioli 2003, di cui parlerò in seguito, estremamente esaustivo della sua idea di vino in vigna ed in cantina.  “La mia terra ha sempre prodotto vino, e l’ha sempre prodotto così, non si scopre nulla di nuovo, probabilmente qualcuno ha preferito addomesticarlo e renderlo più avvezzo al mercato moderno, ma questo qualcuno ha in qualche maniera tradito la sua origine…” così nasce una piacevole conversazione che non manca certo di altri spunti profondi di non difficile intelligibilità, su sistemi di allevamento, su uvaggi e soprattutto sulla cantina, che spesso diviene, senza meritarlo, l’unico protagonista di un’azienda, con le sue volte, le sue scenografie, le sue botti e le sue barriques di diversa provenienza: “l’unico legno presente nella mia cantina è quello del tetto”, mentre mi mostra orgoglioso le foto della sua azienda a Castelvenere.

Nicola vendittiL’azienda ha da sempre una condotta in vigna esemplare, tutti i vini sono certificati come prodotti da agricoltura biologica e la scelta di non usare legni per affinare e/o invecchiare il vino arriva a seguito di una riflessione, se vogliamo estremista, ma autentica e perseverante. “Ho voluto sempre garantire l’autencità dei miei vini, anche a discapito di rimanere incompreso da una certa parte del mercato; Le mie prove, le mie sperimentazioni le ho fatte, ma sinceramente il risultato era talmente divergente dalla mia idea di vino che ho preferito proseguire per la mia strada: non mi ha mai attirato l’idea di emulare altri, soprattutto quando per altri s’intendono i cugini francesi!” Qui si avanzano poi diverse riserve sul lavoro che si fa oltralpe di cui qualcuna, sinceramente, anche condivisibile, ma la conversazione giunge ad un apice che mi piace particolarmente quando si parla del vino che abbiamo nel bicchiere, sotto il nostro naso, il suo Marraioli 2003, aglianico in purezza di grande impulso olfattivo e gustativo, fitto di una trama acido-tannica sorprendente e lungamente invitante. Un vino per pochi sicuramente, per chi ama le durezze del vino e per chi sa apprezzare la lungimiranza di un viticoltore autentico. “Non mi piace particolarmente l’idea del vino monovarietale, la storia della mia terra, ma la storia del vino in generale ci insegna che i grandi vini sono quasi sempre figli di uvaggi e vinaggi, quindi della capacità dell’uomo di interpretare al meglio una vigna, un territorio, un’annata. Rimane però utilissimo capire il potenziale dei propri vitigni e dei propri vini, e quale migliore efficacia di aspettarli nel tempo facendoli interagire esclusivamente con acciaio e bottiglia? Naturalmente si potrebbero trascorrere ore a disquisire su questo concetto di purezza o integrazione vino-legno, ma il dato oggettivo è che c’è un vino nel nostro bicchiere profondamente integro, dopo 6 anni, che alla cieca non si discosterebbe tanto (forse per niente) da un vino appena messo in bottiglia: addirittura sono ancora nitide tracce olfattive di vinosità.

Ci salutiamo con Nicola con la promessa di rivederci in cantina, mi parla del suo vigneto didattico, delle vendemmie notturne, del lavoro che porta avanti con la moglie Lorenza per educare ed informare i loro avventori, clienti, che una viticoltura diversa c’è, basta conoscerla e seguirla per poter bere bene, forse meglio, senza poi svenarsi. Grazie Nicola, posso dire di aver avuto una delle più piacevoli conversazioni enoiche degli ultimi tempi. Ascoltare aiuta a capire, sentire, purtroppo, è forse il male peggiore dell’odierna incultura sociale. 

L’altro aglianico, Bocca di Lupo Tormaresca

14 novembre 2009

Deg. Bocca di Lupo

Aglianico&Aglianico 2009, con Pasquale Porcelli a condurre la verticale.

Diciamoci la verità, quando il Marchese Piero Antinori diede il via libera all’acquisizione delle tenute Bocca di Lupo a Minervino Murge e Masseria Maìme a S. Pietro Vernotico non pochi produttori pugliesi mossero dubbi sulla validità di questa discesa in Puglia del grande marchio toscano del vino, già in preda al panico del rinnovamento a fatica iniziato qualche anno prima ed impauriti com’erano del rischio di una colonizzazione soprattutto alla mercè di un mercato internazionale sempre più pressante, all’epoca, riferimento assoluto non solo della blasonata famiglia fiorentina che vanta oltre 26 generazioni di vignaioli alle spalle. La paura però ha avuto corso breve, il timore si è da subito trasformato in opportunità e molti di quegli stessi produttori oggi applaudono Tormaresca per la dinamicità con la quale è riuscita, in poco meno di un decennio, a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama enologico italiano, facendo da traino per il loro stesso territorio, in particolare per l’areale di Castel del Monte che ha sempre posseduto grandi qualità elettive ma poche opportunità di penetrazione sul mercato, fatte le poche eccezioni del caso, vedi la storica azienda Rivera tra l’altro acquisita da poco dal colosso Gancia. A Minervino Murge, nel cuore del Parco nazionale dell’alta Murgia e della doc Castel del Monte si estendono i 130 ettari dell’azienda Tormaresca, piantati perlopiù ad aglianico, chardonnay ed altre varietà bianche e rosse pugliesi tra le quali il nero di Troia ed il Moscato di Trani. Terroir che risente positivamente dell’influenza del vicino Vulture ad ovest e del mare poco più in là verso Bari e la costa adriatica.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2006, è il vino che più mi è piaciuto, per impatto visivo ed olfattivo, per gradevolezza del frutto, per un equilibrio gustativo certo a breve ma di buona godibilità già adesso. Prodotto da uve Aglianico 100% da vigne di circa 8 anni di età, nasce da una vendemmia abbastanza regolare, terminata in vigna nella prima decade di ottobre, ha superato un periodo di 15 mesi di affinamento in barriques di rovere francese e legni ungheresi ed altri 12 in bottiglia. Colore rubino netto, con buona vivacità e media trasparenza nel bicchiere. Il primo naso è invitante, ampio, note floreali di garofano, fruttate di piccoli frutti rossi maturi, una lieve sensazione gradevolmente balsamica accompagna la fase di retrolfazione. In bocca è secco, caldo, abbastanza morbido, ha una trama acido-tannico evidente ma di qualità fine e di grande prospettiva. La beva rimane piacevole dal primo all’ultimo sorso, buona anche la profondità gustativa che concede sul finale di bocca una discreta sapidità marcando di nuovo un ritorno balsamico che adesso riporta nitidamente alla liquerizia. Da provare su quaglie laccate al miele e purea di zucca gialla al pepe nero, nessuno degli astanti avrà di che lamentarsi.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2004, è il primo riferimento “old style” per così si può dire. Nel senso che l’azienda sino al duemilaquattro era propensa a produrre questo vino con massima parte aglianico, tra vecchi e nuovi impianti appena entrati in produzione con un saldo di Cabernet Sauvignon. L’idea era naturalmente di salvaguardare l’autenticità e la continuità della denominazione, pur utilizzando uve da vigne giovanissime (con tutte le crude conseguenze) ma maritandole con l’opulenza del cabernet (ammesso dal disciplinare d.o.c.) sempre di grande aiuto per stemperare, in questo caso acidità molto spinte e o tannini poco addomesticabili se non attraverso un affinamento estremamente lungo e complesso. Rosso rubino molto carico, con sfumature lievemente tendenti al granato, impenetrabile. Il primo naso è intenso e complesso, varia dal fruttato in confettura, prugna, ciliegia, ribes nero a note balsamiche e speziate: la liquerizia qui è nitida accompagnata anche da un sentore pepato gradevole ed avvolgente. In bocca è secco, decisamente caldo, mediamente tannico e di buona profondità. Rimane a lungo una percettibile sensazione di masticabilità del frutto, segno di grande estrazione e buona evoluzione nel tempo che ha ben amalgamato tutte le componenti del vino. Equilibrato, pieno, assolutamente da bere adesso. Su Canestrato stagionato e noci.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2003, ovvero quando meno te l’aspetti hai da rivedere alcune convinzioni, che ormai radicalmente vedono l’annata duemilatre come calda, siccitosa e madre di vini surmaturi, poveri di acidità e probabilmente poco longevi. Val bene le prime due affermazioni, smentite a mani basse le ultime, un pareggio dal quale, stranamente, ne esce vincitore questo bellissimo vino, inaspettatamente vivo e voglioso di confrontarsi con il tempo e con il palato dei più fini. Rosso rubino, carico di materia, poco trasparente e vivacità cromatica invidiabile. Il primo naso è intenso, marcato sì su note evolute, secche, passite, in confettura, ma non banali: viene fuori una prima nota di dragèe al lampone, crema di cassis, garofano appassito, liquerizia. In bocca è secco, caldo, ricco e di ottima intensità e persistenza gustativa, equilibrato tra i volumi tannici e glicerici chiudendo su una sapidità evidente ma non stucchevole. Una gran bella bevuta, magari sorretta da costolette d’agnello Kleftiko ed un buon amico a cui raccontare il mare di Naxos.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2001, ovvero l’origine, vigne vecchie già segnate da un destino certo, allevate per anni, prima, sovraccariche di frutti e stressate da sistemi tradizionali poco avvezzi alla qualità. La rieducazione dei sesti d’impianto ha dettato i temi futuri, il completo reimpianto di qualche anno dopo, la certezza di aver fatto le scelte giuste e di aver imbroccato la strada maestra. Aglianico e cabernet sauvignon per un blend segnato dal tempo, dal colore rubino carico ma non franco dall’aver ceduto materia al passar degli anni, comunque integro. Il primo naso e surmaturo, evidentemente evoluto su note di frutta cotta, note di burro di cacao, poi di terra bagnata. In bocca è secco, caldo, lungamente persistente ma monocorde su note tendenzialmente dolci; il frutto appare risoluto, coscritto, probabilmente arrivato al traguardo del suo percorso evolutivo. Evocatico del primo step che fu, opportuno avere anche un duemilatre a portata di mano ed amici comprensivi.

Montevetrano, Silvia c’è!

14 novembre 2009

silviaimparato[1]

Tutto nasce per gioco ma non per caso; la storia dell’azienda agricola Montevetrano ha origine nell’entusiasmo di poter sperimentare con un gruppo di amici la passione condivisa per il vino, laddove i riferimenti mitici del momento erano i vini bordolesi. Era il 1985 quando nei dintorni del Castello di Montevetrano, nelle Colline Salernitane in una vigna di appena due ettari di proprietà della famiglia Imparato sin dal 1940, dove si produceva frutta, nocciole, vino ed olio per uso familiare si reinnestano marze di aglianico di Taurasi, cabernet sauvignon e merlot su barbera, per’è palummo (piedirosso) e uva di Troia. Il 1991 è l’anno delle primissime  bottiglie di Montevetrano, davvero pochissime e solo per gli amici più stretti con il cabernet al 70% e l’ aglianico al 30%.

E’ una festa, un gioco per l’appunto che Silvia ha voluto innescare, ma sorprendentemente entusiasmante perché il Montevetrano è molto superiore alle aspettative cosicchè bando alle ciance e s’iniziò a fare sul serio. L’incontro con Riccardo Cotarella fa il resto della storia che ormai è patrimonio della vitienologia campana e se vogliamo dell’Italia intera. Si perfeziona il taglio con una percentuale più bassa di aglianico e l’introduzione del merlot ed infatti il vino risulta acquisire immediatamente grande godibilità seppur senza mancare in personalità e carattere da smussare con attenta evoluzione in bottiglia. 

Nasce un vino che in pochi anni, appena un quinquennio, divenne una icona di come un terroir assolutamente sconosciuto potesse assurgere a fasti illustri grazie ad iniziative coraggiose ed indirizzate a produrre solo e sempre qualità. Montevetrano oggi non è un semplice vino, è un simbolo, per alcuni è stato “la moda del momento” un po’ come accadde un decennio prima al Sassicaia, questi ben presto hanno dovuto ricredersi e guardare a questo piccolo gioiello proprio come hanno dovuto rivedere la loro posizione nei confronti dell’antesignano dei SuperTuscan in quel di Bolgheri. Forse il paragone è azzardato ma le vicende sembrano somigliarsi abbastanza, vedi Bolgheri oggi ed ammiri un’area vocatissima ed una denominazione prestigiosissima, ma in quanti avrebbero scommesso ciecamente sull’opera degli Incisa della Rocchetta? Montevetrano ha percorso vicende avverse e tanti pregiudizi proprio come il Sassicaia, facendo suo un terroir che prima non esisteva ed esaltandolo al suo massimo splendore; additato dai più per la mancanza di originalità, di una tipicità che in realtà in questa zona non è mai seriamente sopravvissuta ai vini modesti e venduti alla buona sul mercato locale è oggi forse la massima espressione territoriale che un vino possa rappresentare.

Pensare alla Campania fuori dagli schemi comuni dell’areale Irpino sempiterno apprezzato e dei vini della provincia di Napoli venduti in tutto il mondo ma sempre recepiti come vini di basso profilo poteva essere un grande affanno alla ricerca di una o due realtà capaci di esprimersi a livelli qualitativi eccelsi, oggi tutto questo fortunatamente è ampiamente superato, dire Campania è dire tanto ma non è più difficile pensare a questa terra come espressione di grandi cru e Montevetrano è a tutti gli effetti uno di questi. Per avere una idea chiara di cosa possa esprimere nel tempo questo vino, segue una breve verticale di quattro annate.

139b[1]Montevetrano 2006. Il Montevetrano è prodotto esclusivamente con uve di proprietà, cabernet sauvignon, merlot ed Aglianico nella selezione clonale vicino all’aglianico di Taurasi. Viene vinificato ed imbottigliato nella tenuta, a garanzia del controllo totale di tutto il ciclo produttivo. Il 2006 si presenta con un colore rosso rubino, di bella vivacità caratterizzato da poca trasparenza, segnale questo di grande estrazione che si evince anche dalla consistenza nel bicchiere che  manifesta lungo le sue pareti una certa presenza glicerica con “lacrime” ricche e lente nello scivolare. Il primo naso è intenso su note vegetali, immediatamente un riconoscimento peperone, poi si apre su note di piccoli frutti surmaturi, ribes e mirtillo, accentua la sua complessità su lievi sensazioni balsamiche che ne esaltano la vinostà. In bocca è secco, la spalla acida ne accentua la giovine età ma non nasconde una struttura ampia e complessa. La profondità di questo vino solo il tempo potrà esaltarla, dona già segni tangibili di buona longevità; da servire alla temperatura di 16 gradi in calici ampi ma non eccessivamente, risulterebbero accentuare la sua attuale esuberanza olfattiva sulle note vegetali. Lo abbiamo abbinato ad un gattò di patate con provola e mortadella e salsa di funghi porcini, tendenza dolce, succulenza ed aromaticità da contraltare a sensazioni olfattive intense, acidità e lunga persistenza del vino.

139b[1]Montevetrano 2005. Il colore è di un rosso rubino, carico e caratterizzato da una impenetrabile veste cromatica. Di buona consistenza nel bicchiere. Il naso manifesta note olfattive molto interessanti ed eterogenee, iniziano su sensazioni fruttate dolci accompagnate da eleganti esalazioni balsamiche; poi confettura di susina, mirtilli e ribes neri, note di spezie sottili ed eleganti, pepe nero in primis. In bocca manifesta la sua giovane tannicità, senza esagerare, sorretta da un frutto estremamente ricco e voluttuoso che gli conferisce un gusto eccezionalmente persuasivo. E’ intenso, persistente e molto lungo anche nel finale di bocca. Da servire in calici mediamente ampi dopo aver lasciato per tempo debito ossigenare la bottiglia aperta magari qualche ora prima di servirla, noi l’abbiamo accostato, giocando con un abbinamento del cuore alla zuppetta di fagioli e scarola riccia con Mozzariello, un piatto povero che trova la sua nobiltà in abbinamento a cotanto vino.

139b[1]Montevetrano 2004. L’annata è stata essenzialmente regolare dal punto di vista climatico, l’areale di San Cipriano Picentino sempra baciato dagli dei in questo, la vendemmia ha avuto il suo inizio a metà settembre.Il colore è rosso rubino, appena meno accentuato rispetto all’annata precedente, comunque vivace ed invitante. Di buona consistenza nel bicchiere. Qui il naso, il primo naso è di floreale passito, poi un fruttato intenso, maturo quasi marmellatoso di grande finezza e persistenza; vengono fuori note balsamiche, tabacco e note di cacao in polvere. In bocca quasi a sorprendere ritorna una spalla acida sincera ed efficace da non confondere con il tannino che risulta attenuato e ridimensionato dall’evoluzione in bottiglia di questo blend sempre più affascinante quanto esaltante. Da servire, soprattutto per la sua verve in calici mediamente ampi ad una temperatura di 16/18 gradi, noi l’abbiamo accostato per l’occasione con un primo piatto tradizionale rielaborato alla nostra maniera, Vesuvio di Paccheri ripieni con passata di pomodori San Marzano di Colle Spadaro.

139b[1]Montevetrano 2001. L’annata è stata caratterizzata da un inverno molto freddo e da un germogliamento tardivo che ha concesso una minore quantità di uva. Le piogge ben dosate però hanno consentito un ciclo vegetativo costante e senza stress particolari sino alla raccolta avvenuta in pieno settembre. Innanzitutto alcuni dati tecnici a sostegno della grande impressione che ho ricevuto da questo vino in questa annata: le uve vengono lasciate a macerare con la buccia per circa 20 giorni in acciaio inox previo salasso del 15%, vengono effettuate durante questo processo numerose follature per rendere omogenea tutta la massa. Successivamente il vino rimane per 8/12 mesi in barriques nuove da 225 lt. di rovere di Nevers, Allier e Tronçais. L’ alcool è di 13% vol. sorretto da un pH di 3,65 e da un’acidità totale pari a  5,10 gr/lt. L’estratto secco è di 33. Si presenta nel bicchiere con un colore rosso rubino con appena delle sfumature sull’unghia del vino tendenti al granato, rimane vivace e poco trasparente. Il primo naso è evoluto ed etereo su note balsamiche e di spezie, avvolgente nelle sue senzazioni di frutti in confettura. In bocca è secco e caldo, avvolgente nella sua trama gustativa che non lascia spazio ad asperità o sensazioni di durezza. Impressionante a parer mio l’armonia che caratterizza questo vino in questo millesimo bevuto oggi, prova tangibile che il Montevetrano può tranquillamente essere aspettato negli anni, senza indugi. Da servire ad una temperatura intorno ai 16/17 gradi in calici panciuti, noi lo abbiamo abbinato al filetto di maiale con spezie, erbe ed aceto balsamico e servito con salsa ridotta di Montevetrano.

Aglianico del Taburno Fidelis 1999, Cantina del Taburno

9 novembre 2009

Il 1999 è un anno davvero ricco di accadimenti, storici, culturali, umanistici ma anche di grandi sofferenze, imprese, sorprese e delusioni. E’ ufficialmente l’anno di nascita dell’euro, la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca entrano nella Nato superando del tutto quella cortina di ferro che sino a dieci anni prima li teneva uniti nel cosiddetto blocco sovietico, quella stessa Nato che il 24 Marzo inizierà i bombardamenti sulla Jugoslavia per fermare il visionario presidente nazionalista serbo Slobodan Milosevic. A Torino muore l’editore Giulio Einaudi, a Roma l’intramontabile Corrado, a Pantani viene scippata l’ultima maglia rosa mentre di lì a pochi giorni Lens Armstrong vincerà il primo dei suoi sette Tour De France.

Immagine9A volte trovo quasi inopportune certe perifrasi a delle belle bevute come questa, ma a guardare un millesimo così importante mi sono venuti in mente più che le elucubrazioni etiliche di autorevoli degustatori subito grandi ricordi che meritavano di essere spolverati e verificati. Adesso però spazio a questo stupendo vino, davvero una notevole e piacevole sorpresa, nella sua essenza, nella sua netta e schietta espressione gusto-olfattiva: invitante, avvolgente, sbalorditivo, pura esibizione di freschezza e godibilità quanto meno inaspettate. Certi vini riescono ad essere una grande esperienza, e non perchè rari o introvabili, ma perchè sorprendenti e come tali si guadagnano il loro spazio nel mio personale Diario di una Bevuta. Innanzitutto le premesse, tutto fuorchè appetibili: etichetta rovinata dal tempo e dall’umidità, capsula poco meno che ammuffita, sughero abbastanza malconcio con annesso rischio di rottura. Tutti elementi che mi insinuano forti dubbi sulla tenuta del vino e non ultimo sulla qualità della sua conservazione, direi non proprio da manuale e che rischiano di svilire anche le flebili aspettative di un delizioso amarcord. Superata questa fase, eccolo questo Fidelis ‘99 che scorre via nel calice imperante, lasciandogli il tempo necessario per dissipare le prime evidenti inibizioni, soprattutto olfattive: il colore è bellissimo, integro, un rosso rubino ancora vivace con nerbature granata appena accennate, di buona concentrazione materica, poco trasparente e molto invitante.

picturesIl primo naso è slanciato, dieci anni tra botte e bottiglia sembrano aver condensato solo il meglio di questo vino, che ricordiamo non essere 100% aglianico ma un vinaggio di quest’ultimo con sangiovese e merlot. Gli aromi, intensi, si aprono su note di amarena e lampone in confettura, prugna, un frutto maturo e compatto, costante, che fa posto successivamente a riconoscimenti terziari nient’affatto banali, lignite e tabacco. La sorpresa maggiore arriva in bocca, perchè superate le premesse di cui sopra ed una affascinante rivelazione olfattiva a questo punto mi aspetto il colpo ad effetto, che non tarda un attimo ad arrivare. L’attacco, se così si può dire, è lievemente tannico (!) ma assolutamente equilibrato, fuso compiutamente ad acidità e glicerina che gli rendono una beva esemplare, intensa, avvolgente, sinuosa, spudoratamente vellutata ed ammantata da un finale rotondo e deliziosamente fruttato di amarena. L’ho immaginato eccezionale sulla minestra maritata di Laura e Luisa Iodice di Fenesta Verde a Giugliano, di cui sento grande mancanza ma non solo per questa una delle prossime tappe autunnali da non far mancare nel personale calendario gourmet.