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L’imbucato consapevole

8 settembre 2016

”…Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”. [© 2013 Jep Gambardella, La Grande Bellezza]

la-grande-bellezza

C’è una sovrabbondanza di astanti, appassionati, sommelier et similia, degustatori serali, bloggers, qualche piccolo giornalista che, ancora oggi, fanno fatica a ben comprendere che non se ne può più di imbucati e scrocconi agli eventi, molti dei quali messi su con grande sacrificio e auto-tassandosi, caricandosi così impropriamente di costi altrimenti insostenibili. Mecenati sì, fessi no.

#ForzaCampiFlegrei

© L’Arcante – riproduzione riservata

Hai sbagliato vino e la colpa è solo tua

21 febbraio 2016

Capita talvolta di prendere un abbaglio, succede quando ci si affida o si lascia scegliere ad altri di provare a stupirti. Male che vada l’alibi ci rende salvi e si finisce per farsene una ragione.

Ma quando a sbagliare vino sei proprio tu? Eh sì, succede ai migliori sai, semmai avessi pensato solo per un attimo di saperne una spanna così più degli altri.

Una lettura veloce alla carta dei vini – non che fosse così ampia, è vero -, il commensale che si schernisce dietro un ‘fai tu, mi fido ciecamente’, con l’autostima che si aggancia facile alle stelle: un breve ripasso dei piatti scelti, ‘mumble mumble… ce lo abbino… ma anche no’, un po’ di conti veloci veloci col portafogli e via con il rosso 2014 di questo qui che conosco bene…

Ahi ahi ahi. Il vino é quello e quello é, ché l’avevi scordato? E adesso con chi te la vuoi prendere? Ne bevi un sorso, con grande fatica butti giù il primo bicchiere, ne versi uno ancora, ci accenni un sorso un po’ stizzito, decidi di lasciarlo lì a respirare un poco, chissà magari. Niente, niente da fare. Hai sbagliato vino e la colpa è solo tua. Te ne farai una ragione?

© L’Arcante – riproduzione riservata

Chiacchiere distintive, di Angelo Gaja ed altre cose di questo mondo: la storia, il vino, il web

10 settembre 2012

E’ qui per fare vacanza, starsene tranquillo con l’amata Lucia e trascorrere le primissime ore del mattino a passeggiare alla Migliara ad Anacapri. Poi però cede alla tentazione lanciatagli iersera tra una chiacchiera e l’altra: “Le va di raccontare un po’ di storia della famiglia Gaja ai ragazzi dello staff, sarebbero onorati della sua presenza?”. “Manco a chiederlo Angelo, a che ora ci vediamo?”.

Inutile ricordare quanto sia bravo a tenere banco. Non è la prima volta che gli siedo davanti, ma oggi è più piacevole che mai. Il ricordo dei fondatori dell’azienda è un intercalare appassionato, poi si emoziona visibilmente quando parla di nonna Clotilde Rey*, della sua figura di donna severa e determinata, autoritaria ed esigente, di quanto sia stata fondamentale nella storia della famiglia. Cala il capo, prima di esplodere in un sorriso carico d’affetto, quando cita suo nonno Angelo che verso la fine dei suoi anni gli ricordava di sovente: “ad un uomo può anche capitare di sposare una donna più brava di lui, una in gamba, tosta. Ci pensi su ed arrivi alla conclusione che o la uccidi, o la segui. Io ho scelto di seguirla…”.

E’ una lunga storia, a tratti epica e ricca di sfumature. E’ orgoglioso quando rivendica le sue scelte, che ammette anche non essere state proprio tutte azzeccate ma ci tiene a riprenderle, una ad una, spiegandocele ognuna per bene.

Si va dalle prime occasioni mancate di comprar vigna in Barolo all’idea di andare in Toscana, sull’onda della grandeur dei Supertuscans; si passa poi dalla scelta, secondo lui obbligata – “per mille ragioni, ci dice” – di passare alla Langhe Nebbiolo coi suoi Grand Crus a quell’indimenticato “Darmagi!” esclamato da suo papà dopo aver piantato cabernet in terra di nebbiolo. Lo fa con orgoglio dicevo, sentimento che vira in felicità quando ci racconta dell’acquisto delle Cascine Marenca e Rivette a Serralunga d’Alba – dove si fa lo Sperss** -, avvenuta nell’88 e salutata quasi come una liberazione. Un omaggio al padre che proprio lì, in gioventù, aveva condotto le sue prime vendemmie; e di Ca’ Marcanda, che porta nel nome tutta la sua personale ostinazione che l’ha portato a sbarcare finalmente a Bolgheri dopo mesi di estenuanti tira e molla e trattative infinite con la vecchia proprietà.

E’ un fiume in piena Angelo Gaja, tantissimi gli argomenti toccati che non basterebbe una giornata per discutere di tutto e riportarne la cronaca; così, anche per questo, ci siamo dati appuntamento a fine ottobre lì a Barbaresco.

Ad alcune domande, tra le ultime, risponde con parole forti: lo fa su chi, dalle sue parti, continua a professarsi – autonomamente – conservatore della tradizione langarola quando “la storia nemmeno li ha sfiorati”. E non disdegna, più in generale, di condannare con fermezza la voracità della vetusta politica italiana, oltreché l’ostinazione di certi suoi esponenti intenti a guardare solo il proprio orticello più che l’interesse del paese. Un invito infine ai giovani, ad imparare sin da subito l’inglese e spostare, se necessario, le proprie ambizioni sin oltre i confini nazionali.

A pensarci bene è fatto proprio così, non si schermisce Angelo Gaja, non nasconde per esempio nemmeno di essere un vanitoso, e di essere inviso a diversi, eppure la percezione è che anche per coloro i quali il gradimento è ai minimi sopportabili rimanga un’istituzione per il mondo del vino italiano; e di certo lui non si fa mancare, di tanto in tanto, di ricordarlo in giro. Dice di farlo a modo suo, ne parla molto coi suoi clienti ma anche con i tanti (troppi!, cit.) “opinion leaders” di settore sparsi qua e là nel mondo eppure sempre proprio dietro l’angolo.

A tal proposito ci tengo a chiedergli ancora giusto un altro paio di cose sulla sua ultima uscita. Mi sorride, mi stringe forte al petto e prendendomi poi sotto braccio mi fa: “guarda che è tardi, facciamo tardi, tu hai da lavorare. Ci pensa due secondi su… “Vabbé dai, forza, sputa il rospo!”. E’ un grande!

Bene. In questi giorni è in giro sul web un suo pensiero sulla vendemmia 2012 e su come affrontare i cambiamenti climatici in atto. E’ lì la vera sfida del futuro per chi fa vino? Viviamo un tempo di grandi sfide, bisogna raccoglierle e fare del nostro meglio per affrontarle fino in fondo. Un tempo bastava consolidare la tradizione ereditata dalla famiglia, impegnandosi laddove possibile nel rilanciarla, affermarla, farla crescere. Oggi è diverso, non basta più solo quello, è necessario tirar fuori dalla storia nuovi orizzonti, scoperte, obiettivi.

E per far questo di cosa c’è bisogno secondo lei, tenendo conto del momento che converrà non essere proprio esaltante? Anzitutto la terra. Abbiamo in Italia ampie risorse per ricostruire un percorso di crescita economica virtuoso e proiettato nei lunghi termini. L’agricoltura ha bisogno di grande attenzione, innovazione, cura. E dare fiducia ai giovani, parlo soprattutto di noi vecchi che dobbiamo essere lì ad indicargli la via, non imporgliela, metterli sulla strada giusta e ricordargli la storia. Ma questi devono avere i mezzi per potersi mettere in gioco. In questo c’è bisogno di un grande slancio a livello istituzionale.

I cambiamenti climatici saranno quindi decisivi tanto da dover sviluppare una nuova agricoltura? Ma certo. L’Agricoltore, il vignaiolo per quanto ci riguarda, avranno un ruolo sempre più determinante. Solo chi vive la vigna sa di cosa ha bisogno in un determinato momento. Ma dovrà sapersi adeguare alle nuove occorrenze; certe malattie (della vite, ndr), ad esempio, a causa delle variazioni climatiche vanno scomparendo ma ne arrivano altre che bisogna saper affrontare.

Di concreto quindi c’è bisogno di tanta ricerca; possiamo anche immaginare l’abbandono di certe colture a favore di altre più adatte alle nuove “occorrenze”? Di certo c’è che con tutto il caldo di queste estati quelle che soffrono di più sono le varietà precoci. E’ necessario quindi imparare a “leggere” l’annata sin da subito, intervenire costantemente in vigna, con potature adeguate, defogliazione, ripensare l’irrigazione di soccorso, e avere naturalmente persone preparate per farlo al meglio.

Specializzazione insomma. Ma è lecito quindi pensare che la cantina, in senso stretto, acquisirà sempre maggiore importanza? Non si rischia così quell’omologazione di cui un po’ tutti fanno fatica anche solo a nominare? La cantina ha sempre avuto un ruolo importante, tuttavia ciò che la ricerca deve garantire sempre più è che il lavoro fatto in vigna venga interpretato al meglio senza stravolgerne l’essenza. Sicuramente chi può contare sulle giuste tecnologie ha una carta in più da giocare. Si può essere artigiani del vino senza essere necessariamente degli sfigati.

Per finire Sig. Gaja, ritornando ad internet e blog vari. Molti le imputano di usarli spesso come corrieri dei suoi pensieri, lei però si guarda bene da una vera interazione con i suoi frequentatori. Perché? Non è necessario, o non lo è quasi sempre. Poi, mettiamola così, io sono all’antica, c’ho 72 anni, ho bisogno di tempo per ragionarci su certi argomenti. Lì, nella rete o come diavolo la chiamate voi bloggers, tutto corre così velocemente che spesso tanti buoni argomenti, che andrebbero ragionati ed articolati, si perdono tra tante piccole fesserie.

* Alla nonna paterna Clotilde Rey (e alla prima figlia Gaia) è dedicato lo Chardonnay Gaia&Rey, un nome che volle essere un omaggio alla tradizione e al contempo uno slancio nel futuro.

** Sperss un tempo era Barolo Docg, oggi come tutti in Grand Crus di Gaja è un Langhe Nebbiolo. Quel luogo, le Cascine Marenca e Rivette in Serralunga, erano un vecchio pallino, scelto seguendo le orme del papà che in gioventù, per tre anni, lì ci aveva fatto vendemmia.

Un riso amaro

21 febbraio 2012

Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno! Mi chiamo Angelo Di Costanzo. Ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere nel venire a farvi visita in cantina. E’ possibile?
Di là: Sì, si, un attimo che vi passo l’interessato… [breve attesa].
 
Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno a voi, mi chiamo Angelo Di Costanzo. La settimana scorsa ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere di venirvi a trovare in cantina. E’ possibile?
Di là: Ah, ma voi cercate la cantina? Aspettate un attimo che vedo se ci rispondono… [attesa, non proprio breve].
 
Di là: Pronto Buongiorno… chi è che parla?
Di qua: Sì, salve, buongiorno, mi chiamo Angelo. Di Costanzo. Dicevo… che qualche giorno fa ho assaggiato alcuni vostri vini e così avrei piacere nel venire in visita in cantina per conoscervi meglio. E’ possibile?
Di là: Eh sì, grazie grazie. Sentite, ma voi scrivete? Su qualche giornale, rivista, blogger (che immagino con l’h, ndr)?
Di qua: Per la verità sì, a tempo perso anche, ma…
Di là: No perché se vuole i vini glieli posso spedire: mi manda l’indirizzo e così facciamo prima.
Di qua: In verità le mie intenzioni erano altre. Ci terrei a visitarvi, conoscere l’azienda, e magari saggiarli assieme a voi i vostri vini; guardi è mia intenzione comprarne un po’ per mettervi in carta…
Di là: Ah… allora se è così dobbiamo fare quando ci sta pure l’enologo. Fa tutto lui qui…
Di qua: Bene, se lo preferisce, per me va bene. Quando possiamo?
Di là: Le faccio sapere quando è disponibile.
Di qua: Attendo sue allora, buone cose. Le lascio il mio num…
Di là: Buona giornata.

Ecco, immaginatevi adesso cosa possa essere, significare, e non per un appassionato mentecatto come me, ma per un normalissimo avventore o cliente – manco a pensarlo uno straniero, chennesò americano –, scoprire l’Italia del vino ancor oggi.

Ti lascio una canzone, dolce melodia…

30 marzo 2010

Urlatori è il nome attribuito dalla stampa italiana dell’epoca a una corrente canora che ha segnato una stagione musicale relativamente breve nel nostro paese, all’epoca del boom economico, fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta. La cifra stilistica di questa sorta di tecnica interpretativa, favorita dal diffondersi dei primi juke-box, era data da una voce ad alto volume, espressa in maniera disadorna e priva degli abbellimenti tipici del canto “melodico”.

Il termine era mutuato dal vocabolo di lingua inglese shouter (appunto, urlatore) che etichettava fin dalla fine degli anni quaranta star del rock statunitense come Howling Wolf (il Lupo solitario poi ricordato in American Graffiti) e Joe Turner, rispettivamente icone del nuovo sound nascente, che mescolava il boogie-woogie bianco alla durezza ritmica del blues di matrice nera, così come veniva praticato a Memphis o a Kansas City. I maggiori esponenti degli urlatori, prevalentemente collegati a etichette con sede a Milano, a quel tempo capitale del mercato discografico, furono cantanti all’epoca molto giovani, destinati – sia pure in misura diversa – a percorrere carriere di successo, come Tony Dallara, Joe Sentieri, Adriano Celentano, Clem Sacco (ve lo ricordate?), Ricky Gianco, Giorgio Gaber, Gene Colonnello, e, fra le voci femminili, Betty Curtis, Jenny Luna, nonché Mina, poi divenuta celeberrima com’è.

Ci fu, in quel tempo, una polemica che fece particolare scalpore, creata e amplificata ad hoc dalla stampa dell’epoca, che contrapponeva gli urlatori agli interpreti della melodia all’italiana (vedi Claudio Villa, Nilla Pizzi, Luciano Tajoli, ecc…). Negli anni in cui prendeva campo anche in Italia la musica rock, diventata fenomeno di costume con Elvis Presley, Claudio Villa fu uno dei pochi a capire che l’unico modo per combattere l’offensiva dei cantanti della nuova ondata era quello di usarne gli stessi mezzi di propaganda: questa fu la funzione dei fan club del “reuccio” e dei suoi atteggiamenti provocatori che a lungo fecero notizia in quegli anni.

Il fenomeno degli urlatori faceva pensare a una rivoluzione in atto del gusto e del mercato che coinvolgeva autori, arrangiatori, editori e cantanti. Così non è stato, appena qualche anno dopo, gli urlatori lasciano il posto, grazie anche all’avvento della british invasion e il conseguente arrivo in Italia di gruppi pop la cui musica era ispirata a quella dei Beatles, ad artisti che sarebbero stati, di lì in avanti, etichettati come rocker o cantanti beat: ad esempio, Gianni Pettenati e Patty Pravo fra i solisti, e The Rokes, Equipe 84, Camaleonti, Dik Dik tra i gruppi.

Ai numerosi lettori di questo blog, più di 15000 in appena quattro mesi, questo post risulterà quantomeno fuori tema, “off topic” come amano dire certi blogger più affermati ed affamati di blogosfera: è un piccolo omaggio alla tradizione centenaria della musica popolare in Italia, che ha visto, forse, il suo più alto gradimento proprio negli anni più laboriosi e virtuosi che ha vissuto il nostro bel paese, anni di duro lavoro, spesso sommesso, indirizzati ad affermare per ognuno il proprio ideale di vita, sociale e professionale, pur rimanendo nell’assoluto rispetto dei ruoli. E’ anche, poco velatamente, un invito ad abbassare i toni,a quanto pare un tantino “alticci” nelle utlime settimane, dal caso striscia in avanti sino ai presunti striscianti seguaci di poliphemo, del tipo grande e grosso nella sua “caverna”, meno tra la gente comune quando diviene piccolo e defilato. Anche perchè, come ampiamente raccontato, storia alla mano, gli urlatori hanno avuto vita breve, chi seppe gestire al meglio il proprio talento ebbe grandi opportunità di crescita ed affermò naturalmente stili e proposte, divenute nel tempo patrimonio della nostra musica, Mina e Celentano su tutti; Gli altri, a parte l’istrionico Gaber, hanno poi consumato il resto della loro vita professionale tra comparsate e festival di Sanremo “per buon cuore degli organizzatori” sino a rimanere vagabondi nel dimenticatoio.

Ecco perché dico: abbasso gli urlatori! Nel vino come nella musica, abbiamo bisogno di melodie e non di isterismi galoppanti da frustrazione cronica dilagante, ed incipiente; Oltretutto, ma questa è solo una nota a margine, taluni urlatori, come hanno dimostrato i fatti, di talento, manco alla Gianni Pettenati, assolutamente niente, non pervenuto; Io, dal canto mio, scusate il gioco di parole musicale (sono pure stonato), di Claudio Villa possono ritenermi un esimio ammiratore, ma sono assolutamente poco incline alla sua epocale ficcante vocazione propagandistica, pertanto, e qui chiudo questo post, posso affermare con certezza che certi ritornelli, seppur piacevolmente orecchiabili, alla lunga possono stancare; Ecco perchè, per quanto amaro possa essere il boccone, buttiamolo giù, gridiamo abbasso gli urlatori, loro se ne faranno una ragione (forse) e noi, beh, almeno sapremo cosa ci abbiamo bevuto sopra.


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