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Melizzano, Dissapore Pizza-Fest

6 luglio 2010

Dissapore Pizza Fest

Avevo appena finito di spiegare al Sig. Gunawan che aprire Angelus 2006, pur essendo un infanticidio, gli avrebbe lasciato un ricordo indelebile, tanto significativo da non dimenticarlo, almeno sino a che non avesse deciso, in futuro, di berne una seconda bottiglia, fosse pure tra una decina di anni! Poco dopo, al telefono, mi arrivava un invito, inaspettato, molto gradito.

Domenica 18 Luglio Dissapore organizza il suo primo Pizza-Fest, e sceglie come location la ridente Melizzano in provincia di Benevento. Alla luce di quanto sopra, dell’invito del cortese Maurizio Cortese ( 🙂 ), noi ci saremo, perchè ci piace la pizza, ci piacciono (e non poco) i protagonisti che ne forgiano le forme e ne conservano la tradizione a Napoli come nel mondo ma soprattutto perchè la pizza, la rete e l’evento stesso, diciamola tutta, sono solo un pretesto per stare assieme e confrontarsi su alcuni temi fondamentali della cultura enogastronomica della nostra regione. A tal proposito interverranno tra gli altri  il Prof. Antonio Mattozzi che ha scritto “Una storia napoletana”, edito da Slow Food, il primo vero saggio storico sulla pizza napoletana, Antonio Tubelli di Timpani & Tempura.

Questo il programma, più o meno: da mezzogiorno spazio alla pizza in tutte le varianti, con i vari Coccia, Pepe e Sorbillo a salire in cattedra per svelare in diretta tutti i segreti della loro arte. Nel tardo pomeriggio una degustazione di mozzarelle in 3 versioni del Caseificio Il Casolare, che si trova nella vicina Alvignano, fiordilatte, mista fiordilatte e bufala, solo bufala, accompagnate da Luciano Di Meo, ovvero dai prosciutti di maiale nero di razza casertana.

Pizza e birra, pizza e vino, qual è l’abbinamento più giusto? Mario Cipriano proverà con Karma a spiegare la sua, lo stesso farà Alexia Capolino Perlingieri che giura di sedurre tutti invece con il Vignarosa 2008. Ancora, Enzo D’Alessandro da Sant’Anastasia con il suo Nucillo prodotto dalle cultivar di Capri, Ischia, Positano.

Tra i tanti ospiti della serata-evento, Antonello Colonna da Roma, Livia e Alfonso Iaccarino del Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi, i fratelli Sposito della Taverna Estia di Brusciano (NA), Lino Scarallo di Palazzo Petrucci (NA), Raffaele Vitale di Casa del Nonno Tredici di Mercato San Severino (SA).

Torrecuso, Vigna Cataratte Riserva 2003

22 gennaio 2010

Gira che ti rigira ci si ritrova sempre a parlare di aglianico, della sua austerità, della sua, a volte, sottile eleganza o come in questo caso, della sua possenza e veemente capacità emozionale. Unisce e divide a seconda di cosa si sta bevendo, del nome che si sta nominando e del territorio di cui ne rappresenta espressione. L’aglianico ha tante anime e tra le tante pur senza rimpianti ce ne sono alcune da amare profondamente.

L’aglianico del Taburno ne possiede una tutta sua e sta imparando nel tempo a conservarla gelosamente, ceppo per ceppo, filare per filare, con la terra che diviene preziosa ed il vino che ne nasce l’unica forza di rinascita, di rivincita, forse di vittoria su vini, a volte meri fratelli coltelli, sparsi qua e là a rubare la scena spesso indegnamente. Torrecuso oggi è il comune più importante della doc Aglianico del Taburno, qualcuno ha definito camminare i saliscendi intorno al borgo vecchio come fare un giro nelle Langhe piemontesi più nobili, io aspetto con ansia di girare a Barolo e Barbaresco ma nel frattempo non oso immaginare niente di simile ai colori e ai profumi autunnali intorno a Fattoria La Rivolta e Fontanavecchia. Dopo la vicina Castelvenere è il comune più vitato della Campania con i suoi oltre 24mila ettari e quello dove si concentrano il maggior numero di aziende vitivinicole. Il territorio ricade nel Parco Regionale del Taburno Camposauro istituito nel 1993 per proteggere i boschi secolari di castagni, lecci e faggi e gli abeti bianchi portati dai Borbone nel 1846.

Un paese completamente votato alla viticoltura, dicevamo, fortemente vocato, come la storia e la tradizione della famiglia Rillo, di papà Orazio e soprattutto del figlio Libero che ha saputo dare la sferzata necessaria a far crescere ed affermare Fontanavecchia come un riferimento di indiscutibile valore per i vini qui prodotti. L’intero areale torrecusano fino agli anni 50 era per lo più spezzettato in piccoli poderi sui quali si coltivava di tutto con le tecniche del tempo e tutto ciò che vi si ricavava soddisfaceva appena i bisogni delle stesse famiglie che conducevano i poderi. Solo qualche anno più tardi si scoprì quale fosse la vocazione più idonea che trovò nella vite e nell’aglianico in particolare la sua strada maestra, e sin da allora i Rillo scelsero bene quale strada intraprendere puntando sempre alla sua valorizzazione ed oggi, alcune loro interpretazioni, in certe annate sono assurti senza ombra di dubbio a capisaldi della viticultura campana.

Il colore di questo Vigna Cataratte Riserva è rosso rubino con riflessi granata, limpido, di buona vivacità e consistenza. Il primo naso è intenso e complesso su sentori di frutta rossa matura, prugna in confettura, poi vengono fuori note speziate, tabacco, sino all’emergere di sensazioni balsamiche, di liquirizia, poi ancora note di grafite. In bocca è secco e caldo, fresco quanto basta, dal palato tosto e coriaceo, dal tannino ben levigato dal tempo ma ancora presente e costante, vellutato solo sul finale di bocca grazie ad un residuo di frutto polposo, semizuccherino, ad abboccare la nota finale tostata tendenzialmente amarognola. La beva risulta costantemente di grande intensità e di notevole persistenza aromatica, avvolgendo il palato continuamente in una piacevole e sostenuta corrispondenza gusto-olfattiva. Un vino certamente robusto, figlio di una annata calda e probabilmente destinato ad una vita non lunghissima ma che ancora, dopo sei anni, mostra di avere carattere da vendere e godibilità da non perdere. Da bere su di una succulenta sella di coniglio farcita cotta a bassa temperatura, come quella di Francesco Sposito di Taverna Estia di Brusciano. 

Clos des Goisses 1996, applause!!

24 novembre 2009

La ricerca dello champagne preferito non ha fine, ci sono esempi storici, camei indimenticabili di imperatori e re follemente innamorati di questo o di quello champagne; governatori,  papi e starlettes capricciosi sino all’inverosimile tanto da meritarsi dediche di intere cuvèe.

Perché stupirsi allora quando a marcare il visibilio più totale è l’annata del cuore, quella da non far mai mancare nella propria cantina, quel vezzo tanto prezioso che caratterizzava tanto la molto beneamata Madame Pompadour, fiera devota al suo Moet del 1746 quanto l’ineffabile James Bond, vinto solo dal fascino del suo Bollinger RD. Il Clos des Goisses è il gioiello di casa Philipponat, uno champagne molto particolare, non per tutti o almeno per coloro che pensano e credono che le bollicine d’oltralpe siano solo un vezzo per viziati e sedicenti imbonitori. Questo cru Nasce a Mareuil sur Ay, in un vigneto-giardino bellissimo che costeggia gli argini del fiume Marna, un climat da cartolina, una veduta da perderci il fiato. Il ’96 come molte delle precedenti annate è stato prodotto con un blend di pinot noir e chardonnay, con il principe dei vitigni a baca rossa prevalere per il 70%  e solo in minima parte affinato il legno.

Il 1996 è uno champagne di rara personalità, ha un colore paglierino brillante, scintillante, possiede una trama di bollicine fitte ed eleganti, persistenti, infinite, cloni a se stesse. Il primo naso è una spruzzata di agrumi, di spezie orientali: buccia limone, pompelmo, poi ginger, foglia di thè e cannella. Un ventaglio assai fine e fitto, complesso e persuasivo, avvincente, inebriante; il gusto è secco, intenso, abbastanza caldo, per niente morbido, spiccatamente citrino: taglia il palato in profondità, una volta mandato giù il primo sorso, per 3,4,5 secondi hai solo il piacere di chiudere gli occhi ed immaginare bevute simili, un confronto decente, una prospettiva futura, così ti convinci di berne ancora, di ricercare altre sensazioni. Ti accorgi così di navigare a vista, speri in un punto di riferimento che non c’è, torni a metterci il naso dentro, lo riassaggi, esprimi una doverosa contropinione sulla sua fittezza di acidità, gli concedi più o meno un ventennio per smussarla e per goderne ancora: cavolo ma è il Clos des Goisses di Philipponnat, punto e basta!

A questo punto sarebbe opportuno buttare giù un paio di piatti adatti ad avvicinare cotanta ricchezza organolettica, ecco allora che mi vengono a mente un paio di esperienze, una recentissima che è la lasagnetta di lingua di vitello in guazzetto di Tartufi di mare di Marianna Vitale del ristorante Sud di Quarto, l’altra mi appartiene per convenzione: la scacchiera di mare di Oliver Glowig (qui), forse il piatto più emozionante (qui conta poco essere di parte) mangiato nel 2009 assieme alla creme brulée di baccalà di Francesco Sposito di Taverna Estia.

Brusciano, Taverna Estia

10 novembre 2009

Basta poco, che ce vo’. Così il grande Giobbe Covatta avviò una grande campagna di sensibilizazzione qualche anno fa, potrebbe tranquillamente essere copiato e fatto proprio come slogan per lanciare i nuovi giovani chef campani alla conquista dall’alta ristorazione italiana: suvvia, un po’ di coraggio!

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Taverna Estia è a Brusciano, periferia napoletana all’ombra della più grande periferia vesuviana che compren©de tra gli altri l’areale di Pomigliano d’Arco, ma è senza ombra di dubbio uno degli indirizzi più centrati per chi desidera una gradevole esperienza gastronomica (a)tipicamente locale.

Il Ristorante ha una storia recente, è nato appena dieci anni fa, dalla passione e dalla caparbietà di papà Armando Sposito, ex insegnante di educazione fisica con il pallino dei fornelli e della condivisione, casa sua era letteralmente presa d’assalto da amici e parenti appena si spargeva in giro la voce che “Armando teneva genie e’cucinà” così l’idea di mettersi in gioco, di avviare quello che in appena dieci anni è divenuto un piccolo laboratorio d’avanguardia culinaria napoletana. Dal 2005, dopo una formazione attenta e mirata sul campo, in cucina il protagonista assoluto è Francesco, figlio di Armando e per tempo pupillo di Igles Corelli alla Locanda della Tamerice, coadiuvato in sala dal fratello Mario, sommelier professionista ed anfitrione garbato e presente. L’ambiente è curato, pochi tavoli ben distanziati, mis en place elegante ed essenziale (ma quanto pesano però le posate!), la cucina in vista lascia trasparire la voglia di spazio ma anche una accurata tempistica e coordinamento del servizio.

Scegliamo il menù degustazione di terra, 8 portate (compreso aperitivo e predessert) che sicuramente non passano inosservate: simpatico l’aperitivo “mangiamo con le mani”, verdure ed ortaggi disidratati e fritti, polpettina di broccoli e piccoli assaggi di conetti di sfoglia e palamita, come buono il bon bon di latte cagliato con acciuga cruda su passatina cruda (che preferisco al termine gazpacho, nda) di San Marzano; semplicemente strepitosa invece la creme brulèe di baccalà con divertenti consistenze e forme di fagioli cannellini e peperoni cruschi.

Non mi ha entusiasmato invece il primo piatto, ovvero “Il grano duro: quattro modi per rivisitare la pasta e le tradizioni”; piatto sicuramente concettuale, come lo definisce Mario, difficilissimo da gestire nel servizio aggiungo io, data la presenza di quattro paste fresche e quattro differenti condimenti, molto bello a vedersi ma poco “palatable”, che si dissolve cioè senza lasciare picchi di piacevolezze particolari. Decisamente eccelso, per concettualità e più ancora per sapore, il secondo, “coniglio al profumo di ginepro, cotto a bassa temperatura, con spiedino di finocchi gratinati e polpettina di coniglio”. Molto gradevole il mio predessert di “gelato vanigliato su confettura di arance”, meno “il parfait di liquirizia alla crema di zucca confit alla vaniglia e croccante di mandorle”, forse un po’ pesantino (anche per la porzione abbondante) prima del delizioso ed originale “Giòcolato”, variazione sul tema cioccolato. Bonus invece, per la buonissima millefoglie con crema alla vaniglia, una proposta must, mi dice Mario che in dieci anni difficilmente sbaglia di colpire dritto al cuore.

Buona la carta dei vini, ben articolata e scorrevole, molto buono il servizio, puntuale ed attento soprattutto da parte della garbata compagna di Mario che lo aiuta in sala, di cui pardòn, mi sfugge il nome nonostante si fosse presentata per tempo, ma della quale certamente non scorderemo le buone maniere con le quali ci ha condotto sino al caffè senza sbavatura alcuna. Conto sui 170 euro, in due, comprensivo delle bevande. Ho bevuto un buonissimo Lagrein 2006 (22 Eur) di Hofstatter, praticamente impossibile da trovare anche nelle carte più attente, perchè molti lo snobbano accecati dalla grandezza dei bianchi e del Pinot Nero di questo nobile produttore alto atesino, ecco perchè in ogni buon ristorante a fare gli acquisti dovrebbe essere il sommelier, e non come spesso capita il rappresentante, bravo Mario!

TAVERNA ESTIA
Via G. De Ruggiero, 108
80031 Brusciano (Napoli) Italy
Tel. +39  081.519.96.33
info@tavernaestia.it
chef@tavernaestia.it
Orari di apertura:
Martedì, aperto solo a cena.
Dal mercoledì al sabato, pranzo e cena Domenica aperto solo a pranzo.
Chiuso il lunedì e la domenica sera.
 

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