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Lettera a un Sommelier

18 dicembre 2015

Da qualche tempo penso sempre che dovrei fare una chiacchierata o più chiacchierate con te. Un po’ perché mi ha sempre colpito quella parte schietta e diretta che hai con l’approccio a questo lavoro, un po’ perché, ci sta poco da fare, guardi sempre alla sostanza delle cose.

Era un sommelier

Mi ha sempre colpito quel guardare oltre quel velo, che tu stesso definisci patinato, che avvolge il tema della cucina e della ristorazione degli ultimi anni e, come te, sono convinto che alla fine l’unica cosa reale e di sostanza che resta, tolto il velo, sia il lavoro.

Il lavoro che diventa pietra sulla quale costruire il legame tra collaboratori, fornitori, clienti, proprietari e che oggi secondo me è l’unica cosa da guardare se si vogliono valutare successi, o meno, del proprio lavoro.

E allora andiamo al sodo: ma quanto è complicata questa “faccenda” del sommelier? Più che complicata però forse vorrei dire onesta.

Si onesta. Perché più cerco di capirci qualcosa del mondo del vino, e così pure del mondo della cucina, più ci vedo meno chiaro. Forse sarà proprio per quella patina, spesso travestita da ignoranza (nel senso della non conoscenza) che dilaga anche tra chi oggi si descrive con le frasi “sono un esperto”, “sono un conoscitore”, “sono un collega”, “sono un appassionato”, fino alla mitica frase da leggere in stile fantozziano “sono uno che gira molto”Personaggi che si infiltrano in ogni posizione, oggi sono critici, blogger, scrittori, giornalisti, recensori, ma la cosa che mi desta più ansia e che oggi siano anche proprietari o gestori di locali convinti che tenere in bella mostra le bottiglie novità dell’anno (decise poi da blogger, giornalisti, associazioni di bevitori etc.) faccia la differenza.

Io non ci capisco quasi niente di vino e cerco di ampliare la mia conoscenza con calma, con prove, portandomi dietro un po’ delle mie esperienze in altri campi e, ancora oggi, a volte non riesco a capire come facciano, seduti a un tavolo a dire che alcune bottiglie siano buone, buonissime o ad arrivare a quella frase che odio istintivamente, quando, presi da pareri totalmente diverse dai propri commensali, sento ripetere: “si però ha quel qualcosa che…”.

Ne ho viste di persone aprire bottiglie diversissime da quelle provate prima, ne ho condivise altre che avevano aspetto, sapore, odore differenti da quelli che ricordavo e ho visto troppe persone elogiarne pregi inesistenti.

Se però il lavoro di sala e quello del sommelier è anche quella di travasare una parte della propria conoscenza con modalità limite, vicine a quelle di uno psicologo, oltre a portare i piatti o a riempire un bicchiere, se questo è vero allora la domanda è semplice: dove va a finire l’onestà dovuta al proprio lavoro senza il dovere di preservare un piacere ai propri commensali, legato al diritto di rispettare la propria professionalità, gli anni di studio e di lavoro?

E non inserisco in questo computo i casi limite che possono presentarsi in sala come, il finto saccente che vuole far bella figura con la ragazza, o quello al quale a tavola viene sempre consegnata la carta dei vini perché casomai ha tutte le bottiglie su Vivino e quindi qualche parola in più l’ha letta, il riccone che compra la bottiglia costosa e che quindi deve per forza essere ottima, o i partecipanti ai corsi che quindi diventano immediatamente esperti.

Parlo di quell’universo di clienti aperto ma a volte chiuso a riccio rispetto a un mondo che effettivamente si pone troppo lontano sopratutto raccontando palle su palle. Parlo di quel mondo aperto, che poi è anche quello che ci permette di lavorare e di campare del nostro lavoro, al quale dovremmo più rispetto e al quale potremmo spalancare le porte verso un mondo bello fatto di luoghi, terre strappate alla cementificazione, di vite agricole senza le quali tutto il resto sarebbe inesistente.

Quanto di questo sparisce ogni volta che si versa un bicchiere a tavola? Quando ci si riunisce a tavoli di degustazione dove nessuno ha il coraggio di dire che un vino ha certi limiti, se nessuno riesce a riconoscere se il prodotto arrivato in tavola è differente rispetto all’idea che ne aveva il produttore inizialmente?

Ecco uno dei punti dolenti più importanti, la conoscenza di un prodotto. Quante volte ho visto cambiare un vino in bottiglia? Quante volte i trasporti inadatti, la cattiva conservazione nei luoghi di vendita altera il prodotto che portiamo a tavola? E com’è possibile senza conoscerne il punto di partenza, l’idea del produttore, fare commenti su un prodotto che si millanta di conoscere?

Considerato che annate diverse ne possono cambiare il profilo, che produttori cambiano idee mentre approfondiscono anche loro la conoscenza del loro vigneto e del loro vino, mentre vanno e vengono le mode della morbidezza, dell’acidità etc… che fine fa l’onestà di chi fondamentalmente vende un prodotto legato a quella di un’esperienza gastronomica, di una serata da ricordare, di un regalo per una sera soltanto, di qualcosa legato al piacere che non sia solo quello della quantità, che si sposti verso la qualità e anche al sapere?

Ma poi? Ma quante vole lo dovete sbacchettare sto decilitro di vino nel bicchiere per dire che lo volete ossigenare? Ma quanto ossigeno può entrare in un decilitro di vino? Quale processo di fissione nucleare pensi possa mettere in moto il tuo gesto per far prendere aria a uno sputo di vino? Ore e ore a rigirare calici e a fare finta che ad ogni giro esca fuori quella nota in più che ormai sarà quello che stai mangiando? Senza parlare dei mal di testa che mi vengono quando vedo sbacchettare per ore e ore le bollicine e poi sentire parlare di metodi per ottenere perlage non aggressivi e che si sentono proprio nel bicchiere che da ore sbacchetti tanto da sfiatarlo!

Se a questo ci metti che sembra diventato impossibile poter fare un corso di sommelier se non sei avvocato, ingegnere, casalinga disperata, o qualsiasi altra cosa che non sia lavorare in un ristorante, se a questo ci metti il mercato a volte a senso unico costruito su case che imboniscono rivenditori e rappresentati, che imboniscono ristoratori e proprietari di locali che alla fine sembra che vendiamo tutti le stesse cose, senza che nessuno conosca un fazzoletto di terra dove ha scoperto un vino che gli si è legato al cuore, un produttore che si sporca le mani e ti trasmette il vero senso della terra, senza essere ambasciatori di un territorio di un’idea, di un cammino… dimmi tu: ma quanto è complicata sta “faccenda” del sommelier? (G. d. V.)

© L’Arcante – riproduzione riservata

Premi L’Espresso 2014|Il Sommelier dell’Anno

17 ottobre 2013

Angelo Di Costanzo Sommelier dell'anno L'Espresso 2014 - foto L'Arcante___________________________________

I Ristoranti d’Italia 2014 L’Espresso

Il Sommelier dell’Anno – Premio Rapitalà

Al responsabile della cantina di ristorante che nel corso dell’anno si è distinto per competenza e professionalità.

Angelo Di Costanzo

Capri Palace Hotel&Spa

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www.espresso.it

In trattoria

4 ottobre 2013

La Trattoria degli Amici era un luogo gradevole, l’ambiente spartano, essenziale diremmo oggi, da là ci passavano praticamente tutti: coppiette, professionisti, magistrati, delinquenti. Credo sia stato il luogo dove in poco più di tre mesi ho capito il 50% del lavoro del cameriere, un 50% intriso di consuetudini e luoghi comuni di cui avrei fatto a meno di li a poco.

Si lavorava spediti, in maniera semplice ma con tanta buona volontà. C’erano sere in cui mettevamo appena un paio di coperti, magari quattro, ma da metà settimana sino al sabato e alla domenica non li tenevamo, difficile starci dietro. Don Alfredo (pace all’anima sua) aveva una gran bella mano. Non credo di aver mai mangiato uno Spaghetto con le cozze migliore del suo, per non parlare della sua Zuppa di pesce. Certe sere quando non aveva altro per la testa era davvero un fenomeno; però poi ogni tanto s’incartava, andava fuori di testa e diveniva quasi impossibile sbrogliare la matassa. Che peccato! Come detto ci veniva gente di ogni pasta, e molti di questi spesso da fuori Napoli apposta per saggiare i suoi piatti.

Don Alfredo ci sapeva stare e come ai fornelli, là davanti per lui era come suonare uno spartito, cavalcare a memoria un motivo, ma non era certo quel che si dice ‘un buon imprenditore’ e questo mi fu quasi subito chiaro. Ci rimasi tutta un’estate, quella del ’95. Da poco mi ero rimesso con Lilly, una storia d’amore infinita dove vivevamo momenti straordinari alternati a rincorse senza alcun senso. In fondo è così che va a volte, in effetti stavamo solo scavando dentro di noi per scoprire chi eravamo e cosa volevamo l’uno dall’altra. Una guerra lieve ma non per questo indolore. Praticamente l’amore!

Me ne andai una domenica di fine estate, non proprio serenamente, anzi, però ero certo di quello che stavo facendo. Fu l’unica volta nella mia vita, lo giuro, che me ne sono andato ‘sbattendo la porta’, come si suol dire. Una faccenda strana quella, su cui tra l’altro non ci sono mai ritornato. Ahimè appena qualche mese più tardi La Trattoria chiuse. E lo rimase a lungo, poi passò di mano; oggi, con un’altro nome, rivive in uno dei locali più frequentati in via Napoli  a Pozzuoli.

L’estate italiana su Wine News vista da qui

4 settembre 2013

Marco Ciacci qui¤ su winenews.com ha appena pubblicato una interessante ‘fotografia’ sull’estate italiana e su cosa e come si è bevuto nei ristoranti di mare di pregio? In merito c’è anche una mia…

L'Intervista

“In linea generale è stata una buona stagione che ha ampiamente ripagato gli sforzi e gli investimenti che l’azienda fa – commenta Angelo Di Costanzo, head sommelier de L’Olivo (due stelle Michelin) e Il Riccio (una stella) di Capri – nonostante il lavoro stagionale implichi mille difficoltà.

Al Riccio c’è stato un cospicuo incremento sia della clientela sia del numero di bottiglie con un vero e proprio boom dei vini (soprattutto bianchi) campani in maniera costante e trasversale. Intendo sia di vini di grandi ed affermati produttori che di piccoli e poco conosciuti vigneron cui dedichiamo sempre più attenzione. Un incremento delle vendite si è verificato anche per Franciacorta, Trentodoc e di bollicine autoctone (Asprinio d’Aversa, ad esempio) sempre più di buona qualità che però necessitano ancora di tanta comunicazione.

A L’Olivo va aggiunto una sostanziale diminuzione della richiesta di vini “superdotati”, già da tempo ridotti all’osso in carta. Non mancano tuttavia i grandi nomi e, nonostante la clientela si fidi e spesso si lascia consigliare tranquillamente, non è da sottovalutare una tendenza ormai costante al “marchio” di prestigio e/o storico. Tenendo conto della particolare clientela è inutile sottolineare la sempre buona vendita di Champagne e vini bianchi francesi, presenti in maniera massiccia sulla nostra carta. E grandi rossi (più Borgogna che Bordeaux)”.

©Winenews – L’articolo completo qui¤ su winenews.com.

Pillole di vita da sommelier, “Odi et Amo” #1

8 giugno 2012

E’ da un po’ che mi girava per la testa, invero è da un po’ che dovevo – a domanda – delle risposte: a Claudio, Piero, ma anche ad Alessandro che più di una volta si sono chiesti e mi hanno detto “quanta fortuna fare il sommelier lì a Capri...”.

Ore 8,30/9.00 del mattino, poco dopo il caffé.

Amo. Ci sono giornate che comincio a rincorrere bottiglie dalle otto e mezzo/nove del mattino: quelle che la sera prima hanno consumato e vanno rimandate al Riccio – con, eventualmente, carta aggiornata e stampata -, quelle che deve ritirare il Bar degli Artisti, quelle da rimpiazzare nei frigo a L’Olivo uscite il giorno prima. E quelle che vanno al Bistrot Ragù, meno impegnative ma pur sempre da tenere sotto costante controllo. Almeno un centinaio, nelle giornate più “cool” talvolta anche più, da rincorrere su e giù per la Cantina del Giorno, in La Dolce Vite o nel deposito. Un lavoraccio? Più o meno, ma che mi piace ed amo perché dà valore alle scelte, e valore – ancor più prezioso! – al lavoro dei ragazzi che con me le propongono, presentano, servono al meglio, al loro meglio.

Odio. Un po’ mi scoccia, è vero, ma come si fa? E’ pesante mettere ogni giorno tutto a posto quando gli spazi sono quelli che sono, i tempi poi, manco a dirlo; 8/9.000 bottiglie l’anno da far fuori in 4/5 mesi di stagione buona. Tante, anche questo un lavoraccio, duro, per tutti: per Gennaro che talvolta è immerso nelle carte, per Dario, Sabatino – bontà loro – che non mancano mai di offrire la spalla, per Claudietta che, poveretta, morde il freno a fare su e giù per le scale ma ohh!, non si risparmia mai. Non v’è rimedio, è quanto necessario per garantire quello che proviamo a fare, offrire il meglio, alquanto più ci è possibile!

Ore 10,00/11,30: carta canta.

Amo. Nomi, etichette, annate, varietali, annotazioni. Talvolta c’è da perderci la testa: nuovi arrivi, passaggi di annata, revisioni, ma quanto mi piace metterci l’anima nel preparare una carta quanto più completa, affascinante, convincente, viva possibile!

Odio. Lo so, capita nei migliori ristoranti del mondo, ma quanto è banale bere ovunque nel mondo sempre lo stesso vino del cuore: “i would like any chardonnay, smooth, buttery, Napa style!”. Per fortuna sono sempre meno (di clienti che lo chiedono, il vino del cuore e di chardonnay Napa Style), ma aprila quella carta, sei a Capri mica in culo al mondo, guarda almeno cosa ha raccontarti…

Ore 19,30: quasi sempre sino a tardi.

Amo. I clienti attenti, anche severi, esigenti, pure quelli che si attaccano al taglio della zucchina nel Cotto&Crudo o alla goccia d’acqua trasudata della bottiglia appena alzata dal seau à glace. Sono di grande stimolo, ti fanno stare in allerta, correre e concentrare, ti fanno dare il meglio di te e quasi sempre riuscire nell’ardua impresa di sbagliare il meno possibile.

Odio. I fighetti, presuntuosi, altezzosi e soprattutto quelli incazzatissimi che ti arrivano al ristorante per aprirti in faccia tutte le valvole di sfogo possibili: “fa caldo”, “ma fa freschetto?”, “c’è poca luce” o “troppa, si può abbassare?”, “c’è rumore… e un posto più appartato?” o “troppo silenzio, mica saremo soli?”. Almeno passala la soglia, guardami, ho le braccia aperte, ti sto dando il benvenuto, prova a fidarti! Continua…

© L’Arcante – riproduzione riservata

La Basilicata in bianco, Re Manfredi 2008

25 novembre 2009

La Basilicata è senza ombra di dubbio una terra unica e straordinaria e seppur l’origine etimologica stessa del suo nome, proveniente forse da Blaseus – Terra dei Re – evochi blasone e regalità colpisce e stupisce per la semplicità disarmante delle sue bellezze naturali tanto care ai viaggiatori dell’800, per i suoi paesaggi chiaro-scuri incastonati tra il mare e la terra, tra lo Ionio ed il Tirreno, tra il Vulture e le montagne sacre del Pollino.

Qui sorge Terre degli Svevi, azienda agricola di particolare suggestione e piccolo gioiello della viticoltura vulturina tra le aree di Venosa e Maschito, particolarmente vocate per la produzione dell’aglianico del Vulture ma che grazie alla loro peculiare esposizione ben si adattano alla sperimentazione di impianto di vitigni, senz’altro innovativi per l’area, come il muller thurgau ed il traminer aromatico iniziate nel 2001 con risultati decisamente incoraggianti.

Il Re Manfredi bianco è un vino che sin dal mio primo assaggio avvenuto al Vinitaly nel 2004 (annata 2003, non commercializzata) mi ha colpito ed entusiasmato, soprattutto per l’imprinting olfattivo del quale tutto si poteva immaginare tranne che fosse un vino del sud, addirittura del Vulture. Una novità assoluta per il panorama dei vini bianchi del sud, senza dubbio una botta di vitalità per un areale che mietendo i dovuti riconoscimenti per il suo straordinario aglianico non riusciva ancora a proporre nulla di chè rilevante sul versante bianchista (a parte poche buone interpretazioni di Fiano) per supportare una proposta commerciale sicuramente di eccelsa qualità ma recepita come un “unicum” territoriale con tutte le problematiche ad esso correlate.

I primi appunti di degustazione dell’annata 2008, all’epoca appena arrivato sugli scaffali li avevo lasciati sul sito dell’amico Luciano Pignataro circa un anno fa’ ma la curiosità di capire, dopo quasi un anno (appunto) cosa fosse successo era tanta, pertanto bando alle ciance e calice alto: il colore è rimasto di un bel giallo paglierino, chiaro, nitido ed ha conservato una verve cristallina ineccepibile, di media consistenza nel bicchiere. Il primo naso è intenso, ampio, senzazioni aromatiche inseguono note erbacee, spunti mentolati, un fruttato quasi dolce di mela, pesca e di banana, mandorle.

In bocca è secco, possiede una trama acida di prezioso equilibrio, per niente invadente, direi anzi invitante e godibile dall’ingresso alla deglutizione. In conclusione un vino che ha ancora spalla per reggere bene un altro paio di giri di calendario, sinonimo di grande qualità in vigna ed in cantina, di esperienza da vendere, di un terroir straordinario che ha trovato una nuova vocazione, bianchista, di grande aiuto ad una offerta vulturina che come detto pur di grande qualità soffre, soprattutto in fase di stagnazione, di una minore capacità di penetrazione sul mercato “medio”, soprattutto internazionale.

Un vino da bere molto fresco, da accostare a pesci fritti, ricordo le vope e le mennelle fritte che mia madre non smetteva mai di friggere per la voracità con la quale sparivano dalla tavola della domenica, ma quelli erano altri tempi, altri profumi, altri sapori a cui nemmeno un re avrebbe resistito!

© L’Arcante – riproduzione riservata


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