I sapori dolci sono popolani mentre quelli acidi conservano un non so ché di quasi intellettuale. Più di qualcuno la pensa così, non sempre a ragione. Tant’è che l’argomento mi appassiona, così ho chiesto all’amico Gerardo Vernazzaro¤ un suo piccolo contributo sulla questione della “deriva acidistica” ripresa qualche post in là¤. Quanto segue non è certamente del tutto esaustivo sulla faccenda, mi pare però chiarire alcuni aspetti e quindi di larga utilità per chi ci legge. [A.D.]
Gli acidi organici contribuiscono in modo determinante alla composizione, alla stabilità microbiologica e chimico fisica ed alle qualità sensoriali di tutti i vini; l’altro parametro fondamentale in relazione all’acidità è il pH, che esprime la “forza acida” di un alimento, nel nostro caso, del vino. E’ fondamentale definire dei valori medi di acidità totale e di pH nei vini prima di introdurre termini quali “basso”, “elevato”, “sostenuto” ecc.
Possiamo affermare che l’acidità media di un vino può essere compresa tra 4,5 – 8 grammi per litro ed il pH può essere compreso tra 3 e 4. Qui va chiarito un punto: mentre l’acidità è espressa in grammi litro (g/l), quindi più comprensibile, il pH è adimensionale ed appare spesso come astratta e teorica in quanto definita matematicamente come logaritmo negativo a base 10 della concentrazione di ioni d’idrogeno associati a molecole di acqua: pH=-log 10 [H3O+]; ai fini pratici dunque, per una maggiore comprensione del ph, diremo più semplicemente che esso esprime la “forza acida” di un vino, tenendo conto che la scala del pH va da 0 a 14, con la neutralità a 7, definendo quindi le sostanze acide in un intervallo compreso tra 0 e 6,99 e le sostanze basiche nell’intervallo da 7,1 a 14.
Il vino ha mediamente un ph compreso tra 3 e 4 e fa parte quindi della famiglia delle sostanze acide. Più alto è il valore di acidità, più basso è il pH (più si avvicina a 3), più l’acidità è bassa più il pH è alto (più si avvicina a 4). Si aggiunga che un vino bianco con acidità totale 6,5 – 7,5 g/l e pH 3,10 – 3,30 ha maggiore potenziale di conservazione e quindi maggiore longevità; un vino bianco invece con acidità totale pari a 4,5 – 5,50 g/l e pH 3,40 – 3,70 avrà minore potenziale di conservazione, meno longevità quindi, ma sicuramente una maggiore godibilità nell’immediato.
Il pH gioca un ruolo fondamentale in enologia anche ai fini della selezione microbica durante la fermentazione alcolica in quanto intorno al valore 3 si adattano e lavorano meglio i lieviti, mentre intorno al 4 sono anzitutto i batteri che trovano un ambiente favorevole al proprio sviluppo; così in un mosto con una acidità elevata ed un pH basso prossimo a 3 come valore, durante il processo fermentativo saranno favoriti i lieviti, mentre a pH alti, prossimi a 4 ad esempio, saranno favoriti batteri lattici, quelli acetici ed altre famiglie che vanno confondendosi ai lieviti; la fermentazione così non risulterà “pulita” col primo rischio di trovarci in presenza di fermentazioni miste di lieviti e batteri ottenendo quindi vini sommariamente “sporchi”, con effetti chiaramente negativi sulla qualità e sulla finezza espressiva; rischio questo che in annate particolarmente calde, col pH che tende a valori alti, conduce inevitabilmente ad un abbassamento della qualità dei profumi varietali a favore di quelli post-fermentativi; in definitiva mosti con ph bassi e acidità totali elevate danno garanzia di pulizia fermentativa conservando un’accentuata naturale capacità di sfidare il tempo.
Per quanto riguarda i vini rossi va aggiunto che ben sopportano acidità più basse e pH più alti in quanto i composti fenolici in essi contenuti ne accentuano il gusto acido e contribuiscono ancor più alla loro tenuta nel tempo. Ovviamente, per il loro reale potenziale evolutivo contribuiscono alla causa anche l’alcol ed i polifenoli totali.
Ma quali sono questi acidi? I principali acidi organici dell’uva sono l’acido tartarico, l’acido malico e l’acido citrico. L’acido tartarico è il più rappresentativo dei mosti e dei vini ed è poco diffuso in natura al di fuori dell’uva; diluendolo in acqua e degustandolo siffatto presenta una sensazione strenuamente amara, nei mosti e nei vini il suo quantitativo varia da circa 3 a 6 g/l in base alla zona di produzione (nord o sud), l’annata (calda o fresca) e la tipologia di suolo. L’acido malico si riscontra in tutti gli organismi viventi ed è abbondante sopratutto nelle mele verdi da cui il suo nome, quindi il suo gusto è da associare alla sensazione della mela acerba, quindi un acido “tagliente”; la sua concentrazione è variabile da 1 a 5 g/l e la sua presenza viene compromessa soprattutto nelle annata particolarmente calde.
Per i vini bianchi la tendenza attuale è quella di preservare l’acido malico per garantire al vino una maggiore freschezza e giovinezza, mentre per i vini rossi nella maggior parte dei casi viene fatta svolgere ad opera dei batteri lattici la cosiddetta fermentazione malolattica, che altro non è che la trasformazione dell’acido malico in acido lattico: per ogni grammo di malico si generano 0,67 circa di lattico, quindi assistiamo ad un calo del contenuto di acidità e sopratutto al cambiamento della qualità sensoriale, in quanto l’acido lattico è un acido che potremmo definire più “dolce” o “morbido”. L’acido citrico è molto diffuso in natura, ad esempio negli agrumi, sopratutto nel limone, tant’è che il suo gusto è da associare proprio a quello del limone acerbo; è il meno rappresentativo e il suo quantitativo medio è compreso tra 0,5 – 1 g/l.
Per meglio completare il quadro acidico di un vino dobbiamo fare un breve accenno anche agli altri acidi organici che si generano in fermentazione, primo tra questi è l’acido acetico prodotto soprattutto per l’attività dei batteri acetici dopo la fermentazione ed il suo quantitativo nei vini sani può variare tra 0,2 a 0,6 g/l, con casi particolari dove può raggiungere anche 1 g/l, soprattutto nei vini rossi di lungo invecchiamento dove l’acido acetico può giocare un ruolo sensoriale positivo e complessante. Vi è quindi l‘acido lattico nelle forme D e L: il primo di origine batterica, il secondo prodotto dal metabolismo dei lieviti, l’acido succinico il cui tenore nei vini si aggira intorno a 1 g/l, l’acido butirrico, l’acido propionico ed altri.
In enologia si parla di acidità totale sommando la gran parte degli acidi presenti in un vino, l’ acidità volatile espressa in g/l di acido acetico e l’acidità fissa che si ottiene sottraendo il valore dell’acidità volatile dall’acidità totale. Queste “tre forme dell’acidità” unitamente al pH hanno una grande influenza sensoriale e giocano un ruolo importante nella formazione degli equilibri gustativi con le sensazioni dolci (zuccheri e alcoli, glicerolo, mannoproteine) e con le sensazioni amare (composti fenolici); quindi non dovremmo parlare di bella acidità ma più precisamente di “equilibrio acidico” in quanto una acidità elevata con un pH basso, non bilanciata da un buon contenuto di glicerolo o di polisaccaridi da lievito o da legno, potrebbe avere un effetto poco piacevole sul piano sensoriale o quantomeno sbilanciato. L’acidità dunque va sempre valutata in rapporto ad altre numerose sostanze presenti nel vino e dal suo bilanciamento ed equilibrio con queste.
Così, come in musica le note devono essere ben bilanciate per comporre una buona armonia, anche nel vino non dovrebbero esserci note stonate, anche se ultimamente più di qualche addetto ai lavori sembra lodare ad oltranza “l’acidità” di un vino senza precisarne i canoni, creando così tanta confusione tra le varie legioni di appassionati chiaramente non sempre, o non tutti bevitori esperti, lasciandoli così in balìa di tutta una serie di considerazioni che poco aiutano a fare chiarezza, anzi, confondono oltremodo.
Gerardo Vernazzaro, enologo e viticoltore a Cantine Astroni¤.
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