Posts Tagged ‘aglianico di taurasi’

Taurasi, Contrade di Taurasi ’99 Cantine Lonardo

27 luglio 2012

Ne avevo già parlato con grande entusiasmo, forse anche esagerando i toni tanto fui preso dalla bella serata passata in compagnia, ma di certo non nei contenuti, dettati da sensazioni estremamente positive (qui).

Taurasi 2001 Cantine Lonardo - foto L'Arcante

Desideravo infatti fortemente che questo vino divenisse un riferimento assoluto per tutte le bevute successive di chi cercasse nel Taurasi quell’anima vera, rude ed implacabile che solo l’aglianico e il terroir di certe piccole vigne irpine sanno imprimere in certi vini. Sappiamo bene che c’è sicuramente anche dell’altro, a volte bottiglie anche più suggestive di questa dei Lonardo, o di più completa espressione in termini di eleganza e avvolgenza degustativa, ma il ’99 di Sandro – come lo sono alcune vecchie e nuove Radici Riserva di Mastroberardino –  è davvero un caposaldo della viticultura taurasina, che niente concede al tempo se non l’opportunità di sfidarlo.

Ieri sera ancora una conferma. Lasciato respirare, il naso esprime tutta la grandeur del varietale, ancora incentrato su toni di viola e marasca sotto spirito, poi una continua sventagliata di sentori balsamici e speziati, di sottobosco e cioccolato fondente. Il frutto ritorna massivo in bocca, molto gradevole, a tratti vinoso; il sorso però è asciutto, quasi austero, puntuto, sollecita insistentemente il palato sino ad avvolgerlo, indulgente e sgraziato. Elogio dell’imperfezione, chiude un poco amaro, come amaro è accettare che in cantina siano rimaste appena una decina di bottiglie ancora. Irripetibile!

Santa Paolina, Matèrtera 2008 Bambinuto ovvero quando l’aglianico irpino si veste di leggerezza

16 gennaio 2011

Andare a zonzo in Irpinia è sempre un piacere, ancor più quando a farti da cicerone è una persona deliziosa e competente come Antonio Pesce, con il quale parlare di vino può divenire solo l’ultimo degli argomenti che ti viene in mente di trattare mentre macini i chilometri che da Napoli ti dividono dall’incrocio per Santa Paolina. A questo aggiungici ancora un paio di amici di bevute dalla forgiata caratura passionale, ed ecco che camminare le vigne, oltre che “lavoro di piacere”, diviene anche una imperdibile lezione di vita tout court.

Piombiamo in casa di Marilena Aufiero verso le dieci e mezza del mattino, lei, cordiale e disponibile, ci accompagna nella piccola cantina ricavata praticamente nel sottoscala di casa, dove però si respira un’aria dal sapore tanto artigianale quanto intrisa di calore familiare; con Antonio e gli altri, ci facciamo un giro di vasche per testare cosa di buono abbia offerto la vendemmia appena raccolta a ciò che di qui a qualche mese ritroveremo nei lieti calici: il greco di Tufo 2010, quello base, pare di sentirlo ancora in bocca!

Bambinuto è un piccola realtà, nasce solo nel 2006 dall’intuizione di papà Raffaele di vinificare e mettere in bottiglia in proprio una parte di quelle uve greco sino ad allora sempre conferite a terzi imbottigliatori. L’idea piace subito a tutti in famiglia, ma prende forma e sostanza soprattutto grazie all’impegno delle due figlie Marilena e Michela che, sposando appieno il progetto, decidono però di dettare, nel vero senso della parola, delle linee guida ancor più rigide di quelle nelle intenzioni del padre: non solo fare vino di qualità ma possibilmente distinguersi dal già affollato corollario bianchista locale. Oggi, all’ottima proposta di greco di Tufo offerti, uno fermo base ed una selezione (il loro Picoli è senz’altro tra i migliori greco dell’areale) più uno spumante metodo classico ed un passito di prossima uscita, si sono affiancate piccole quantità di fiano di Avellino ed aglianico di Taurasi, per completare una gamma di prodotti decisamente convincenti, così come molto piacevole ho trovato l’ottimo aglianico Matèrtera, un rosso a buon mercato e decisamente interessante se valutato come base d’ingresso sul panorama dei rossi irpini.

Spesso ci siamo detti, su queste pagine in primis, quanto le aziende, le piccole aziende in particolare siano funzionali alla crescita del comparto agricolo quando seriamente impegnate nella loro specializzazione e non mestamente risucchiate da improbabili aspettative commerciali; pertanto mosso da questo principio ma aperto a mille varianti del caso, non mi dispiace pensare a quanto sia intelligente l’impegno profuso dalla famiglia Aufiero nella valorizzazione del greco di Tufo quanto però utile e necessaria la realizzazione di vini rossi fini e leggiadri come questo aglianico che li aiutino a ritagliarsi spazio sul mercato senza per questo scimmiottare un modello irraggiungibile per vocazione e distinzione territoriale.

Così se il Picoli¤ assurge a modello di ineccepibile e particolare complessità, con un timbro organolettico decisamente sopra le righe per l’areale, puntato su maturità del frutto e piena espressione piuttosto che la magra freschezza scelta da alcuni, così il Matèrtera, prodotto da uve aglianico provenienti da vigne allocate in Montemarano e Castelfranci ricalca un modello, godurioso e facilino, tanto difforme dai must taurasini quanto invece funzionale alla causa: lasciarsi bere! Il Matèrtera 2008 (dal latino, sorella della madre) viene affinato in botti di legno di secondo passaggio per 4/5 mesi rimanendo in bottiglia per almeno dieci mesi prima della vendita. Il colore è rubino tenue, prodigo di piacevoli sensazioni olfattive, floreali e fruttate ma anche lievemente boisè che trovano conferma in un gusto secco, direi asciutto, ma incentrato su leggerezza e gradevolezza della beva. Uno di quei vini, più o meno dieci euro al ristorante, che in due finisce che un piacere: non è forse questo di cui avete bisogno, cari amici ristoratori?

© L’Arcante – riproduzione riservata

Salza Irpina, gocce di Ratafià di Nonna Erminia

30 dicembre 2010

Sono passati si e no una decina d’anni da quando ho conosciuto Roberto Di Meo, più o meno quando, da Salza Irpina, l’azienda di famiglia muoveva i primi convincenti passi nel già affollato panorama delle novità irpine. Dei suoi vini mi sono subito piaciuti in particolare lo stile, inconfondibile quello del suo fiano di Avellino e ancor di più la correttezza dei prezzi – l’aglianico, quello base, allora praticamente imbattibile per rapporto prezzo/qualità – elementi questi sempre più rari, ancora oggi, e che mi hanno immediatamente conquistato, avvalorati poi da una costante magistrale esecuzione enologica di materia prima viva e pura, di qualità superiore.

Il tempo non mi ha smentito, seppur scandito da qualche passo falso – non ho mai ben compreso per esempio l’uscita di un grand cru come il Don Generoso quando già i suoi Taurasi sono ineccepibili – e ritrovare, ancor oggi, in cotanto grande spolvero qualche vecchia bottiglia di fiano Colle dei Cerri o del più austero (e senz’altro economico) Vigna Olmo rimane una emozione non da poco. In effetti, fare poche bottiglie di un grande vino, costoso (il Don Generoso costicchia eccome!), rimane sempre un plausibile esercizio di stile, anche se a volte fine a stesso, mentre riuscire a condensare tutta la qualità possibile anche nelle etichette per così dire “base” rimane invece impresa davvero per pochi. Le sue qualità come enologo quindi, dal manico finissimo, sono in definitiva indiscutibili come del resto l’alto gradimento di tutti i vini che firma nella sua cantina collocata oggi in quella che fu la storica dimora settecentesca dei principi Caracciolo di Avellino.

Il prodotto di cui però voglio raccontarvi in questo passaggio è forse il più delizioso del portafoglio offerto dai Di Meo e senza ombra di dubbio il più particolare di quelli tirati fuori dalla piccola ma dinamica cantina di Salza Irpina, ovvero Il Ratafià di Nonna Erminia; Un prodotto davvero sorprendente, che dopo averlo assaggiato, credetemi, vi lascerà pensare perchè mai non l’avete mai bevuto prima. Il Ratafià è un prodotto del tutto naturale, a dimensione poco più che artigianale, la cui realizzazione trova ispirazione nell’antica tradizione tutta irpina del cosiddetto “vino pa’ neve”, comunemente conosciuto come vincotto, ma che in in questa occasione si rinnova e prende nuovo vigore grazie alla maestria con la quale vengono selezionate ed amalgamate le foglie e le erbe aromatiche (principalmente foglie di ciliegio e amarene di diverse varietà oltre che circa dodici erbe differenti) lasciate macerare sino ad un anno nel vino aglianico di Taurasi invecchiato per almeno sei anni prima in fusti di castagno come da tradizione. Quello che ne viene fuori è un nettare delizioso, giustamente raffinato e addizionato quindi di acquavite di vino e lasciato ancora per almeno un altro paio d’anni ad affinare in barriques di vecchio utilizzo.

E’ un liquore di impronta dolce, ma assolutamente non stucchevole, il gusto è solo l’apice di una piramide di sensazioni organolettiche subliminali. Ha colore scuro, ricorda quello della liquirizia, scorre nel bicchiere piuttosto consistente, quasi viscoso. I profumi sono infiniti, il primo naso è sottile di spezie e frutti macerati, l’alcol, intorno al 36% in volume, non riesce mai a soverchiare la piacevolissima escalation di nuances tostate ed eteree contornate da sentori di ciliegie sottospirito, marroni, chiodi di garofano, liquirizia che offrono un piacere olfattivo finissimo e a dir poco seducente. Il gusto è deciso, qui invece l’alcol impone la sua essenza ma non nasconde, anzi la esalta, l’estrema piacevolezza, infonde calore e gratitudine ed i piccoli sorsi sono ogni volta sospesi tra note di frutta sotto spirito e sensazioni cioccolatose. Un liquore, il Ratafià di Nonna Erminia, da scoprire e da conservare in dispensa, che si offre di mettere al bando il migliore dei distillati che tenete in bella mostra sul vostro carrello e quanto possibile il più amato tra i vostri Porto o Sherry, insomma, un Ratafià candidato come ideale compagno di lente e meditate riflessioni oppure di silenti e risoluti fine pasto, o se preferite, più semplicemente, per amarsi con un po più di lentezza.

Mastroberardino, la storia siamo noi

25 novembre 2009

Lo stato d’animo è quello giusto, partecipano a questo panel alcuni Sommelier e Chef della Campania che va, tanto per rubare uno slogan all’amica Monica Piscitelli tanto foneticamente affascinante quanto di geniale primogenitura, tutti accomunati dalla grande professionalità e disponibilità nel comunicare il territorio che scorre in ogni calice che viene servito ai propri avventori. Con me, tra gli altri, ci sono Gianni Piezzo di Torre del Saracino, Tonino Faratro de La Caravella di Amalfi, Rocco Iannone di Pappacarbone e molti altri operatori della ristorazione di qualità campana sparsa qua e là tra le province di Napoli e Salerno.

Il Panel è tanto impegnativo quanto affascinante, un percorso attraverso le varie anime dei Taurasi della storica azienda irpina sempre più volti ad identificarsi e rappresentare profili territoriali (terroirs, per dirla in un termine a me caro e sublime) unici e riconoscibili di annata in annata. Dario Pennino, neo amministratore delegato della Mastroberardino S.p.a. ci introduce alacremente alla storia dell’azienda di Atriplalda chiosando poi con una frase che apre ad una riflessione tanto scontata quanto sorprendentemente disarmante: “tutti dicono che Mastroberardino sia la storia in Irpinia, va bene, ci fa piacere, ma noi questa storia ce la vogliamo continuare a conquistare; Mi piace pensare alla nostra azienda come il marchio Levi’s, non ti poni mai il problema se è di moda o meno, sai che ti calza bene e quindi ne hai sempre almeno uno nel tuo guardaroba che quando non sai cosa mettere, vai lì, lo tiri fuori e sai di aver risolto. Ecco, noi siamo così, siamo qui da centotrenta anni, fuori dalle mode, dentro le vostre cantine, e puntiamo ad essere sempre più costantemente all’altezza della vostra situazione…”.

La verticale:

Taurasi Riserva Radici 1997 Rimane una mia convinzione, non lo so, ma l’annata ’97 per il Riserva Radici segna un confine superato il quale questo Taurasi ha virato verso una godibilità del frutto più immediata e di “moderna” concezione, che seppur maggiormente appagante per profumi e gusto di un avventore in cerca di immediatezza ha lasciato indietro quei ricordi sublimi di un aglianico forzatamente austero e ruvido, certamente più antico ma sempre all’altezza di piatti rustici, sinceri come la tradizione enogastronomica campana, quella Irpina in testa, propone con naturalezza e semplicità disarmanti. Di colore aranciato, mediamente consistente e trasparente si pone con una naso mediamente intenso su note terziarie di tostato, chiodi di garofano. In bocca è secco, caldo di buon corpo con una beva scorrevole e legata ad una spiccata freschezza ancora tangibile. Pronto da bere, su cacciagione arrosto, penso per esempio al cinghiale con papaccelle.

Taurasi Riserva Centotrenta 1999 Non avevo ancora avuto modo di berlo, presentato lo scorso anno per consacrare alla storia i 130 anni del marchio Mastroberardino, tra i primi ad essere esportato in tutto il mondo, in sud America in particolar modo sin dalla seconda metà dell’800 come testimonia l’iscrizione alla camera di commercio di Roma (sede della società di spedizione) datata 1878. Il vino è di un bel colore rubino con sfumature granata, consistente ed abbastanza trasparente. Il primo naso è vivace su note aromatiche intense ed abbastanza persistenti di fiori secchi, spezie fini, poi ceralacca, smalto. In bocca è asciutto, austero con un frutto davvero invitante, intenso e persistente e con una spiccata profondità. Un Taurasi tra il vecchio ed il nuovo, perfetto su di un cosciotto d’agnello glassato, ma capace di tenere testa anche a formaggi stagionati e di carattere.

Taurasi Riserva Radici 2003 Presentatoci come anteprima dato che non è ancora commercializzato, questo vino nasce dai vigneti che l’azienda conduce in quel di Montemarano, area tra le più vocate per la denominazione di origine controllata e garantita Taurasi e sempre di difficile intepretazione; Si pensi che qui capita non di rado che la vendemmia venga protratta sino a metà novembre, spesso con le prime nevicate in continuo agguato. Il colore è molto affascinante, rosso rubino, piccole sfumature granata di buona vivacità, consistente. Il primo naso è molto invitante, prugna e marasca mature, poi note tostate ed intense avvolte in una aromaticità molto gradevole di polvere di cacao e caffè. In bocca è secco, caldo, la morbidezza è ancora un miraggio lontano, anima sincera di un aglianico che speriamo ci possa accompagnare per molti anni a venire, un vino di carattere da accostare a piatti ricchi, una bella tagliata di “marchigiana” appena scottata ed in stagione accompagnata con una manciata di porcini appena rosolati.

Taurasi Historia Naturalis 2004 Storia tribolata quella del Historia Naturalis, vino nato alcuni anni orsono per dare spunto ad uno studio di ricerca accurato sul matrimonio aglianico-piedirosso sempre molto a cuore a Piero ed all’azienda tutta ma che in realtà non ha mai sortito gli effetti sperati se non quello di valorizzare un nome molto evocatico oggi tutto a vantaggio di un nuovo Taurasi prodotto esclusivamente dalle uve di vecchie vigne quarantennali in Mirabella Eclano, Cru di particolare elezione per l’aglianico di Taurasi di recente acquisizione dove sorge il Radici Resort, la nuova struttura votata all’ospitalità di casa Mastroberardino. Il colore di questo vino è assai affascinante, rubino con riflessi violacei, di bella vivacità. Il primo naso è un effluvio di sentori fruttati nitidi e freschi di piccoli frutti rossi, mirtillo e mora su tutti accompagnati da una gradevolissima sensazione tostata. Il gusto è secco, caldo, con una piacevole tannicità che sorregge una beva caratterizzata dal ritorno di sensazioni classiche dell’aglianico come un finale di bocca balsamico e speziato. Un rosso di carattere, che piace e piacerà a chi si avvicina all’aglianico di Taurasi per la prima volta e a chi ricerca in questo nobile vino una maggiore concentrazione di frutto. Su cosciotto d’agnello agli aromi con patate al forno. 

Taurasi  Radici 1968 Piero Mastroberardino e Dario Pennino decidono di sorprenderci regalandoci questa emozione unica e poco replicabile a chiusura di questo bellissimo percorso di degustazione. Si aprono alcune bottiglie di Taurasi Radici 1968, all’epoca ancora doc e l’unico dei vini del sud a poter essere ammesso ai confronti con i già blasonati Barolo e Brunello di Montalcino. Nasce proprio da qui l’intuizione di conservarne qualcuna di queste bottiglie in un millesimo molto apprezzato da alcuni vignaioli langaroli di fama amici di Antonio Mastroberardino che lo invitarono a stipare qualche cassa di questo vino nelle proprie cantine, e così fu. Settecentoventi lire, questo il prezzo all’epoca necessario per poter godere di questo nettare, a vederlo oggi in questo bicchiere, sotto il mio naso, penso a quanti negli ultimi anni fanno il prezzo dei loro vini pensando esclusivamente a quanto li vende il proprio vicino o alla necessità di rientrare del proprio investimento nel più breve termine possibile fregandosene di “fare cantina”. Pazzi, incoscienti del valore della condivisione e del fascino del tempo, innamorati solo del proprio portafogli o al massimo della propria silouette riflessa allo specchio. Ma veniamo al dunque, le bottiglie vengono stappate almeno un’ora prima del servizio, attentamente gestite dallo staff e versate senza residuo alcuno nei calici di ognuno.

Il colore è bellissimo, rosso granata con nuances arancio sull’unghia del bicchiere, cristallino e limpido. Il primo naso è sorprendente, ci si aspettano sensazione vetuste e poco eleganti ed invece è una esaltazione stilistica di eleganza e finezza: pout-pourri di fiori e frutta secca, corteccia, carrube linearmente accompagnati  da note balsamiche fini ed abbastanza persistenti. In bocca è secco, abbastanza caldo, assolutamente preservato da una freschezza sorprendente e tangibile ancora oggi, un vino magistrale, minerale, decisamente una esperienza degustativa che rimarrà ben impressa nella mia memoria: ho finalmente un parametro di longevità tangibile dell’aglianico che mira alla finezza ed all’eleganza come solo pochi grandi Pinot Noir borgognoni possono esprimere; E’ vero, è dura aspettare 40 anni e più, ma qualcosa dovrà pur rimanere alle generazioni future oltre che le nostre scorie e le nostre sciagurate scelte politiche!

Un Taurasi…totale, Contrade di Taurasi 1999

18 novembre 2009

Ci sono persone nel mondo del vino che non vivono di prime pagine, di riviste patinate e di rincorsa a concorsi e premi speciali, semplicemente hanno deciso di seguire la propria strada, in questo caso tracciata dalle proprie origini e dalla propria capacità di intendere la vita ed il proprio lavoro.

Così capita che persone del genere s’incontrino, e che bastano poche parole per ritrovarsi univocamente coinvolti in un progetto molto affascinante e di grande espressione territoriale, Contrade di Taurasi. Progetto che vede a più livelli ed in varie fasi aziendali l’intervento di uno staff scientifico talmente specializzato ed altisonante da far rabbrividire anche il più meticoloso degli appassionati per una produzione di appena 20.000 bottiglie e questo perchè solo attraverso la sperimentazione e la ricerca scientifica il vino può migliorare ed elevarsi a livelli di eccellenza; alla testa di tutti c’è Sandro Lonardo, una persona deliziosa, sincera, coinvolgente, trasparente mi verrebbe da dire, coadiuvato dalle figlie Enza ed Antonella, ma chi mi affascina di più per il suo sapere è Giancarlo Moschetti, professore universitario a Palermo che si occupa tra le altre cose di ricerca microbiologica e responsabile scientifico per l’azienda: un pozzo di saperi, di grande disponibilità umana, così come Maurizio De Simone, l’enologo che segue l’azienda con grande professionalità e perizia.

Parlare con Giancarlo e Maurizio vuol dire scoperchiare un mondo molto affascinante, fatto di  grande conoscenza del territorio, della vigna e dei trattamenti naturali capaci di preservarla nel tempo come la micorrizzazione della pianta, utile soprattutto a non stressarne nel tempo le radici; la conoscenza come detto, che parte dallo studio scientifico dei cloni, dei lieviti indigeni, quel “fingerprint” necessario per isolare ed esaltare l’aglianico di Taurasi a vitigno con la V maiuscola; una conoscenza che porta a non aver paura di lunghe fermentazioni e che soprattutto non conduce l’enologo a scegliere legni nerboruti, invasivi, spesso utili solo a sovrastare il frutto, qui di grande impatto e riconoscibilità taurasina dall’aglianico base alle Riserve nonostante i suoi quasi 50 mesi di invecchiamento prima della commercializzazione.

Ecco perché questo Taurasi ’99 mi ha sorpreso ed incantato, un vino fisso nella mia memoria pur motivata da una buona esperienza sul vitigno: un colore avvincente, rubino netto senza nessuna tendenza a mostrare i suoi dieci lunghi anni alle spalle, addirittura vivace nella sua trama cromatica. Il naso è di estrema finezza, il primo naso conduce ancora a sensazioni “verdi”, varietali, sempre difficili da scindere nell’esame olfattivo di un vino di tale elevazione, ma qui facilmente percettibili come la viola, la marasca, poi le note speziate caratteristiche del vitigno veramente eleganti e fini. Un susseguirsi di sensazioni molto gradevoli che si ritrovano in un gusto deciso, austero, rinfrancante, ancora lontano da una morbidezza plausibile, spesso esigibile se non scontata in un vino di dieci anni, ma non in un aglianico di questa portata, non nei vini di Contrade di Taurasi, con questo millesimo davvero in grande spolvero.

Ho avuto la fortuna di condividere questa bevuta con diversi amici tra i quali l’amico Nando Salemme, patròn dell’Osteria Abraxas di Pozzuoli che ha scelto di abbinarci una locena di maiale cotta a bassa temperatura (60° per 12 ore) con il suo fondo con contorno di scarola alla carrettiera: beh, che dire, qual miglior abbinamento!

Cantine Lonardo è l’Azienda/Produttore dell’anno.


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