Posts Tagged ‘contrade di taurasi’

Taurasi Contrade di Taurasi 2001 Cantine Lonardo

15 gennaio 2014

Chi segue queste pagine e lucianopignataro.it¤ ricorderà quando scrissi del Taurasi Contrade di Taurasi 2001 messo a confronto con un’altro grande rosso italiano, il Barolo Runcot 2001 di Elio Grasso.

Taurasi 2001 Cantine Lonardo - foto L'Arcante

Di quello scritto val bene ricordare qualche passaggio: anzitutto che siamo proprio nel cuore del paese omonimo che dà il nome alla docg, a circa 400 metri d’altitudine dove le vigne, parte impiantate a guyot (le più giovani hanno in media 20 anni) e parte, quelle vecchie di 50 e più anni con ancora il tradizionale “starseto” taurasino, insistono su terreni di chiara origine vulcanica frammisti ad argilla e sedimenti calcarei. La poca uva raccolta, una sessantina di quintali in tutto quell’anno, è rimasta in macerazione per più di un mese, poi il vino ha fatto circa 2 anni in tonneau, quindi in bottiglia per almeno 12 mesi; senza trattamenti, stabilizzazioni e filtrazione.

Qualche giorno fa, a distanza di due anni, ci sono tornato su senza indugio. Il colore tiene botta, sono solo un po’ più accentuate quelle sfumature granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso conserva ancora tanta verve unendo a un buon frutto tante piccole nuances di sottobosco, frutta secca, tabacco e pepe in grani.

Pure il sorso non ha ceduto di un millimetro, puro e arcigno, ancora ruvido ma di piena soddisfazione; quel tannino lì, così fitto sembra inamovibile, asciugante quasi. Al momento di stapparlo ricordate che è un vino non filtrato, se preferite tenetelo pure in bottiglia avendo però buona cura nel versarlo, tuttavia credo opportuno decantarlo con attenzione. Dispiace infatti dover rimettere al tempo quasi due dita di vino a causa di un deposito abbastanza consistente. A dirla tutta però, pagare pegno non è mai stato così piacevole.

Tu chiamale se vuoi distrazioni… con Riserva

17 marzo 2013

E’ chiaro che nulla cambia sulla sostanza della faccenda, il Coste 2008 dei Lonardo è un grandissimo vino, forse proprio lui il migliore tra i 64 vini assaggiati all’anteprima di Serino, con tutte le potenzialità per rimanere lì per tantissimi anni avanti. 

Se ne sono accorti proprio tutti, ma soprattutto oltre oceano premiandolo giustamente con punteggi altissimi, quanto merita. Mi fa specie però che una critica¤ di tale ‘portata’ non verifichi particolari nella forma così importanti per quanto riguarda l’etichetta di un vino, presentandolo come Taurasi Riserva (come pure il gemello diverso Vigne d’Alto) quando in realtà non lo è. Semmai è un cru ‘annata’ che esce però sul mercato un po’ più in là rispetto agli altri, una selezione cui i Lonardo destinano – lo fanno da poco e solo nelle migliori annate¤ – la raccolta di quei grappoli migliori dalle vigne tutto intorno Taurasi, le ‘coste’ appunto. 

Ma allora che è successo? C’è stata cattiva informazione in merito? A Taurasi Vendemmia¤ sicuramente no! Tutti i vini erano chiaramente esplicitati nelle due liste (una alla cieca ed una nominale) consegnate a ciascuno dei degustatori presenti. Per quanto riguarda Parker¤ invece si possono solo supporre probabili ‘giustificazioni’: i vini gli saranno stati presentati così magari dall’importatore cui s’è rivolto, con un po’ di confusione sulla traduzione dei termini Selezione, Riserva o Cru. Ma perché non approfondire la questione vista poi l’altissima valutazione? 

Insomma, per farla breve e venire al dunque, è chiaro che il fissato sono solo io, ci mancherebbe, ma si trascura un effetto ahimè non proprio trascurabile di un certo modo di fare: una critica così autorevole e seguita, si rivolge ad una platea ampia che, nonostante i luoghi comuni tendono a liquidare frettolosamente come ‘internazionale’ e disinteressata a certi vini di spiccata personalità è invece particolarmente attenta ed esigente, ha passione e non di meno disponibilità tali da spostare sensibilmente i consumi. Ma possiede di sovente anche il piglio e la spocchia necessari per mandarti indietro una bottiglia dove non c’è scritto sopra Taurasi Riserva Coste come si aspetta di trovare. E non sarà certo Parker ad aver sbagliato!

Taurasi, Contrade di Taurasi ’99 Cantine Lonardo

27 luglio 2012

Ne avevo già parlato con grande entusiasmo, forse anche esagerando i toni tanto fui preso dalla bella serata passata in compagnia, ma di certo non nei contenuti, dettati da sensazioni estremamente positive (qui).

Taurasi 2001 Cantine Lonardo - foto L'Arcante

Desideravo infatti fortemente che questo vino divenisse un riferimento assoluto per tutte le bevute successive di chi cercasse nel Taurasi quell’anima vera, rude ed implacabile che solo l’aglianico e il terroir di certe piccole vigne irpine sanno imprimere in certi vini. Sappiamo bene che c’è sicuramente anche dell’altro, a volte bottiglie anche più suggestive di questa dei Lonardo, o di più completa espressione in termini di eleganza e avvolgenza degustativa, ma il ’99 di Sandro – come lo sono alcune vecchie e nuove Radici Riserva di Mastroberardino –  è davvero un caposaldo della viticultura taurasina, che niente concede al tempo se non l’opportunità di sfidarlo.

Ieri sera ancora una conferma. Lasciato respirare, il naso esprime tutta la grandeur del varietale, ancora incentrato su toni di viola e marasca sotto spirito, poi una continua sventagliata di sentori balsamici e speziati, di sottobosco e cioccolato fondente. Il frutto ritorna massivo in bocca, molto gradevole, a tratti vinoso; il sorso però è asciutto, quasi austero, puntuto, sollecita insistentemente il palato sino ad avvolgerlo, indulgente e sgraziato. Elogio dell’imperfezione, chiude un poco amaro, come amaro è accettare che in cantina siano rimaste appena una decina di bottiglie ancora. Irripetibile!

Barolo Rüncot 2001 Elio Grasso Vs Taurasi Contrade di Taurasi 2001 Cantine Lonardo

2 febbraio 2012

Barolo vs Taurasi, perché no? L’idea è venuta fuori così per caso, con bottiglie aperte da quasi 24 ore e un paio d’ore ancora di piacevole discussione/confronto. Con Nando Salemme, tra amici appassionati.

E’ pur vero che vi sono tanti altri riferimenti di spessore il Langa come in Irpinia, ma dieci anni sono dieci anni, un lasso di tempo più che ragionevole per poter dire sì, il Rüncot sarà pure un Signor nebbiolo, ma questo duemilauno è praticamente arrivato alla conta con il tempo, risoluto, spogliato del tutto di quella verve solitamente riconosciutagli, in quanto Barolo, a mani basse. Nulla a che vedere con il Taurasi dei Lonardo’s. Poi vabbé, ci sarebbe da dire anche dell’altro per il confronto con quel Greppo ’99 di Biondi Santi, ma di questo magari ne riparliamo fra cent’anni!

Il Barolo Rüncot esce solo nelle annate eccezionali con il nebbiolo raccolto nell’omonimo cru in Monforte d’Alba: poco meno di due ettari – terreno di natura calcarea argillosa, ben esposto a sud – “strappati” al più grande vigneto Gavarini che, reimpiantati nel ’90, dal 1995 vengono destinati esclusivamente alla produzione di questo vino. Vinificazione classica con fermentazione di 12/15 giorni in acciaio a temperatura controllata, con rimontaggi e malolattica sempre in acciaio. Poi fino a 28 mesi in barriques nuove di rovere francese, e ancora almeno due anni di bottiglia prima di uscire.

Sulla carta è chiaramente di concezione moderna, e a leggere qua e là pare che l’azienda ci tiene proprio a sottolinearlo, così non è difficile presumere quanto “contrasto” generazionale abbia potuto creare questo vino tra padre e figlio; da un lato papà Elio, notoriamente artefice di Barolo dalla marcata impronta territoriale, vini con “carattere tipicamente monfortino”, mentre il Rüncot, da quel che ho potuto cogliere in giro, è stato voluto proprio dal figlio Gianluca, e nato essenzialmente per approcciare tutti quei palati magari incapaci di cogliere a pieno la vera natura di questi vini dai tannini duri e solitamente bisognosi di lunghi anni di affinamento per essere apprezzati pienamente.

Questo assaggio però non depone certo a suo favore. Il colore è bruno, anche cupo, con toni sfumati evidentemente aranciati. Il naso è chiaramente evoluto, imbrigliato da sentori essenzialmente terziari; e l’impronta tostata del legno è addirittura ancora evidente, dolce e slegata. Poi note di sottobosco, tanto rabarbaro, china e spezie macerate, troppo. In bocca è asciutto, anche denso, voluminoso ma il sorso appare statico, privo di guizzi, nerbo, vivacità. Di estrema serbevolezza? E’ evidente che ha bruciato le tappe, sarebbe stato interessante coglierne il profilo non appena presentato al mercato, ma non v’è dubbio che l’anima, la spina dorsale pare l’abbia lasciata altrove, magari in cantina. Peccato (anche perché costicchia!).

Del Taurasi Contrade di Taurasi 2001 val bene ricordare qualche passaggio: anzitutto che siamo proprio nel cuore del paese omonimo che dà il nome alla docg, a circa 400 metri d’altitudine dove le vigne, parte impiantate a guyot (le più giovani hanno in media 20 anni) e parte, quelle vecchie di 50 e più anni con ancora il tradizionale “starseto” taurasino, insistono su terreni di chiara origine vulcanica frammisti ad argilla e sedimenti calcarei. La poca uva raccolta, una sessantina di quintali in tutto quell’anno, è rimasta in macerazione per più di un mese, poi il vino ha fatto circa 2 anni in tonneau, quindi in bottiglia per almeno 12 mesi; senza trattamenti, stabilizzazioni e filtrazione.

Il colore è ancora vivissimo, rosso rubino concentrato, solo appena granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è incredibile, intenso, verticale, ampio, con ancora evidenti ed invitanti sentori fruttati di ciliegia e prugna rossa, e arricchito da sfumature di frutta secca, note tabaccose e speziate. In bocca è un portento, dopo più di dieci anni t’aspetti un liquido armonico e sopito, ti arriva invece una sferzata di frutta e mineralità irresistibili; il tannino è sfuggente, ovvero perfettamente integrato col corpo del vino, non del tutto invece l’acidità, ancora tesa, vibrante e asciugante. Mi piace pensare a questo vino come modello di riferimento, magari non in assoluto, ma senz’altro decisivo come rappresentazione del terroir taurasino.

Per farla breve, senza scadere in banali campanilismi, è che, laddove ce ne fosse ancora bisogno, non appena ci metteremo ben in testa qual potenziale inespresso ha il nostro straordinario aglianico, e il Taurasi, non vi sarà più timore reverenziale che tenga, e con qualunque altro grande vino vi venga in mente. E questioni tipo misconoscenza, sottovalutazione, emulazione, saranno solo un banalissimo ricordo, “fesserie” come si dice dalle nostre parti.

Questo pezzo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Verticale storica Grecomusc’ Cantine Lonardo, emozionante viaggio nel tempo dal 2010 al 2004!

2 dicembre 2011

Bella. Ma che dico?, bellissima la serata messa su da Luciano Pignataro e Marina Alaimo – con Slow Food – da Salvatore Varriale al ristorante Rosiello di Napoli. Un emozionante viaggio nel tempo a testimonianza di un vino, il grecomusc’, unico e raro, che ormai da tempo fa parlare di sé e che finalmente si racconta in 7 particolari interpretazioni (ognuna decisamente diversa dall’altra).

Vi tralascio tutta la serie di informazioni sul vitigno e le origini del progetto che potete però ritrovare tutte qui, in un nostro precedente post. Aggiungo invece alcune importanti annotazioni che vale la pena conoscere per farsi una idea ancor più precisa di cosa andiamo raccontando. Ebbene, le prime annate di questo vino sono state caratterizzate dalla ricerca quasi vana di una materia prima integra, dato che il grecomusc’ veniva – lo è tutt’ora – per lo più raccolto nel circondario taurasino da piccoli contadini o privati che certamente non avevano altri fini se non la monetizzazione di quel piccolo capitale che si ritrovavano. Non è da escludere infatti che i primi millesimi – di certo il duemilaquattro –  siano, seppur con percentuali minime, caratterizzati da un saldo di altre uve come per esempio coda di volpe e/o fiano. Altra sottolineatura: il 2004 viene elevato per qualche tempo in barriques, mentre 2005, 2006 e 2007 in tonneaux. Dal 2008 invece il vino viene elevato esclusivamente in acciaio, quindi in bottiglia. Tutte le annate, tranne la 2010, hanno visto smanettare in cantina – come solo lui sa fare, ndr – Maurizio De Simone. Da poco più di un anno invece gli è subentrato un altro guaglione davvero in gamba, un certo Vincenzo Mercurio.

Queste che seguono, le mie personali impressioni di un panel davvero interessante e impreziosito tra l’altro dalla presenza – oltre che dei due curatori, con l’amica Marina in grande spolvero, leggi qui– di Sandro Lonardo e Antonella Monaco (che ha curato, con il genetista Giancarlo Moschetti e altri ricercatori di più università, tutta la parte scientifica del progetto di rivalutazione del varietale).

Irpinia bianco Grecomusc’ 2004 Colore paglierino/oro, primo naso maturo, intenso e persistente: sentori di uva spina, camomilla, poi note mielate, di cedro candito e pietra minerale. In bocca è asciutto, con un ingresso prorompente, vivace, avvolgente e, particolarmente fresco. Sorso decisamente pimpante, eccellente, finale di bocca particolarmente gratificante con note balsamiche a rinsavire le papille dal ritorno soave di dolci note caramellate. Straordinario per integrità, con un naso di particolare fascino ed un sorso a dir poco sorprendente. Il migliore della batteria.

Irpinia bianco Grecomusc’ 2005 Colore paglierino carico, meno vivace però del precedente. Naso inizialmente sporco, materico, ermetico, non particolarmente espressivo. Il sorso è fresco e di buona intensità seppure un tantino spigoloso; parrebbe nato da un frutto acerbo o comunque giunto ad una non felice maturazione. Conserva per tutto il tempo questa empasse. Alla fine risulterà il meno affascinante della batteria, con un naso troppo a lungo disadorno e un palato se vogliamo decisamente greve.

Irpinia bianco Grecomusc’ 2006 Colore paglierino vivace. Naso anche qui chiuso, a dire il vero si potrebbe azzardare nel definirlo “risoluto”, pur se non del tutto. E’ voluminoso nella sua intensità minerale, ma poco altro. Addirittura arriva poi qualche nota ossidativa a infastidire lo spettro olfattivo assestatosi poi su piacevoli rimandi speziati e officinali. Dopo, anche un poco felice sentore medicinale. Palato asciutto, di buona freschezza e notevole intensità, qui però senza pungere, senza spigolature. Buono il finale decisamente sapido.

Campania bianco Grecomusc’ 2007 Colore paglierino maturo, ancora ben espresso. Naso subito empireumatico, di quelli classicheggianti alsaziani che non te li dimentichi manco a farti il lavaggio del cervello. Una pistola fumante, un timbro minerale particolarmente incisivo che, o lo ami, o lo odi. E nulla il tempo ha cambiato, spogliato. Poi, pian pianino vengono fuori, timidi, rimandi fruttati maturi e di erbe officinali, fieno e zenzero candito. In bocca è decisamente secco, austero, con un nerbo altisonante come del resto questo vino sa conservare come pochissimi altri. Anche qui sul finale offre una piacevolissima sensazione balsamica, quasi espettorante che si accompagna a decisa sapidità. L’annata, decisamente asciutta, ne caratterizza particolarmente lo spettro olfattivo; il rapporto buccia/polpa, i lieviti indigeni hanno fatto il resto. Forse, a parer mio, il più autentico.

Campania bianco Grecomusc’ 2008 Paglierino carico, colore maturo ma in perfetta sintonia con le aspettative. Il naso rimane ancora giocato su note empireumatiche, qui però più sottili e assai più gradevoli, ben fuse a note floreali e fruttate ed una ammiccante speziatura dolce. Ritorna piacevolissimo un finissimo sentore di ginestra, mortella, fior di camomilla e di frutto della passione, di zenzero candito. Palato asciutto e di buonissima intensità e complessità. Finale di bocca lungo e persistente. Forse tra tutti quelli saggiati, il vino con maggiore equilibrio e corrispondenza naso/bocca, frutto/acidità. Di spessore, molto buono.

Campania bianco Grecomusc’ 2009 Colore paglierino tenue, naso floreale di buona compostezza, espressivo poi anzitutto di note fruttate polpose e persistenti rimandi agrumati, di frutto della passione e pompelmo rosa. L’incidenza minerale qui è soprattutto al palato; al naso appaiono quasi strappate via quelle insistenti escandescenze di pietra focaia, polvere da sparo, assai espressive per esempio nel 2007. Il sorso è asciutto, poderoso, domina le papille gustative e sul finale infonde dirompente la sua classica fittezza acida, ma siamo veramente agli albori di quello che questo vino esprimerà senz’altro in futuro: finezza ed estrema ricchezza. Peccato perderselo. Dico peccato perché… è già quasi impossibile trovarlo in giro. Quasi.

Campania bianco Grecomusc’ 2010 Un assaggio che anticipa di pochi giorni il debutto sul mercato. A guardarsi indietro è un vino decisamente spiazzante. Aggiungo: l’approccio è molto diverso da ciò da cui si è partiti. Ma sì, è l’evoluzione della specie mi dico. Si sa per esempio che dal 2008 in poi niente più legno per questo vino, e che il 2010 è stata la prima vendemmia che ha visto Vincenzo Mercurio affiancare in cantina Maurizio De Simone: ah sì, ecco, forse il manico. Ed è indubbio che la “pulizia”, soprattutto olfattiva, derivi da un opera certosina dell’enologo (Mercurio in questo è un gran maestro, indiscutibile, mentre De Simone è uno che ama “scavare” nell’anima di certe uve, certi terroir).

Sono tanti quindi i fattori da prendere in considerazione (in attesa di una pronta evoluzione in bottiglia) che non ci lasciano esprimere, al momento, un giudizio “definitivo” su quest’ultimo vino: che sì, offre uno splendido colore, un naso avvincente, un sorso implacabile, però…: è l’evoluzione della specie? E’ un cambio di rotta da uno stile forse troppo estremo? Insomma, quale di questi è il grecomusc’ di riferimento?

Taurasi, prove tecniche di Grand cru con il Coste e il Vigne d’Alto duemilasette di Cantine Lonardo

1 dicembre 2011

A margine della splendida verticale storica di greco musc’ andata in scena iersera al ristorante Rosiello di Posillipo, i Lonardo’s ci hanno concesso, in anteprima, un prezioso assaggio dei due loro nuovi cru di Taurasi in prossima uscita a Gennaio: il Coste e il Vigne d’Alto, tutti e due 2007.

Ci riserviamo naturalmente di approfondire meglio l’argomento, in vista anche di una prossima incursione irpina proprio tra qualche giorno, poco prima di Natale, quando non mancheremo (promesso!) di fare un salto da quelle parti; vi lascio però volentieri alcune annotazioni di merito sulle prime sensazioni ricevute. Prove tecniche di Gran cru irpini.

Il Coste 2007 appare vibrante, direi un rosso d’impeto. L’annata calda certamente lo incoraggia in questa veste sprint, con un colore decisamente avvincente con ancora evidenti nuances porpora. Il naso è intriso di note spiritose di frutta croccante e macerata, e l’accompagna una sottile e intrigante connotazione pepata. Il sorso è decisamente austero, di gran carattere, seppur quando accompagnato, come abbiamo fatto, con dell’ottimo e arcigno formaggio pareva scorrere via dissolvendosi. Dalle vigne intorno a Taurasi, allignate per lo più su terreni argillosi e di età media sui 40 anni, con una maturazione delle uve precoce e rapporto buccia/polpa a favore di quest’ultimo, quindi un approccio in vinificazione più soft. Tonneau e bottiglia.

Altra impressione il Vigne d’Alto 2007. Naso pronunciato su toni più tradizionali – riferibili ai vini di Contrade di Taurasi intendo -, con note di rabarbaro, fervori terragni, ricordi di ceneri, spiccatamente minerale. Qui “parla” il terroir: le vigne sono allocate in contrada Case d’Alto, su terreni compositi dove affiorano lapilli e ceneri di origine vulcanica. Classici starseti taurasini di età compresa tra i 40 e gli 80 anni: poca uva, di gran nerbo, con una buccia più spessa favorita senz’altro da condizioni pedoclimatiche più consone e quindi una maturazione più omogenea. Nonostante l’annata, qui il colore pare cedere un po’ della sua brillantezza ma appare più denso e meglio calibrato. Su misura. Del naso s’è detto, poi l’aspettiamo ancora, aggiungerei forse voluminoso, e poi un sorso decisamente appagante. Soprattutto, in questa fase, per chi ama le accentuate spigolature di un “giovane” e pimpante tradizionale aglianico di Taurasi. Legni diversi – comunque grandi -, e bottiglia.

Taurasi, Grecomusc’ 2008 Cantine Lonardo

14 aprile 2011

Ecco un esempio di come la ricerca rimanga un valore assoluto da non perdere mai di vista, un assunto per niente opinabile e, men che meno, subalterno a questo o quel giochino politico di turno; il lavoro portato avanti su questo raro e, a quanto pare, straordinario vitigno campano dal prof. Giancarlo Moschetti & co., ci induce oltretutto a pensare, qualora qualcuno non ne avesse ancora colto il valore, non senza una sana presunzione, che la Campania del vino ha tutto quanto necessario per ambire a primeggiare nell’affollato e sempre più omologato calderone del mondo del vino italiano.

Quel che è certo, è  che non abbiamo i numeri per competere con regioni ben più prolifiche della nostra, e a dirla tutta manchiamo anche di annali storici degni di nota, ma da qualcosa bisogna pur partire, e non è certo sul breve, in vitivinicoltura più che mai, che si costruiscono e si affermano ambizioni di questo genere; sono quindi altri gli elementi su cui fare leva e spianarsi al successo. Se ai numeri ed al blasone degli altri si è capaci di contrapporre elementi ancor più preziosi come la continua valorizzazione, come in questo caso, e la riscoperta del nostro straordinario patrimonio ampelografico, soprattutto in virtù di una loro precisa collocazione territoriale, della loro identità, che in certi luoghi, e per certi mercati in particolare, esprimono un valore che va ben oltre la normale esperienza degustativa, ecco svilupparsi un potenziale a dir poco eccezionale, invidiabile, un potere culturale di suggestione unica, un significato antropologico ineludibile; in altri termini, percorrendo questa strada non ci sono ragioni che tendano ad ostacolarci, il futuro è certamente nostro!

La ricerca dicevamo; quella genetica, ampelografica ed agronomica messa in campo sul Rovello bianco ha pochi altri precedenti nel recente passato in regione, e ciò la dice lunga sul fascino che questa varietà ha subito destato agli occhi dei ricercatori che se ne sono occupati, oltre che naturalmente sulla fermezza dei Lonardo’s a riguardo del progetto scientifico. Lo studio ha evidenziato che la varietà, allocata perlopiù a Taurasi e nel comune di Bonito, gli unici in Irpinia dove è ancora possibile rinvenire il Grecomusc’, si differenzia nettamente da altri vitigni sia regionali che nazionali italiani. Storicamente poi, si sapeva che il Roviello o Greco moscio fosse un varietale abbastanza diffuso anticamente in tutto l’areale tanto dall’essere annoverato in diverse citazioni ampelografiche ottocentesche, sin dal 1875; lentamente però pare che il vitigno sia stato soppiantato da altre varietà, fiano e greco su tutte, probabilmente a causa della sua precocità, e quindi destinato praticamente all’estinzione se non fosse stato per quei pochi ceppi vecchi sparsi qua e là nelle vigne, spesso ancora a piede franco, più a preservarne una sorta di memoria storica, un valore affettivo, che per fini produttivi.

Qui il grande merito di un’azienda come Cantine Lonardo, che sin dai suoi esordi, pur rappresentando appieno lo spirito enoico più tradizionalista, e se vogliamo integralista del comprensorio taurasino, non ha mai smesso di ricercare e sperimentare al fine di migliorare e far crescere la qualità espressiva dei suoi vini, finanche dei già superlativi Taurasi; non a caso è venuta per esempio la scelta di avvalersi, dopo la decisione del bravissimo Maurizio De Simone di prendersi un periodo sabbatico, della collaborazione dell’ottimo Vincenzo Mercurio, profondo conoscitore del terroir irpino nonché tecnico brillante e misurato in cantina.

Ne avevo già di molto apprezzato il duemilasette, annata non certo favorevolissima per i bianchi irpini, ancor meno per una varietà precoce come questa che si offre matura già alla terza decade di settembre, ma questo duemilaotto pare rivelarsi, a distanza di tempo, e cosa ancor più stupefacente, in prospettiva, a dir poco straordinario; bel paglierino nitido, cristallino, offre, a chi ama rincorrere certe sensazioni, un impulso emozionale che ha poco a che spartire forse con l’intero panorama bianchista nazionale; per questo, senza ombra di dubbio, superiore. “Il Grecomusc’ è una varietà che ha una quantità notevole di catechine che è necessario preservare dall’ossidazione durante la vinificazione e l’affinamento”, mi dice, interpellato, Giancarlo Moschetti; “quindi oltre ad una diraspa-pigiatura molto soft, in  riduzione, gli concediamo un tempo di permanenza sui lieviti abbastanza lungo, e di deproteinizzazione naturale mediante precipitazioni a freddo di cantina, per evitare di utilizzare chiarifiche”. Tra l’altro, aggiunge, “essendo un vitigno di tipo tiolico”, caratterizzato cioè da markers piuttosto netti (pensate al bosso o alla ginestra di certi sauvignon, ad esempio), “per preservarne una certa integrità espressiva, vengono preferiti lieviti ambientali selezionati in vigna che possiedono degli enzimi denominati “B liasi”, che tramutano i caratteristici aromi tiolici” – chiare note agrumate, sottile frutto della passione, pietra focaia in lento ma marcato divenire –,“da criptici a presenti”, così da consentirgli di esprimere caratteristiche odorose tipiche di queste tipologie di uve, che certamente non sono per tutti i gusti ma offrono una complessità eccezionale, e che in più mira a garantire al vino una longevità davvero interessante, di cui certo non possiamo ancora avere piena contezza, ma per come si esprime nel bicchiere questo duemilaotto, ricco, tagliente, minerale, non possiamo che apprezzarne l’interessante prospettiva.

Non nego che è piuttosto difficile pretenderlo, soprattutto in un momento di mercato così difficile e complesso dove basta poco per perdere la bussola, però ritornando a noi, al valore assoluto della nostra vitivinicoltura, la specializzazione rimane l’unica via praticabile, e questo vino ne è l’esempio più illuminante; pensare che sia possibile presentarsi ai propri consumatori con un vino bianco così insolito, e non per completare la gamma aziendale – se ci pensate, sarebbe bastato, come fanno tra l’altro in tanti, comperare una o due vasche di fiano di Avellino o greco di Tufo per annata – ma per raccogliere una opportunità di recuperare e valorizzare un vitigno misconosciuto altrimenti disperso, non è mica male come idea vincente, non trovate?

Questa recensione esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it

Un Taurasi…totale, Contrade di Taurasi 1999

18 novembre 2009

Ci sono persone nel mondo del vino che non vivono di prime pagine, di riviste patinate e di rincorsa a concorsi e premi speciali, semplicemente hanno deciso di seguire la propria strada, in questo caso tracciata dalle proprie origini e dalla propria capacità di intendere la vita ed il proprio lavoro.

Così capita che persone del genere s’incontrino, e che bastano poche parole per ritrovarsi univocamente coinvolti in un progetto molto affascinante e di grande espressione territoriale, Contrade di Taurasi. Progetto che vede a più livelli ed in varie fasi aziendali l’intervento di uno staff scientifico talmente specializzato ed altisonante da far rabbrividire anche il più meticoloso degli appassionati per una produzione di appena 20.000 bottiglie e questo perchè solo attraverso la sperimentazione e la ricerca scientifica il vino può migliorare ed elevarsi a livelli di eccellenza; alla testa di tutti c’è Sandro Lonardo, una persona deliziosa, sincera, coinvolgente, trasparente mi verrebbe da dire, coadiuvato dalle figlie Enza ed Antonella, ma chi mi affascina di più per il suo sapere è Giancarlo Moschetti, professore universitario a Palermo che si occupa tra le altre cose di ricerca microbiologica e responsabile scientifico per l’azienda: un pozzo di saperi, di grande disponibilità umana, così come Maurizio De Simone, l’enologo che segue l’azienda con grande professionalità e perizia.

Parlare con Giancarlo e Maurizio vuol dire scoperchiare un mondo molto affascinante, fatto di  grande conoscenza del territorio, della vigna e dei trattamenti naturali capaci di preservarla nel tempo come la micorrizzazione della pianta, utile soprattutto a non stressarne nel tempo le radici; la conoscenza come detto, che parte dallo studio scientifico dei cloni, dei lieviti indigeni, quel “fingerprint” necessario per isolare ed esaltare l’aglianico di Taurasi a vitigno con la V maiuscola; una conoscenza che porta a non aver paura di lunghe fermentazioni e che soprattutto non conduce l’enologo a scegliere legni nerboruti, invasivi, spesso utili solo a sovrastare il frutto, qui di grande impatto e riconoscibilità taurasina dall’aglianico base alle Riserve nonostante i suoi quasi 50 mesi di invecchiamento prima della commercializzazione.

Ecco perché questo Taurasi ’99 mi ha sorpreso ed incantato, un vino fisso nella mia memoria pur motivata da una buona esperienza sul vitigno: un colore avvincente, rubino netto senza nessuna tendenza a mostrare i suoi dieci lunghi anni alle spalle, addirittura vivace nella sua trama cromatica. Il naso è di estrema finezza, il primo naso conduce ancora a sensazioni “verdi”, varietali, sempre difficili da scindere nell’esame olfattivo di un vino di tale elevazione, ma qui facilmente percettibili come la viola, la marasca, poi le note speziate caratteristiche del vitigno veramente eleganti e fini. Un susseguirsi di sensazioni molto gradevoli che si ritrovano in un gusto deciso, austero, rinfrancante, ancora lontano da una morbidezza plausibile, spesso esigibile se non scontata in un vino di dieci anni, ma non in un aglianico di questa portata, non nei vini di Contrade di Taurasi, con questo millesimo davvero in grande spolvero.

Ho avuto la fortuna di condividere questa bevuta con diversi amici tra i quali l’amico Nando Salemme, patròn dell’Osteria Abraxas di Pozzuoli che ha scelto di abbinarci una locena di maiale cotta a bassa temperatura (60° per 12 ore) con il suo fondo con contorno di scarola alla carrettiera: beh, che dire, qual miglior abbinamento!

Cantine Lonardo è l’Azienda/Produttore dell’anno.


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