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Savigny-les-Beaune 2005 Leroy

24 novembre 2012

Savigny-les-Beaune (in italiano suonerebbe Savigny “vicino” Beaune, ndr) è un grande villaggio nella Cote de Beaune, sul versante della Cote d’Or in Borgogna, regno incontrastato del pinot noir.

Qui si fa tanto vino, il villaggio infatti sembrerebbe essere terzo solo a Mersault (che fa essenzialmente bianchi) e Gevrey Chambertin (rossi) per le quantità negoziate ogni anno. E l’appellation trae senz’altro giovamento dal più ampio e riconosciuto successo dei nobili vicini, pur garantendo – al di là di questa blasonata etichetta di Leroy che sembra piovuta dal cielo -, pinot noir sempre abbastanza netti, anche quando sgraziati, e molto vicini alla qualità dei più ricercati rossi di Beaune; dato poi mai trascurabile quando si va per questi mari, con un rapporto prezzo-qualità davvero affidabile, almeno nel 90% dei casi. 

Di Leroy, per chi non ne sapesse, val bene ribadire solo un paio di cose. Oltre a possedere il 50% del Domaine de la Romanée-Conti è anche tra i più ricercati ed affermati Negotiàns di Borgogna con, tra l’altro, vigne di proprietà un po’ ovunque, sia Grand Cru che Premier Cru e tutte a conduzione biodinamica certificata, compreso il climat les Narbantons a Savigny-les-Beaune da dove nasce l’omonimo primo vino e, nelle annate più floride come la duemilacinque, anche questa seconda etichetta. E poi c’è lei, M.me Lalou Bize-Leroy, molto più di una semplice icona, un mito vero e proprio che, per dirla con Michel Bettane “Leroy ricorda puntualmente a tutti quale sia la sostanziale differenza tra un vino molto buono ed uno invece semplicemente grande”.

Questo Savigny-les-Beaune 2005 di Leroy ci mette un poco a venire fuori, ma quando comincia ad aprirsi offre veramente una bella esperienza degustativa; ci tengo infatti a sottolineare che non è affatto una banalità approcciarsi a bottiglie come queste con una certa attenzione, dalla loro conservazione al servizio, dalla ricerca della giusta temperatura allo stappo definitivo. Che poi proprio questa ricordavo avesse passato pure un paio d’anni non proprio facilissimi nella mia cantina di casa, tanto che infatti ne portava evidenti alcuni segni: il tappo sembrava aver ceduto leggermente così il vino aveva cominciato a sfuggirgli lievemente, sino a bagnarne praticamente tutto il sughero. Pensandoci un po’ su l’avevo riposta per qualche ora in frigo, tenendola intorno ai 14 gradi prima di stapparla; nel servirla poi ho preferito non caraffarla, per berla lentamente, condividendola e seguirne così l’evoluzione sorso dopo sorso: un rosso che alla fine s’è rivelato decisamente coivolgente!

All’approccio subito una nota animale, quel sentore che di solito si definisce “foxy”, quindi note di sottobosco, poi di tabacco biondo e pietra bagnata. Ma il bello sembrava dovesse ancora venire: cominciava infatti a rivelarsi il frutto, maturo e di spessore, che sapeva di amarena e susina, quasi dolci, mentre sul finale di bocca tendeva a sferzare il palato con gran nerbo e un tannino vispo e anche un po’ rude. Non certo un vino “facile” questo Savigny, nel senso che va aspettato (non in eterno però) e “letto” con molta attenzione. Ma che sia buono lo capisci sin da subito, e che, nonostante venga fuori da un’appellation sicuramente minore, si comporta da gran vino, pure. In fondo, non è tutto qui lo spread enoico tra Francia e Italia?

Beaune, Corton-Charlemagne ’10 Philippe Pacalet

30 agosto 2012

Un bianco sontuoso, quadrato, impeccabile. Ha un colore biondo luminoso, mentre il naso è un portento: ampio, fitto, orizzontale. Il sorso è subito materico, va però sciogliendosi dolcemente in bocca, lentamente, sino a dissolversi rarefatto e minerale…

Qualcuno di voi lo conoscerà senz’altro, questo qui è Philippe Pacalet, di mestiere fa il Négotiant e sta in Borgogna dove si prende cura – più o meno – di circa 9 ettari di vigna. Ci fa generalmente grandi vini. Si muove con destrezza tra Pommard, Gevrey-Chambertin, Meursault, Chambolle-Musigny, Puligny-Montrachet, Vosne-Romanée, Nuits-St. Georges dove si è scelto con cura alcune piccole particelle dove mettere le mani, talvolta accontentandosi addirittura di pochi filari. Da queste ci fa almeno 25 vini diversi, starci dietro può essere davvero un’impresa. Anche se molto piacevole.

Sa il fatto suo sia sul pinot noir che sullo chardonnay (più sul primo che sul secondo, a dirla con tutta franchezza), è uno che in vigna ci sa fare e per questo tra i cosiddetti vini naturali le sue selezioni sono tra le più ricercate ed ambite. I rossi hanno generalmente bisogno di un po’ di tempo per distendersi ma non è trascurabile la loro finezza sin dalla giovine età. Talvolta possono essere un vero e proprio manifesto dell’annata. I bianchi, Chassagne-Montrachet, Puligny-Montrachet e Corton-Charlemagne su tutti, forse una decina d’anni in meno ma quest’ultimo, a mio modesto parere, rimane il più buono in assoluto: in poche, semplici, esaustive parole, c’è tanta vita qua dentro.

Addendum: e non mi venite a dire che mi piace vincere facile e che è troppo presto per stappare un Corton-Charlemagne 2010 perché lo so ma non me ne può fregar di meno!

Pinot Noir? Meursault Les Durots ’08 Pierre Morey

11 luglio 2011

Il Pinot Nero sa essere una varietà decisamente ostica da maneggiare, soprattutto quando non gli si riesce a corrispondere un giusto metodo di interpretazione e quell’attenzione assoluta necessaria in tutte le fasi produttive del vino; rimane infatti un’uva delle più difficili da collocare, quindi da coltivare e, come appena accennato, da vinificare ed elevare con giustezza.

Non è difficile intuire perché in molti non sappiano cogliere tutto il suo fascino; quel sottile nerbo che ne fa un vino tanto austero, quasi mistico in certe uscite, quanto unico ed elegante come solo pochi vini sanno essere; si potrebbe dire – di questo vino come di pochissimi altri – che o lo ami o lo odi, ma il più delle volte il rancore verso questo varietale, i suoi vini, è più imputabile alla superficialità di chi l’ha pensato che all’espressione stessa del terroir che l’ha generato; come dire che il pinot nero non è cosa per tutti, né quindi per ogni dove.

I fattori che nel tempo ne hanno alimentato il mito sono tanti, e tutti strettamente correlati gli uni agli altri: il vitigno, come detto, fa la sua parte, poi gli interpreti, alcuni dei quali capaci di farne esecuzioni magistrali (leggi qui), infine, ma non certamente per ultimi, la terra, i microclimi, che con i protagonisti appena citati partecipano al cosiddetto terroir; la Borgogna, è stranoto, rimane la regione per elezione, certe vigne poi irraggiungibili per equilibrio pedoclimatico, e non è un caso che proprio qui vengono prodotti, da sempre, molti vini semplicemente inarrivabili; di certo non sono trascurabili nemmeno alcune belle versioni altoatesine, quanto, perché non dirlo, parecchie bottiglie nordamericane e qualche buona versione dalla California (date un’occhiata quiqui). La Borgogna però rimane, per questo vino e per i suoi adepti più appassionati, l’ombelico del mondo.

Meursault è, nell’immaginario collettivo, di sovente associata agli opulenti bianchi a base chardonnay, e non a caso visto che l’areale è destinato alla produzione di questi vini per circa il 98% della sua estensione; tuttavia però, non mancano, come testimonia questo splendido rosso, pinot nero capaci di stupire e conquistare anche l’avventore più appassionato. Les Durots è confinante con Les Santenots, forse il più conosciuto ed apprezzato dei climats qui classificati premier cru, che poco più a nord, attraverso  Les Santenots du milieu e Les Santenots blancs va congiungendosi con le vigne e l’appellation di Volnay, spesso, in quanto alla produzione di pinot nero, preferita – per la sua notorietà per i vini rossi – a quella di Meursault; Pierre Morey è una di quelle aziende di cui raccontare troppo contribuirebbe solo a dirne una in più di quanto già detto o scritto da altri, quindi vi basti leggere di una famiglia di vignerons con più o meno un centinaio di anni di storia alle spalle e che dal 1998 l’azienda è totalmente votata all’agricoltura biologica. I vini qui prodotti, certificati Biodyvin, hanno un senso materico particolare, inconfondibile, profondo.

E il Meursault Les Durots 2008 ha tutti i tratti distintivi di un vino, un pinot nero, raccomandabile ad occhi chiusi a chi si volesse avvicinare ai cosiddetti “vini naturali” senza rischiare di beccarsi l’ennesima sola. Il colore è di uno splendido rubino/porpora trasparente, il primo naso è subito pronunciato su note erbacee e vegetali come menta, foglia di pomodoro e aneto, ma ciò che impressiona particolarmente è la schiettezza del frutto che lentamente governa tutto l’imprinting olfattivo e, successivamente, quello gustativo: la polposità dell’uva è incredibile, ciliegia, lampone, fragola e mirtillo in splendida evidenza, poi tutto il resto compreso note di spezie e caffè tostato, compreso un tannino fine, perfettamente calzato e sostenuto di giustezza da soli 12 gradi e mezzo d’alcol. Uno splendore di vino, decisamente da non perdere!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Professione Sommelier, pillole di buona Francia

24 aprile 2010

No, non è una foto d’antan, ho solo sbagliato a non resettare la funzione “agè” della macchina digitale in dotazione. Da sinistra: Fabio Raucci (L’Olivo Restaurant Manager), Agostino Roberto, Marco Del Garbo, Fabio Di Costanzo, Albino Filippo e Yannick Kovac (Wijn Makelaarsunie), io, Pietro Di Palma, Fabio Vullo, Gennaro Caiazzo.

L’idea ci è venuta qualche mese fa, pensando all’opportunità di organizzare un laboratorio-formazione per lo staff del Capri Palace potendo contare sulla qualità professionale ed umana di Albino Filippo e Yannick Kovac, Directeur di Wijn Makelaarsunie Olanda il primo,  una delle compagnie leader della distribuzione vini in nord Europa, e pregiato Master of wine francese il secondo, grande professionista e pure simpatico nonchè appassionato assertore della grandezza dell’aglianico come uno tra i vitigni principi italiani (ruffiano 🙂 ).

L’appuntamento: ci siamo così riuniti un pomeriggio di un giovedì d’Aprile, queste giornate di tiepida primavera sono lavorativamente parlando, abbastanza tranquille, seppur gli orari di lavoro rimangono comunque gli stessi, ecco pertanto che abbiamo dovuto incastonare questo momento di alta formazione nelle due ore che quotidianamente dedichiamo al riposo mentale e fisico, l’agognato volgarmente detto “spezzato”.

L’obiettivo: Manager, Sommelier, Chef de Rang, Commis, chiamati all’appello per ascoltare, conoscere, approfondire, scoprire, sapere, bere, tradurre, finalmente capire.

Ecco le mie personali note di degustazione colte durante i lavori e sviluppate anche grazie alle preziose notizie di Albino Filippo e Yannick Kovac. Quale vino il migliore? Fate Vobis…

Sancerre Chevignol 2008 François Cotat bianco sicuramente poco incline al gusto di molti, dal colore molto scarico, verde decisamente pallido. Il naso è subito vegetale, nota di peperone verde, menta piperita, poi fruttato di mela cotogna. Gli bastano però pochi minuti nel bicchiere per virare decisamente su note terziarie anche piuttosto complesse e particolari, vicine a sentori del tipo idrocarburi. Notevole la spalla acida e la mineralità che profondono il palato sul finale di bocca.

Mersault Les Poruzots 2006 Henri Boillot Grandioso bianco! Basterebbero queste due sole parole a definirne l’entusiamo che ha accolto questo straordinario chardonnay borgognone. Merito del terroir non v’è dubbio, ma anche dell’annata 2006 che è stata piuttosto fresca, i bianchi borgognoni se ne giovano parecchio quando il clima rimane costante  e non soffre di picchi di canicola come per esempio è capitato nel 2005. Henri Boillot è un Negotians, ovvero possiede anche diverse particelle di vigne in Meursault ma non del 1er cru Les Poruzots pur curandone in maniera maniacale la selezione delle uve, rimane infatti uno dei più grandi conoscitori ed interpreti di una terra meravigliosa. Bellissimo il colore paglia, splendente; il naso è mastodontico, caldo ed avvolgente, erbaceo, floreale, fruttato, speziato: è menta, è ananas, è mango, è timo limone, vaniglia, grafite, ho dimenticato qualcosa? In bocca è grasso, voluminoso ma fresco, profondo e delicato, accattivante ed avvincente. Chapeau!

Gevrey Chambertin Les Evocelles 2005 Philippe Charlopin-Parizot Ecco l’altra faccia della medaglia: annata calda la 2005,  in Cote de Nuits se ne sono avvantaggiati i rossi, arricchiti soprattutto da un frutto più voluminoso, quasi polposo lasciando in degustazione un ruolo non certo di secondo piano ai tannini ma comunque meno invadenti del solito. Il Pinot Noir è risaputo è una gran bestia nera ovunque nel mondo, non certo a casa propria e non certo in una delle appellations più vocate per la sua coltivazione. Il colore è avvincente, piuttosto atipico con la sua vivacità così espressiva, ma è tipico del lavoro del vigneron che addirittura nelle annate più calde, 2003 su tutte, non usa nemmeno il legno per affinare i suoi Pinot, il sole fa già un gran bel lavoro di riduzione delle asperità; piccoli frutti rossi e neri al primo naso. Lamponi, ribes, solo sul finale sensazioni lievemente tostate. Palato assolutamente appagante, consistente, di una eleganza e finezza inaudita in un vino di cotanta freschezza.    

Pauillac Reserve de la Comtesse de Lalande 2005 Chateau Pichon-Longueville Bordeaux non è poi così lontana, o sì. Inutile nascondere che la crisi economica mondiale ha dato un bel colpo di assestamento al mercato dei Premier cru di Bordeaux, ed ecco che si affacciano con sempre maggiore crescita qualitativa ottime opportunità di investimento sui secondi e terzi vini di alcuni chateaux girondini: la reserve de la Comtesse de Lalande 2005 pare essere una di queste, tenete presente che certi secondi vini dei millesimi 2005 e 2006, in particolare il Carruades de Lafite-Rothschild o Les Forts de Latour sono praticamente apparsi come meteore sul mercato poichè andati letteralmente a ruba. L’eccezionale bontà dell’annata 2005 a Bordeaux ha fatto il resto. E’ composto dal 45% Cabernet Sauvignon, 35% Merlot, 12% Cabernet Franc e 8% Petit Verdot: un vino molto immediato, con note olfattive adirittura quasi vinose prima di divenire vegetali e fruttate intense e persistenti, sentore di peperone rosso e mirtillo, poi note balsamiche e tostate. In bocca è persuasivo, avvenente, asciutto e profondo. Finale di bocca caldo, appena al di sopra della soglia della perfezione la nota alcolica percepita, un ottimo bordolese. 

Sauternes 2001 Chateau d’Arche Non certo il vino per cui morire, nel senso che è certamente un buon Sauternes ma è altrettanto certo che dista anni luce da certi “conterranei” nettari della più affascinante appellations girondina. Prodotto da uve semillon, sauvignon e muscadelle offre una trama cromatica molto bella, oro splendente. Offre un bel ventaglio olfattivo giocato tutto su note di frutti candidi e piacevoli nuances mielose, in bocca è dolce seppur manifesti una discreta acidità, qualità che l’aiuta non poco a non affogare nella stucchevolezza ad ogni sorso sempre latente.

Conclusione: E’ stata senza ombra di dubbio una gran bella esperienza soprattutto gustolfattiva, full immersion proposta con elegante fermezza e maestria dai nostri educatori nonchè molto sentita dallo staff tutto che così ha avuto opportunità di respirare a pieni polmoni di un po’ di terra d’oltralpe di prim’ordine.

Adesso però mi (ci) sta frullando per la testa un’altra idea, più ambiziosa e dedicata a tutti i colleghi professionisti della regione, ma questa potrà prendere forma e sostanza solo a fine stagione, a bocce tranquille; per adesso schiena dritta, mento alto e, come si dice “non perdiamoci in dislin gui sconsi e… andèm a laurà!”

© L’Arcante – riproduzione riservata


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